LIFESTYLE- Pagina 307

A San Silvestro si balla con Smartrams

La nona edizione di Smartrams (STS) chiude il 2017 e inaugura il 2018 con un ballo lungo tutta la notte  di San Silvestro. Dalle 21.30 alle 2.00 STS9 collega gli eventi del Capodanno di Torino al Pala Alpitour  e allo Spazio211 percorrendo la linea del 4 da Piazza Derna a Piazzale Caio Mario.  A bordo si festeggia con la musica di Dj Morciano (Jazz Club) & Grano (Outcast). A illuminare la città lungo il percorso del tram ci sono le proiezioni video di High Files. Sul tram anche il progetto fotografico “In viaggio” di Emanuele Basile che, con il suo sguardo indagatore filtrato dall’obiettivo della sua inseparabile macchina fotografica, immortala il viaggio degli altri in giro per il mondo ed espone i suoi scatti nella perfetta cornice mobile di STS. Ingresso libero a tutte le fermate fino a capienza massima; è consigliata la prenotazione al costo simbolico di €1,50 euro acquistabile su EventBrite http://bit.ly/2DQI3Nr. Ai prenotati sarà garantita la priorità di salita su Smartrams. Percorso e orari su www.smartrams.it

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Torino, 31 Dicembre 2017 – 1 Gennaio 2018
SMARTRAMS
#STS9_Capodanno

L’oroscopo di Platone: fine 2017 inizio 2018

CAPRICORNO

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DENARO E LAVORO. I nuovi contatti porteranno interessanti sviluppi nel vostro lavoro, è anche un ottimo periodo per qualsiasi attività commerciale e tempo di grandi affari. Fare la bella vita è sicuramente divertente se ve lo potete permettere, ma le vostre finanze sono un po’ tirate in questo momento.

AMORE E ARMONIA. Chi è solo troverà il/la partner che cercava mentre chi è in coppia potrà coronare il suo sogno d’amore.

BENESSERE E SALUTE. Discutere con una persona cara attenua i problemi. Abbondate con alimenti ricchi di ferro e vitamine e fate qualche passeggiata per respirare un po’ di aria fresca.


ACQUARIO

DENARO E LAVORO. 
Siete produttivi come non mai, eppure vi piacerebbe fare qualcosa di più stimolante, è comunque il momento del raccolto. Tutto l’impegno che avete messo nel passato, trova ora la giusta ricompensa, avrete così anche modo di scoprire altre fonti di guadagno che prima erano per voi inimmaginabili.

AMORE E ARMONIA. Con una persona di recente incontrata, vedete un futuro radioso.

BENESSERE E SALUTE. Nonostante il carico di stress della fase attuale, il lavoro e gli impegni domestici vi danno grande soddisfazioni, se poi riuscirete imparare a rilassarvi maggiormente e ad aspettare le risposte, la vostra mente risponderà a più domande e sarete ancora più “efficaci”.


PESCI

DENARO E LAVORO. È il momento di fare progetti a lungo termine e di chiedere finanziamenti o promozioni. Il lavoro di gruppo sarà fluido e redditizio, possibili proficui contatti con l’estero e stimoli nuovi da affrontare con creatività. Fase di rassicurante stabilità, proprio come piace a voi.

AMORE E ARMONIA. Splendido periodo per l’amore e le amicizie, solare e divertente, eccitante sia nella vita di coppia che per i più giovani che potranno sperimentare nuove dimensioni affettive.

BENESSERE E SALUTE. Di solito gli imprevisti stuzzicano ma ora al contrario preoccupano, non chiudetevi in voi stessi nonostante le turbolenze, un nuovo hobby e una dieta ipoproteica vi saranno di grande aiuto.


ARIETE

DENARO E LAVORO. Cambiamenti in corso per il momento positivi e l’atmosfera è piacevolmente distesa. Le forti energie favorevoli vi spingono a ostentare ottimismo e sicurezza, è meglio agire e godere più interiormente questa soddisfazione. L’invidia degli altri non vi deve intralciare, in questo modo otterrete molto di più.

AMORE E ARMONIA. Siate lungimiranti e fiduciosi, il sospetto e la gelosia potrebbero farvi fare dei passi falsi, lasciatevi guidare dal cuore e non dalla mente.

BENESSERE E SALUTE. Se è vero che la teatralità a volte proietta un “pathos” soggettivo e la visione del reale è un’interpretazione, l’essere più pacati e tranquilli dinnanzi all’irrompere dell’emozione è un segnale che state molto meglio sia con voi stessi sia con gli altri e, così composti, siete ancora più belli.


TORO

DENARO E LAVORO. Progetti e prospettive in grande espansione, non fatevi smontare dal pessimismo. Tutto ciò che è rimasto in sospeso intralcia le nuove attività, questo è il momento adatto al riordino per poter accogliere al meglio le occasioni propizie che verranno.

AMORE E ARMONIA. Nelle braccia del vostro amore trascorrete momenti indimenticabili alternati a moti di insofferenza, tocca a voi ridimensionare le vostre esigenze.

BENESSERE E SALUTE. Vi occupate di inezie? Forse è perché ne avete il tempo…Sarà con la creatività e la fantasia che riuscirete a evadere dai malumori che i movimenti astrali vi procurano, resistete perché tra non molto la ruota finalmente girerà.


GEMELLI

DENARO E LAVORO. D’istinto, avrete la sensazione di combinare un pasticcio, ma non abbiate paura e osate pure, ne trarrete un sacco di idee nuove e opportunità. Un’idea luminosa e controcorrente può rivelarsi quella giusta. Cambiate la vostra vita in modo da fare soltanto le cose che vi danno soddisfazione, e siate felici.

AMORE E ARMONIA. Sarete molto intuitivi e perspicaci, gli astri promettono il superamento di conflitti specie in amore e nella vita a due, per i più giovani momenti di dolcezza e sensualità.

BENESSERE E SALUTE. Integrate potassio e magnesio da fonti naturali ed evitate di fare anche voi come la maggior parte delle persone che passano la prima metà della vita a rovinarsi la salute e la seconda metà a guarirsi!

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CANCRO

DENARO E LAVORO. Come sempre sorprendete tutti per la vostra laboriosità e nel rispettare gli impegni presi, siete degli stakanovisti e raggiungete gli obiettivi che vi siete posti. Tutto fila senza una sbavatura nonostante qualcuno si permetta dei commenti sgradevoli e…fuori luogo.

AMORE E ARMONIA. Il partner non capisce che bisogna lasciarsi andare. Se siete in crisi abbandonatevi alle “coccole” dei vostri familiari.

BENESSERE E SALUTE. Periodo gravato da impegni e contrattempi di varia natura, ma recupererete presto equilibrio, sicurezza e grande lucidità mentale.


LEONE

DENARO E LAVORO. L’istinto è prezioso, e la riflessione lo è ancora di più. Se un progetto di lavoro si dovesse concretizzare, giungeranno i tanto attesi guadagni. La persona con la quale siete in competizione si rivelerà utile per risolvere un’emergenza.

AMORE E ARMONIA. L’erotismo si rivelerà la chiave giusta per rinforzare le unioni che hanno avuto qualche momento di crisi.

BENESSERE E SALUTE. Piccoli contrattempi mettono a dura prova la digestione, ma non è il caso di prendersela. Ciò che veramente conta per voi andrà a gonfie vele. Una salutare gita in montagna vi ridona le giuste prospettive.


VERGINE

DENARO E LAVORO. Siete troppo svogliati e perdete facilmente la logica sequenziale del vostro operato così, tra le tante possibilità, non sapete più che direzione prendere. Prudenza e circospezione, meglio non “strafare” per passare indenni la fase avversa.

AMORE E ARMONIA. Entusiasmo e soprattutto un impegno preso sul serio. Sono favorite le conquiste ma non dimenticatevi troppo della famiglia. La sensibilità ben gestita è un asso nella manica.

BENESSERE E SALUTE. Siete troppo irritabili, scaricatevi in palestra così, oltre che a distendervi, riuscirete a mantenere una linea invidiabile.


BILANCIA

DENARO E LAVORO. Sono in arrivo opportunità fortunate, successo e un progetto di lavoro che dovrebbe concretizzarsi portando a gratificazioni personali e discreti guadagni, forse anche una promozione.

AMORE E ARMONIA. Se siete troppo insistenti il partner si chiude come un riccio. Metteteci rinnovata energia, anche se si tratta di una relazione di lunga data.

BENESSERE E SALUTE. Rinnovare la carica energetica in questo periodo può rivelarsi di fondamentale importanza e aiutare a ritrovare la giusta fiducia sia nel lavoro che negli studi.


SCORPIONE

DENARO E LAVORO. Alcuni vecchi progetti posti prematuramente nel “cassetto” sono da rivalutare, le circostanze sono adesso più favorevoli. Credete in voi stessi!

AMORE E ARMONIA. Avevate decisamente torto ad essere pessimisti. Le stelle vi rendono più appassionati e seduttivi del solito. Possibile un incontro imprevisto che faccia traballare anche solide certezze.

BENESSERE E SALUTE. I pianeti hanno molto da offrire, il desiderio di rinnovare la vostra vita e di fare le scelte giuste vi porta a strafare. Non esagerate altrimenti la stanchezza e lo stress vi renderanno irascibili ed ansiosi.


SAGITTARIO

DENARO E LAVORO. Avete troppe idee nella testa, selezionatele e mettete un po’ di ordine. Se vi riuscirete godrete di un periodo disteso senza ostacoli altrimenti vi farete venire il “mal di testa” senza risolvere nulla.

AMORE E ARMONIA. Ricordatevi che i piccoli malintesi sono all’ordine del giorno in un rapporto a due e, se presi con la giusta dose di tolleranza e di intelligenza, possono rendere il rapporto più intrigante e stuzzicante.

BENESSERE E SALUTE. Sopraggiungono notizie che nascondono qualcosa di poco chiaro. Le vere confidenze le riservate a poche persone.

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La finestra sul cortile

Serendipitsite- Viaggiare con Serendipità

Sempre più spesso leggiamo della parola ” serendipity o serendipità” che ci riporta l’immagine di questa scritta sulla copertina di un’agenda, sulla tazza del caffè americano o come sfondo per fare una foto, ma cosa significa? La serendipità è la fortuna di fare felici scoperte per puro caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra. A me capita spesso di cercare forsennatamente qualcosa e, immancabilmente trovarne un’altra che avevo smesso di cercare…ed è una piacevolissima sensazione! Questa settimana vorrei parlare di viaggi con serendipità e più precisamente di Elisa Midelio e del suo blog di viaggi. ELISA si definisce una torinese DOC poiché compra stampe ingiallite di Torino, ama l’insalata russa e il Bunet e si incanta ogni volta che entra in una residenza sabauda.Il suo blog (www.serendipitsite.com) è nato quasi due anni fa, inizialmente come contenitore di storie e pensieri poi, si è evoluto ingrandito e poco per volta il blog ha fatto una virata decisiva ed è diventato un blog di viaggi. I viaggi che sono la passione più grande di Elisa ne sono quindi diventati il tema principale, in cui conserva un tocco spensierato e fatta di magia, sempre con uno sguardo rivolta alla sua Torino.  Elisa scrive dei suoi viaggi, dell’Italia che ama scoprire in lungo e in largo e del resto del mondo. Elisa lavora anche in radio, tutti i mercoledì dalle 19 alle 20 su Radio Agorà 21, il programma si chiama “viaggiare con serendipità” e nasce con il desiderio di dare anche una voce alle foto e alle parole che le persone che la seguono sono abituate a vedere. I suoi progetti per il 2018 continuare con la radio e continuare a scrivere di viaggi e viaggiare e, nel frattempo aspettare di rimanere incantata da tutto quello che , un po’ per caso, un po’ per magia, capiterà!

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L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973

Il 2018 inizia con un evento cult per gli appassionati di fotografia. Il 18 gennaio 2018, CAMERA inaugurerà l’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934 1973, la più grande e completa mai realizzate sul legame tra l’architetto torinese e la fotografia. Tra i più noti e celebrati architetti del 900, Carlo Mollino ha da sempre riservato alla fotografia un ruolo privilegiato, utilizzandola sia come mezzo espressivo, sia come fondamentale strumento di documentazione e archiviazione del proprio lavoro e del proprio quotidiano. Questa esposizione, svela il rapporto tra Molino e la fotografia evidenziandone l’unicità e le caratteristiche ricorrenti, dalle prime immagini da architettura realizzata in negli anni 30 fino alle Polaroid degli ultimi anni. È nel 1949 che pubblicò “Il messaggio dalla camera oscura”, volume innovativo e fondamentale per la diffusione della cultura fotografica in Italia e la sua accettazione tra le arti maggiori. La mostra vuole così approfondire la complessità della riflessione di Carlo Mollino sulla fotografia, ponendolo nella storia della fotografia attraverso un percorso che alterna grandi classici ad opere del tutto il merito e mai esposte prima.  La mostra è divisa in quattro sezioni tematiche, ognuna intitolata con una citazione è tratta degli scritti dello stesso autore: “Mille case” riunisce le immagini relative al tema dell’abitare. “Fantasie di un quotidiano impossibile” è sull’atmosfera e l’espirazione surrealiste che hanno influenzato parte della produzione fotografica di Molino. “Mistica dell’acrobazia” è il titolo della terza sezione dedicata alla velocità movimento e dinamica. Infine “L’amante del duca”, la più ampia delle quattro sezioni con oltre 180 fotografie dedicata al tema del corpo e della posa.  In chiusura si trovano documenti tra cui lettere, manoscritti, dattiloscritti originali e cartoline collezionate dall’architetto provenienti da tutto il mondo che evidenziano l’interesse per la Fotografia in ogni sua espressione. Tutti i materiali in mostra, salvo alcune eccezioni opportuna talmente indicate, provengono dalle collezioni del fondo Carlo Molino, archivi della biblioteca “Roberto Gabetti”, Politecnico di Torino.

Luogo: CAMERA

Periodo: dal 18 gennaio 2018 al 13 maggio 2018

Costo del biglietto: intero euro 10, ridotto euro 6

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Capodanno al Regio con Roberto Bolle

Per festeggiare l’ultimo dell’anno Roberto Bolle torna al Teatro Regio per festeggiare con l’attesissimo «Roberto Bolle and Friends». Bolle è il primo ballerino al mondo ad essere contemporaneamente Étoile del Teatro alla Scala di Milano e Principal Dancer dell’American Ballet Theatre di New York. Il Gala di Roberto Bolle riunisce alcuni tra i ballerini internazionali più importanti per dare vita a una serata di danza al suo massimo livello, con un programma vivace e sorprendente. Un’occasione unica per il pubblico di ammirare le principali stelle del balletto insieme sul medesimo palcoscenico, in un viaggio di emozioni attraverso differenti tecniche, stili e scuole. Un’occasione unica anche per chi vuole avvicinarsi a questo universo, qui infatti troveranno riuniti i brani più belli e famosi del repertorio ottocentesco e novecentesco insieme ai migliori ballerini del momento.  Roberto Bolle and Friends vi attende la sera di Capodanno, il 31 dicembre, sul palco del Teatro Regio di Torino.

Buon anno a tutti!

Sabina Carboni

Le mille cartoline di Henry Cole, l’inventore degli auguri

natale augurinatale bimbiPreoccupato di non aver tempo per scrivere le annuali lettere natalizie, chiese all’amico  pittore di disegnargli un cartoncino che contenesse messaggi familiari e caritatevoli

I cartoncini di Natale, con frasi d’augurio e belle immagini, vennero pensati e prodotti ( almeno quelli “ufficiali”) nel 1843 quando l’uomo d’affari inglese Sir Henry Cole, che lavorava alle poste britanniche, commissionò al disegnatore e amico John Callcott Horsley , la realizzazione di mille cartoline natalizie da inviare ai propri amici. Preoccupato di non aver tempo per scrivere le annuali lettere natalizie, Cole chiese all’amico  pittore di disegnargli un cartoncino che contenesse messaggi familiari e caritatevoli. Forse non se ne resero conto sul momento ma si trattava di un classico prodotto della società consumista, dell’ era industriale, della mancanza di tempo, delle cose fatte in serie. E accadeva in un anno particolare. In quel 1843 il trentenne Wagner rappresentò il suo primo lavoro: un potente melodramma intitolato “l’Olandese volante”. Intanto Giuseppe Verdi, alla Scala, mandava in scena la prima dei Lombardi alla prima crociata. Il successo fu strepitoso soprattutto per il celebre “coro dei lombardi”, che venne adottato come canto patriottico, in chiave anti-austriaca. E’ l’anno del primo stabilimento balneare riminese, mentre a Milano nasceva la prima stazione ferroviaria sul modello di quelle inglesi: quella di Porta Tosa, capolinea della  ferrovia Milano-Venezia. La rivoluzione industriale muoveva i primi passi in Italia, partendo dal Biellese e dal Verbano. A settembre usciva il primo numero del magazine “The Economist” mentre si accendevano qua e là movimenti di protesta sociale e d’indipendenza. L’ Inghilterra s’incamminava nell’età  vittoriana ( la Regina Vittoria, sul trono da sei anni, ne compiva  ventiquattro) ,epoca di splendore politico e culturale e di cambiamenti sociali.  Tornando ai biglietti d’auguri, Horsley scelse di disegnare una famiglia, composta da elementi di varie generazioni e intenta a festeggiare il Natale con un brindisi a base di punch (suscitando non poche polemiche e rimostranze) , recante la scritta a lettere maiuscole “A Merry Christmas and a Happy New Year to You” (ovvero l’augurio di “Un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo”). Le cartoline, ognuna delle quali misurava 8,5 x 14,5 cmfurono  litografate presso la  londinese Jobbins of Warwick Court  e colorate da un pittore professionista, un certo Mason. Lo stesso Cole , futuro fondatore e direttore del primo museo del design, le acquistò per uno scellino l’una , firmandole “Felix Suddenly”, cioè “improvvisamente felice”. La nascita degli auguri natalizi coincise o quasi con quella del francobollo, tant’è che il britannico penny black  – emesso il 6 maggio 1840 con il profilo della Regina Vittoria –  fu il primo esempio di carta-valore  ad essere destinata all’affrancatura della corrispondenza. Ma questa è un’altra storia.

 

Marco Travaglini

I folletti e il mistero degli alberelli rubati

Natale travaglini 2Tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi

 

Di Marco Travaglini

La luce dell’alba rifletteva sui cristalli di neve colori teneri. Il silenzio che avvolgeva il paese ancora addormentato era talmente fitto che nemmeno il gallo di Fra’ Bernardo,sempre puntuale a lanciare i suoi chicchiricchì dal sagrato della chiesa, aveva trovato il coraggio di cantare il suo buongiorno. Quasi tutti dormivano a Malesco. E anche tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi. Dapprima erano piccoli aghi di ghiaccio, portati dal vento di tramontana che scendeva dalle vette del Gridone; poi, col passare delle ore, le pennellate si erano fatte più robuste, con fiocchi larghi che scendevano mollemente con parabole verticali. Era l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre. E il grande abete nella piazza del municipio pareva, nel chiaroscuro di quella mattina, una sentinella ghiacciata sull’attenti. Anselmo, la guardia forestale, era tra i pochi ardimentosi che eran già svegli. Con gli occhi pieni di sonno, dopo aver ciondolato attorno al tavolo della cucina, si stava scaldando le mani stringendole attorno al bricco fumante del caffè. Ahi, se scottava!… Già si era vestito, infilandosi – uno sopra l’altro – due paia di pantaloni ed altrettanti maglioni di lana. Bastava uno sguardo dalla finestra per immaginare quel freddo cane che congelava all’istante il vapore del fiato. Doveva andare fino a Santa Maria Maggiore, il nostro Anselmo. Doveva andarci con il suo motocarro e non ne aveva gran voglia. Ma il dovere è dovere: e laggiù, al magazzino della Forestale, erano arrivati la sera prima gli alberelli di Natale. Li avevano mandati, come tutti gli anni, con la ferrovia vigezzina, (la stessa che gli svizzeri chiamavano “centovallina”).Una strada ferrata lunga 52 chilometri che collegava Domodossola con Locarno, passando su 83 ponti e infilandosi in 31 gallerie. La ferrovia, ogni anno, soprattutto d’inverno, era la via più sicura, evitando le strade ghiacciate. Quando qualcosa o qualcuno doveva arrivare a destinazione, eccola pronta: i vagoncini caracollavano sui binari scintillanti verso la destinazione. E così era stato anche per i quaranta piccoli abeti di Anselmo. Calcatosi in testa il berretto di pelo e  infilati gli stivaloni, Anselmo era pronto all’avventura. Non si era sbagliato: fuori faceva un gran freddo e l’aria pungente l’aveva svegliato del tutto. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, con uno scoppiettio, il piccolo motocarro si mise in moto. La scatoletta di lamiera procedeva lentamente sulla strada innevata. Ad ogni curva il vecchio Ape rischiava di mettersi su di un fianco e pareva che solo gli improperi di Anselmo (che non menzioniamo, per carità) gli facessero tener dritta la rotta. Dopo quasi un’ora, tempo record per poco più di tre chilometri, Anselmo era davanti al portone del magazzino. Un po’ sbuffando, un po’ brontolando, gli alberelli furono sistemati a dovere e legati con una robusta corda. Sulla via del ritorno ad Anselmo venne una gran sete. A quel punto fermarsi all’osteria dell’Alpino era quasi un obbligo. Dentro il locale, nel tavolo davanti al banco della mescita, trovò due vecchie conoscenze: il Giuanon di Finero e il Calisna di Zornasco. L’incontro mattiniero con due vecchi compagni di sbornia, con i quali aveva girato in lungo e in largo tutta Vigezzo per bere e farsi quattro salti in balera, andava festeggiato. Sarà stato perché gli “scappava da bere”, sarà stato per il freddo boia, i litri cominciarono a scorrere allegramente. Nessuno dei tre si faceva pregare ed a turno si riempivano i bicchieri, senza aspettare che diventassero vuoti. Presi dall’euforia e dall’alcool, intonarono con voci sguaiate i loro canti, tanto che la Maria, ostessa di notevoli proporzioni fisiche, brandendo una scopa, li cacciò fuori dall’osteria. In strada, Anselmo fece un’amara scoperta che lo lasciò senza fiato. Il motocarro, parcheggiato sul ciglio della via, era vuoto. La corda, tagliata, era l’unica cosa rimasta. Degli alberelli nemmeno l’ombra. “Dio Santo”, imprecò Anselmo. “Mi hanno fregato il carico. I miei alberi… mi hanno fregato gli alberi!”. Urlava forte a tal punto che la guardia forestale, il maresciallo Zamponi, camminando con la bicicletta al passo, lo udì e accorse. “Cosa c’è da strillare, Anselmo?”, chiese il graduato dei Carabinieri, ansimando per la corsa. “Sciur Maresciallo, c’è che mi hanno rubato gli alberi di Natale che dovevo portare a Malesco. Guardi, guardi anche lei. Mi hanno portato via tutto: solo la corda hanno lasciato quei delinquenti”. Insieme, con aria da investigatore il Maresciallo, con le mani tra i capelli il disperato Anselmo, fecero un giro tutt’attorno al motocarro e… videro delle tracce. Erano tante. Tante piccole orme lasciate da piccoli stivali. Erano fitte, ben segnate nella neve, chiaramente visibili. Alcune leggere, altre più nette, come se le avessero lasciate corpi di diverso peso. O forse qualcuno, o qualcosa, che portava un peso, dei pesi. “I miei alberi: ecco che cosa mi hanno fregato, quei banditi. I miei alberelli…”, disse, quasi piangendo, il povero Anselmo. “Certo. La traccia è chiara. Hanno davvero rubato gli alberi”, pronunciò pensoso, il Maresciallo. E non aggiunse altro, incrociando lo sguardo severo di Anselmo che non potè trattenersi dal mugugnare..”Bella scoperta. Va là che c’è arrivato anche lui. Intanto quelli mi hanno fregato gli alberi”.

 

Ho capito, ho capito” gli rispose il Maresciallo, “non sono mica tonto. Ma chi sarà stato? Guarda un po’ questi segni”. E indicò le orme che continuavano per decine di metri. Incolonnate, disciplinate. Le seguirono con lo sguardo. Andavano via dritte, verso il bosco, all’imbocco del sentiero che saliva in Val Loana. Il caso era strano. Chi mai aveva potuto compiere il furto? E quelle tracce misteriose? Sembravano piedi di bambini. Ma era una pazzia solo pensarlo. Bambini così piccoli, di quattro – cinque anni che, in fila indiana, si dirigevano verso il bosco portandosi a spalla degli alberelli che pesavano quasi il doppio di loro? Suvvia, non era logico. L’unica cosa da fare era seguire quelle impronte. I pensieri del Maresciallo erano in sintonia perfetta con quelli di Anselmo e, senza scambiarsi una parola, limitandosi a pochi cenni, decisero di battere quella pista. Del resto gli alberelli dovevano essere ritrovati, ad ogni costo: chi poteva immaginare un Natale senza gli alberi addobbati di ghirlande e lucenti di palline di vetro colorato? I due si misero a camminare di buona lena. Come segugi tenevano gli occhi fissi verso il basso, scrutando la neve calpestata. Cammina, cammina giunsero alle ultime case. Più avanti c’erano i boschi. Dopo una sosta di pochi minuti, tanto per riprendere il fiato, si avviarono sul sentiero che saliva sul fianco della montagna. Un paio d’ore dopo erano all’alpeggio di Severino, il guardiaboschi di Scaredi che viveva lassù tutto l’anno. Ma quel giorno non c’era (seppero in seguito che era sceso fino a Malesco per far compere alla Cooperativa…).Da quel terrazzo naturale, guardando in basso, potevano scorgere le case nella piana. Piccole chiazze scure in un mare bianco. Il freddo si faceva sentire con morsi sempre più decisi. I giacconi, già ruvidi per loro conto, erano diventati ancor più legnosi. Dalle bocche uscivano nuvole di fiato. Ma Anselmo Baracca e Tarciso Zamponi erano due tipi tosti, testardi più dei muli. Salirono ancora e quasi allo scoccare del mezzogiorno, giunti in un largo spiazzo tra i larici, videro uno spettacolo incredibile. Disposti in un circolo perfetto, c’erano dei piccoli abeti che sembravano proprio gli stessi che Anselmo si era visto volatilizzare sotto il suo naso. Ad occhio, fatti due conti, tornava anche il numero: eran proprio quaranta.Non uno di più, e neanche uno di meno. Si guardarono l’uno in faccia all’altro, increduli. Chi poteva aver giocato loro questo scherzo? Farli salire per la montagna fin lì per poi metter loro davanti al naso un girotondo di abetini che sembravano tenersi la mano come fanno i bambini all’asilo. Le piccole orme, evidentissime attorno al cerchio degli alberi, avevano ripreso la loro fila svoltando sulla destra per una ventina di metri e finivano nel nulla davanti ad un grande albero cavo. Anzi, a dire il vero non finivano nel nulla ma proprio diritte nel cavo dell’albero. Il primo a muoversi fu il maresciallo, seguito subito da Anselmo. Attraversarono la radura e puntarono decisi verso il punto dove le tracce s’infilavano nell’albero. Avvicinatisi con cautela, girarono attorno al grande tronco. Niente di niente: le tracce finivano proprio dentro il cavo. Anselmo si chinò sulle ginocchia. Prese coraggio e infilò la mano nel tronco, tastando nel buio. L’unica cosa che riuscì a trovare erano delle bacche. Anche Tarcisio si inginocchiò e mise il naso dentro il tronco. Con grande sorpresa riuscì ad intravedere dei piccoli scalini, intagliati nel legno, che salivano verso l’alto.

 

Forse a questo punto, è bene lasciare i due soli con i loro dubbi e  fare un salto all’indietro di qualche ora. Anselmo era ancora con gli amici nell’osteria a bere e cantare quando una strana e minuta figura si avvicinò con fare furtivo al suo motocarro lasciato incustodito. Era un omino, con la barba bianca che gli scendeva fino alla cintura dei pantaloni, alto poco più di mezzo metro. I suoi vestiti erano di fustagno marrone e sulla testa portava un cappellino a punta color panna. Dopo essersi guardato intorno senza scorgere anima viva, fischiò tre volte. Dal ciglio della strada comparvero, come d’incanto, altri omini come lui. Suppergiù una quarantina, contati male, a colpo d’occhio. Lesti come dei furetti, con delle piccole asce, tagliarono la corda che legava il carico di alberelli e, in quattro e quattr’otto, si caricarono sulle spalle i piccoli abeti, incamminandosi in direzione del bosco. Erano i folletti della Val Loana. Venivano chi da Cortevecchio, chi dalle Fornaci, chi dalla Testa del Mater. Ma da circa novecento anni vivevano all’Alpe Cortino, avendo trovato dimora in un vecchio albero cavo che consentiva l’accesso ad una caverna sotterranea. Era un posto fantastico anche se non molto grande. Nei secoli avevano costruito una scala che, dall’apertura alla base dell’albero, saliva fino a quasi metà dl tronco per poi ridiscendere fin sotto le radici dove, attraverso un cunicolo scavato nella roccia, si raggiungeva la grotta. Vederla, illuminata con luce fioca delle torce, era uno spettacolo unico. Alle pareti brillavano quarzi, cristalli rosa e azzurrini, minerali argentati e color dell’oro (forse era proprio una vena d’oro). In quel caleidoscopio naturale i folletti avevano costruito, con pazienza, il loro povero ma funzionale arredamento. Lettini di faggio, piccoli sgabelli di legno d’abete, un grande – per quelle dimensioni – tavolo di larice intarsiato. Era lì che Zippo e Zappo, figli di Maggiociondolo, erano nati e cresciuti, insieme agli altri folletti. La loro era una vita felice. Padroni dei boschi, erano cresciuti, come si usa dire qualche volta anche nel mondo degli uomini, “all’aria aperta“. Avevano imparato a conoscere le erbe e le loro proprietà. Si erano costruiti da soli e con pazienza i primi giochi di legno e già da piccolissimi, quand’erano alti non più di venti centimetri (i folletti, durante la loro vita non diventavano mai più alti di una volta e mezza la statura di quando erano nati),si erano procurati da soli il cibo: radici, bacche, piccoli funghi, frutti selvatici del sottobosco. I folletti, per chi non lo sapesse, sono vegetariani. Quando Zippo e Zappo raggiunsero la maggior età che, tra i folletti, consiste nell’avere circa 450 anni, Maggiociondolo regalò loro la sua borsa di cuoio nero. Non che fosse qualcosa di particolarmente prezioso, a ben guardarla. Anzi, era proprio una comunissima borsa a tracolla di cuoio. Ma tra i folletti aveva un significato speciale: era il segno di distinzione della più antica famiglia, quella dei Loanini, che abitavano quelle terre da più di cinque millenni. Possederla non significava esercitare qualche forma di potere sugli altri. Anzi, l’intera comunità di folletti della Val Loana viveva di comune accordo, in perfetta uguaglianza e ciò che era degli uni lo era anche degli altri. Insomma: erano uniti e felici. E questa era la ricchezza più evidente di cui potevano disporre. Nel corso della loro lunghissima vita, Zippo e Zappo con tutti i loro amici avevano percorso in lungo e in largo tutto il corridoio della Val Vigezzo, arrampicandosi sulle montagne e ridiscendendole mille e mille volte ancora. In quell’ambiente si trovavano a loro agio. Avevano tutto ciò che la natura poteva offrire loro. Passavano ore e ore con il naso all’insù nelle faggete, ad ammirare quei maestosi alberi dalla corteccia liscia, color grigio metallo. Nel sottobosco, pulito e terroso, raccoglievano le foglie per i loro giacigli, il biancospino selvatico e il brugo per le tisane e, quand’era stagione, facevano una gran messe di funghi, dei quali erano golosissimi. A volte salivano ancor più in alto per sdraiarsi nelle foreste di conifere dove spadroneggiavano degli splendidi esemplari di pino silvestre e di abete rosso, il famoso “peccio”, dal tronco rossobruno e dalle pigne cadenti. E anche qui erano gran scorpacciate di lamponi e mirtilli neri. I folletti amavano anche le escursioni. In fila per due, cantando vecchie canzoni e antichi ritornelli, salivano sui fianchi del monte Limidario. E ballavano per giorni e notti intere, tutti in circolo attorno agli abeti bianchi e, qualche volta ancor più in su, tra i larici che innalzavano la loro chioma verso il cielo gareggiando con le vette. Gli animali, incrociandoli, non fuggivano spaventati come quando sentivano la presenza dell’uomo: anzi, si avvicinavano festanti all’allegra comitiva. Erano amici,da sempre. Tra di loro c’era un tacito patto che, col tempo, era diventato qualcosa di più: un’amicizia vera, sincera. Zippo e Zappo si divertivano un mondo a giocare a nascondino con gli animali che popolavano i boschi. “Guarda la”, diceva Zappo, “su quel ramo d’abete c’è uno scoiattolo dalla lunga coda a pennacchio”. E questo, agilissimo, rapido come la folgore, spariva in un battibaleno sui rami più alti, nel fitto fogliame. “E qui sotto? C’è un topo quercino”, gli rispondeva Zippo, indicando il simpaticissimo roditore notturno dalla coda che terminava con un ciuffo bianco. Andavano avanti così per ore. Era un mondo davvero speciale. A tarda sera la luna era già alta nel cielo. Bianca, color del latte, illuminava la foresta. Gli animali si preparavano per la notte. Il ghiro, tutto indaffarato alle prese con una nocciola da aprire con i suoi denti aguzzi, non si accorgeva che più in là, sporgendo la testa da un cespuglio, era spiato dalla lepre variabile: una vera signora, rapida e aggraziata nei suoi movimenti, con un’aria  timida anche se c’era chi la giudicava un po’ snob per la sua abitudine a cambiar colore della pelliccia durante i mesi d’inverno. E il tasso? Dov’era il tasso? Eccolo là ad un palmo dall’acqua della sorgente, in animata discussione con un porcospino. Non doveva esser stato uno scambio di vedute del tutto cortese visto che se ne andavano, ognuno per la sua strada, voltandosi le spalle: a destra, con la sua andatura un po’ goffa, il riccio; a sinistra, bofonchiando, il grosso tasso dal mantello striato. Della volpe non c’era traccia. O meglio, una traccia c’era ma non pareva opportuno indagare troppo a fondo visto che  – a sentire il commento del vecchio gufo – se n’era andata per i fatti suoi con le sue amiche. E non occorreva aver tanta fantasia per immaginare una scorreria notturna giù al piano, magari a far visita a qualche pollaio. In compenso c’era lei, la regina delle Alpi. Sullo sfondo del cielo terso e stellato, roteando davanti alla luna pallida, l’aquila reale compiva, con un volteggio lento e sicuro, il suo rito propiziatorio prima di tornare al suo nido sulle rocce alte del Gridone dove, con il suo sguardo magnetico, dominava la valle intera. A notte inoltrata, come accadeva spesso, Zippo e Zappo e l’intera compagnia, ormai stanchi, si coricavano sugli aghi di pino guardando il cielo e addormentandosi contando le stelle più luminose.

 

Ma, tornando a noi e agli alberi di Natale, occorre sapere anche il perché dell’ormai noto furto. Cosa che è subito detta. Narra un’antica leggenda che, nella notte della vigilia di Natale, ogni mille anni, i folletti dispongono quaranta giovani abeti – uno a fianco all’altro –  fino a formare un cerchio perfetto, nel mezzo del quale viene acceso un falò con rami di larice, allo scopo d’invocare un altro millennio di pace e prosperità per loro, per gli abitanti del bosco e per la gente della valle. Con i loro canti e i loro balli, in un crescendo di allegria, il rito propiziatorio consisteva nello strappare un sorriso alla serissima Signora della Laurasca, protettrice dei folletti dalla notte dei tempi. La Signora, per compensarli dell’attimo di felicità, avrebbe garantito loro per altri dieci secoli, salute e fortuna. L’ultima volta che accadde questa specie di miracolo era stato nell’anno Mille, anzi – per la precisione – nel 1015, dopo una notte di follie alle Fornaci. Papà Maggiociondolo l’aveva descritta tante volte ai suoi piccoli nelle notti d’inverno, cullandone il sonno. Ora toccava loro far rivivere l’antica tradizione. Anselmo e Tarcisio, la guardia forestale e il maresciallo dei carabinieri, incuriositi dalla scoperta e un po’ frastornati per le emozioni della giornata, decisero di lasciare i piccoli abeti dove stavano, ripromettendosi di tornare il giorno dopo per proseguire le ricerche e cercare di venire a capo del mistero delle piccole orme e dell’albero cavo. Rossi in volto e ciondolanti dalla fatica, ripresero la via del ritorno verso il paese, affondando fino alle ginocchia nella neve fresca. Ormai la luce del giorno si faceva più fioca e di lì a poco, il tramonto avrebbe lasciato il passo alla sera. La mattina dopo, vigilia di Natale, Anselmo, dopo una notte di sonno agitato, era uscito di buonora per recuperare altri quaranta alberelli direttamente alla stazione della ferrovia Vigezzina, dove erano stati sollecitamente recapitati dal comando della forestale di Domodossola, al quale Anselmo aveva inoltrato una nuova richiesta. Questa volta il buon uomo non fece sosta in nessuna osteria e tirò dritto, con il suo carico, fino a destinazione. Consegnati gli alberi nelle case, la guardia forestale si diresse verso la caserma della “Benemerita” dove, ad attenderlo, c’erano il maresciallo Tarcisio Zamponi e il brigadiere Augusto Marino. Quest’ultimo, che godeva della piena fiducia del maresciallo, era stato messo al corrente per filo e per segno di quanto i due avevano scoperto il giorno prima. Era ormai pomeriggio inoltrato quando i tre uomini, sbuffando per la salita, dopo l’ultimo strappo, si affacciarono sulla radura. Gli alberelli erano ancora lì, disposti a cerchio. E in mezzo a loro c’erano delle grandi fascine di rami di larice. Tarcisio, Anselmo e Augusto si guardarono in faccia: questa era nuova! Quelle fascine il giorno prima non c’erano e adesso, eccole là, nel bel mezzo del girotondo degli abeti. Questa volta, dopo aver confabulato tra loro, decisero di rimanere ai margini della radura, nascosti dietro agli alberi. Se qualcuno si fosse avvicinato, da lì l’avrebbero visto senza farsi a loro volta vedere e, forse, avrebbero finalmente trovato risposta al mistero. Per non stancarsi inutilmente decisero dei turni di vedetta che però, un po’ per euforia, un po’ per paura di lasciarsi sfuggire qualcosa, non rispettarono. Sei occhi guardavano senza posa verso il circolo degli abeti e l’albero cavo, avanti e indietro,su e giù. Scorrevano, intanto,le ore. Verso sera, al primo calar del buio, dal vecchio albero spuntò una figurina. Ci mancò poco che ad Anselmo non prendesse un colpo. Stava per lanciare un grido. E l’avrebbe fatto se non fosse stato per la prontezza di riflessi del maresciallo che, con uno scatto, gli tappò la bocca con la mano. Un omino, vestito in maniera un po’ buffa, con una barbetta bianca che gli scendeva lunga fin sulle ginocchia, era uscito dal cavo del tronco, guardandosi attorno. Passò un minuto, forse meno, ma per i tre esterrefatti spettatori, parve lungo un’eternità. Assicuratosi che non ci fosse nessuno lì attorno, l’omino mise due dita in bocca e lanciò due fischi, uno lungo e l’altro corto. Al segnale di via libera, tutti i folletti uscirono. Il brigadiere Marino si lasciò scappare un “Ooooh…” di stupore. Ma per fortuna, nessuno dei folletti lo udì.I piccoli omini erano indaffarati a trafficare attorno ai piccoli abeti. Stavano preparando, a quanto si poteva intuire, un falò. In un clima di gran frenesia, il lavoro andò avanti per delle ore. Ormai era buio e nel cielo le stelle sembrava facessero a gara per stabilire chi tra loro fosse la più luminosa. Mancavano suppergiù dieci minuti allo scoccare della mezzanotte quando uno dei folletti, salito su di un ceppo, iniziò a parlare.“…Amici, il momento tanto atteso è ormai giunto. Ancora una volta, con ogni millennio, invocheremo la gratitudine della Signora della Laurasca. Se riusciremo,com’è nell’augurio di tutti noi, a farla sorridere con la nostra allegria, per mille anni vivremo felici e in pace. Ed ora, avanti con le torce! Accendiamo il grande falò e che la festa cominci….”. Le parole di Zappo furono accolte da un corale “Evviva!” e i folletti accesero un gran fuoco con i rami di larice. La piccola radura s’illuminò del riverbero di quelle lingue di fuoco che s’alzavano, convulse e tremanti, verso il cielo. Anselmo, Tarcisio e Augusto avevano assistito alla scena a bocca aperta. Pur udendo la voce di Zappo non avevano capito un’acca perché il folletto aveva pronunciato il suo breve discorso nell’antico idioma dei Loanini. E non compresero, i tre sbalorditi spettatori, nemmeno il dialogo che vide protagonisti Zappo e un altro folletto più giovane (aveva infatti “solo” 470 anni…). Quest’ultimo si chiamava Corteccia di Betulla e, a differenza di tutti gli altri suoi compagni che, appena terminato il discorso di Zappo, avevano avviato le danze con volteggi indiavolati, se n’era stato da solo in disparte, un po’ mogio. Con entrambe le mani, continuava a tormentarsi la corta barbetta. Alla vista del pensieroso folletto, Zappo gli si era fatto incontro, informandosi se c’era qualcosa che non andava. “Beh,sì. Ecco, io..insomma: non ho capito bene una cosa..” disse, arrossendo, l’impacciato Corteccia di Betulla. “Su, dimmi pure. Se posso esserti utile..”, lo invitò Zappo, prendendolo sottobraccio. Entrambi si sedettero su una grossa radice sporgente e, a quel punto, messo a suo agio, Corteccia non si fece pregare. “Ecco, tu prima dicevi che con questa festa, ogni mille anni, cerchiamo di guadagnarci la benevolenza della Signora che, in cambio di un attimo di allegria, ci assicurerà dieci secoli di pace e tante altre belle cose. Non riesco però a spiegarmi perché abbiamo dovuto rubare gli alberelli agli uomini. Non mi sembra un gran bel gesto: dopotutto, nei nostri boschi, potevamo trovare dei giovani abeti in quantità. E’ proprio questo che non riesco a capire…”. Zappo sorrise e, con calma, appoggiando le mani sulle ginocchia, iniziò a parlare. “Vedi Corteccia, c’è un particolare che forse tu non conosci. Un tempo gli alberelli li prendevamo da soli, scegliendo i migliori per il rito della festa. Così è stato fino all’ultimo millennio e i folletti hanno potuto vivere in pace, indisturbati. Ma già da molto tempo abbiamo pensato che forse si poteva fare di più e, prima ancora che tu nascessi, fu presa un’importante decisione. Il nostro vecchio mago, Naso di Legno, pensò che se gli alberi fossero stati procurati dagli umani, a loro insaputa, i benefici si sarebbero estesi anche a loro. Io credo sia stata una scelta giusta. Pensa a quante guerre, sofferenze, odio e dissidi che si potrebbero evitare. L’unico modo per avere quegli alberi che gli uomini hanno fatto crescere per la festa che chiamano Natale, era rubarli da quello strano carro che cammina da solo. Anche se all’apparenza può esserti sembrata una brutta cosa, adesso sai che l’abbiamo fatto a fin di bene. Solo così la Signora della Laurasca penserà questa volta anche a loro. Ma adesso va, Corteccia. Raggiungi gli altri, divertiti”. La guardia forestale e i due carabinieri, provati dalla fatica e dalle emozioni, si erano appisolati dopo essersi avvolti ben bene nei loro cappotti. Il ballo, intanto, proseguiva con ritmi vertiginosi. Una volta preso l’abbrivio era un crescendo di salti, capriole, girotondi. I folletti saltavano come grilli e cantavano con tanta foga che la loro voce saliva dritta fino in cielo. Le chiome scure degli abeti, mosse da una leggera brezza, parevano voler fare il solletico alle stelle. Il gran fuoco, con le sue lunghe lingue rosse e arancio, aveva man mano lasciato il posto ad una brace purpurea. Quanto tempo passò? Un’ora, forse due, magari solo poche decine di minuti. Sta di fatto che, quando Anselmo e Tarcisio si destarono dal loro torpore era ancora notte. Una luna lattea inondava la foresta di vivida luce. Nella radura regnava il silenzio. Si udiva solo il respiro pesante di Augusto che venne svegliato con una brusca scrollata dal suo Maresciallo. Nel  mezzo del cerchio il fuoco era spento. Degli omini non c’era traccia. Spariti, quasi si fossero  dissolti nell’aria. La neve, tutt’attorno al falò e nei pressi dell’albero cavo, era intatta. Bella, bianca, compatta. Senz’ombra d’impronta. Tarcisio si stropicciò gli occhi; Augusto tremava dal freddo che gli era entrato nelle ossa; Anselmo non capiva più niente. Eppure non avevano sognato, non potevano aver fatto tutti e tre lo stesso sogno. Sgranchendosi le gambe con un robusto massaggio, si alzarono in piedi e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata agli alberelli, presero la via del ritorno. S’incamminarono verso il paese, scendendo dal sentiero del monte tra gli alberi carichi di neve. Nei pressi delle prime case del paese, incontrando Giuanon e Calisna, entrambi reduci da una nottata di bisbocce, non si fecero ripetere due volte l’invito a bere “una volta in compagnia”. Ma anche davanti al vino, così come durante il viaggio, nessuno fece parola di quanto avevano visto. E nemmeno gli altri manifestarono particolare curiosità e non  fecero domande sul perché e il percome di quell’incontro mattiniero. Anselmo, fra sé e sé,  pensò: “se dicessi cos’ho visto, chi mi crederebbe? Nessuno. Mi prenderebbero per matto. Anzi: ci prenderebbero per tre matti…”. Tanto valeva, a quel punto, tenersela per loro questa storia. Svuotati i bicchieri e salutata la compagnia, tornarono a casa, ognuno per la sua strada. L’orologio del campanile segnava le 7,30 del 25 dicembre. La mattina di Natale. Nella notte la Signora della Laurasca aveva sorriso.

 

 

 

Le scorze d’arancia e il camion di latta rossa e blu

Ricordi e profumi del Natale di una volta 

Natale 1964 Le scorze di mandarino e d’arancia, scaldandosi sui cerchi della stufa a legna, riempivano l’aria della cucina con il loro aroma. Le metteva mia madre, per “fare Natale”. Sosteneva che quel profumo d’agrumi bruciati portava con sé l’atmosfera delle feste di fine anno

 

 Poco importava se il calendario segnava ancora i giorni della luna di novembre, quella del sogno e del riposo, mancando più o meno quattro settimane al venticinque dicembre. Erano i giorni in cui si avviava l’Avvento. Un mese d’attesa, una lunga preparazione scandita dal conto alla rovescia che ci avrebbe accompagnati verso la festa più bella dell’anno. Nella vecchia casa che un tempo aveva ospitato i magazzini del cotonificio, non ci voleva molto a percepire il cambio di stagione. Lo sentivamo sulla pelle! In cucina la stufa divorava la legna ma nelle stanze fredde il mercurio nel termometro rabbrividiva con noi. Il freddo, oltre che sentirlo, si “vedeva. Bastava un rapido sguardo al colore del volto quando, io e mio fratello, ci svegliavamo al mattino. Metà roseo e metà bianco,metà tiepido e metà infreddolito. Era quella l’unica parte del corpo che non infilavamo sotto le coperte e quale delle due metà fosse l’una o l’altra, dipendeva da come si appoggiava la testa sul cuscino, addormentandoci alla sera. La nostra dimora, essendo un ex-fabbrica, sul piano del riscaldamento lasciava molto a desiderare. Ma i disagi non finivano lì. L’impianto elettrico risaliva alla destinazione industriale dello stabile e la tensione disponibile nelle prese di casa misurava 160 volt. Le lampadine si trovavano ancora in commercio (sempre più rare) ma per il frigorifero occorreva un piccolo e pesantissimo trasformatore per commutarla nei più idonei e “moderni” 220 volt (in seguito comprammo anche la Tv e i trasformatori diventarono due).  Anche il rifornimento d’acqua potabile era un bel problema.

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Quella che usciva dal rubinetto proveniva dalla canalizzazione che captava direttamente dal fiume, trasformandosi – quando pioveva – in un liquido color della terra. Per lo sciacquone del gabinetto poteva andar bene ( tra l’altro non era in casa, comodo: era stato ricavato sotto la scala che portava al locale del lavatoio, all’esterno) e pure anche il bagno, rito che veniva compiuto riempiendo il mastello di zinco dopo aver fatto bollire l’acqua sul fuoco della stufa. Per quella  potabile c’erano i fiaschi da riempire alla fontana pubblica, non troppo lontana ma nemmeno tanto vicina a casa. Come spesso capitava, in barba al calendario, il passaggio dall’autunno all’inverno era repentino. L’aria fredda, cavalcando i venti che scendevano dal Mottarone, dallo Zughero e dal Camoscio, scrollava via le ultime foglie secche dagli alberi, lasciando i tronchi spogli a rabbrividire nei prati e sui viali. Solo il bosco di castagni e querce, le faggete e le macchie di robinie opponevano una testarda resistenza che, con il passare dei giorni, diventata sempre meno convinta. Quell’ostinata riluttanza a liberarsi della propria chioma in breve si esauriva e anche gli alberi del bosco, malvolentieri, erano costretti a cedere il passo all’inverno che bussava alla porta, lasciando a terra un soffice tappeto di foglie che rifletteva tutte le sfumature del giallo e del marrone. A scuola si andava a piedi, imbacuccati. Un paio di chilometri scarsi tra andata e ritorno, attraversando il paese fino al vecchio edificio bianco-verde delle scuole elementari (non ho mai capito per quale ragione estetica il colore dell’intonaco è restato sempre quello nel tempo, mah..)

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Più avanti, duecento metri oltre le scuole, c’era ( e c’è tutt’ora) il Selvaspessa, il nostro “fiume” (anche se il demanio idrico lo cataloga torrente), attraversato dalla vecchia e malmessa passerella di ferro e legno che divideva l’abitato di Baveno dalla sua più popolosa frazione. Quello sì che era un altro mondo. Rappresentava il luogo dell’avventura, della fantasia, dei giochi per tutti e in tutte le stagioni. D’inverno la parte bassa del Selvaspessa si prosciugava e il gelo solidificava l’aria umida in leggerissime e fragili lastre di ghiaccio tra un sasso e l’altro.Bastava lanciare una piccola pietra per incrinarle o frantumarle in mille pezzi. Ma i giochi sul fiume erano un frutto proibito per noi “reclute”. Questione d’età e d’autonomia. Solo i più “vecchi” tra noi ragazzi, quelli che avevano raggiunto il limite del primo ciclo scolastico e che – a dieci anni o giù di lì- erano pronti per “avviarsi” alle medie, avevano accesso alle meraviglie di quel luogo misterioso. Per quelli che come me frequentavano le prime classi, c’era l’obbligo dell’immediato rientro a casa quando, al termine della mattinata, lo squillo della campanella chiudeva le lezioni. Con la cartella di cuoio a tracolla o in spalla – salutata la maestra Pedrelli e i bidelli- uscivano dall’aula, imboccando di corsa il cancello della scuola. Un breve saluto, la promessa di rivedersi l’indomani e via, ognuno per la propria strada. Siamo cresciuti così, in quei primi anni ‘60. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove a far la differenza – non costando nulla – la faceva la fantasia, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero il più delle volte gli stessi.

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A quell’epoca non c’erano pistole laser, playstation, videogame o altre diavolerie elettroniche. Men che meno i computer. I giochi s’andava raramente a comprarli nei negozi. Un po’ perché di soldi ce n’erano pochi, un po’ perché non c’erano nemmeno i negozi. I giochi ce li costruivamo da soli. Usando legnetti, elastici, un gessetto colorato, un vecchio cerchione arrugginito di bicicletta, un fazzoletto, il cono di cartone di una rocca del filato e un po’ d’abilità comparivano la lippa, una fionda, il campo tracciato per i quattro cantoni o la pista per i tappi, il gioco del cerchio, ruba bandiera o moscacieca, una cerbottana. Era meglio essere in “banda”, in compagnia, ma ci si poteva divertire anche da soli. In questi casi  d’immaginazione ce ne voleva davvero tanta. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissachì e tra le mani uno “sciopp da legn”, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del “sergente”, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dare una voce al “sergente” che, come tutti i sergenti che si rispettano, l’aveva un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale sciopp fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”. 

 

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I più fortunati possedevano i bastoncini di legno dello Shangai, gli aerei di carta dei formaggini Galbani, la mucca Carolina o la Susanna “tutta-panna” gonfiabile che si otteneva con i punti dell’Invernizzi, le palline clic-clac, il gioco dell’Oca o del Monopoli (per i più grandi che cominciavano a capire il senso e il valore del denaro), il traforo, il Meccano o il trenino elettrico della Lima. Alcuni amici possedevano i soldatini prodotti dalla Nardi, belli e colorati, di plastica e con le parti del corpo staccabili: le Giubbe Rosse a cavallo, con le divise fiammanti e quegli strani copricapo, gli antichi romani e i barbari, gli indiani e i cowboy, i nordisti e i sudisti impegnati a combattersi in un’infinita guerra civile con le loro divise blu e grigie. Io, schioppo di legno a parte, non possedevo altro che la mia fantasia. E, a onor del vero, un asino rosso di plastica, ricordo dell’infanzia, comprato da mia madre alla festa del santuario del Boden, che faceva compagnia a un Calimero di celluloide. A esser sinceri c’era stato qualcos’altro: la bambola “Caterina”. Mi era stata donata da una bambina, vicina di casa e compagna di giochi, e io – pur essendo un maschietto, forse per affetto o per curiosità – le detti da mangiare. Nella piccola bocca aperta della bambola, per qualche settimana, infilai qualche chicco di riso, un po’ di minestra, dell’acqua, delle briciole di pane. La povera Caterina non gradì molto le mie cure poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fusoppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che proprio in quel 1964, sbarcò in Italia provenendo dall’America), forse l’avrei conservata. Il mondo dei balocchi era racchiuso nella vetrina del negozio della signora Alfonsina. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. In quel piccolo negozio si comprava di tutto: dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti da quelle luci colorate e intermittenti, capaci di rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra, Pallanza o Stresa. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc, rivestite di sughero, con cui giocare sul tavolo da cucina – quand’era sgombro- immaginando la stessa superficie simile del verde e scolorito tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio. C’era l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua e di là in preda a un delirio di traiettorie anarchiche. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che separavano il lancio dallo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva le munizioni stese su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre e sgradevole. E come non citare il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( “di tolla”) a pressione, i pentolini e le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero terribilmente attratto da quel razzo ma, tempo dopo, avendone ottenuto un esemplare,  restai deluso da quel vettore: per salire, saliva ma il più delle volte precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori.

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Il sogno proibito per noi maschi era l’autopista elettrica della Polistil che si vendeva nelle due versioni a circuito ovale e a forma di otto, con le due o le quattro corsie per le auto in corsa. Si sentiva parlare, a quell’epoca,  delle sfide tra le Lotus e le Ferrari e gli eroi delle quattro ruote erano Stirling Moss  e Graham Hill, Jim Clarck (l’asso della Lotus)  e i ferraristi John Surtees, Wolfgang Von Trips e Giancarlo Baghetti che guidavano le rosse monoposto del Cavallino rampante di Maranello. Quell’autopista, che dalle pagine di Topolino veniva propostada una bellissima Paola Pitagora, rappresentava l’oggetto del desiderio numero uno. Desiderio, con molto rammarico, destinato a rimanere tale. Alfio invece era fortunato. I suoi genitori e gli zii gli compravano le figurine dei calciatori. Un “di più” che la mia famiglia non mi consentiva di avere.  Solo mia nonna materna, che mi voleva un bene dell’anima, risparmiando come e quanto poteva, mi dava qualche soldo di mancia che investivo nei fumetti con le avventure di Topolino e Paperino, Tiramolla, Cucciolo e Beppe, il lupo Pugacioff e Cocco Bill, il cowboy che beveva solo camomilla. E, quando si poteva disporre di qualcosa in più, la scelta cadeva sulle bustine di figurine da dieci lire. Nulla di paragonabile a quanto aveva Alfio ma non mi sono mai lamentato. Nel primo album dei calciatori della Panini ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte attaccante svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 al 1949 e che perì il 4 maggio di quell’anno nel disastro aereo di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo. La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua, a prescindere dal tifo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar,Rigamonti,Castigliano,Menti,Loik,Gabetto,Mazzola,Ossola.Quelle immagini rappresentavano le gesta sportive degli eroi del pallone, alimentando i nostri sogni di carta. Nel primo anno delle elementari il Milan di Nereo Rocco si aggiudicò, nello stadio londinese di Wembley,  la prima coppa dei Campioni per una squadra italiana. I diavoli rossoneri sconfissero il Benefica di Eusebio (che segnò la rete dei lusitani) per 2-1, grazie a una doppietta di José Altafini. Poi vennero gli anni della grande Inter di Helenio Herrera mentre era una realtà di grande spessore la Juventus di Charles e Sivori. Con le figurine si giocava, componendo squadre immaginarie, vincendole o perdendole a sopra, a lungo, a chi le lanciava più lontano. Ricordo quelle di Dennis Law, che giocava nel Torino con Gigi Meroni, la farfalla granata, dei bolognesi Haller, Janich, Fogli e Pascutti (che era un po’ pelato e ci ha lasciati – con l’altro felsineo, Marino Perani – quest’anno), di Enrico Albertosi con la maglia da portiere della Fiorentina, degli juventini Stacchini, Salvadore, Del Sol, Castano e Anzolin, di Amarildo con i colori del Mantova e di Gianni Rivera, prima con i grigi dell’Alessandria e poi con il Milan, per tutta la carriera. Mi ricordo Carlo Dell’Omodarme, ala della Spal e della Juve. Non lo vidi mai giocare. Lo rammento con una faccia seria e sofferente, ritratto a busto interno nella sua figurina con la maglia a righe verticali bianco-celesti della squadra di Ferrara. La Spal, appunto. Mi sembrava un calciatore tosto, affidabile. Trasmetteva, in qualche modo, la certezza che avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere. Del resto il cognome lo garantiva.

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Un vecchio zio di madre, Edoardo, tipografo di Milano, mi portava in dono gli album colorati con le fiabe di Esopo e La Fontaine. Era un personaggio, lo zio “Eduard”. Non tanto alto, ben vestito, portava un cappello a tesa larga e una cravatta stretta e nera. Era un vecchio anarchico dai modi gentili e miti. Mi portò anche un libricino, dicendomi “ l’ha scritto uno che non la pensa come me, ma vale la pena leggerlo perché è scritto bene”. Io non ero in grado di capire il significato di quel “ non la pensa come me” e mi lasciai incuriosire dal fatto che era “scritto bene”.  Iniziava così: “ La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Mi piacque molto “Il piccolo alpino” di Salvator Gotta. L’edizione era la prima, già allora vecchia, del 1926. Il libro, pur essendo usato, era ben conservato. Lo zio l’aveva acquistato su una bancarella alla fiera degli “Oh, Bei Oh, Bei” che si svolgeva nei giorni dell’Immacolata nelle vie attorno alla Basilica di Sant’Ambrogio. Era lì, dove risuonava quell’esclamazione (oh bei, oh bei ! che belli, che belli!) che tradizionalmente si compravano i regali di Natale a Milano. Le bancarelle vendevano dolci e delle sleppe di torrone da far paura, che poi venivavo tagliate in tanti pezzi più piccoli. Gli ambulanti offrivano giochi, berrette e sciarpe, cianfrusaglie di ogni tipo.

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Lo zio Edoardo raccontava – non a me, troppo piccino – che i ragazzi erano soliti comprare le mele da regalare alle proprie fidanzate come pegno di perenne amore. Il libro l’aveva trovato da un suo amico che vendeva copie usate di libri in un banchetto d’angolo. Per questa ragione, ho sempre pensato, che quel libricino fosse ancor più prezioso: non solo perché era un regalo ma perché la sua lettura, nel tempo, era stata condivisa con altri. Lo tenevo come un oracolo. Era tra i miei primi libri, in quegli anni senza dubbio il più amato. Le avventure di quel ragazzo capitato tra gli alpini aostani impegnati sul Carso durante la guerra ’15-’18 suscitavano una grande emozione. In seguito arrivarono anche Il giornalino di Giamburrasca di Vamba, Pel di carota, il libro Cuore di De Amicis (mi ero preso in simpatia la piccola vedetta lombarda), quelli fantastici di Giulio Verne e la scoperta di Salgari, nelle edizioni torinesi cartonate di Viglongo. Ma quella de Il piccolo alpino era una storia che si era guadagnata un posto nel cuore e per questo non ringraziai mai abbastanza lo zio Edoardo, soprattutto per lo sforzo che aveva compiuto nel regalarmi il libro più bello di quel signore che, tra le altre opere, aveva composto una canzone come Giovinezza che, non è difficile immaginarlo, allo zio faceva venire i nervi. Si avvicinava intanto il fatidico giorno e cresceva l’attesa. Ricordo uno dei primi regali: un autocarro con rimorchio di legno che mio padre mi costruì con le sue mani. La forma era un po’ grezza, non livellata, piuttosto artigianale ma forse per questo ancora più bella. Ero orgoglioso di quel mio camion. Il cassone del rimorchio era capiente e si riempiva bene con ghiaia e sassolini. Le ruote, pur non essendo perfettamente circolari, giravano che era un piacere. Con i pastelli a cera l’avevo colorato di un bel rosso carico, intenso. Non del tutto perfetto perché le impurità del legno e la mia scarsa manualità non consentirono una colorazione uniforme. Non era però un problema. Sul camion volevo caricare anche il mio cane, Dick. Quando mio padre lo portò a casa, fu una sorpresa. L’aveva nascosto sotto la giacca e mi spaventai non poco nel vedere quella testolina bianconera che faceva capolino. Era un batuffolo di bastardino che campò più di vent’anni, crescendomi accanto. Anche lui guardava il camion, curioso ma diffidente. Gli girava attorno, lo annusava. Io volevo caricarcelo su, lui scappava e guaiva. Non c’era verso di convincerlo. Preferiva muoversi sulle sue zampe piuttosto che salire su quel trabiccolo. A quel tempo le finanze di casa erano decisamente magre. Mio padre faceva anche due turni consecutivi al lavoro. Partiva all’alba con la bicicletta e pedalava da Oltrefiume fino al confine tra Feriolo e Fondotoce, poco oltre la cascina Garlanda, dove faceva il segantino. Non c’erano stagioni o giornate brutte o belle: piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffocasse per l’afa, gli toccava andare. Il suo lavoro consisteva nel tagliare le lastre di marmo e granito. Era piuttosto duro e rischioso per la salute, con tutta quella polvere e la silicosi sempre in agguato. Mia madre, invece, badava alla casa. S’ingegnava a far quadrare i conti del bilancio familiare. Compito tutt’altro che agevole, al quale dedicava il meglio di sé.

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Nonostante ciò, io e mio fratello – nato da poco – eravamo tenuti come due bijoux. Puliti da capo a piedi, vestiti sobriamente ma con dignità. Educati al rispetto dei genitori, dei nonni e dei vicini. Quel Natale del 1964, a dispetto della buona volontà, si annunciava povero di doni. Forse qualche mandarino, un pugno di arachidi, magari un torrone e qualche caramella di zucchero. In fondo, grazie allo zio Edoardo, avevo avuto qualcosa e poteva anche bastare. Mia madre era piuttosto rassegnata quando accadde un piccolo miracolo. Stava andando a far la spesa dal Tabaccaio, dove avrebbe fatto scorta di sale grosso e fine, quando – per terra, poco prima della curva a fianco del prato cintato da un muretto che formava un triangolo geometrico, scorse un biglietto da mille lire. Non credo che la vista del volto di Giuseppe Verdi le avesse mai fatto tanto piacere quanto in quell’occasione. Si guardò in giro. Non c’era anima viva. Si chinò rapidamente e arpionò il biglietto, infilandoselo in tasca. Me la immagino, rossa in volto e tutta agitata. Dopo qualche passo si fermò a guardare quel tesoro e preso coraggio si avvio di buon passo dal signor Martini, il macellaio, per trasformare quell’inaspettata fortuna in un certo numero di fette di lonza di maiale. Dopo il macellaio fu la volta del negozio di alimentari per un etto di formaggio e di prosciutto cotto. Lasciata alle spalle la drogheria, calcolò rapidamente quanto rimaneva delle mille lire e si accorse che erano 280 lire. Quella fu la somma che spese dalla signora Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era il mio regalo per Natale. Quando vidi l’inaspettato dono sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non credevo ai miei occhi: era un camioncino bello e colorato, con nere e lucenti ruote di gomma. Sull’abitacolo erano disegnate le porte e il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito! Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo e rigirandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò, giocando con me, la nonna e la zia Annetta al gioco dell’Oca. Tiravo il dado, seguivo il percorso dell’oca di legno sulle caselle ma non dimenticai quel camioncino. Era successo qualcosa che non riuscivo ancora a capire. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Venne poi la notte della Befana. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.

 

Il Peso del Natale

di Davide Berardi *

 

Nel momento adiacente alle festività natalizie, purtroppo, in molti si sentono quasi appesantiti dalla sensazione del “dover essere gioiosi”, da quel sentirsi contenti ad ogni costo che va a sfociare in uno stato d’animo non autentico, paradossalmente quasi “infelice” da sopportare. Si percepisce nel nostro spirito una sorta di agitazione interna rispetto allo stereotipo del “felicità cercasi”, dovuta in parte ad un’attenzione esasperata verso il regalo di Natale e, dall’altra, da un’ostentata enfasi raccontata dalle nostre relazioni sociali. Da un punto di vista psicologico ed emotivo praticamente siamo proprio noi a metterci sotto pressione da soli; infatti non è la festa in sé e per sé, ma tutti i molteplici posizionamenti simbolici che le attribuiamo ad invadere e destabilizzare il nostro “io”. Oramai c’è una così ferrea abitudine nel commercializzare talmente tanto un evento da renderlo quasi impossibile da soddisfare. Questo comporta l’insorgere di uno stress emotivo e cognitivo rilevante, che nasce proprio dall’ideale che ci siamo imposti di raggiungere rispetto a quello che, invece, realmente potremmo fare per goderci una ricorrenza. Tutto ciò al punto tale da far vivere l’evento come un processo emotivamente faticoso e affettivamente quasi “scomodo”. Proprio per questo motivo sarebbe molto utile rifiutare qualsiasi schematizzazione del Natale dettata da imposizioni sociali o virtuali, abbassando le aspettative e mantenendosi impegnati e protagonisti in ciò che più ci appassiona, riducendo così di molto la propria influenzabilità individuale. Se siamo attivi in un’intenzione restiamo lucidi ed emotivamente concentrati, cosicché qualsiasi tipo di influenza esterna avrà maggiore difficoltà nell’attecchire dentro di noi. E’ importante, dunque, non farsi sommergere da ritmi imposti, spesso devastanti, che pervadono queste festività. Il Natale è nostro, non dei regali. Dona un abbraccio di almeno mezz’ora.

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A Natale stupisci. Siamo ormai abituati a scambiare, a commercializzare, seguendo una logica algebrica di compensazione materiale, a quantificare quanto ci vogliamo bene. Purtroppo non basta. La nostra mente si abitua agli oggetti molto velocemente ed oggi di oggetti ne è pieno il mondo. A volte sembra quasi inutile passare ore a scervellarsi sul cosa regalare a chi. Sbalordire, vogliamo sorprendere e meravigliare. Sfortunatamente è impossibile che l’effetto immaginato e voluto col nostro gesto duri così a lungo da regalarci una reazione compensatoria e soddisfacente a ripagare il tempo speso nella ricerca del regalo perfetto. Dunque cosa fare..arrendersi? No, bensì variare, adattarsi, modificare quel senso attribuito alla festa, alla ricorrenza, perché di tradizione si tratta, e non di gara all’ultima emozione o effetto speciale. Provare a riportare tutto al “quasi niente” per ridare valore e capacità apprezzante anche al minimo gesto, purché verso l’altro a cui vogliamo bene. E come? Raccontando complimenti sinceri, regalando baci e abbracci duraturi, prese per mano, libri, oggetti fatti a mano donando la nostra creatività di cuore. Tutto ciò non è obbligatorio, ma aiuta a ridurre le tensioni di Natale, aiuta a sostenere quel lieve sentore di abbassamento umorale, che fa scivolare via via il sorriso dal nostro volto e dai nostri occhi guardando il calendario e facendo salire l’acido gastrico lungo il canale dello stomaco. Si attenua quell’angoscia che, se in alcuni casi è sana poiché il periodo delle feste natalizie malauguratamente può essere anche legato a momenti spiacevoli e terribili della nostra vita, in altri casi, è data dalla sconsiderata pressione sociale che mettiamo noi stessi in tutto quello che facciamo. Alzando l’asticella della produzione di “effetti speciali” per “affetti virtuali” ad un limite non raggiungibile produciamo nei nostri pensieri infinita frustrazione, che può sfociare in rabbia, delusione o malumore per tutta la durata della ricorrenza. La vita reale è ben lontana dal prodotto pre-confezionato che ci propinano gli spot natalizi fatti da famiglie perfette, sedute intorno ad una tavola, schematicamente sorridenti.

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La vita reale è fatta di confronti, tensioni, genitori separati, assenze ingiustificabili e mancanze squarcianti, solitudini e difficoltà economiche. Dunque il confronto tra la nostra cruda quotidianità e una cartolina natalizia prestampata, nella maggior parte dei casi, non può che far emergere dentro di noi un senso di inadeguatezza lontano anni luce da quella magica “costruita” atmosfera raccontata intorno a noi. Al punto tale da sfociare in un’insofferenza da “panettone e pandoro”. Momenti questi in cui si corre il forte rischio di cadere nel pentolone dei “se” e dei “ma’. Questo accade perché siamo abituati a tirare le conclusioni quando si chiude un periodo, c’è una celebrazione o finisce temporalmente un attimo della nostra vita. Nelle commemorazioni tradizionalmente forti come il Natale e la fine dell’anno capita molto spesso di darsi i voti. Fin da piccoli ci viene raccontato che facendo il bravo otterrai il regalo da Babbo Natale, la Befana non ti porterà il carbone e, dunque, anche da adulti continuiamo ad essere lì a chiederci se siamo stati bravi veramente e ad interrogarci su come sia stato il bilancio dell’anno passato. Iniziamo la “sagra” del voto ma rispetto a cosa? Dipende sempre dai parametri che ci diamo da rispettare. Dobbiamo provare ad essere meno severi con noi stessi e a non fare paragoni con gli altri e con quello che ci viene raccontato rispetto al “socialmente desiderabile”. Dovremmo essere più liberi. Se siamo capaci di essere più liberi e lontani dagli schemi imposti potremmo aprire una possibilità di riuscire a sentire meno il peso ineluttabile delle feste da calendario. Liberarsi dai voti, dai sensi di colpa, dai bilanci e lanciarsi negli abbracci, prima verso noi stessi, poi verso l’altro lontano dai mi piace, dai “like virtuali” e dalle condivisioni ossessive del miglior “selfie” occasionale. La vita non è un teatro di posa, non è un set fotografico dove cerchi la luce migliore per sembrare più alto o più magro. La vita è una scia di sensazioni che si trasformano in emozioni che, se coltivate, a loro volta sfociano in sentimenti. Per tutto questo serve il contatto, la presenza, non basta un messaggio vocale. Bisogna imparare a distinguere le priorità nelle “persone” e nelle “azioni” le quali, ridotte di quantità e rese uniche, alla portata affettiva di noi esseri umani acquisterebbero più valore in quanto rare, uscendo dalla logica dell’”oggetto” per essere felice. Non siamo macchine in grado di coltivare più contatti di quanti il nostro cuore possa seguire effettivamente. Se questo avvenisse, potremmo evitare la dipendenza emotiva dal bisogno di acclamazione virtuale di persone che neanche conosciamo, poiché basterebbero quei minimi abbracci intimi di quelle poche persone che frequentiamo realmente per farci sentire meglio. Ciò spegnerebbe la famosa malinconia natalizia, la relativa tristezza delle feste di Natale dove tutti siamo più buoni e la faticosa melassa dei sorrisi di circostanza che, spesso, scandiscono tutto il perdurare dell’evento natalizio. Meno contatti, ma più veri, più abbracci e più intensi, meno condivisioni e più presenza, meno selfie e più realtà.

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* Dott. Davide Berardi, Psicologo – Psicoterapeuta

Psicologo, Psicoterapeuta ad Indirizzo Relazionale Sistemico, Docente Corsi di Accompagnamento al parto, Psicologo della riabilitazione e del sostegno nella terapia individuale e familiare, Terapeuta del coraggio emotivo.

davide_berardi_78@yahoo.it      

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Stille Nacht: la storia della “notte silenziosa, notte Santa”

natale albero madamaLa prima esecuzione pubblica avvenne nella notte della vigilia di Natale del  1818 durante la Messa nella chiesa di San Nicola di Oberndorf, vicino a  Salisburgo

Era la mattina del 24 dicembre 1818 quando il reverendo Joseph Mohr , allora assistente parrocchiale presso la località di Mariapfarr nel Lungau (località del Salisburghese, in Austria), bussò alla porta di Franz Xaver Gruber, insegnante ad Arnsdorf ed organista ad Oberndorf. Il parroco , che da bambino era vissuto di elemosine,  era giunto nel Salisburghese dalla Baviera, per sfuggire alle guerre napoleoniche, alle macerie e alla miseria. La ragione della visita era dovuta ad una richiesta: musicare un brano da lui scritto per due voci soliste, coro e chitarra. Le parole del testo, intitolato Stille Nacht , ovvero notte silenziosa, erano state scritte dal reverendo già un paio d’anni prima ma occorreva musicarlo. Non sono noti, almeno ufficialmente, i motivi che spinsero Mohr  a fare tale richiesta ma un racconto tradizionale riporta che ciò sarebbe avvenuto in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto poiché il mantice era stato rosicchiato dai topi e la riparazione era impossibile in tempi brevi ( e questo spiegherebbe il ricorso alla chitarra). Comunque Gruber non si fece pregare, componendo il brano di getto. Terminato il lavoro, fece vedere la partitura a Mohr che l’approvò . La prima esecuzione pubblica avvenne nella notte dello stesso giorno, la vigilia di Natale del  1818 durante la Messa nella chiesa di San Nicola di Oberndorf, vicino a  Salisburgo, ed il brano venne eseguito dai suoi due autori con Mohr che cantava la parte del tenore ed accompagnava con la chitarra Gruber che intonava la parte del basso. Così, la più celebre melodia di Natale –  “Stille Nacht, heilige Nacht”, notte silenziosa, notte santa – ,  cantata i centinaia di lingue – “Astro del ciel” in italiano, “Silent night” in inglese – nacque quasi per caso. A Oberndorf si può visitare oggi la cappella di “Stille Nacht”, sorta sul luogo dove nel 1817 si trovava la chiesa di San Nicola (distrutta da una piena della Salzach), e un piccolo museo dedicato alla canzone e ai suoi autori. Ogni anno, nella vigilia di Capodanno, in omaggio a Josef Mohr e a Franz Xaver Gruber, la melodia di “Stille Nacht” viene riproposta nel duomo di Salisburgo, dopo il “Te Deum”, così come era stata eseguita la prima volta a Oberndorf. Le luci della cattedrale si attenuano e nella penombra si odono le note di una chitarra, che suona da un alto pulpito affacciato sul transetto. Subito dopo, dal pulpito di fronte, una voce solista canta la prima strofa. Poi le note della chitarra continuano ad alternarsi alla voce solista nelle strofe successive, finché dal fondo della navata si unisce il coro intero. Difficile descrivere la commozione di chi, in chiesa, ascolta ammutolito quella musica. Rimane una curiosità, da svelare. Non tutti sanno che la versione italiana, dal titolo “Astro del ciel“, diventata popolare anche a livello internazionale, non è una traduzione del testo tedesco bensì un testo originale scritto nel secolo scorso dal sacerdote bergamasco Angelo Meli e pubblicata nel 1937 delle Edizioni Carrara di Bergamo.

Marco Travaglini

Lindy hop. Il ballo swing senza tempo che fa impazzire i torinesi

Negli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria riscoperta dello swing e del lindy hop in tutto il mondo. Quando sembrava ormai essere irrimediabilmente tramontato il ballo di coppia, eccolo a far di nuovo irruzione come principale forma di intrattenimento nel fine settimana e quale modo migliore per incontrarsi. Il merito va sicuramente a questo revival dei balli swing, lindy hop in testa, che resistono al tempo e alle mode. Di origine afroamericana, il lindy hop nacque alla fine degli anni Venti al Savoy Ballroom di Harlem a New York. Dalla comunità nera si espanse poi al resto della società diventando il primo fenomeno di ampia portata di integrazione culturale tra bianchi e neri. Oggi le comunità di lindy hoppers che scelgono luoghi precisi in città dove incontrarsi ogni settimana, le scuole e i festival periodici in cui vengono presentati workshop e ospiti internazionali sembrano crescere e consolidarsi di anno in anno e a dismisura. Una delle cose che sorprende di questo ballo è la socialità. Nelle serate di social dance si balla liberamente con partners diversi senza seguire coreografie predefinite, ma improvvisando guidati dalla musica e dalla sintonia spontanea che si instaura tra i ballerini. Normalmente si è abituati a considerare il ballo di coppia frutto di uno studio accurato di coreografie prestabilite in vista di esibizioni o gare, basti pensare al programma “Ballando con le stelle”. L’improvvisazione di questo ballo invece, tutto giocato sull’abbandono alla musica e al partner, è qualcosa di unico ed è ciò che entusiasma tutti coloro che condividono questa passione. L’euforia collettiva che si sprigiona durante una jam session e l’immediatezza della musica dal vivo che accompagna gli scatenati balli contribuiscono ad alimentare il desiderio di far parte di una comunità che sembra espandersi continuamente. Durante la settimana sono tante le serate dedicate ai balli social, occasioni imperdibili per chi vuole mettere a frutto i passi imparati a lezione e per ballare con persone diverse. Due sono i ruoli nella coppia: il leader, colui che guida improvvisando e la follower che segue il leader interpretando. Ma si suol dire che a ballare si è sempre in tre: il leader, la follower e la musica.

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Abbiamo incontrato Chiara Silvestro, ballerina e insegnante tra le più brave della scena swing torinese e fondatrice della scuola Feel Good Swing, per catturare la magia di questo ballo e capire le ragioni di questo successo.

 

Quando è iniziato il revival dei balli swing a Torino? Chiara, per quali vie sei approdata al lindy hop e da quanti anni insegni?

 

Ho tenuto le prime lezioni di charleston e jazz roots nell’estate del 2009. Si tratta di balli swing, come il lindy hop, ma a differenza del lindy sono danzati singolarmente. Sono stati la mia prima grande passione, ma anche una scelta abbastanza obbligata nel momento in cui a Torino non esisteva ancora una scena swing e non conoscevo nessuno che ballasse lindy hop! Dopo moltissimi anni di danza modern jazz e contemporanea ero approdata ai balli swing perché, appassionata di musica nera d’annata, avevo scoperto che in Europa esistevano diversi festival dedicati e avevo iniziato a frequentarli. Pian piano le cose a Torino sono cambiate e di sicuro un grosso aiuto è arrivato dal Jazz Club che ha iniziato a organizzare serate dedicate alla musica swing e alla social dance nell’inverno 2011. In tutti questi anni ho sempre continuato a insegnare e ho visto la scena swing crescere e trasformarsi e la città rispondere in maniera entusiasta. Oggi si può ballare più o meno ogni sera a Torino! Dopo varie esperienze e collaborazioni ho infine fondato la scuola Feel Good Swing assieme al mio compagno di ballo e di vita Alessandro Rossi. Man mano la squadra si è allargata e siamo molto contenti del percorso fatto fin qui e dell’atmosfera rilassata e inclusiva che si respira in Feel Good Swing. D’altronde abbiamo scelto questo nome proprio perché secondo noi la cosa più bella e importante da trasmettere attraverso i balli swing è la voglia di divertirsi, di stare assieme e di stare bene!

 

 

Una delle cose che colpisce dell’ambiente swing è l’aspetto sociale, la comunità che si crea intorno e la straordinaria varietà di persone attratta dalla musica e dal ballo. Un fenomeno che sembra essere un po’ in controtendenza visti i tempi dominati per lo più da relazioni alimentate sui social network. Quali tipologie di persone si iscrivono ai corsi?

 

Il balli swing hanno un pubblico estremamente trasversale: si passa dallo studente universitario, al professionista, dall’appassionato di musica jazz a chi la musica jazz non l’ha mai ascoltata prima. Di sicuro alla base dello strepitoso successo di questo ballo sta proprio l’inclusività e la socialità che è in grado di generare.   Oltre ai corsi, sia durante la settimana che durante i fine settimana, ci sono moltissime occasioni di ballo e la gente sa che andando alle serate social incontrerà persone che già conosce e avrà occasione di fare nuove amicizie con cui condividere un interesse comune. Questo aspetto aggregante di sicuro è in controtendenza rispetto alla solitudine dei nostri tempi. Ballare assieme presuppone un contatto diretto e fisico che non ha niente a che vedere con le chat sui social! Forse è anche una sana reazione a un modo di vivere in cui viene a mancare il senso di comunità. Così è naturale comprendere come la socialità offerta dal mondo swing venga apprezzata e sostenuta dalle persone.

 

E per chi volesse cimentarsi nel lindy hop? Bisogna avere esperienze pregresse o ci si può “buttare” anche senza esperienze di ballo?

 

Esistono campioni del mondo di lindy hop che raggiungono dei livelli di qualità e raffinatezza del ballo altissimi. Detto ciò il lindy è nato come ballo di strada e come ballo sociale, quindi può essere imparato e goduto anche da totali principianti! A gennaio partono due corsi proprio dedicati ai principianti tenuti da me e Alessandro. Tutti i curiosi possono partecipare alle lezioni di prova che saranno giovedì 11 e sabato 13 gennaio. Tutte le informazioni si trovano sul nostro sito www.feelgoodswing.com, ma gli interessati ci possono anche contattare via email (info@feelgoodswing.com) o sulla nostra pagina facebook (www.facebook.com/feelgoodswing/). Venite e capirete le ragioni di tanto successo!

 

Giuliana Prestipno

La finestra sul cortile

La geografia della bellezza 

sono molto contenta questa settimana di affrontare il tema della cosmetologia ed erboristeria. Io sono una grande appassionata di erboristeria, fitoterapia e naturalmente di cosmetici soprattutto quelli naturali. Mi piace fare i cosmetici da me, diciamo che è il mio hobby preferito, mi diletto a sperimentare sempre nuove ricette di bellezza e quindi faccio continuamente ricerche, una volta andavo in biblioteca e prendevo appunti, adesso naturalmente c’è il web! È grazie ad internet che anni fa ho conosciuto una cosmetologa bravissima che ho cominciato a seguire assiduamente ed oggi posso finalmente scrivere di lei, della dottoressa Barbara Bertoli. Barbara Bertoli, torinese, è una farmacista, cosmetologa specializzata in Scienza e tecnologia dei prodotti cosmetici. In venti anni di collaborazione con aziende cosmetiche e farmaceutiche internazionali ha maturato una profonda conoscenza del cosmetico e della pelle. Si occupa costantemente di ricerca e divulgazione, per diffondere un nuovo paradigma della cosmetica e, proprio per questo il suo impegno è esteso e continuo.  Barbara Bertoli è una viaggiatrice curiosa che ama immergersi nelle culture locali per cercare all’origine l’incredibile biodiversità che la natura ci offre. Luoghi in cui l’uso tradizionale delle piante, dei fiori e delle essenze più pure e incontaminate dalla chimica, diventa fonte d’ispirazione per elaborare un nuovo concetto di bellezza e di consapevolezza cosmetica, più completo ed evoluto. Nel 2015 è uscito il suo libro “La geografia della bellezza”, che io personalmente ho letto 2 volte e mi è piaciuto tantissimo, un giro del mondo attraverso i continenti e attraverso i rituali di bellezza dei popoli passando dalle proprietà dell’olivo utilizzato in Grecia, al rosmarino e mandorle dell’Italia, dal miele impiegato in Egitto alla vaniglia del  Madagascar. E poi gli oli essenziali utilizzati in Oriente e il bagno onsen giapponese, arrivando poi nella moderna America. Il tutto corredato da ricette di bellezza facilmente replicabili, ma non voglio svelare tutti i Paesi trattati nel libro e dei popoli protagonisti, i cui  preziosi consigli costituiscono un vero patrimonio da tramandare e divulgare. Oltre ad aver scritto il libro “Geografia della Bellezza” edizioni Ultra di Castelvecchi, ha scritto su cosmpolitan.it e alfemminile.com, è beauty writer per importanti portali web collaborando con chi ama la natura nella sua forma cosmetica come Egocentrica di Tessa Gelisio. La dottoressa Bertoli è intervenuta in programmi di RAI UNO come esperta cosmetologa, ed è titolare del corso “Bellezza, benessere e cura della pelle” presso l’Università Popolare di Torino (ente di formazione riconosciuta dal MIUR) e di corsi di cosmetologia presso accreditate scuole di estetica e make up. 

 

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MELISSA e i suoi 65 passi dalla Mole

Se penso ad un posto che mi fa stare bene è di solito un’erboristeria. Ho scoperto Melissa su internet perché è rivenditore di molti marchi che avevo sempre acquistato online. Perciò la prima volta che mi sono recata da Melissa Erboristeria ero in missione approvvigionamento e mi ero equipaggiata di una lunga lista di prodotti da provare ed acquistare… Avevo letto che era a 65 passi dalla Mole e infatti dopo aver attraversato quella che è stata la mia zona universitaria, mi sono ritrovata non in un semplice negozio, ma in una sorta di salotto incantevole ed accogliente! Vanta una fornitura di prodotti infinita, ci si puo’ trovare davvero qualsiasi cosa ed ovviamente è tutto rigorosamente naturale e/o bio. È davvero un luogo speciale, l’arredamento e’ accuratamente vintage, nulla è lasciato al caso, ogni dettaglio è curato nei minimi particolari, carta da parati vintage, credenze colme di barattoli con infusi, aromi speziati, profumi di una volta, insomma una miscellanea di sensazioni olfattive che riportano ai ricordi.  Girovagare tra gli scaffali e trovarci di tutto: tisane, caramelle, cioccolato, libri, profumi, scatole, fotografie, trucchi, sali da bagno e tanto altro ancora. Questo è il segreto del successo di questa bottega. Un angolo fatto di dettagli, di piccole cure, di particolari dove anche solo un sacchettino di caramelle alla rosa può letteralmente addolcire la giornata.

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Il Presepe Meccanico 2017 dell’oratorio Michele Rua

Disposto su un ‘area di 35 mq, il Presepe meccanico si ispira fedelmente alla Palestina del tempo di Gesù e ai personaggi tipici dell’epoca. Si possono vedere castelli, torri, grotte, torrenti ed il mulino accompagnati da artigiani all’opera, contadini, animali da cortile, il tutto inserito in uno splendido ambiente da ammirare. I visitatori possono osservare il vasaio, la filatrice e il pastorello che attorniano la grotta della Natività insieme alla presenza di tutte le altre figure e l’accampamento romano, tutti realizzati nei minimi dettagli che creano un’atmosfera affascinante. È sicuramente un’opera unica nel suo genere, l’allestimento è curato con estrema attenzione e non è solo la meccanica che rende unico il Presepe, ma anche la fantasia dei realizzatori che riescono a strabiliare il visitatore. Quest’anno ad accogliere il visitatore si aggiungono figure di pastori (ad altezza d’uomo) che lo accompagnano verso la meta. Per rendere più belle le figure esterne al presepe quest’anno si sono aggiunti i tre re Magi a grandezza naturale. Inoltre hanno realizzato la Natività, sempre a grandezza d’uomo che verrà collocata in chiesa. La creazione del Presepe meccanico dell’oratorio Michele Rua è frutto di un’idea nata anni fa da alcuni salesiani cooperatori. L’associazione salesiani cooperatori è un’associazione creata e ardentemente voluta da Don Giovanni bosco.  Il Presepe meccanico ed il Laboratorio uomini del Michele Rua di Torino non è nato solo per stupire, ma è l’occasione per ritrovarsi in famiglia o con amici, un momento di incontro e di condivisione.

Periodo:8 dicembre 2017- 14 gennaio 2018

Orario: giorni festivi 9:00-12:30  15:30-19:00 giorni feriali 15:30-19:00

Dove: via Paisiello 44 TORINO 

INGRESSO GRATUITO 

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Sabina Carboni