Il Paese dei Presepi
Questa settimana “la finestra sul cortile ” diventa “la finestra sulla Val di Susa” approfittando delle mie vacanze invernali tra Oulx e Bardonecchia. Si sa molti torinesi durante le vacanze tra Natale, Capodanno e l’Epifania “si trasferiscono” in Val di Susa e tra scuole sci, hamburger nel ristorante sulle piste e passeggiate in Via Medail ogni anno si consolidano abitudini e amicizie “della montagna”. E quando si decide di non andare a sciare, si possono scoprire interessanti alternative. L’altro giorno ho passeggiato per Les Arnauds, frazione di Bardonecchia, borgata splendidamente caratteristica, complice anche la nevicata che ha accompagnato il mio giro turistico. Quello che ha subito catturato la mia attenzione è stato l’avvistamento nei posti più insoliti e nascosti di tanti piccoli presepi, ognuno fatto con maestria ed originalità. Ho così visto il “Paese dei Presepi”,
l’iniziativa promossa dal comune di Bardonecchia, ovvero l’esposizione nei vari borghi e frazioni della cittadina di oltre 100 presepi che danno luogo ad un vero e proprio percorso luminoso nelle frazioni di Rochemolles, Millaures, Le Gleise, Les Arnauds e Melezet, Borgo Vecchio e nel centro commerciale naturale. I presepi esposti sono veri e propri gioielli da scoprire con sguardo attento, infatti si possono trovare in qualsiasi luogo e sono sparsi nelle vie, vicoli, pizza, cappelle, fontane, finestre e vetrine in effetti ogni angolo è buono per scovare anche la più piccola natività. “Il Paese dei Presepi” si potrà ammirare fino al 31 gennaio 2018.
La moda delle ciaspole!
La ciaspolata è davvero il trend di stagione, un’attività diventata molto “social” tanto da occupare un posto di tutto rispetto tra le attività sportive da fotografare e postare su Instagram, complici
anche gli “influencers” che la praticano. E perché? Perché le ciaspole uniscono divertimento ed esercizio fisico. Sono economiche ed ecologiche tanto da farne una delle discipline più di moda degli ultimi inverni visto l’interesse per le pratiche alternative, più soft e meno invasive nei confronti della natura. Ma cosa sono veramente le ciaspole? Utilizzate un tempo da cacciatori e contadini per avanzare nei paesaggi innevati, erano racchette tonde fatte di legno e cuoio. Oggi le racchette da neve sono per lo più di plastica. Il termine “ciaspole” è ladino ed è entrato nel linguaggio comune dopo il successo della “Ciaspolada”, celeberrima gara della Val di Non, nata nel 1973. Questa attività sportiva, perché di vero sport si tratta, è ricca di benefici per il fisico e per la mente, non è solo un’attività sociale per stare in compagnia, camminare con le racchette da neve è un’attività di tipo aerobico che aiuta a dimagrire (si bruciano in media 600 calorie in
un’ora), modella i muscoli delle gambe e, se abbinata con i bastoncini si lavora anche su spalle, busto e tricipiti. E ancora, come tutte le attività aerobiche, camminare con le ciaspole attiva la produzione di endorfine contribuendo così a migliorare l’umore e a contrastare l’ansia: un effetto, questo, potenziato dal contatto con la natura, che è uno dei più potenti antistress. Camminare con le ciaspole non è difficile, il movimento somiglia molto a una normale camminata in montagna, ma più faticoso sia per il peso di scarponcini e racchette ai piedi sia per lo sprofondamento che in parte avviene sul manto bianco. Come tutte le attività in montagna non è priva di rischi, per questo è consigliato seguire sempre i percorsi segnalati, utilizzare i dispositivi di sicurezza e se si è neofiti partecipare a escursioni guidate e gite di gruppo organizzate. Se volete quindi avvicinarvi a questa disciplina, potete rivolgervi all’ufficio del turismo della località montana di vostra scelta e partire per una nuova avventura sportiva che inaspettatamente è anche molto trendy, perché anche le ciaspole dai molti colori abbinate all’abbigliamento fluo possono essere fashion.
La parola alle stelle (dal 3 al 9 gennaio)












Prosegue la mostra “Giochi e giocattoli … infanzia d’altri tempi”, 
scambiare fioretti con grazie e bestemmiando quando le mie richieste non venivano esaudite.
soffitto il mio primo vagito.
Non era una colpa essere nati dalla parte sbagliata della barricata. Non era colpa di nessuno. “L’essenziale – diceva mia madre – è non fare del male al prossimo ed avere la salute”.
frittata, talaltra un volatile arrostito o bollito, quando si era fortunati.
Si trattava, effettivamente, di un’invocazione che toccava tutte le tematiche a lui care, senza tralasciare la sua grande debolezza per le belle donne e, tanto meno, la preoccupazione, sviluppatasi in tarda età, riguardante la vita dopo la morte, che il nonno auspicava sarebbe stata tra santi, angeli e cori celesti.
dell’attesa dei regali come al giorno d’oggi.
avrebbero finito per scontrarsi continuamente ed inutilmente, senza ottenere alcuna vittoria l’uno sull’altra, avevano deciso di tollerarsi, per poi sfogarsi, a turno, su mio padre che si trovava così stretto nella morsa di padre e moglie.





accomodati a tavola.
Quella che mi attende sarà una bella festa, ne sono sicura. So anche che mi hanno preparato regali e sorprese. Mi vogliono bene.
La nona edizione di Smartrams (STS) chiude il 2017 e inaugura
CAPRICORNO
torinese DOC poiché compra stampe ingiallite di Torino, ama l’insalata russa e il Bunet e si incanta ogni volta che entra in una residenza sabauda.Il suo blog (
dello stesso autore: “Mille case” riunisce le immagini relative al tema dell’abitare. “Fantasie di un quotidiano impossibile” è sull’atmosfera e l’espirazione surrealiste che hanno influenzato parte della produzione fotografica di Molino. “Mistica dell’acrobazia” è il titolo della terza sezione dedicata alla velocità movimento e dinamica. Infine “L’amante del duca”, la più ampia delle quattro sezioni con oltre 180 fotografie dedicata al tema del corpo e della posa. In chiusura si trovano documenti tra cui lettere, manoscritti, dattiloscritti originali e cartoline collezionate dall’architetto provenienti da tutto il mondo che evidenziano l’interesse per la Fotografia in ogni sua espressione. Tutti i materiali in mostra, salvo alcune eccezioni opportuna talmente indicate, provengono dalle collezioni del fondo Carlo Molino, archivi della biblioteca “Roberto Gabetti”, Politecnico di Torino.


Tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi


addormentandoci alla sera. La nostra dimora, essendo un ex-fabbrica, sul piano del riscaldamento lasciava molto a desiderare. Ma i disagi non finivano lì. L’impianto elettrico risaliva alla destinazione industriale dello stabile e la tensione disponibile nelle prese di casa misurava 160 volt. Le lampadine si trovavano ancora in commercio (sempre più rare) ma per il frigorifero occorreva un piccolo e pesantissimo trasformatore per commutarla nei più idonei e “moderni” 220 volt (in seguito comprammo anche la Tv e i trasformatori diventarono due). Anche il rifornimento d’acqua potabile era un bel problema.
Solo il bosco di castagni e querce, le faggete e le macchie di robinie opponevano una testarda resistenza che, con il passare dei giorni, diventata sempre meno convinta. Quell’ostinata riluttanza a liberarsi della propria chioma in breve si esauriva e anche gli alberi del bosco, malvolentieri, erano costretti a cedere il passo all’inverno che bussava alla porta, lasciando a terra un soffice tappeto di foglie che rifletteva tutte le sfumature del giallo e del marrone. A scuola si andava a piedi, imbacuccati. Un paio di chilometri scarsi tra andata e ritorno, attraversando il paese fino al vecchio edificio bianco-verde delle scuole elementari (non ho mai capito per quale ragione estetica il colore dell’intonaco è restato sempre quello nel tempo, mah..).
D’inverno la parte bassa del Selvaspessa si prosciugava e il gelo solidificava l’aria umida in leggerissime e fragili lastre di ghiaccio tra un sasso e l’altro.Bastava lanciare una piccola pietra per incrinarle o frantumarle in mille pezzi. Ma i giochi sul fiume erano un frutto proibito per noi “reclute”. Questione d’età e d’autonomia. Solo i più “vecchi” tra noi ragazzi, quelli che avevano raggiunto il limite del primo ciclo scolastico e che – a dieci anni o giù di lì- erano pronti per “avviarsi” alle medie, avevano accesso alle meraviglie di quel luogo misterioso. Per quelli che come me frequentavano le prime classi, c’era l’obbligo dell’immediato rientro a casa quando, al termine della mattinata, lo squillo della campanella chiudeva le lezioni. Con la cartella di cuoio a tracolla o in spalla – salutata la maestra Pedrelli e i bidelli- uscivano dall’aula, imboccando di
corsa il cancello della scuola. Un breve saluto, la promessa di rivedersi l’indomani e via, ognuno per la propria strada. Siamo cresciuti così, in quei primi anni ‘60. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove a far la differenza – non costando nulla – la faceva la fantasia, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero il più delle volte gli stessi.
questi casi d’immaginazione ce ne voleva davvero tanta. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissachì e tra le mani uno “sciopp da legn”, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del “sergente”, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dare una voce al “sergente” che, come tutti i
sergenti che si rispettano, l’aveva un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale sciopp fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”.
poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fusoppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che proprio in quel 1964, sbarcò in Italia provenendo dall’America), forse l’avrei conservata. Il mondo dei balocchi era racchiuso nella vetrina del negozio della signora Alfonsina. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. In quel piccolo negozio si comprava di tutto: dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti da quelle luci colorate e intermittenti, capaci di
rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra, Pallanza o Stresa. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc, rivestite di sughero, con cui giocare sul tavolo da cucina – quand’era sgombro- immaginando la stessa superficie simile del verde e scolorito tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio. C’era l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua e di là in preda a un delirio di traiettorie anarchiche. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che separavano il lancio dallo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva le munizioni stese su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre e sgradevole. E come non citare il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( “di tolla”) a pressione, i pentolini e
le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero terribilmente attratto da quel razzo ma, tempo dopo, avendone ottenuto un esemplare, restai deluso da quel vettore: per salire, saliva ma il più delle volte precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori. 
erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Mi piacque molto “Il piccolo alpino” di Salvator Gotta. L’edizione era la prima, già allora vecchia, del 1926. Il libro, pur essendo usato, era ben conservato. Lo zio l’aveva acquistato su una bancarella alla fiera degli “Oh, Bei Oh, Bei” che si svolgeva nei giorni dell’Immacolata nelle vie attorno alla Basilica di Sant’Ambrogio. Era lì, dove risuonava quell’esclamazione (oh bei, oh bei ! che belli, che belli!) che tradizionalmente si compravano i regali di Natale a Milano. Le bancarelle vendevano dolci e delle sleppe di torrone da far paura, che poi venivavo tagliate in tanti pezzi più piccoli. Gli ambulanti offrivano giochi, berrette e sciarpe, cianfrusaglie di ogni tipo.
Quella fu la somma che spese dalla signora Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era il mio regalo per Natale. Quando vidi l’inaspettato dono sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non credevo ai miei occhi: era un camioncino bello e colorato, con nere e lucenti ruote di gomma. Sull’abitacolo erano disegnate le porte e il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito! Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo e rigirandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò, giocando con me, la nonna e la zia Annetta al gioco dell’Oca. Tiravo il dado, seguivo il percorso dell’oca di legno sulle caselle ma non dimenticai quel camioncino. Era successo qualcosa che non riuscivo ancora a capire. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Venne poi la notte della Befana. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.