Dall Italia e dal Mondo- Pagina 22

Il luogo che non c'è

ASCONA MONTE 2

A partire dall’inizio del ventesimo  secolo, su questa  collina appena sopra Ascona, tra Brissago e Locarno, si riunirono intellettuali e artisti alla ricerca di valori e modi di vita alternativi

 

Ascona è un comune svizzero del Canton ticino, sul lago Maggiore. E’ lì che s’incontra “il luogo che non c’è”, la culla dell’utopia: il Monte Verità. A partire dall’inizio del ventesimo  secolo , su questa  collina appena sopra Ascona, tra Brissago e Locarno, si riunirono intellettuali e artisti alla ricerca di valori e modi di vita alternativi: fra loro c’erano vegetariani, predicatori del ritorno alla vita rurale,sostenitori dell’utilità delle pratiche igeniste all’aria aperta (ginnastica, sole e bagni freddi) e chi propagandava l’anarchia e il libero amore. I fondatori del movimento – Henry Hoendekoven, figlio di un industriale belga, e Ida Hoffmann, femminista e insegnante di pianoforte, arrivarono sulle rive del lago Maggiore dalla Germania. E chi arrivarono a piedi, rifiutando le abitudini di una società sempre più materialistica e cercando – all’opposto –  una vita a contatto con la terra, la natura, la semplicità. Erano dei veri naturisti. A quel tempo il “Monte Verità” si chiamava Monescia; in breve comprarono i terreni e costruirono delle case seguendo stili precisi. All’epoca quassù non c’era neppure l’acqua ma non per  questo si persero d’animo e per tutto il primo ventennio del ’900 il Monte Verità  diventò la “piccola patria” di pensatori, scrittori, artisti, anarchici e di chiunque fosse interessato a sperimentare in completa libertà le proposte rivoluzionarie del gruppo. Vi passarono le intelligenze più vivaci dell’epoca:Carl Gustav Jung, Erich Maria Remarque,Thomas Mann ,André Gide, Herman Hesse. E non mancarono gli anarchici ed i rivoluzionari come Bakunin e Lenin. I valori condivisi erano: emancipazione femminile, vegetarianismo, danza di gruppo (o euritmia, spesso fatta alla luce della luna), abolizione del denaro e pratica del baratto, abolizione delle maiuscole nei testi. Coltivare la terra nudi (ne erano certi) portava benefici al raccolto. Nel giro di pochi anni gli abitanti di Ascona iniziarono a guardare con sospetto a cosa stava accadendo sulla loro collina. Ma non protestarono, si limitarono a chiamare quei nudisti ballerini, agricoltori, musicisti e messaggeri dell’amore libero, con un innocuo nomignolo: i «balabiòtt». Sarà pur bizzarra la storia del Monte Verità e dei suoi “ danzatori nudi” ma, come mi disse un vecchio intellettuale ticinese e storico del lago Maggiore, “ è la bellezza di questa landa libertaria dove le idee si rispettano anche quando non si condividono”.

 

Marco Travaglini

Le due chiese di Montmartre

Una è conosciuta e fotografata, eletta tra i simboli di Parigi per chi visita la città e sale sulla “butte” di Montmartre, la collina prescelta da pittori come Renoir,Toulouse-Lautrec, Suzanne Valadon e Maurice Utrillo

L’altra è una delle più antiche della “ville lumière”, molto amata da chi abita nel quartiere, luogo di culto dove si respira una profonda spiritualità. C’è differenza, e non poca, tra l’imponente e bianca basilica del Sacré Coeur e la più riservata chiesa di Saint Pierre, a fianco della place du Tertre, un tempo ritrovo degli artisti che ne varcavano la soglia per venerare la loro patrona, Notre Dame de Beauté. Su questa collina un tempo simbolo di ardenti passioni e spiriti liberi e ancor oggi, nonostante la pacifica invasione di vocianti comitive di turisti, ricca di fascino e di poesia, i due luoghi di culto sorgono uno vicino all’altro. Al culmine della lunga scalinata o, risparmiando fatica, al termine del tragitto della funicolare, la candida sagoma del Sacro Cuore domina Parigi, essendo il luogo più alto della città dopo la Tour Eiffel. Zola, nel suo “Paris”feuilletons pubblicato su Le Journal dall’ottobre 1897 al febbraio 1898, raccontava così la vista che si gode dalla Basilica: Parigi immensa si stendeva ai suoi piedi, una Parigi limpida e leggera nella chiarità di una sera di primavera precoce. Il mare senza fine dei tetti si stagliava con così singolare nettezza che si sarebbero potuti contare i camini e i trattini neri delle finestre, a milioni. Nell’aria calma i monumenti sembravano navi alla fonda, una squadra fermata nel suo cammino le cui alte alberature brillavano nell’addio del sole”. La basilica, costruita tra il 1875 e il 1914, consacrata cinque anni dopo, nel 1919 (quest’anno ricorre il centenario) è il frutto di un “voto nazionale” promosso dalla chiesa cattolica per “espiare i crimini della Comune di Parigi” e proprio per questo fu edificata nel cuore del quartiere dal quale erano partiti i moti rivoluzionari del marzo 1871. Quello che viene considerato come il primo esempio di potere democratico e socialista nell’Europa del nascente capitalismo, durò poco più di due mesi e finì nel sangue. Quella sorta di “ex-voto”, inaugurato in pompa magna, venne però snobbato dagli abitanti di Montmartre che continuarono ad andare a messa nella chiesa di Saint Pierre.Edificata sui resti di un antico tempio gallo-romano dedicato a Marte tra il 1133 e il 1147 nel luogo in cui, secondo la tradizione, Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù (l’ordine dei Gesuiti) la chiesa di Saint Pierre de Montmartre faceva parte della grande abbazia benedettina di Montmartre fondata nel 1133 da Adelaide di Savoia, madre del Re Luigi VII, la cui pietra tombale si trova all’interno della chiesa. L’aspetto esterno di questo luogo di culto è di foggia medievale anche se la facciata è barocca, costruita nel ‘700, mentre linterno è in stile gotico. Dove sorgeva l’abbazia, ora c’è il giardino del Calvario, con i resti della Via Crucis realizzata per Richelieu. Di fianco alla chiesa il più piccolo dei cimiteri parigini – dove, tra le 87 tombe sono sepolti il cuore dell’esploratore Louis Bougainville (le cui spoglie sono ospitate al Panthéon) e lo scultore Jan Baptiste Pigalle – , aperto solo un giorno all’anno, il 1° novembre in occasione della festa dei morti. Due chiese, due epoche e due storie diverse, dove la meno nota dimostra di non essere la meno importante. E non solo per l’affetto, mai venuto meno, di chi ha vissuto sulla collina più alta a nord di Parigi, come i bohémien della rive droite durante la Belle Époque.

Marco Travaglini

Mangiano funghi velenosi: intera famiglia gravemente intossicata

DALLA PUGLIA
Una intera famiglia di Taranto padre, madre e figlio è rimasta gravemente intossicata dopo avere mangiato funghi velenosi raccolti nelle campagne e non sottoposti a controllo sanitario. Il capofamiglia, di 56 anni, è  in prognosi riservata nel reparto di rianimazione dell’ospedale cittadino, in pericolo di vita. Invece  la moglie e il figlio si trovano nel nosocomio San Pio di Castellaneta, dove hanno ricevuto i primi soccorsi. L’intossicazione sarebbe stata provocata dall’Amanita Phalloides, una delle specie di funghi più velenosi in assoluto.

Alla scoperta del patrimonio gastronomico dell’Europa centrale

Il progetto SLOW FOOD-CE: Culture, Heritage, Identity, Environment and Food, finanziato da Interreg CENTRAL EUROPE (CE), è a un punto di svolta.
 
Venezia (Italia), Dubrovnik (Croazia), Brno (Repubblica Ceca), Kecskemét (Ungheria), e Cracovia (Polonia), le cinque città coinvolte nel progetto, sono state mappate per individuare i prodotti più rappresentativi del patrimonio gastronomico locale. Brno ha scelto la mela Panenské Ćeské, una varietà particolarmente resistente e saporita, dotata di ottima conservabilità e adatta al consumo diretto. La Croazia punta sulla Malvasia di Dubrovnik, un vino bianco secco e delicato, ottimo da abbinare al pesce bianco, e il sale di Ston, prodotto nella salina più antica e meglio conservata di tutta Europa. Kecskemét, nota come il “frutteto dell’Ungheria” grazie alla peculiare struttura del suolo e all’abbondante luce solare di cui gode, ha selezionato l’albicocca Hankovszky, la più pregiata tra le molte varietà locali; molto versatile nella gastronomia ungherese e spesso utilizzata per la produzione di conserve, è anche l’ingrediente della famosa pálinka all’albicocca, il tipico distillato simbolo di Kecskemét, conosciuto in tutto il mondo. Per quanto riguarda Cracovia, la scelta è andata sull’Obwarzanek krakowski, una ciambella realizzata in pasta di pane, bollita e cosparsa di semi di papavero, sesamo o formaggio prima della cottura in forno; questo tipico di snack, molto noto e diffuso nella città, viene tradizionalmente acquistato dai carretti dei venditori di strada. Venezia invece, tra i suoi tanti prodotti, presenta la schia della Laguna, un piccolo crostaceo di colore grigio, servito generalmente fritto e accompagnato con polenta bianca; dall’antico vitigno Dorona viene prodotto l’omonimo vino abbinato alla schia.
 
Per testare le innovative soluzioni di tipo partecipativo concepite per la promozione del patrimonio gastronomico negli spazi pubblici, le cinque città hanno lanciato le azioni pilota che nel corso di quest’anno raggiungeranno gli abitanti, gli studenti delle scuole e i turisti, coinvolgendoli in diverse attività.
•     Il prossimo autunno, Venezia ospiterà i Venice Food Days, per scoprire il sapore autentico della città e promuovere la cucina e i prodotti locali, in collaborazione con i principali attori della gastronomia locale.
•     Col programma Learn to taste the diversity of South MoraviaBrno punterà a promuovere i sapori regionali della Moravia meridionale attraverso attività per bambini, spettacoli e mercati, elaborando menù stagionali per le scuole, realizzando un catalogo dei prodotti locali e organizzando sessioni d’incontri con i produttori per preparare piatti tipici.
•     City Breadwinners sarà la manifestazione gastronomica, multimediale e multisensoriale al cuore delle attività di Dubrovnik; durerà tutto l’anno con lo scopo di valorizzare i produttori di cibo presentando il patrimonio gastronomico della città.
•     In Ungheria, il Kecskemét Green Market ospiterà formazioni per i contadini e i produttori e diverse attività di educazione alimentare, cucina, degustazioni, visite guidate e incontri con i produttori locali.
•     Cracovia presenterà invece la manifestazione Culinary Krakow: Heritage on the plate. L’iniziativa darà la possibilità di immergersi nel patrimonio gastronomico della capitale grazie a uno speciale tour, diversificando in tal modo l’offerta turistica della città e incoraggiando i visitatori a scoprire nuove zone meno conosciute.
 
Ma non finisce qui: ogni città europea potrà adottare il metodo sviluppato dalle cinque città coinvolte nel progetto SLOW FOOD-CE per promuovere il proprio patrimonio gastronomico. Per condividere esempi, consigli e corsi di formazione on line, è stata lanciata la piattaforma Food Paths Network,a cui possono accedere tutte le città interessate all’adozione di un approccio comune per la tutela e lo sviluppo del patrimonio gastronomico locale.
 
Il progetto
Il progetto SLOW FOOD-CE ha dato vita a un modello replicabile in grado di valorizzare i cibi tradizionali così come i produttori, le razze e i semi, le tecniche di lavorazione artigianali, il folklore, il paesaggio culturale e le risorse naturali che nutrono il patrimonio gastronomico comune dell’Europa centrale. Il progetto ha portato a una nuova alleanza tra le cinque città di Venezia, Dubrovnik, Brno, Kecskemét e Cracovia. Il principale obiettivo è il miglioramento delle capacità degli attori locali nella tutela e promozione del patrimonio immateriale del cibo, in una prospettiva di sostenibilità economica, ambientale e sociale. Le cinque città coinvolte sono i luoghi ideali per sviluppare il concetto di “nuova gastronomia” promosso da Slow Food: un approccio multidisciplinare al cibo, che riconosce le forti e profonde connessioni tra gli alimenti, il pianeta e le persone.
 
*Al progetto SLOW FOOD-CE aderiscono 10 partner di 5 paesi dell’Europa centrale impegnati a costruire insieme una metodologia comune per l’identificazione e la promozione delle risorse culturali legate al patrimonio gastronomico. Italia (Slow Food, città di Venezia, Università delle scienze gastronomiche) Croazia (Agenzia per lo sviluppo della città di Dubrovnik, Assosciaizone Kinookus)
Repubblica Ceca (Autorità del turismo della Moravia meridionale, Slow Food Brno)
Ungheria  (Municipalità di Kecskemét, Kiskunság Tradition-bound, Artisans and Tourism Association)
Polonia (Municipalità di Cracovia) Partner associati – 7 partner associati supportano i partner del progetto per il coinvolgimento di attori e soggetti interessati e nella diffusione dei risultati del progetto: il Consiglio per il turismo di Ston (HR), la città di Dubrovnik (HR), la città di Brno (CZ), l’Organizzazione del turismo della Malopolska (PL), l’Accademia di educazione fisica e turismo di Cracovia (PL), l’Istituto europeo di storia e culture del cibo (FR), Europa Nostra (NL).

Immigrazione. Problema di tutti

Stando ad una giornalista tedesca, fra i molti problemi che l’Italia ha è che noi abbiamo il Papa. Francamente l’aforisma l’avevo già sentito, ma penso sia molto più datato e non di appartenenza della teutonica giornalista. In effetti, da noi ogni problema, serio o meno serio viene, sempre interpretato in chiave religiosa e quindi, a maggior ragione, il problema della migrazione non viene mai affrontato in modo equilibrato, ma sempre come scontro fra fazioni.Se da un lato le frontiere sono bloccate come un colabrodo, le riammissioni di migranti da Germania, Francia e Austria superano di gran lunga il numero degli sbarchi, via mare.Germania, Austria e Francia rimandano in Italia un numero di migranti superiore a quelli che vi sbarcano. Infatti dalle verifiche risulta che da gennaio a maggio 2019 sono sbarcati in Italia 857 migranti. Dalla Germania, nello stesso arco di tempo ben 710 “Dublinanti” a cui vanno aggiunti quelli rispediti indietro dall’Austria e dalla Francia sono stati rispediti indietro.I cosiddetti “Dublinanti” sono i migranti sbarcati in l’Italia, poi passati nei paesi confinanti attraversando la frontiera di Ventimiglia, Bolzano e via di seguito e intercettati dalla polizia e identificati in base alla banca dati europea delle impronte digitali (Eurodac).Se si scopre che sono arrivati in Italia questi migranti vengono rispediti indietro, verso il paese di primo sbarco. Germania, Austria e Francia legittimamente l fanno in forza del trattato di Dublino, che impone che i migranti chiedano asilo e restino nel paese di sbarco. Trattato – ingiusto – che l’Italia non ha mai ottenuto di modificare. Nel 2018, la Germania ha trasferito in Italia un totale di 2848 persone (fonti del ministero tedesco) e non sembra ci sia inversione di tendenza. Sempre le statistiche del governo federale riportano che nei primi 11 mesi del 2018, su 51.558 casi esaminati, la Germania ha chiesto ad altri paesi dell’Unione europea di riprendersi i migranti che vi erano arrivati dal resto d’Europa e per l’Italia si è trattato di riprendersi un migrante espulso su tre. In particolare il ministro tedesco Horst Seehofer ha insistito per accelerare le “restituzioni.La morale: sui migranti sono tutti d’accordo quando si tratta degli altri (Italia), meno quando si tratta di Germania, Francia, Belgio, Olanda ecc.

Tommaso Lo Russo

 

I fantasmi di Trieste

Trieste, ricca di storia sul crinale carsico e crocevia di frontiere contese, è la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropea. Una città “luogo dei luoghi”, protagonista dei racconti “I fantasmi di Trieste”(Bottega Errante Edizioni, 2018). L’autore, Dušan Jelinčič, giornalista della RAI e alpinista, uno degli scrittori italiani di lingua slovena più autorevoli e apprezzati, traccia una personale mappa della memoria che si intreccia con vicende misteriose e “fantasmi”. Come ogni città con un passato importante, complesso e sofferto, Trieste si porta addosso i segni di ferite mai rimarginate e di irrisolti conflitti. I luoghi di questo percorso con ampi tratti autobiografici – Jelinčič a Trieste ci è nato e vive in una casa del primo Carso, ai bordi dell’altipiano affacciato sul golfo che si apre davanti al porto e alla piazza Unità d’Italia – s’intrecciano con le persone, i protagonisti di queste storie.

Nei racconti prendono corpo immagini della città vecchia, del tram di Opicina – che sale fino all’omonima frazione sull’altipiano del Carso – e dei rioni di San Giacomo, San Giovanni e San Giusto. Si sente quasi l’odore salmastro del mare e il fischiare della bora, si possono immaginare le onde che s’infrangono sul molo Audace dove nel 1914 ( quando si chiamava ancora molo San Carlo) attraccò la corazzata “Viribus Unitis”,nave ammiraglia della marina Imperiale con a bordo le salme dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, uccisi nell’attentato di Sarajevo. Sullo stesso molo, quattro anni più tardi, giunse il cacciatorpediniere “Audace” della marina italiana. Era il 3 novembre del 1918, finiva la prima guerra mondiale e la nave che diede il nuovo nome a quella lingua di terrà in mezzo al mare, vi sbarcò un battaglione di bersaglieri. Oltre al paesaggio fisico ci sono i luoghi dell’anima e le storie di personaggi veri, come nel caso di Diego de Henriquez che morì la sera del 2 maggio del 1974 nell’incendio del suo magazzino, dove dormiva solitamente coricato dentro una bara di legno, portando con se i suoi segreti. Un personaggio straordinariamente singolare, triestino erede di una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola, raccoglitore di ogni genere di materiale bellico e ideatore del Civico Museo della Guerra per la Pace. La sua morte lasciò molti dubbi e forse, come fa supporre il racconto di Jelinčič. Diego de Henriquez ricopiò in due dei suoi diari, prima che venissero cancellate, le scritte lasciate dai prigionieri nelle celle della Risiera di San Sabba, lo stabilimento per la pilatura del riso che i nazisti trasformarono in lager. Morì a causa di questo,vittima di un incendio doloso? Cercando tra le voci e le scritte dei morti della Risiera venne a conoscenza di verità scomode sull’unico campo di sterminio in Italia?Cosa aveva scoperto?I nomi dei collaborazionisti triestini,qualcuno divenuto poi una figura rispettata della comunità locale? Aveva dato un volto a chi, denunciando i suoi concittadini di religione ebraica, aveva contribuito a toglierli di mezzo, arricchendosi? Volti che riappaiono, come fantasmi, assumendo le sembianze in un altro racconto di un anziano seduto sul tram di Opicina che assomiglia come una goccia d’acqua ad un volto che si intravede in una foto di cinquant’anni prima accanto a Odilo Globocnik,il nazista calato a Trieste per fare della Risiera un luogo di morte. Jelinčič, nei suoi racconti parla anche delle sfide calcistiche allo stadio Grezar, intitolato al mediano triestino che perì con tutto il resto della squadra del Grande Torino nella tragedia di Superga, del vecchio bagno asburgico “La lanterna”, più noto come “El Pedocin” ( il piccolo pidocchio) dove un  muro lungo 74 metri e alto tre divide tra uomini e donne la spiaggia di ciottoli bianchi. E’ lì che l’autore, in gioventù, fece l’amara scoperta di essere considerato con disprezzo uno “sciavo”, in quanto sloveno di Trieste. Ci sono poi le storie dove il protagonista è James Joyce, che visse a lungo in città, completando la raccolta di racconti Gente di Dublino, diverse poesie oltre al dramma Esuli e ai primi tre capitoli de l’Ulisse, il libro che gli diede fama internazionale. In uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano, un monumento in bronzo raffigura lo scrittore irlandese mentre cammina, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “la mia anima è a Trieste”. Joyce, parafrasando Dušan Jelinčič, fa parte dei “fantasmi gentili”, come lo psichiatra Franco Basaglia che iniziò dal San Giovanni di Trieste la rivoluzione che portò all’abolizione degli ospedali psichiatrici con la legge 180. “La libertà è terapeutica”, venne scritto sui muri bianchi di quella “città dei matti” che rinchiudeva dietro le sbarre, con un “fine pena mai” chi era segnato dalla malattia. Grazie a Basaglia Trieste diventò la città del riscatto di tante persone, come nel caso di Olga, una “ex matta” che racconta la sua storia all’autore. I ricordi vagano e s’imbattono in Julius Kugy, l’alpinista che aveva cercato ovunque sulle alpi Giulie la Scabiosa Trenta, rarissimo fiore delle alpi slovene. Guardando l’immagine della piantina incollata su una pergamena ingiallita, la descrisse così: “..ecco la graziosa creatura di luce, sul calice d’argento finemente merlettato, vestita di bianco splendente, trapunta di tenere antere d’oro! Non era ormai una piantina, era una piccola principessa del paese dei sogni”. Kugy si era fatto costruire un organo che suonava personalmente nella chiesa di via Giustinelli. Una chiesa di proprietà della comunità armena, data in affitto ai cattolici di lingua tedesca e oggi semi abbandonata, esempio di degrado e incuria. In fondo è proprio Trieste,città di grande tradizione europea e crogiuolo di etnie, ricca di contraddizioni e oscuri sensi di colpa che si racconta in questo libro. E Dušan Jelinčič, con la sua scrittura coinvolgente, ne amplifica la voce.

Marco Travaglini

Un goccio d’assenzio per brindare alle tombe dei poeti

noteboomNooteboom racconta, prima di tutto,  la storia di una comunità, mettendo in fila 83 omaggi a altrettanti autori, 83 pensieri raccolti di fronte alla loro ultima dimora. Lo scrittore ha così visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un’epigrafe toccante o l’incanto di un’atmosfera, hanno ancora da raccontare

La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare“. Per questo Cees Nooteboom, scrittore e giornalista olandese, nel corso di trent’anni di viaggi per il mondo “raccontando” fatti e vicende (come cronista, ha seguito come testimone tre momenti cruciali del secondo Novecento: l’invasione di Budapest nel 1956, la contestazione del Maggio francese nel 1968 e la caduta del muro di Berlino nel 1989), ha raccolto le storie contenute in un libro anomalo, intitolato “Tumbas. Tombe di poeti e pensatori “, edito da Iperborea.  Nooteboom racconta, prima di tutto,  la storia di una comunità, mettendo in fila 83 omaggi a altrettanti autori, 83 pensieri raccolti di fronte alla loro ultima dimora. Lo scrittore ha così visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un’epigrafe toccante o l’incanto di un’atmosfera, hanno ancora da raccontare. Perché, come scrive “ comunicano a ognuno qualcosa di personale e accompagnano diversi momenti della nostra vita, innescando con noi un dialogo intimo al di sopra dello spazio e del tempo”.

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Dal cimitero parigino del  Père-Lachaise dove “dimorano” Marcel Proust e Oscar Wilde alla pittoresca collina napoletana  di Piedigrotta che ospita Leopardi, dalla cima del monte Vaea, nelle isole Samoa, dove è sepolto Robert Louis Stevenson, a Joyce ed Elias Canetti al camposanto zurighese di Fluntern in Svizzera. Sempre nella patria di Gugliemo Tell cìè la “dimora eterna” di Vladimir Nabokov, al Clarens di Montreux, sulla “riviera Svizzera” del lago di Ginevra mentre quella di Calvino si trova a Castiglione della Pescaia, Melville in un angolo sperduto del Bronx, e Kawabata nel suo Giappone; Keats e Shelley accanto a Gregory Corso nel romantico cimitero Acattolico di Roma; Brecht a due passi da Hegel a Berlino est; Brodskij insieme a Ezra Pound nell’immobile incanto dell’isola veneziana di San Michele, e il Montparnasse di Baudelaire, Beckett e Sartre, a cui ha scelto di unirsi anche Susan Sontag. Un libro bello, dalla copertina stupenda ( la più bella del 2015, secondo Tuttolibri) che riporta una foto scattata da Simone Sassen, compagna delo scrittore olandese: una bottiglia d’assenzio sulla tomba di Cortàzar. Ogni tomba è un lampo sul mondo dello scrittore che la occupa, rievocando una poesia, un frammento di vita o di libro, ispirando folgoranti riflessioni e inattesi collegamenti, in un appassionante pellegrinaggio indietro e avanti nella storia della letteratura e del pensiero, che con Nooteboom diventa una meditazione poetica sull’uomo, il tempo e l’arte. Mentre a ogni pagina cresce il desiderio di andare a leggere e rileggere le opere dei suoi cari immortali. Magari sorseggiando un goccio di  “fata verde”, quell’assenzio che è stato cantato come il liquore dei poeti maledetti.

 

Marco Travaglini

 

La tragedia dei greci del Ponto

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re
Non solo gli armeni ma anche i greci che vivevano nei territori dell’Impero ottomano finirono molto male durante la Prima guerra mondiale. Sono i cristiani del Ponto, circa 350.000 greci ortodossi, che vennero sterminati sulle rive del Mar Nero tra il 1914 e il 1923 nel nome della nuova Turchia laica, quella di Ataturk e del famigerato triumvirato formato da Enver Pascià, Talaat Pascià e Djemal Pascià che stava nascendo sulle ceneri dell’Impero ma che voleva essere etnicamente e devotamente pura, compatta e soprattutto libera da cristiani e da altre fedi non islamiche. Per lo stesso criminale obiettivo era già in corso lo sterminio degli armeni e dei siriaci, oltre un milione e mezzo, massacrati nei territori dell’Impero turco tra la fine dell’Ottocento e il 1924. Ma mentre il genocidio turco degli armeni è diventato un evento ormai ben noto a tutti, della tragedia greca si conosce ancora troppo poco oltre i confini della stessa nazione. A cent’anni di distanza la Grecia commemora l’eccidio con libri, convegni e manifestazioni mentre la Turchia, esattamente come nel caso del genocidio degli armeni, nega ogni accusa. Fu l’apostolo Andrea a evangelizzare la comunità del Ponto che si era insediata lungo le sponde del Mar Nero, da Trebisonda a Ordu, fino a Sinope, mille anni prima dell’era cristiana. Gli abitanti del Ponto divennero cristiani e bizantini e sotto l’Impero ottomano godettero per secoli di una relativa tolleranza così come accadde per altre minoranze non musulmane. Ma all’inizio del Novecento la situazione cambiò drasticamente. Con il ritorno di nazionalismi esasperati e con lo scoppio della Grande Guerra le persecuzioni turche e le violenze contro i cristiani, accusati di essere al servizio delle potenze straniere interessate e coinvolte nello smembramento dell’Impero, si fecero sistematiche e brutali. I cristiani erano diventati, da un giorno all’altro, nemici interni da abbattere. E così iniziò lo sterminio di oltre 350.000 cristiani greci su circa 700.000 che vivevano sul Mar Nero. I sopravvissuti, meno della metà, riuscirono a fuggire in Grecia. Uomini, donne, bambini, autorità locali, poveri e ricchi, furono giustiziati o morirono durante lunghe ed estenuanti marce forzate da città e villaggi. Centinaia di case furono incendiate o rase al suolo per cancellare ogni traccia della presenza cristiana. Qualcuno scampò con molta fortuna alle stragi e grazie ai racconti dei superstiti è stato possibile ricostruire le tragiche vicende dei profughi greci del Ponto. Film, documentari, libri e altre iniziative per ricordare l’antica cultura pontica sono fiorite in tutta la Grecia per testimoniare quanto accadde cento anni fa. Non mancano interviste a storici e ricercatori, programmi televisivi che rispolverano le antiche tradizioni della comunità greco-ortodossa e testimonianze dei discendenti dei sopravvissuti che narrano la storia della propria famiglia. Come la giornalista e scrittrice Maria Tatsos che, dopo un’accurata ricerca storica, ha scoperto che sua nonna era una profuga e che la sua famiglia paterna fu costretta con la forza ad abbandonare la regione del Ponto dove era nata, la terra del filosofo Diogene e del re Mitridate. Lo racconta nel libro “La ragazza del Mar Nero” (Paoline editrice) ricordando che solo da adulta scoprì di discendere da un popolo vittima di una delle prime “pulizie etniche” del Novecento. Quando negli anni Venti le nuove autorità repubblicane decisero che la Turchia doveva essere totalmente musulmana, la sua famiglia cristiana dovette abbandonare tutto e fuggire immediatamente. “La storia di mia nonna, sarta di professione, scrive Maria Tatsos, è una goccia nel mare di un’immane tragedia. Questo libro vuole essere un tributo alla memoria, per non dimenticare e per capire quanto siano simili le tragedie di ieri a quelle di oggi. Ma è anche un inno alla speranza, perchè anche i nostri nonni o bisnonni, in altri momenti della storia, sono stati profughi, immigrati e stranieri e, se hanno fatto fortuna in terre lontane, è perchè qualcuno ha offerto loro un’opportunità”. Se già dagli anni Novanta la Repubblica greca ricorda a maggio questi terribili eventi, la Turchia del super presidente Erdogan si ostina a negare tali fatti storici e a considerare il maggio del 1919 come l’inizio della guerra di liberazione del territorio turco dalle potenze straniere intervenute per porre fine all’Impero dei sultani. L’atteggiamento di Ankara su questo argomento non fa altro che inasprire i rapporti, già molto tesi per tante altre questioni, tra turchi e greci che a volte arrivano perfino a sfiorare uno scontro armato.

Bimbo di due anni trovato morto. Si cerca il padre

DALLA LOMBARDIA
Un bimbo di 2 anni è stato trovato privo di vita in un appartamento alla periferia di Milano, con evidenti segni di violenza. I soccorsi sono stati chiamati dal padre, ma all’arrivo della polizia era presente solo la madre, una donna croata di 23 anni. Le indagini si stanno concentrando sull’uomo, un 25enne italiano, al momento non  reperibile.

DA BRESCIA IN DONO A CASCIA LA ‘CAMPANA DELLA RINASCITA’

L’annuncio nel giorno di Santa Rita del sacro bronzo frutto della sensibilità della Parrocchia bresciana di San Bartolomeo di Castenedolo. Sarà fusa dalla rinomata ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, in Molise

CASTENEDOLO (BS), Lì 22 Maggio 2019 – Il giorno tradizionalmente dedicato alla memoria liturgica di Santa Rita quest’anno porta con sé un inatteso regalo per gli abitanti di Cascia, paese natale della Santa delle cause impossibili.

‘Una campana fa un popolo’, recita un antico adagio. Un sacro bronzo pregiato e prezioso, del diametro di ben 50 cm, nota Sol Bemolle e 80 chili di peso, finemente decorato e ornato: è questo il dono appassionato e generoso della Parrocchia San Bartolomeo Apostolo di Castenedolo (BS) alla Parrocchia di Cascia, funestata dal sisma del 2016.Un’iniziativa fortemente sentita e voluta dal Parroco, Don Tino Decca, che per le campane nutre un’affezione speciale, e subito sposata con evidente entusiasmo dall’intera comunità bresciana. Quel tragico 24 Agosto, giorno del terremoto, mentre a Cascia dormiente la terra tremava, da noi erano invece in corso i gioiosi festeggiamenti di San Bartolomeo Apostolo, nostro Santo Patrono“, ricorda don Tino. Che aggiunge: “Immediatamente, appresa la notizia del disastro, il pensiero volò al dramma dei cari fratelli del Centro Italia. Così nacque l’idea della campana, come segno di ideale comunione dei cuori dei fedeli cristiani legati tra loro attraverso quei rintocchi antichi che, ogni giorno, ci ricordano di Dio“. Racconta ancora il prelato: “Contattato il Pievano don Renzo Persiani Parroco della Parrocchiale Collegiata di Santa Maria della Visitazione irrimediabilmente colpita dal sisma, lo incontrammo con alcuni giovani del nostro Oratorio ‘San Pio X’ che si prodigarono fin da subito per promuovere iniziative volte a sostenere la popolazione di Cascia, raccogliendo la generosità dei fedeli di Castenedolo. Ne è nato un sodalizio rafforzatosi di giorno in giorno, grazie anche all’interessamento in loco di don Canzio Scarabottini, Pro-Rettore del Santuario di S. Rita in Roccaporena di Cascia, e del consigliere comunale Piero Reali”.Gli fa eco Davide Anselmini, della Parrocchia donatrice e Coordinatore del progetto: “Questa campana è storia della Provvidenza. Quando, insieme al giornalista e designer Maurizio Scandurra – Testimonial della Pontificia Fonderia Marinelli cui ne abbiamo affidato la realizzazione – ci siamo trovati per studiarne il bozzetto grafico, spontaneamente abbiamo deciso di dare evidenza ai Santi Sociali: da San Luigi Guanella, che per la prima volta nella storia troverà posto su una campana, a San Giovanni Bosco, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, a San Giuseppe Cafasso”.

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Riprende poi entusiasta Anselmini: “Con in più i Santi Bresciani Paolo VI, Faustino e Giovita, in segno di riconoscenza ai protettori del nostro territorio, il nostro Patrono San Bartolomeo, San Michele Arcangelo, la Divina Provvidenza e la Madonna che scioglie i nodi, in ossequio alla devozione tanto cara al nostro amato Papa Francesco”. Conclude Maurizio Scandurra: “Con gioia mi ritrovo a collaborare nuovamente con gli amici fraterni della Parrocchia di Castenedolo, con i quali realizzammo a Dicembre 2018, grazie anche alla sensibilità del noto avvocato bresciano e benefattore Serafino Di Loreto, la ‘Campana della Nuova Vita’, splendido esemplare di bronzo a firma Fonderia Marinelli che suona per le nuove nascite e in ricordo dei tanti bambini saliti al cielo prematuramente”. Per poi continuare: “La ‘Campana della Rinascita’, così battezzata come inno alla speranza e alla ricostruzione, pensata appositamente per Cascia, si pone in ideale soluzione di continuità con la prima di Castenedolo: un documento di bronzo che ricorda come tutto è possibile all’uomo che confida soltanto nel Signore, come insegna San Paolo Apostolo. Un raffinato monumento sonoro affidato, come per tutte le importanti ricorrenze, alla comprovata e ineguagliabile esperienza della tradizione ultramillenaria della ‘Pontificia Fonderia di Campane Marinelli’ guidata dai cari e stimati Fratelli Armando e Pasquale: artigiani unici, come il resto della loro famiglia, con un cuore pulsante nel segno della fede, dell’arte e della bellezza senza tempo dei loro preziosi manufatti da sempre apprezzati in ogni angolo del mondo”. La ‘Campana della Rinascita’ verrà benedetta e consegnata, nel corso di una solenne celebrazione che sarà presieduta da sua Eccellenza il Vescovo della Diocesi di Spoleto-Norcia Monsignor Renato Boccardo, alla presenza delle autorità locali e religiose, il prossimo 15 Settembre, giorno della ricorrenza di Santa Maria della Visitazione, Patrona della cittadina umbra.