POLITICA- Pagina 35

Regione, l’assestamento di bilancio va in aula

In serata, nella prima Commissione presieduta da Roberto Ravello, è stato licenziato per l’Aula l’assestamento di Bilancio. Il provvedimento dovrebbe cominciare il suo iter in Consiglio oggi pomeriggio 31 luglio 2025. Stamane, intanto. la Commissione affronta il rendiconto generale della Regione 2024 e il Bilancio di previsione del Consiglio regionale 25-27.
Nell’ultima seduta di Commissione sono intervenuti Monica CanalisNadia ConticelliLaura PompeoDomenico Ravetti, Domenico RossiMauro SalizzoniAlberto Avetta (Pd), Sarah Disabato (M5s), Valentina CeraAlice Ravinale (Avs) e Vittoria Nallo (Sue).
La Conferenza dei capigruppo, presieduta da Davide Nicco, aveva intanto stabilito di convocare l’Assemblea regionale oggi, giovedì 31 luglio, dalle 14 alle 20 e venerdì 1 agosto dalle 10 alle 20 per discutere – se licenziati dalla prima Commissione – i Disegni di legge 93, Assestamento al bilancio di previsione finanziario 2025–2027 e 87, Rendiconto generale per l’esercizio finanziario 2024 e la Proposta di delibera 125, Bilancio di previsione del Consiglio regionale esercizi 2025-2027. Approvazione della proposta di variazione di assestamento e attestazione della sussistenza degli equilibri generali.

Iveco, AVS: “Solo passione per i dividendi”

NESSUN CONFRONTO CON I SINDACATI, NESSUN INTERESSE PER LE SORTI DEI LAVORATORI
“La cessione di Iveco Defense Vehicles, per un controvalore di 1,7 miliardi, era il primo passo per lo smantellamento di Iveco. Non immaginavamo che Exor provvedesse tanto rapidamente: nel giro di qualche ora dall’annuncio dell’acquisto da parte di Leonardo della divisione militare, è arrivata la decisione della holding delle famiglie Agnelli-Elkann-Nasi, che detengono il 27,06% del capitale di Iveco, di cedere tutto il resto del gruppo Iveco a Tata Motors. Tutto è avvenuto senza alcun confronto con i sindacati. Il Governo resta in silenzio, mentre Exor continua a disimpegnarsi dal settore italiano dell’automotive, privilegia investimenti finanziari e insegue le promettenti aspettative industriali per le società della difesa in tempo di riarmo. Un finale su cui già a marzo avevamo interrogato il Governo ma dal quale non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Chiediamo che intervenga ora per tutelare le persone di fronte all’ennesima passione sfrenata per i dividendi” – ha commentato il Vicecapogruppo AVS alla Camera Marco Grimaldi, che sulla vicenda ha depositato una nuova interrogazione.
“Siamo molto preoccupati per la sorte dei dipendenti, che tra Torino, Brescia, Suzzara, Foggia e Bolzano arrivano a oltre 14mila, ai quali si aggiungono gli addetti operanti in tutto il mondo, per un totale di 36mila. L’assenza di qualsiasi confronto sul futuro del loro lavoro con le rappresentanze sindacali è un allarme che conosciamo bene, basti pensare alla vicenda Marelli venduta a un fondo americano e ora in fallimento: è l’ennesimo capitolo di uno stillicidio in cui la Regione Piemonte non ha mosso un dito né aperto bocca. Il tessuto industriale italiano perde pezzi giorno dopo giorno, ma Cirio e Chiorino restano a guardare. Chiederemo urgentemente in consiglio di aprire gli occhi e intervenire per tutelare le migliaia di lavoratori e lavoratrici Iveco” – ha aggiunto la capogruppo di AVS in Regione Piemonte, Alice Ravinale.
CS

I catto – comunisti di ieri e di oggi, sempre comunque illiberali

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

.
Furoreggia su Facebook questo post che attribuisce un pensiero a Papa Leone  XIV che difficilmente corrisponde ad una parte, sia pure decontestualizzata, di un  discorso del pontefice  che abitualmente legge i suoi discorsi magari  preparati dai suoi  collaboratori più fidati.  Papa Leone non è Papa Francesco che era imprevedibile improvvisatore anche con battute diventate storiche. Papa Leone è uomo colto e non si lascia andare alle frasi eclatanti. Ciò detto, la riflessione sul comunismo  merita comunque attenzione, anche se non è parola di Leone XIV, ma di un falsario Leone… da tastiera.
In effetti la parola magica solidarietà ha attratto molti cattolici nel partito comunista, anche se la solidarietà cristiana, fondata sull’amore, non ha nulla da imparare dal marxismo ateo nelle sue diverse incarnazioni politiche. Il PCI è risultato essere una calamita per molti cattolici anche per l’abile politica seduttiva portata avanti da Togliatti, a partire dalla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi  con l’articolo 7.Ovviamente furono ignorati la Chiesa del silenzio, l’ateismo di Stato e la persecuzione del clero in Urss. L’esempio più significativo  nella storia italiana fu il movimento dei cristiani comunisti nel secondo dopoguerra a cui aderì anche un filosofo di un qualche valore come Felice Balbo di Vinadio  – l’erede del  moderato Cesare Balbo risorgimentale – il quale, quando Pio XII scomunicò i comunisti, abbandonò il PCI. Anche nella sinistra democristiana personaggi ambigui come Dossetti e lo stesso Moro subirono il fascino del PCI fin dai tempi della Costituente, per non citare il compromesso di Berlinguer che trovò  Moro disponibile a portare i comunisti al governo. Paradossalmente lo fermarono i brigatisti rossi nelle cui file alla Facoltà di sociologia di Trento erano cresciuti  anche dei giovani catto-comunisti sedotti dal terrorismo armato.
.
Eletti  nel PCI in Parlamento ci furono anche i catto – comunisti Raniero La Valle e Adriano Ossicini. Chi scrive ha avuto come compagno di Liceo tal Mauro  Barrera che passò dal cattolicesimo alla contestazione, per poi finire in qualche gruppuscolo catto – comunista. Pio XI e Pio XII avevano denunciato in modo chiaro ed inequivocabile  il comunismo, considerato  profondamente  anticristiano. Da papa Giovanni XXIII in poi la politica di apertura verso il mondo comunista e il clima conciliare creò le condizioni per distinguere l’errante dall’errore che non  fu più oggetto di nette condanne. Io ricordo che il peggiore dei miei  professori di ginnasio ebbe il coraggio – si fa per dire- di definire il comunismo un “Cristianesimo impazzito“. Poi la parola impazzito venne eliminata e ci fu chi ritenne perfettamente conciliabili comunismo e Cristianesimo, anzi ci fu chi ritenne che il logico sviluppo del Cristianesimo fosse il comunismo, magari non quello stalinista, ma maoista o terzomondista di Fidel Castro. Augusto Monti teorizzò follemente che l’evoluzione logica del liberalismo era il comunismo, altri teorizzarono il passaggio al catto-comunismo avendo più  seguaci. Il gobettiano Monti giunse a giustificare l’invasione dell’Ungheria del 1956! Nacquero come esempi paradigmatici anche in Europa  i preti guerriglieri dell’ America Latina  che io dovetti studiare in un esame a Scienze  politiche, quasi fosse già storia, mentre era  solo l’esaltazione di una mitologia politica destinata a fallire. Nel ‘68 nacquero le Comunità di base dell’ Isolotto a Firenze e del Vandalino a Torino, per non dire dell’abate benedettino di San Paolo fuori le Mura dom Franzoni che, dopo un breve rapporto con Pannella per il divorzio, divenne anche lui catto- comunista. Persino due cardinali di rango come Lercaro e Pellegrino “strizzarono  l’occhio” ai comunisti.
.
Un prete di Pinerolo – punto di incontro e di scontro tra valdesi e cattolici – passò il Rubicone e divenne un militante filocomunista. Lo incontrai in un dibattito sul diavolo- incredibile a dirsi –  alla festa dell’Unità, dove venni invitato a interloquire con lui e rimasi esterrefatto dal  suo piccolo comizio che scavalcava il PCI a sinistra  e si rivolgeva ai gruppuscoli eredi del ‘68. Il ‘68 fu infatti devastante anche sul terreno religioso e rivelò come le aperture conciliari non fossero state, a parere di molti, sufficienti. Paolo VI si accorse in ritardo degli errori commessi, ma ormai era impossibile rimediare. La confusione delle idee era prevalsa. A riportare ordine e chiarezza sul comunismo fu la storia dell’URSS  e papa Giovanni Paolo II che aveva vissuto sulla sua pelle nazismo e comunismo. Il pontefice ebbe un ruolo determinante nel favorire la caduta del comunismo e riportò ordine nella chiesa cattolica dopo il ciclone della contestazione. Sopravvisse don Gallo a Genova con una comunità che ancora oggi esiste. Don Gallo difese persino il giovane che voleva uccidere un carabiniere con un estintore. Forse anche oggi in nome della solidarietà  “travestita“ sopravvivono ampi margini di ambiguità, anche se il tramonto delle ideologie di cui scriveva Lucio Colletti, ha un po’ mitigato le distinzioni, ma in qualche modo ha  anche creato ulteriori ambiguità. L’era degli scontri campali sembra finita e oggi gli scontri su spostano sulla Palestina e su Putin. Le ideologie settarie  sembravano sepolte ,in effetti sono risorte sotto altre bandiere. C’è un discorso che dovrebbe accomunare tutti ed è quello della pace che è idea tipicamente se non esclusivamente Cristiana, malgrado le Crociate  potrebbero dimostrare  il contrario.

Russia, Ruffino: “Solidarietà a Mattarella, Crosetto e Tajani”

Nessuno meglio di Vladimir Putin, dittatore liberticida, incarna il simbolo della russofobia. Le sue minacce al presidente Mattarella, ai ministri Tajani e Crosetto e ad altri leader occidentali, confermano l’odio del dittatore russo e della banda che lo circonda per tutto ciò che evoca la democrazia e la libertà. Nello stesso tempo rafforza la determinazione di quanti – e Mattarella è un esempio – credono nel rispetto dei diritti umani e nell’ autodeterminazione dei popoli: valori che Putin calpesta quotidianamente in Ucraina bombardando ospedali e condomini di civili. A Sergio Mattarella e ai ministri Tajani e Crosetto va la solidarietà piena e convinta di ogni democratico. Con Mattarella sono minacciati quei 60 milioni che si riconoscono negli ideali di libertà e di giustizia. Così la deputata di Azione Daniela Ruffino.

Cattolici e politica a Torino, il nodo della questione sociale. Un dibattito molto partecipato

 “Un confronto serrato e a tutto campo quello che si è svolto a Torino organizzato da Mino Giachino e a cui hanno partecipato Mauro Carmagnola, Giampiero Leo e Giorgio Merlo. Tre gli aspetti centrali e concreti emersi durante il dibattito.
Innanzitutto la necessità di rilanciare il ruolo, la presenza e il protagonismo politico dei cattolici popolari e sociali anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Una presenza che non può diventare banalmente irrilevante, ornamentale e del tutto periferica sul versante politico e progettuale. Il modello di riferimento concreto per il futuro politico dei cattolici non può, quindi, essere la banale riproposizione, in termini aggiornati e rivisti, dei ‘cattolici  indipendenti eletti nelle liste del Pci’.
In secondo luogo non si può non porre la ‘questione sociale’ e delle diseguaglianze crescenti al centro delle priorità  dell’impegno politico dei cattolici. Soprattutto nella città di Torino. Una questione sociale denunciata recentemente anche dall’arcivescovo di Torino card Repole e da tutti gli istituti di ricerca. Un tema che, comunque sia, non può essere disgiunto da un progetto che rilanci lo sviluppo economico in una città oggi quanto mai ripiegata su se stessa con grandi problemi di diseguaglianza nei quartieri popolari con mancanza di sicurezza e con la crescita di disturbi e psicosi come dichiarato dall’Asl Città di Torino.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, la presenza politica dei cattolici non può essere collocata in partiti che hanno un’altra ragione sociale e rispondono ad altri valori culturali. Si tratta, cioè, di declinare attivamente la presenza e l’impegno dei cattolici nei partiti centristi, riformisti e di governo. Come, del resto, recita l’antica  e sempre attuale e moderna cultura democratico cristiana.
Un dibattito che ha segnato, comunque sia, anche la necessità di fare un deciso salto di qualità per invertire il ciclo economico e sociale in quella che fu prima la Capitale politica poi industriale del nostro Paese anche grazie a grandi amministratori cattolici da Peyron a Grosso.

Merlo: Dazi, la sinistra per il ‘tanto peggio tanto meglio’. Da rimpiangere il vecchio Pci

“Il vecchio e glorioso Pci, il più grande partito d’opposizione nella storia democratica del nostro
paese, non aveva come unico ed esclusivo obiettivo politico quello di lavorare per il ‘tanto peggio
tanto meglio’. Un traguardo, che, paradossalmente, è oggi il cemento ideologico dell’attuale e
variegata sinistra italiana, a cominciare dal partito erede del vecchio Pci, cioè il Pd della Schlein.
Se questo è l’obiettivo politico della sinistra radicale, massimalista e populista italiana è
sostanzialmente impossibile creare un clima politico costruttivo e anche costituente di fronte alle
emergenze che di volta in volta si presentano all’attenzione della politica complessiva e,
soprattutto, del Governo.

Il ‘tanto peggio tanto meglio’ non solo indebolisce il nostro paese a livello europeo e nello
scacchiere internazionale ma, sopratutto, evidenzia una radicale assenza di cultura di governo del
cosiddetto ‘campo largo’. Altrochè puntare ad un’alternativa politica credibile e di governo con i
vari Schlein, Fratoianni/Bonelli/Salis, Conte e Landini. Verrebbe quasi da dire, malgrado il
fallimento storico e politico del comunismo, ridateci realmente il vecchio Pci”.

On. Giorgio Merlo
Presidente nazionale ‘Scelta Cristiano Popolare’.

Regione, assestamento di bilancio: prosegue l’ostruzionismo delle minoranze

/

Prosegue in prima Commissione Bilancio l’azione ostruzionistica portata avanti dai gruppi di opposizione per impedire che il disegno di legge 93, relativo all’“Assestamento al bilancio di previsione finanziario 2025–2027”, venga approvato e trasmesso all’Aula del Consiglio regionale . L’obiettivo principale di questa dura opposizione non è tanto il provvedimento in sé, quanto l’emendamento preannunciato che introduce un aumento temporaneo dell’aliquota Irpef regionale.

Tutti i rappresentanti delle forze di minoranza, durante le sedute guidate dal presidente Roberto Ravello, hanno più volte espresso il loro totale dissenso verso questo aumento fiscale, presentando oltre 280 emendamenti. Ciascuna proposta di modifica viene illustrata dall’autore e da altri due o tre consiglieri, con interventi della durata di due minuti ciascuno.

Per questo motivo la Commissione è stata convocata ininterrottamente fino a venerdì, con sedute mattutine, pomeridiane e serali, che si protraggono fino a mezzanotte. Qualora il testo dell’Assestamento venisse approvato, si procederà con la convocazione dell’Aula, anche nel fine settimana.

Nella seduta di ieri, sono intervenuti ripetutamente su vari emendamenti i consiglieri: Alice Ravinale, Valentina Cera e Giulia Marro per AVS; Sarah Disabato, Pasquale Coluccio e Alberto Unia per il M5S; Vittoria Nallo per il gruppo Sue; e per il Partito Democratico Gianna Pentenero, Alberto Avetta, Monica Canalis, Nadia Conticelli, Fabio Isnardi, Laura Pompeo, Domenico Ravetti, Domenico Rossi, Daniele Valle ed Emanuela Verzella. Oggi si continua.

L’Europa dopo la doccia scozzese

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

.

Per poter dare un giudizio sulla vicenda appena definita dei dazi bisogna tener presenti almeno due fatti, al di là delle persone che hanno condotto la trattativa: in primis il fatto che gli USA sono uno Stato federale con a capo un presidente dotato di ampi poteri, il secondo fatto che l’UE è un’unione di Stati sovrani senza un esercito europeo ,senza una politica estera comune  con governi nazionali anche politicamente diversi. L’elemento che accomuna di più è l’euro che ha  dato vantaggi e provocato problemi ai diversi Paesi  all’atto della sua nascita. L’Europa non ha saputo neppure dotarsi di una Costituzione , arenandosi sulla questione delle sue origini. L’Europa è quindi fragile , mentre gli USA sono uno Stato forte, strutturato in Stati, ma capace di una solidità del tutto estranea al  vecchio continente che si avviò  verso l’unione soprattutto per evitare il ripetersi delle due  guerre che  hanno dilaniato la prima parte del Novecento. Dopo la carica propulsiva di De Gasperi, Schumann e Adenauer e il boicottaggio di De Gaulle , l’Europa dopo i Trattati di Roma del 1957,  non è più riuscita ad avere un suo ruolo convincente. La stessa adesione con riserva dell’Inghilterra che decise di mantenere la sterlina e poi uscì dall’Unione, è oggettivamente una debolezza della EU, se consideriamo lo storico rapporto tra Regno Unito e USA.

.
Tutte queste considerazioni portano a capire che Trump ha avuto con facilità, alzando la voce, la possibilità di ottenere i dazi per le merci europee esportate negli USA. Chi ha parlato di libero mercato e di Alleanza atlantica ha fatto discorsi che la sordità di Trump rende vani. Sulla distanza i dazi danneggeranno anche gli USA ma il palazzinaro presidente non riesce ad andare oltre perché manca di lungimiranza politica. Va aggiunto che l’Italia nel quadro della UE e dei rapporti con gli USA non è mai stata un forte interlocutore capace di far sentire in modo concreto la sua rappresentanza. Non è accaduto con Andreotti, Fanfani, Moro, Craxi, Berlusconi, Prodi, Gentiloni, al di là di valutazioni politiche su cui voglio sorvolare. L’unico periodo in cui l’Italia è apparsa più ascoltata è quando fu al governo Draghi, ma ad avere un ruolo è stata la storia personale di Draghi, una meteora che è passata senza quasi lasciare traccia.

.
Quando leggo sui giornali i commenti ironici di chi dice il governo difende un accordo  sui dazi indifendibile, vorrei replicare dicendo che la presidente italiana – invitata perentoriamente dall’opposizione a uniformarsi alla EU evitando protagonismi italiani – non può essere incolpata di quasi nulla. A cose fatte, vista la estrema fragilità della presidente della EU che dovrebbe dimettersi dopo la trattativa scozzese con Trump (è la stessa che ha agitato l’Europa usando per prima la parola “riarmo“). Questo dimostra che l’uscita dell’Inghilterra ha indebolito l’Europa di una componente vitale. Di fronte ad un presidente americano che ruggisce, l’Europa indietreggia. Gli statisti europei, si fa per dire, hanno dimostrato di non esistere e hanno sancito, dopo l’accordo scozzese ancora provvisorio, che l’ Europa è tornata un sogno. Peccato non avere più un De Gasperi. Sapere le lingue è  importante, ma a volte non basta.

 

Foto ©EU2024-EP

Arriva Forza Italia e in una settimana (dopo anni) si sgombera il parcheggio della vergogna

Il degrado era tollerato da anni con accampamenti abusivi e proteste ignorate, illegalità diffusa e degrado. Così si presentava fino a oggi  il parcheggio Caio Mario, proprio di fronte allo storico stabilimento di Mirafiori, a Torino. Nonostante le richieste di intervento dei cittadini il Comune era inerte. Fino al sit in di una settimana fa organizzato da Forza Italia: nelle scorse ore il parcheggio è stato “sgomberato” e ripulito.

«Quello che la Giunta Lo Russo non è stata capace di fare in anni di governo, Forza Italia lo ha ottenuto in sette giorni. Ci voleva il sit-in di Forza Italia di lunedì scorso per smuovere l’immobilismo colpevole del Comune. Oggi il parcheggio Caio Mario è stato sgomberato: una vittoria dei cittadini, una sconfitta clamorosa per chi ha fatto finta di non vedere. Torino non ha bisogno di amministratori che chiudono gli occhi, ma di chi ha il coraggio di intervenire», dichiarano il senatore Roberto Rosso, vicecapogruppo di Forza Italia al Senato e vicesegretario regionale del partito, e Marco Fontana, segretario cittadino di Forza Italia, insieme a Domenico Garcea, vicepresidente del Consiglio comunale, Veronica Pratis, capogruppo in Circoscrizione 8, e Davide Balena, capogruppo in Circoscrizione 2.

«Il sindaco Lo Russo e la sua Giunta – affonda Rosso – sono il simbolo di un’Amministrazione pavida, che ha scelto di non governare. Ha lasciato che una struttura pubblica diventasse una zona franca per l’illegalità. Ha preferito il silenzio, l’inazione, l’abbandono. Noi invece siamo andati in mezzo ai cittadini, ci siamo presi la responsabilità di risolvere la situazione e oggi raccogliamo il frutto di quell’impegno in soli sette giorni. Le leggi ci sono, bastava applicarle. Ora chiediamo un presidio fisso delle Forze dell’ordine e interventi in tutte le zone dimenticate dal Comune. Forza Italia continuerà a fare ciò che la Giunta Lo Russo non fa: stare accanto ai cittadini e difendere chi rispetta le regole”.

La strana coppia

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

La conoscenza tra Donald Trump e Jerome Powell iniziò formalmente nel 2017, quando Trump, allora presidente degli Stati Uniti, nominò Powell alla guida della Federal Reserve, in sostituzione di Janet Yellen (che era stata nominata da Barack Obama).
All’epoca, Trump vedeva in Powell una figura moderata e affidabile, vicina alle posizioni repubblicane, e si aspettava che sostenesse una politica monetaria accomodante (ai suoi desideri, con tassi d’interesse bassi).
La scelta fu considerata un compromesso tra continuità e cambiamento.
Continuità: Powell era già membro del Board of Governors della Fed dal 2012, nominato da Obama, e aveva sostenuto gran parte delle politiche monetarie della Yellen, inclusa la graduale normalizzazione dei tassi d’interesse (tornati, con lei, a salire dopo i tagli operati durante la crisi economico finanziaria del 2007/8).
Cambiamento: A differenza di Janet Yellen, che l’aveva preceduto, Powell non era un economista accademico ma un ex banchiere d’investimento e funzionario del Tesoro. Questo lo rendeva più vicino alla sensibilità politica e finanziaria di Trump.
Al momento della nomina Trump definì Powell “forte, determinato e intelligente”, sottolineando che avrebbe fornito una leadership “solida e stabile” alla banca centrale.
La sua nomina fu essenzialmente il frutto di un calcolo politico: mantenere la fiducia dei mercati senza confermare Yellen, che Trump aveva criticato durante la campagna elettorale.
Tuttavia, già nel corso del primo mandato, il rapporto si deteriorò rapidamente: nel 2019 Trump iniziò a criticare pubblicamente il governatore della Fed per non aver tagliato i tassi d’interesse con sufficiente rapidità, arrivando a definirlo “un nemico dell’economia americana”.
Nonostante le tensioni, Powell fu comunque riconfermato nel 2022 per un secondo mandato dal presidente democratico Joe Biden.
Venendo ai giorni nostri, i rapporti tra i due sono ormai ai minimi storici: Trump, tornato alla Casa Bianca, ha ripetutamente accusato Powell di ostacolare la ripresa economica mantenendo i tassi d’interesse troppo elevati (attualmente al 4,3%).
Anche gli epiteti con i quali POTUS si è ripetutamente riferito al banchiere centrale ben descrivono il livello dello scontro: “Very dumb, hardheaded” (molto stupido e testardo), “A real dummy” (un vero idiota), “Too Late Jerome”(Jerome sempre in ritardo),  “The WORST” (il peggiore), “A stubborn mule” (un mulo testardo).
Il presidente ha persino minacciato di rimuovere Powell, citando come pretesto presunte irregolarità nella ristrutturazione della sede della Fed (il cui costo è passato da una stima iniziale di 1,9 miliardi di dollari a 2,5 miliardi).
Sebbene abbia successivamente attenuato i toni, il messaggio è chiaro: The Donald vuole una Federal Reserve più accondiscendente nei suoi confronti.
Per un presidente, infatti, il compito risulta essere molto più agevole se le sue decisioni di politica economica “espansiva” (taglio delle imposte, aumento della spesa pubblica e, con questa, del debito) non sono ostacolate da una politica monetaria che si muove in direzione contraria.
E’ esattamente ciò che sta avvenendo negli ultimi mesi: di fronte ad un debito pubblico elevato e all’incertezza sugli effetti dei dazi sull’inflazione (il cui contenimento è uno dei principali obiettivi della Fed) la Banca centrale statunitense sta riducendo con grande prudenza i tassi d’interesse ufficiali, non cedendo alle pressioni per tagli più veloci e decisi da parte di Trump.
Va peraltro sottolineato che anche qualora il presidente riuscisse a sostituire Powell alla scadenza del mandato (maggio 2026), la politica monetaria è decisa dal Federal Open Market Committee (FOMC), composto da 12 membri votanti.
Il presidente della Fed non ha, infatti, potere assoluto: ogni decisione richiede un consenso e si basa su analisi economiche, condivise e discusse con tutti gli altri componenti del comitato.
Un intervento politico sulla leadership della Fed comprometterebbe la sua indipendenza istituzionale, pilastro della credibilità economica degli Stati Uniti, e le conseguenze (che già si incominciano a manifestare) potrebbero essere molto gravi.
  • Perdita di fiducia dei mercati: gli investitori temono le decisioni monetarie dettate da logiche elettorali senza adeguate attenzioni agli effetti futuri sul bilancio pubblico e la crescita.
  • Aumento dei costi di finanziamento: i rendimenti obbligazionari potrebbero salire (quello che è successo negli ultimi mesi, con i tassi a lungo termine in salita pur in presenza di tassi ufficiali in discesa).
  • Indebolimento del dollaro: la reputazione della politica monetaria statunitense ne uscirebbe danneggiata (il dollaro dall’inizio del 2025 è sceso, nei confronti dell’euro, da 1,02 a 1,17).
Esiste, a questo proposito, un precedente storico davvero inquietante: negli anni ’70, le pressioni di Nixon sul presidente della Fed Arthur Burns per mantenere i tassi d’interesse artificialmente bassi portarono ad una spirale inflazionistica.
Solo con Paul Volcker, governatore centrale dal 1979, e politiche monetarie molto restrittive, l’inflazione fu infine domata.
Vale la pena, a questo punto, fare una breve storia della banca centrale americana.
La Federal Reserve fu istituita nel 1913, in risposta alle ricorrenti crisi bancarie e finanziarie che avevano colpito gli Stati Uniti nel XIX e all’inizio del XX secolo.
Lungi dall’essere indipendente il suo funzionamento era fortemente condizionato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e divenne evidente soprattutto durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale quando la Fed fu costretta a mantenere artificialmente bassi i tassi d’interesse per facilitare il finanziamento del debito pubblico (cresciuto per sostenere lo sforzo bellico).
Dopo la guerra, con l’inflazione in fortissima crescita (oltre il 17% tra il 1946 e il 1947), la Fed desiderava, legittimamente, tornare ad una politica monetaria restrittiva.
Tuttavia, il Tesoro, guidato dal Segretario John W. Snyder, e il Presidente Harry Truman insistevano per mantenere bassi i tassi, al fine di proteggere il valore dei titoli di guerra (il loro valore scende quando i tassi salgono) nelle mani dei risparmiatori americani (i suoi elettori…).
Il conflitto culminò nel marzo 1951, quando la Federal Reserve e il Dipartimento del Tesoro raggiunsero un’intesa che separava la gestione del debito pubblico dalla politica monetaria.
L’accordo pose le basi per la moderna indipendenza della Federal Reserve, garantendo che le decisioni di politica monetaria fossero prese in base a criteri economici e non politici.
Sebbene Truman non fosse inizialmente favorevole, accettò l’accordo come compromesso politico, anche per evitare una crisi istituzionale e finanziaria.
William McChesney Martin Jr., che fu nominato presidente della Fed proprio da Truman poco dopo l’accordo, divenne uno dei più strenui difensori dell’indipendenza della banca centrale.
Questo patto liberò la banca centrale dall’obbligo di mantenere bassi i tassi per finanziare il debito pubblico, garantendo autonomia nelle decisioni di politica monetaria con l’obiettivo di proteggere l’economia da interferenze politiche di breve termine (che tendono periodicamente a verificarsi, come abbiamo visto precedentemente).
Può essere anche interessante ricordare come l’indipendenza della Banca d’Italia, fondata nel 1893, sia stato il risultato di un processo evolutivo lungo e articolato, ma il momento chiave in cui fu formalmente sancita è il 1981, trent’anni dopo la Fed, con il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia e la sua reale indipendenza dalla politica fiscale, preludio all’autonomia monetaria necessaria per l’ingresso nell’euro.
Fu Andreatta a scrivere una lettera al governatore, Azeglio Ciampi, comunicando la decisione di interrompere l’obbligo di finanziamento automatico del debito pubblico.
Ciampi accettò con convinzione e da quel momento la Banca d’Italia non fu più vincolata a sostenere direttamente il fabbisogno statale, acquistando i titoli di Stato che non venivano collocati sul mercato, segnando l’inizio della sua autonomia operativa.
Il valore dell’indipendenza delle banche centrali può comportare l’ingrato compito di prendere decisioni poco gradite, non solo al potere politico ma anche all’opinione pubblica, e divenne celebre la frase di William McChesney Martin Jr: “Il compito della Fed è togliere il “punch bowl” (N.d.A. la ciotola del punch, cocktail alcoolico utilizzato nelle occasioni conviviali) proprio quando la festa si fa interessante.”
Non può certo sorprenderci che Trump non sia d’accordo e farà certamente di tutto per fare sì che la festa continui, sperando di arrivare alle elezioni di medio termine, il prossimo anno, con un’economia forte ed un consenso degli elettori in recupero.
I mercati finanziari, per il momento, propendono per una crescita solida (borse sui massimi) con un moderato rischio inflazionistico ed una minor fiducia negli Stati Uniti (tassi d’interesse elevati e dollaro debole, cosa piuttosto inusuale).
La ciotola del punch è ancora nelle mani, sempre più deboli (il suo mandato scadrà tra pochi mesi) di Jay Powell ma The Donald è sempre più assetato.
E il caldo estivo non aiuta… Buone vacanze!