Dall Italia e dal Mondo- Pagina 29

ITALIA QUART'ULTIMA IN EUROPA PER L'USO DI INTERNET

I dati Eurosat rilevano che gli italiani si sono piazzati solo quart’ultimi in Europa per l’impiego di internet, con il 74% di connessioni rispetto all’85% degli europei. Il web è utilizzato dagli italiani soprattutto per le email (57%), per vedere video (52%) e per i social network(46%). Gli  europei nel complesso usano internet in particolare per la posta elettronica (73%), poi per cercare informazioni su beni o prodotti (70%), per guardare video (57%) e social (56%).Sono i danesi  i più in rete d’Europa  con il 98% di utenti tra i 16 e i 64 anni) seguiti da lussemburghesi (97%) e olandesi (95%), invece i più disconnessi dei 28 Paesi sono i bulgari (65%).

AMBIENTE. ANCONA E LE MARCHE, NUOVA VITA PER GLI OLI INDUSTRIALI USATI

La tappa marchigiana del road show CircOILeconomy, promosso dal CONOU insieme a Confindustria, ha fatto il punto sulle opportunità, per gli imprenditori, di ottimizzare i sistemi di raccolta degli oli industriali usati

 L’incidenza ambientale ed economica del riutilizzo dei materiali di risulta delle attività industriali è oramai un dato di fatto, e non fanno eccezione gli oli usati che originano da molte lavorazioni che si svolgono all’interno delle imprese. Per questo è opportuno svolgere un’azione di aggiornamento costante dei detentori di questo rifiuto circa le norme e le tecniche che permettono un corretto stoccaggio dell’olio. Un intervento che, se per un verso supporta i produttori nell’adempimento delle regole vigenti, dall’altro contribuisce a rendere più efficiente il processo di rigenerazione incrementando la resa di produzione di olio base rigenerato. Su questo principio si basa l’iniziativa dal titolo CircOILeconomy, fortemente voluta dal CONOU, il Consorzio Nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali usati, e Confindustria. Dopo Rimini, Mestre e Brescia l’iniziativa ha fatto tappa ad Ancora, presso la sede della rappresentanza di Confindustria Marche Nord, dove i referenti tecnici del Consorzio e i rappresentati di Confindustria hanno accolto molti imprenditori titolari di aziende del territorio detentrici degli oli usati. I dati diffusi nel corso della manifestazione offrono efficacemente la misura dell’attività svolta sul territorio. Nel 2018, infatti, nel distretto di Ancona, sono state raccolte circa 1.547 tonnellate di olio usato industriale. Per quanto riguarda il territorio regionale va anche citato il dato riferito al distretto di Pesaro/Urbino che si attesta su una raccolta che, per il 2018, è stata di 229 tonnellate. Tutto il materiale raccolto è stato avviato al riciclo tramite rigenerazione, con un conseguente e significativo risparmio sulle importazioni di petrolio del Paese e sulle emissioni di CO2. Negli ultimi anni, rispetto ai quantitativi di olio lubrificante usato immessi al consumo in Italia, il peso del settore industriale ha assunto un’importanza crescente. Per questo motivo il CONOU ha dato vita a una campagna itinerante che sta attraversando l’Italia per incontrare le imprese proponendosi come loro interlocutore privilegiato. Il roadshow, grazie alla collaborazione con le rappresentanze regionali di Confindustria, proseguirà nei prossimi mesi il suo itinerario nelle principali città italiane (www.conou.it). Per le imprese, diventare ‘ambasciatrici’ di buone pratiche di gestione si traduce anche in vantaggi sotto forma di brand reputation, affidabilità e nuove opportunità di business: praticare scelte attente all’ambiente e alla sostenibilità economica facilita i rapporti con le istituzioni, la pubblica amministrazione e le associazioni del settore. “Il tessuto produttivo delle provincie di Ancona e Pesaro – ha dichiarato Salvatore Giordano, Direttore Generale di Confindustria Marche Nord – è rappresentato in larga parte da industrie manifatturiere, in particolare del settore meccanico, che continua ad essere un grande utilizzatore di oli usati industriali. Abbiamo dunque accolto con grande piacere la tappa marchigiana del roadshow promosso da Conou perché ne condividiamo gli obiettivi: anche a livello locale come Confindustria siamo in prima linea su tutti i temi che riguardano l’economia circolare perché riteniamo che sia sempre più un fattore centrale per il benessere diffuso ma anche per la competitività delle industrie, come ha recentemente affermato Claudio Andrea Gemme (Presidente del Gruppo Tecnico Industria e Ambiente di Confindustria e firmatario del Protocollo d’intesa con Conou). Contribuire a formare gli imprenditori che hanno a che fare con un rifiuto complesso da gestire, eleverà ulteriormente l’efficacia di una filiera già molto performante”. “È inscritta nel DNA del Consorzio l’esigenza di promuovere, in ogni ambito della vita civile, l’idea che solo procedendo ad una profonda rivoluzione culturale ispirata ai principi della sostenibilità economica e ambientale delle attività industriali si possa sperare di consegnare alle prossime generazioni un ecosistema ancora vivo e vivibile – sottolinea Riccardo Piunti, Vice Presidente del Conou -. Con CircOILeconomy noi vogliamo contribuire a tradurre in fatti concreti questo passaggio di visione, in particolare per quanto riguarda gli oli industriali usati, nella certezza di trovare accoglienza e rispondenza nei nostri interlocutori che possono individuare nel CONOU il giusto alleato per trarre vantaggio da una corretta gestione di questo rifiuto”.

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Il CONOU

Il CONOU, che raggruppa 72 imprese di raccolta e 3 impianti di rigenerazione, dal 1984 a oggi ha raccolto 5,7 milioni di tonnellate di olio lubrificante usato, ne ha avviato a rigenerazione 5,1 milioni consentendo un risparmio sulle importazioni di petrolio di circa 3 miliardi di euro. Sotto la guida del Presidente Tomasi dal 2003, ha continuato la sua progressione d’eccellenza diventando un esempio virtuoso di economia circolare non solo a livello nazionale. Solo nel 2018 sono state raccolte oltre 189mila tonnellate di lubrificante usato, ancora una volta in crescita   rispetto all’anno precedente. Numeri che, in questo ambito, collocano l’Italia ai massimi livelli europei e internazionali. In particolare, i risultati ottenuti nel campo della rigenerazione assegnano al nostro Paese la leadership del processo di ri-raffinazione di oli usati anche in virtù della presenza di alcune importanti realtà industriali tecnologicamente all’avanguardia nel settore. Tutti questi traguardi, sono stati raggiunti anche grazie a una continua e capillare attività di formazione e informazione svolta sul territorio. In 35 anni di attività, infatti, il Consorzio ha sempre investito energie e risorse nella formazione di tutti gli attori coinvolti con lo scopo di sensibilizzare e sostenere ogni anello della catena in grado di contribuire al successo della filiera. 

Nel 2050 in Russia ci saranno solo musulmani

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re
Moschee e minareti al posto di chiese e cupole? La Russia si avvia davvero verso una piena islamizzazione?
C’è preoccupazione ai vertici del Cremlino e nella Chiesa ortodossa dopo aver appreso i risultati di una ricerca secondo cui il 30% della popolazione russa sarà islamica entro i prossimi 15 anni. Lo sostiene il presidente del Consiglio dei muftì di tutta la Russia, Ravil Gainutdin, che cita le previsioni di esperti. I fedeli dell’islam aumenteranno molto per ragioni demografiche, economiche e migratorie. Le repubbliche del Caucaso e del Tatarstan sono quelle a maggioranza islamica e sono anche quelle che hanno i più alti tassi di natalità nella Federazione russa. Le stime più recenti indicano che i musulmani in Russia sono tra i 14 e i 20 milioni di persone, tra il 10 e il 14% dei residenti, che nel 2018 erano quasi 150 milioni. Il cambiamento demografico, prevedono i demografi, è già in atto e non sarà senza conseguenze. La crescita degli islamici porterà alla costruzione di decine di nuove moschee nelle maggiori città del Paese. Ma la guida spirituale dei musulmani sostiene anche che i russi cristiani sono destinati a scomparire entro il 2050. Non parla di dati esagerati neppure il presidente della Commissione patriarcale per la protezione della famiglia e dell’infanzia, il religioso ortodosso Dimitri Smirnov, secondo cui lo scenario sarà più o meno così: i musulmani metteranno al mondo più figli. I ceceni, per esempio, hanno otto figli per famiglia. E così facendo, dopo il 2050 ceceni, arabi, daghestani e ingusci vivranno in Russia al posto dei cristiani.
 

Il genocidio dei cristiani

FOCUS INTERNAZIONALE / STORIA    di Filippo Re
Siamo sicuri che il genocidio degli armeni sia avvenuto in Turchia solo tra il 1915 e il 1916? Quel biennio di atrocità è stato un evento isolato? No, rispondono due storici israeliani, la tragedia cominciò nell’Ottocento e proseguì fino agli anni Venti del nuovo secolo. Si trattò di un vero progetto di “decristianizzazione” per creare un nuovo Stato islamico senza cristiani, fu pianificato dal sultano Abdul Hamid II e in seguito dai Giovani Turchi e dallo stesso Ataturk, fondatore della nuova Turchia repubblicana che ancora oggi nega il genocidio. La storiografia esistente sul genocidio turco degli armeni si arricchisce di un nuovo studio che intende sottolineare che il piano di sterminio di armeni, assiri e greci nacque verso la fine dell’Ottocento per protrarsi fino ai primi anni della nuova Repubblica turca. Non fu pertanto un atto isolato tra il 1915 e il 1916 ma parte di un più ampio attacco ottomano e repubblicano contro i cristiani tra il 1894 e il 1924. E’ questa la tesi riportata nel libro “Il genocidio dei cristiani, la guerra dei turchi per creare uno Stato islamico puro” (Rizzoli), degli storici israeliani Benny Morris e Dror Ze’evi, dopo ricerche durate quasi dieci anni negli archivi turchi, tedeschi, inglesi, americani e francesi. Un’opera monumentale, 800 pagine, che documentano nei dettagli l’annientamento delle comunità cristiane dell’Impero, armeni in particolare, ma anche assiri e greci, deportati e uccisi con intere famiglie mentre chiese e scuole cristiane venivano date alle fiamme. Una follia omicida che andava attuata subito perchè, secondo i turchi, le minoranze cristiane erano in grado di mettere in pericolo l’unità dello Stato attraverso rivolte appoggiate e armate da nazioni straniere. Gli armeni erano in sostanza considerati una quinta colonna nell’Impero agonizzante, pronta ad aiutare i nemici dei turchi e pertanto da eliminare. Con questo pretesto gli Ottomani misero in atto un piano di pulizia etnica ideato dal sultano Abdul Hamid II nell’ultima decade dell’Ottocento, proseguito dal movimento dei Giovani Turchi e dal governo repubblicano di Ataturk. Tra il 1894 e il 1924 si contarono tra il milione e mezzo e i due milioni e mezzo di cristiani uccisi da turchi, curdi, ceceni e arabi in nome dell’islam e di una terribile pulizia etnica. I massacri compiuti contro i cristiani non si possono spiegare solo con la volontà del sultano di reprimere con violenza le rivolte delle minoranze o ritenere il genocidio armeno del 1915 un terribile crimine provocato dal contesto bellico e ancora considerare la pulizia etnica del 1919-1924, che ha provocato centinaia di migliaia di morti, come una conseguenza della sanguinosa guerra turca di liberazione nazionale. Gli autori del libro non attribuiscono le atrocità compiute a un’unica ideologia aberrante o a un singolo dittatore perchè, secondo la loro tesi, l’eccidio degli armeni avvenne sotto regimi diversi (un sultano, i Giovani Turchi e i nazionalisti di Ataturk) e fu unito da un orrendo filo rosso, annientarli comunque e sempre. Quei trent’anni segnarono l’inizio di un autentico progetto di sterminio per liberarsi definitivamente dei cristiani e fondare uno Stato puro e compatto dal punto di vista religioso. “L’indagine condotta, scrivono Benny Morris e Dror Ze’evi, ci ha mostrato in che modo i turchi, prima sotto Abdul Hamid II, poi sotto i Giovani Turchi e infine sotto Ataturk, siano arrivati a considerare i cristiani d’Anatolia un pericolo per la sopravvivenza dello Stato, perchè abbiano stabilito di sbarazzarsi di loro e come abbiano portato a termine il proprio proposito in un processo durato tre decenni”. Pertanto i tre periodi storici non devono essere isolati proprio perchè sono saldamenti legati dall’obiettivo unico di arrivare allo sterminio dei cristiani. “Dall’analisi delle fonti, aggiungono i due storici, risulta chiaro che distaccare questi tre eventi contribuisce soltanto a offuscare i contorni di quel progetto unitario elaborato dai turchi ed evolutosi nel tempo”. Gli autori non risparmiano pesanti accuse neanche a Mustafa Kemal Ataturk, fondatore della Turchia moderna e laica, che volle l’eliminazione degli ultimi armeni rimasti in vita e la cacciata dall’Anatolia di centinaia di migliaia di greci e di assiri. Sconcertanti ma assai significative risultano le numerose testimonianze di diplomatici occidentali e missionari secondo i quali Ataturk affermò più volte, davanti a loro, che sognava una Turchia senza cristiani. Gli autori del libro sono Benny Morris, noto storico israeliano che insegna all’Università Ben-Gurion del Negev di Beersheba ed è autore di molti libri sul Medio Oriente e sulla questione israelo-palestinese e Dror Ze’evi che insegna nella medesima Università dove ha fondato il dipartimento di studi sul Medio Oriente. Non solo Ankara continua a negare il genocidio ma un comitato di esperti dell’Istituto nazionale di storia turca è al lavoro per preparare 25 volumi al fine di confutare le terribili accuse rivolte alla Turchia.

Trentenne uccide la zia a coltellate

DALL’EMILIA ROMAGNA
E’ stato convalidato l’arresto del trentenne Mohammed El Fathi che  venerdì  a Finale Emilia avrebbe ucciso con numerose coltellate la propria zia, all’interno dell’abitazione della donna. La detenzione cautelare nel reparto ospedaliero di diagnosi e cura, per i problemi di natura psicologica dell’indagato, è stata disposta dal giudice. 

La Siria e il "disimpegno" Usa

FOCUS INTERNAZIONALE    di Filippo Re
É un ritiro per restare quello degli americani che difficilmente se ne andranno dal Levante, soprattutto ora che nella regione sono presenti gli eserciti più potenti del mondo. E comunque, in caso di ritiro totale dalla Siria, sposteranno la loro presenza militare nelle basi nel vicino Iraq da cui potranno tranquillamente monitorare la situazione in tutta l’area
Per il momento restano 200 soldati americani nel teatro siriano per far felici gli alti comandi militari, scossi e preoccupati dalla iniziale decisione di Trump di ritirare quanto prima i marines dalla Siria. Un annuncio ritenuto affrettato e prematuro perchè, nonostante i proclami del presidente americano che sostiene di aver sconfitto al 100% gli estremisti islamici, l’Isis e il resto della galassia islamista rimangono una significativa minaccia malgrado la totale sconfitta militare. Un rapporto degli osservatori dell’Onu ha subito smentito l’entusiasmo di Trump facendo notare che, secondo le loro stime, tra Siria e Iraq vi sono ancora circa 15.000 combattenti, di cui almeno 3000 sono stranieri, pronti a resistere e a reagire con attacchi armati e attentati. Gran parte dei miliziani si starebbero trasferendo nei deserti siriani e iracheni per unirsi ad altri gruppi estremisti sunniti con l’obiettivo di sopravvivere e risorgere per tornare a colpire con la guerriglia. Le cifre della ferocia del defunto Califfato, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), sono impressionanti: oltre 6000 condanne a morte per impiccagione e decapitazione, bambini compresi, sono state eseguite dall’Isis in Siria in cinque anni. Le province coinvolte sono quelle di Deir ez Zor, Raqqa, Aleppo, Homs, Hama, Damasco e Hassakè. A Raqqa è stata rivenuta, un anno dopo la riconquista della città, la più grande fossa comune dell’Isis con oltre 3500 corpi sepolti. Ma non è l’unica, altre fosse comuni sono state individuate nei pressi dell’ex roccaforte siriana del Califfato. Secondo il Pentagono il movimento jihadista è stato tutt’altro che spazzato via e sarebbe in grado di far rinascere almeno in parte il Califfato nel giro di un anno. In una situazione così ingarbugliata l’Isis potrebbe riorganizzarsi. Un dossier presentato dal Mossad, i servizi segreti di Israele, sostiene che l’ex Stato islamico può ancora contare su 150-200.000 tra “combattenti, simpatizzanti e potenziali terroristi islamici” nel mondo. Non meno preoccupante per gli israeliani è la presenza militare delle forze iraniane in Siria che, stando a fonti militari di Gerusalemme, comprenderebbe tra 2000 e 5000 membri della Forza Quds e 90.000 miliziani siriani sottoposti al comando iraniano. Ma sul terreno i nodi da sciogliere sono ancora tanti. Dopo la caduta di Baghuz, l’ultima roccaforte delle bandiere nere dell’Isis, nella Siria sud-orientale, restano aperte le questioni della regione curdo-siriana e di Idlib, entrambe assai complicate e con possibili ripercussioni politiche internazionali. Nonostante siano stretti alleati russi e turchi sembrano non fidarsi troppo uno dell’altro. Il futuro della Siria è visto in modo diverso da Mosca e da Ankara dopo l’annunciato ritiro americano ma per il momento l’importante è non pestarsi troppo i piedi. Sia lo zar che il sultano hanno ambizioni imperiali nel Vicino Oriente e forti interessi geostrategici. Al recente vertice di Sochi sul Mar Nero i russi hanno soddisfatto solo in parte le richieste della Mezzaluna. Ankara pretende una zona di sicurezza anti-curda nel nord-est lungo la frontiera con la Siria. Putin, alleato di Assad, non è del tutto contrario ma ritiene necessario il consenso del rais di Damasco, restio però a concedere una fetta del proprio territorio al nemico turco e forte del sostegno dell’ayatollah Khamenei che pochi giorni fa ha incontrato Assad a Teheran. Non si esclude tuttavia che si arrivi a un compromesso barattando magari la striscia di sicurezza con qualche concessione turca a Idlib verso russi e siriani. Dal nord-est del Paese fino a Manbij e Idlib nel nord-ovest, la Siria sembra un grande cantiere avviato verso la spartizione tra grandi potenze e potenze regionali. Le città di Manbij e Idlib sono lo specchio della divisione del territorio in sfere di influenza. La tensione è palpabile a Manbij, tra Aleppo e la riva occidentale dell’Eufrate, nel nord del Paese, non lontano dal confine con la Turchia, dove sono presenti truppe americane, russe, turche e siriane a cui si aggiungono le milizie curde che amministrano il centro abitato. A metà gennaio un kamikaze dell’Isis si fece esplodere davanti a un ristorante uccidendo quattro militari americani e undici civili. La città di Manbij era stata occupata nel 2013 dai jihadisti dello Stato islamico e liberata tre anni fa dalle forze curde appoggiate da truppe speciali e raid aerei americani. I turchi minacciano di occupare Manbij e chiedono che i curdi si ritirino a est dell’Eufrate ma i russi frenano i piani di Erdogan. Le controffensive curde contro l’Isis hanno permesso ai combattenti peshmerga non solo di cacciare i soldati del Califfo ma anche di occupare un territorio ben più ampio della tradizionale regione curda. La preoccupazione maggiore di Erdogan è che l’allargamento del territorio curdo in Siria possa rafforzare l’obiettivo di puntare a una nazione curda a cavallo tra Turchia, Siria e Iraq. Ben presto i curdi dovranno vedersela con il regime di Damasco che intende riprendere il controllo delle zone orientali ricche di petrolio e gas e con le minacce di intervento militare provenienti dalla Turchia. Idlib è l’altra città, a nord-ovest della Siria, nelle mire di russi, turchi e iraniani. Ma qui bisogna fare i conti con le fazioni di al Qaeda che hanno costituito una sorta di emirato e controllano un’ampia fetta del governatorato di Idlib, fuori dal controllo dei governativi siriani e sotto l’influenza dei turchi e di gruppi loro alleati. L’improvvisa avanzata dei qaedisti sta mettendo a rischio centinaia di migliaia di civili sostenuti dagli aiuti di varie organizzazioni umanitarie. Ma non c’è pace neppure ad Aleppo, i cui quartieri occidentali vengono ancora raggiunti da missili provenienti dalla zona di Idlib mentre nella parte orientale di Aleppo, rasa al suolo dalla guerra, la ricostruzione stenta a decollare. Una situazione che continua preoccupare la minoranza cristiana sempre più intenzionata a lasciare la Siria in cui i cristiani oggi non sono più del 2-3% mentre prima della guerra erano circa il 10% della popolazione.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 
 
 
 

La "mezzaluna" del croissant e il "kapuziner" viennese

Correva l’anno 1683 quando Vienna – capitale dell’Impero d’Asburgo – venne circondata dalle truppe ottomane che, partite da Istanbul, serravano l’Europa in una morsa dalla  Spagna fino ai Balcani. La battaglia che ne conseguì  divenne il punto di svolta, a favore degli europei, nelle guerre austro-turche, segnando l’arresto della spinta espansionistica ottomana nel continente.

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E questa, come s’usa dire, è la storia.  L’evento fu accompagnato da tante leggende e alcune di queste sono davvero curiose. Le due parti in lotta basarono le sorti dello scontro anche sulla disponibilità delle scorte alimentari. L’assediato cercava di demoralizzare gli assedianti sfoggiando le provviste come se ne disponesse in abbondanza mentre gli assedianti,  a loro volta, per sfiancare l’avversario, cercavano di  tagliare  le vie di rifornimento ai generi alimentari di prima necessità. Si narra che i viennesi, per intaccare il morale dei turchi, s’ingozzavano platealmente con paste a base di burro e farina.  Erano i kipferl , gli antenati dei croissant, modellati a mezzaluna, molto simili al simbolo delle insegne arabe. Una scelta, quella della forma, voluta dai fornai viennesi per sbeffeggiare le insegne ottomane e festeggiare lo scampato pericolo e la croissant-2vittoria. Un’idea tanto semplice quanto straordinaria fino al punto di  condizionare abitudini e gusti culinari di mezza Europa. La ricetta e il nome del croissant ( “crescente”, come la luna)  per come è giunta a noi  trae origine dalla Francia dove, nel 1736,  un ufficiale austriaco –  August de Zong –  importò l’arte della pasticceria viennese, compresa la preparazione dei famosi kipferl, aprendo una Boulangerie Viennoiseal numero 92 della parigina rue de Richelieu. Un vero successo va comunque sudato e il croissant dovette attendere un bel po’ ( fino al 1891)  prima di essere menzionato in un libro di ricette e ancor oltre (nel 1938 ) per fare la sua comparsa ufficiale sul testo fondamentale della cucina francese: la croissant3Larousse gastronomique. Così, con tenacia e perseveranza, sbocconcellato o divorato in quattro e quattr’otto,  il croissant si è  fatto largo nella parte più dolce dell’arte culinaria. Le leggende legate alla battaglia di Vienna non si esauriscono nei panetti a mezzaluna ma ci raccontano anche di come i turchi , ormai in fuga, si lasciarono alle spalle le loro scorte di caffè. Un ufficiale polacco di origini ungheresi – Jerzy Franciszek Kulczycki –  apprezzando l’aroma dei chicchi che bruciavano negli incendi della  battaglia, decise di utilizzare  i sacchi di caffè abbandonati dall’esercito ottomano per aprire la prima caffetteria viennese, una rarità nell’Europa del tempo. Altra storia è quella che indica lo scontro consumatosi sul Monte Calvo come un’occasione in qualche modocroissant1 decisiva anche per l’invenzione del “cappuccino”, intestandola a Marco da Aviano, frate dell’ordine dei cappuccini, inviato dal Papa a Vienna con l’obiettivo di convincere le potenze europee ad una coalizione contro i Turchi che stavano assediando la città. Pare che durante il soggiorno viennese il religioso entrò nella già citata caffetteria e, gustando un caffè dall’aroma piuttosto deciso, chiese un po’ di latte per addolcirlo . Chi lo servì esclamò “Kapuziner!” , guardando lo strano intruglio bevuto dal frate. Vero o falso, storia o leggenda che sia, resta un fatto: prendere al mattino un cappuccino – o anche un caffè – con un croissant , equivale ad un ottimo avvio di giornata.

Marco Travaglini

Tra giallo e realtà. La morte sospetta di Imane Fadil

Nota: l’artIcolo e’ stato chiuso nei giorni scorsi prima dei recenti sviluppi 
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Si apre un nuovo giallo. Quello di Imane Fadil che, fino alla sua tragica morte, era sconosciuta ai più. Nessuno ricordava che fu coinvolta nei Bunga Bunga di celebre memoria

Era una modella, con brevi apparizioni in tv, in programmi di scarsa audience, ma con il sogno di diventare giornalista sportiva. Più di lei era diventata celebre Ruby per le inchieste che l’avevano coinvolta assieme all’ex premier Silvio Berlusconi per alcune millantate parentele con il presidente Mubarack e alcuni apericena. La morte sospetta, a soli 34 anni, tinge di giallo la sua scomparsa e si fa largo l’ipotesi di un possibile omicidio. A questo punto, i riflettori si riaccendono su di lei perché c’è la supposizione che sia stata avvelenata e si torna a scandagliare la sua vita, ma molto di più la sua morte e sul come ciò sia accaduto. La ragazza viveva con il terrore di essere spiata e infatti diceva in giro, alle sue amiche “Mi spiano” o “mi stanno avvelenando”. Era una fobia, ma la sua morte fa aprire un’inchiesta alla Procura. Imane viene ricoverata alle porte di Milano, nella clinica Humanitas di Rozzano, il 29 gennaio. Da accertare perché abbia scelto di farsi ricoverare proprio all’Humanitas (l’ospedale fondato da Gianfelice Rocca di Techint) e chi l’abbia accompagnata al Pronto soccorso. I sintomi riportati nell’anamnesi vanno dalla spossatezza a forti mal di pancia, gonfiore del ventre, dimagrimento rapido, ma niente di più. Dal referto delle analisi non emergono valori sospetti, tutti i valori sono entro la soglia. Se le analisi di routine non danno riscontri, il 27 febbraio i medici dell’Humanitas chiedono una consulenza al Centro Antiveleni dell’Istituto Maugeri di Pavia per eseguire esami approfonditi in merito alla presenza di 50 metalli. I risultati arrivano per telefono il 1° marzo (per coincidenza, proprio il giorno della morte di Imane). Per il Centro Antiveleni di Pavia non sono presenti in sintesi livelli tossici. Fra sospettare di essere avvelenati e morire per avvelenamento cambia tutto . Seppur tutto rientra nella norma, la Procura non ne è convinta e affida l’autopsia all’anatomopatologa Cristina Cattaneo, il medico legale più conosciuto d’Italia (si è occupata tra l’altro degli omicidi di Yara Gambirasio , Lidia Macchi ed Elisa Claps). L’autopsia, in programma tra mercoledì 20 e giovedì 21 marzo, forse svelerà il mistero. L’altro caso di morti sospette per radiazioni, risale ai tempi delle guerre nei Balcani e agli avvelenamenti per uranio impoverito. La morte di Fadil si tinge di Giallo e la sua salma non può essere avvicinata da nessuno per ordine della Procura.

 

Markale, il "mercato delle stragi" di Sarajevo

Vječna Vatra è la “fiamma eterna”, al centro di Sarajevo, all’angolo tra la Maršala Tita e Fehradija, la via pedonale principale del centro storico. Quella del memoriale alle vittime militari e civili della seconda guerra mondiale e ai partigiani, si dice sia l’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio

E’ un monumento dall’alto valore evocativo. La lapide ricorda una data, il 6 aprile del 1945. Il giorno della liberazione della capitale bosniaca dall’occupazione nazista e della   vittoria di serbi, bosniaci e croati che insieme riconquistarono la libertà. Insieme, uniti come le dita di una mano chiusa a pugno per resistere e colpire sotto le insegne dell’esercito partigiano di Tito. La dimostrazione visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo  degli slavi del sud. Poi, dalla Vječna Vatra si va in direzione del mercato di Markale. La strada è breve: neanche il tempo di tirare il fiato e compare la piazza con i banchi di ferro e di legno del coloratissimo mercato della frutta e della verdura. Come in tutti i mercati c’è un via vai di gente. Donne anziane e ragazze si aggirano con le loro sporte tra cassette colme di patate, cetrioli e zucchine, peperoni rossi e verdi, sedano, mele e pere, gialli limoni, lunghe carote di un’arancio sfolgorante, melanzane dai riflessi violacei, cipolle e lunghe trecce d’aglio. Per non parlare dei funghi e delle varietà di frutta secca. Si rimane storditi dall’effluvio di profumi e dall’esplosione dei colori. Il vociare fitto è la colonna sonora di questo luogo d’incontro dove si chiacchiera, si ascoltano gli inviti dei venditori a comprare i loro prodotti, le domande curiose di chi, prima di scegliere, vuol sapere, soppesare, valutare la convenienza tra la merce e il prezzo. Nei mercati c’è vita e quello di Sarajevo non fa eccezione. Non si dovrebbe far molta fatica ad immaginare cosa poteva essere questo luogo d’incontro durante l’assedio sul finire degli anni ’90, con le poche cose offerte a prezzi da mercato nero, pagate a prezzo d’oro o scambiate per sigarette. Negli occhi di molti si nota ancora quel velo di tristezza e di dolore accumulati negli anni degli stenti e della guerra. In fondo al mercato, lungo la parete, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale. Sì, stragi al plurale, poiché per due volte le granate serbe hanno massacrato i civili in questo mercato, nel cuore antico di Sarajevo. La prima volta, il 5 febbraio del 1994: 67 morti e 142 feriti. La seconda, il 28 agosto 1995, quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio causò la morte di 37 civili e il ferimento di novanta. Adriano Sofri era là, quel giorno di febbraio del 1994. Così lo racconta: “Arrivammo in mezzo alla strage, cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C’ era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano via. C’ era una gamba artificiale, staccata e diritta sul suolo. C’ erano scarpe, è incredibile come le scarpe si spandano nelle carneficine. C’ erano uomini grandi e grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato. Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo compratore di fiori della città. Anche quando mancavano il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i feriti nessuno li ha contati”. E’ necessario, a questo punto, raccontare qualcosa in più, oltre il sangue, l’odore della morte, il fumo tra le macerie. E’ la storia di una seconda violenza, quella del tentativo di rimuovere, nascondere, negare. Quello del mercato di Sarajevo è un caso tra i più clamorosi. Bisogna tener conto, innanzitutto, che quella guerra fu seguita dai media come mai era accaduto prima e come mai accadde dopo. Per diverse ragioni, quella bosniaca fu una guerra che entrò direttamente nelle case di tutti e in tutto il mondo. Le immagini erano in presa diretta, senza filtri. I giornalisti potevano documentarla fino nei minimi particolari sia con i mezzi moderni della tecnologia sia con quelli tradizionali degli inviati che, taccuino alla mano e reflex al collo, rischiavano del loro sulla front line. E poi, diciotto anni fa, i giornalisti erano più liberi di fare il proprio lavoro, non erano “embedded” come al giorno d’oggi. “Embedded” è una parola inglese che, applicata ai giornalisti, equivale a dire che quest’ultimi sono “incastrati” nell’esercito, che si muovono solo con le truppe, con l’impossibilità di informarsi da fonti che non siano quelle dei comandi militari (in uno studio di una università americana , su 750 articoli presi in esame le fonti in “divisa” rappresentavano l’unica voce nel 93 per cento dei casi).   Risulta evidente come questo voglia dire che oggi, agli inviati di guerra, è concesso di vedere, sentire, filmare e trasmettere solo quello che conviene alle gerarchie militari che li hanno autorizzati. In Bosnia la realtà stava lì, sotto gli occhi di tutti. C’erano le prove, sanguinanti e urlanti. Nessuno poteva dire di non sapere. In centinaia sono andati in Bosnia Erzegovina come inviati di guerra”, scrive Azra Nuhefendic. “Giravano ovunque pareva loro, guardavano, toccavano, filmavano, registravano, vivevano con gli accerchiati, soccorrevano le vittime, entravano nelle città assediate, brindavano con i criminali, dibattevano con presidenti, ministri, generali, osservavano i bombardamenti dalle posizioni di tiro. A Sarajevo alcuni giornalisti si appostavano nei luoghi dove, solitamente, i cecchini uccidevano i passanti, o dove si faceva la fila per qualcosa. Sapevano che prima o poi potevano filmare la morte in direttaA volte addirittura veniva offerto “un assaggino”, come è successo al mio collega e amico che lavorava per l’agenzia AP a Belgrado. Mi
raccontava che, quando visitava le posizioni dei serbi sopra Sarajevo, gli offrivano grappa e anche, se gli faceva piacere, di
 “sparare un po’ sulla città”. Nonostante l’enorme mole di testimonianze dei sopravvissuti, un infinità di libri, le innumerevoli fosse comuni scoperte e aperte, le tonnellate di documenti sui quali si basano le sentenze del Tribunale dell’Aja, c’è chi cerca di negare tutto, di ricostruire le vicende con la menzogna, di distorcere le verità documentate. Un cumulo di menzogne per tentare, in modo maldestro ma insidioso, di ricostruire la storia, modificando i fatti e ribaltando le responsabilità. Ecco allora la leggenda macabra – di matrice serba e cetnica – secondo cui i bosniaci musulmani “si uccidevano da soli”. Un “argomento” utilizzato spesso quando si parla del massacro al mercato di Markale. In questo caso le autorità serbe negarono ogni responsabilità, accusando il governo bosniaco di aver bombardato la propria gente per suscitare lo sdegno internazionale e il possibile intervento NATO. Nel caso della seconda strage, l’allora presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, affermò che a Markale “è stato tutto una messa in scena e una frode.” Non solo. Inviò una lettera ai presidenti di Russia e Stati Uniti, Eltsin e Clinton, affermando: “Dalle immagini TV si vede chiaramente che i cadaveri sono stati manipolati, e che tra i ‘cadaveri’ ci sono anche pupazzi di stoffa e plastica.” Un giornalista serbo bosniaco , Risto Džiogo, andò oltre,ricostruendo in modo vergognoso lo scempio del mercato. Nello studio della televisione di Pale, dove lavorava, mise per terra dei pupazzi di plastica e di stoffa sdraiandovisi accanto e fingendo di essere uno dei serbi morti che sarebbero stati utilizzati nella messa in scena a Markale. Ma già dal giorno dopo delle prime granate perse avvio il martellamento del regime di Slobodan Milošević e dei media serbi contro “il complotto bosniaco”, producendo “spiegazioni” e svelando i “retroscena” del massacro. Ovviamente, autoassolvendosi. Nel marzo del 1995, il ministero dell’Informazione della Repubblica di Serbia produsse un documento intitolato “Dossier Markale Market“ nel quale gli autori spiegavano che la “auto-vittimizzazione” dei musulmani proveniva dalla stessa “mentalità islamica” e che faceva parte dell’assioma per cui “è un onore morire per l’Islam”. Puro razzismo e spregevole menzogna, ovviamente. Ma, a forza di menzogne e di propaganda, s’insinua il tarlo.Si citarono documenti segreti, si pubblicarono “prove storiche”. Venne chiamato in causa un testimone ( rigorosamente anonimo) , pronto a giurare che “la notte prima del massacro sul mercato sono stati portati i cadaveri, e che la maggior parte dei feriti musulmani proveniva dai campi di battaglia di Mostar e Vitez”. Ancora Azra Nuhefendic, giornalista bosniaca che vive e lavora a Trieste: “Come a cerchi concentrici queste affermazioni, ripetute varie volte, aumentavano e si diffondevano nel tempo e nello spazioUn quotidiano di Belgrado, “Kurir”, nel 2009, scriveva che i servizi segreti albanesi del Kosovo “ possiedono una copia del piano dei bosniaci che prova la teoria secondo cui la strage di Markale fu tutta una messa in scena del governo di Sarajevo”. Il Presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ogni tanto riattizza il mito e ripete che “la strage di Markale è stata una messa in scena, come anche la strage dei giovani a Tuzla” . Persino Radovan Karadžić, nel suo processo davanti al Tribunale dell’Aja, non perse l’occasione per stare zitto e ripetè quello che diceva all’epoca in cui guidava il governo di Pale: “Il massacro al mercato di Markale 2 è stato organizzato dalle forze governative bosniache, e la maggior parte dei corpi ritrovati erano vecchi cadaveri e manichini“.
Ma davvero i  “bosniaci si sparavano da soli”? In un rapporto sulla seconda strage di Markale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha concluso che “tutti e cinque i proiettili erano stati sparati dall’esercito della Republika Srpska”. Davanti al Tribunale dell’Aja è stato documentato che, nel caso della prima strage. “il colpo di mortaio, senza alcun ragionevole dubbio, è arrivato dalle posizioni dell’esercito dei serbi bosniaci”. L’ex capo degli affari civili delle Nazioni Unite in Bosnia, David Harland, davanti all’Aja , ha testimoniato che lui personalmente aveva suggerito all’allora comandante delle Nazioni Unite, Rupert Smith, “di fare una dichiarazione neutra” per non allarmare i serbo bosniaci, che sarebbero stati in questo modo avvisati degli imminenti attacchi aerei della NATO contro le loro posizioni. “Se avessimo puntato il dito contro i serbi, le truppe dell’UNPROFOR, stazionate nel territorio sotto il controllo dell’esercito serbo bosniaco, potevano essere esposte ad attacchi di rappresaglia”, ha spiegato Harland. Questa versione venne confermata dal generale Rupert Smith davanti al Tribunale dell’Aia e in un suo libro. Smith ha sostenuto che già allora (ndr. 1995) aveva una relazione tecnica secondo cui “al di là di ogni ragionevole dubbio il proiettile era arrivato dalle posizioni dell’esercito serbo bosniaco”. E sui musulmani che si sparavano da soli? Confermando di aver sentito queste voci, dichiarò che “nessuno mai mi ha dato una prova di ciò”. Ovviamente, verrebbe da dire. Intanto, due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić, sono stati processati e condannati, rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo, per l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, comprese le stragi di Markale. C’è chi ancora dà credito al grido di “al lupo, al lupo”, di matrice serba. Dove, evidentemente, il lupo è bosgnacco. E’ ignoranza, pigrizia nel cercare la verità, menefreghismo, voglia di rimuovere tutto perché tanto i morti sono morti ? Può darsi. Ma chi ha responsabilità   politiche, chi fomenta il   nazionalismo, che insiste sulle falsità non lo fa per ignoranza, ma per uno scopo ben preciso. Azra Nuhefendic , in un bell’articolo, parlando di questo, cita George Orwell: “Il linguaggio politico è progettato per rendere la bugia veritiera, l’omicidio rispettabile, e per dare al vento un aspetto solido”. Il mercato, intanto, si sta svuotando. I banchi sono tristi, senza la merce. Un vecchio ritira le sue patate in una cassetta e un altro – avranno la stessa età? – rovista tra gli scarti della verdura alla ricerca di qualcosa da buttar in pentola. E’ un istantanea della città che ha bisogno di normalità ma sente sulle spalle la fatica e la stanchezza del passato.

Marco Travaglini

Industria Felix premia le migliori 53 imprese

Sarà presentata giovedì a Torino l’inchiesta sui bilanci in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: i nomi

Sono 53 le imprese più competitive e primatiste di bilancio di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta a cui giovedì 21 marzo a Torino a La Centrale saranno assegnati riconoscimenti in base all’inchiesta giornalistica realizzata dal nuovo periodico nazionale Industria Felix Magazine, diretto da Michele Montemurro, in collaborazione con l’Ufficio Studi di Cerved Group S.p.A., la data driven company italiana e una delle principali agenzie di rating in Europa, dopo aver analizzato i bilanci dell’anno 2017 (gli ultimi disponibili nel complesso) di poco più di 8.300 società di capitali con sede legale in Piemonte e fatturati/ricavi compresi tra i 2 milioni e i 28,6 miliardi di euro, di circa 2.200 società con sede legale in Liguria e fatturati/ricavi tra i 2 milioni e i 3,7 miliardi di euro, di circa 550 società con sede legale in Valle d’Aosta e fatturati/ricavi compresi tra 500mila e 852 milioni di euro. La circostanza sarà la prima edizione di Industria Felix – Il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta che competono (ingresso su invito), organizzata da Industria Felix Magazine in collaborazione con Cerved, Università LUISS Guido Carli, Associazione culturale Industria Felix, Regione Puglia e Puglia Sviluppo (con un intervento finanziato a valere sulle risorse dell’azione 3.5 del POR Puglia 2014/2020 “Attrazione degli investimenti e interventi di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese pugliesi”), con i patrocini di Confindustria, Comune di Torino e Ansa (media partner), con la partnership nazionale di Banca Mediolanum, Mediolanum Private Banking, Lidl Italia e con quella regionale di Chieffi e Gemma Consulting, Consorzio Sfera e Natulia. «I bilanci del 2017, sulla base dei quali premiamo le migliori imprese di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, indicano che è stato un anno particolarmente positivo soprattutto per le pmi piemontesi, che hanno accresciuto il fatturato a tassi record nell’ultimo decennio (+5,7% tra 2017 e 2016) e sono tornate a livelli di redditività vicini a quelli pre-crisi (Roe a 11,8%)». A dichiararlo è Valerio Momoni, direttore Marketing e Business development di Cerved Group S.p.A., che aggiunge: «D’altra parte alcuni indicatori più sensibili alla congiuntura, come le chiusure volontarie d’impresa e i ritardi dei pagamenti,  evidenziano nell’ultima parte del 2018 segnali di rallentamento o di inversione di tendenza».  Tra gli altri interverranno l’assessore alle Attività produttive del Comune di Torino Alberto Sacco, il presidente dell’Unione Industriale Torino Dario Gallina, il presidente della Piccola Industria di Confindustria Piemonte Gabriella Marchioni Bocca, il presidente di Confindustria Valle d’Aosta Giancarlo Giachino, il responsabile dell’Ufficio studi di Cerved Guido Romano, il Regional manager e il Private banker di Banca Mediolanum Pierpaolo Zoppi e Francesco Mecca, il dirigente del Servizio Incentivi Pmi e Grandi Imprese della Regione Puglia Claudia Claudi, il portavoce del Comitato Scientifico di Industria Felix Filippo Liverini (Confindustria), il presidente del Consorzio Sfera Michele Chieffi e l’amministratore di Natulia Alfonso Ricciardelli. La giornata si aprirà con un convegno organizzato in collaborazione con Uit e Cerved dal titolo “Accelerare la crescita delle pmi”.

La tappa inaugurale di Industria Felix 2019 si è svolta il 5 marzo scorso a Milano, con le conclusioni del presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia. 

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ELENCO 53 IMPRESE DA PREMIARE ED ADERENTI

PIEMONTE

Alessandria: Bianchimpianti srl, Leoni Italy srl, Newlast Italia srl. Asti: Ar srl, Bosca spa, Mia srl Unipersonale. Cuneo: Al bistrot dei Vinai srl, Cantine dei Marchesi di Barolo spa, Ferrero spa, Ferrero Commerciale Italia srl, Ferrero Industriale Italia srl. Novara: Schaeffler water pump bearing Italia srl, Vinzia fratelli spa. Torino: Across srl, Denso thermal systems spa, Dylog Italia spa, Fca Italy spa, Ge Avio srl, Iren Energia spa, Mistral tour internazionale srl, Spazio spa, Synergie Italia – agenzia per il lavoro – spa, Vodafone Italia spa. Verbano: Travi e profilati di Pallanzeno srl. Vercelli: Versoprobo Società cooperativa sociale, Zschimmer & Schwarz Italiana spa. 

LIGURIA

Genova: Almo nature spa, Ansaldo energia spa, Cambi casa d’ aste srl, Docks lanterna spa, F.I.P. Formatura iniezione polimeri spa, Iren mercato spa, P.L. Ferrari & Co srl, Rina spa, Spinelli srl. Imperia: Coseva Soc. Coop., Munters Italy spa. La Spezia: Euroguarco spa, La Spezia container terminal spa, Sanlorenzo spa, Termomeccanica spa. Savona: Continental brakes Italy spa, Doppia-J srl, Infineum Italia srl, Noberasco spa, Coop Liguria Società cooperativa di consumo. 

VALLE D’ AOSTA

Aosta gas srl, Engineering D.Hub spa, Funivie Monte Bianco spa, Hotel Bellevue Cogne srl, Nuova Auto Alpina srl, Technos Medica srl, Thermoplay spa.