Dall Italia e dal Mondo- Pagina 22

La fragile bellezza di Audrey Hepburn

Tolochenaz è un piccolo comune svizzero del Canton Vaud sul lago Lemàno con meno di duemila abitanti, a pochi chilometri da Morges e a un quarto d’ora d’auto da Losanna. Appena fuori dal centro abitato, in un angolo di quiete nella ordinatissima campagna elvetica, c’è il cimitero. Poche decine di tombe, ben curate.Tra queste, a ridosso del muro di cinta c’è l’ultima dimora di Audrey Hepburn, indimenticabile attrice, simbolo di stile e raffinatezza. Lo sguardo dolce e stupito, il fisico esile e flessuoso avvolto nel famoso tubino nero di “Colazione da Tiffany”, inventato da Coco Chanel e ripensato appositamente per lei da Givenchy ne hanno reso celebre e immortale la fragile bellezza. Non a caso fu proprio lei a dire che l’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai. Una carriera ricca di successi sul grande schermo, la sua: da “Vacanze romane” che le valse a soli ventidue anni l’Oscar nel 1954 a pellicole come “Sabrina”, “Guerra e Pace”, “Arianna”, “Cenerentola a Parigi”, “Sciarada”, “My Fair Lady” , fino al suo ultimo lavoro dove, diretta da Steven Spielberg in “Always-Per sempre”, interpretò un angelo. Questa donna intelligente, elegante e bella (“ un mix unico di fascino, innocenza e talento”, disse di lei il regista William Wyler), descritta come un “ grissino dall’anima d’acciaio”, ritiratasi dalle scene si dedicò con grande passione al volontariato,diventando ambasciatrice dell’Unicef. Una scelta motivata dalla grande sensibilità che l’accompagnò in tutta la sua vita. Disse, in una intervista che se si desiderano degli occhi belli “occorre cercare la bontà negli altri; per delle labbra belle, pronuncia solo parole gentili; per una figura snella, dividi il tuo cibo con le persone affamate; per dei capelli belli lascia che un bambino vi passi le sue dita una volta al giorno; e per l’ atteggiamento, cammina con la consapevolezza che non sei mai sola”. Dedicò le sue ultime energie ai bambini che, come era toccato a lei da piccola, vivevano la tragedia della fame e della guerra, dimostrando di avere oltre all’impeccabile stile la generosità di chi non rinuncia a lottare per un mondo migliore. La Hepburn , nata 90 anni fa, il 4 maggio del 1929 a Ixelles in Belgio,morì a sessantaquattro anni il 20 gennaio del 1993.La sua tomba sobria e semplice nel camposanto di Tolochenaz rappresenta l’ultima, estrema dimostrazione della straordinaria classe di questa grande donna.

Marco Travaglini

Donna scende dall’auto dopo l’incidente e muore travolta da un furgone

DALLA PUGLIA

Una donna è morta dopo essere stata travolta da un autocarro sulla strada statale 274 che collega Gallipoli a Santa Maria di Leuca, in Salento. La vittima è una 40enne albanese: era alla guida di una Renault Megane quando ha tamponato in una curva una Mini Cooper Countryman condotta da un uomo di 35 anni. I due sarebbero scesi dai veicoli e si sarebbero fermati sul ciglio della strada quando è sopraggiunto l’autocarro che non riuscendo a spostarsi sulla corsia di sorpasso per l’arrivo di un altro mezzo, ha colpito la Megane che a sua volta ha travolto la donna e l’uomo. Quest’ultimo è in codice rosso.

Quando i turchi terrorizzavano il Friuli

FOCUS INTERNAZIONALE / STORIA  Di Filippo Re

Hanno sofferto talmente tanto le invasioni e le scorrerie dei turchi che i friulani le ricordano ancora oggi, a distanza di 500 anni, con libri, convegni e rievocazioni storiche. “I turcs tal Friul”, dramma scritto in friulano da Pier Paolo Pasolini nel 1944 e pubblicato solo nel 1976, un anno dopo la morte dello scrittore e poeta, trae spunto dall’invasione dei turchi in Friuli che nel 1499 devastarono gran parte del territorio sfiorando anche Casarsa della Delizia, il paese di sua madre, in provincia di Pordenone e a poca distanza dal Tagliamento. Nel 1944, nel Friuli invaso dalle truppe tedesche e bombardato dall’aviazione anglo-americana, il giovane Pier Paolo Pasolini scrisse un dramma che ricorda l’improvvisa e sanguinosa irruzione dei turchi in Friuli, testimoniata da una lapide che lo scrittore vide in una chiesa di Casarsa. In questi giorni la Chiesa di Santa Croce di Casarsa ha fatto da cornice alla presentazione della nuova edizione del dramma teatrale “I Turcs tal Friul” (I turchi in Friuli), nel quale un Pasolini appena ventiduenne descrive il Friuli devastato dalla guerra rievocando le terribili invasioni del 1499. L’editore Quodlibet lo ha pubblicato come opera di una nuova collana dedicata alla poesia in dialetto. Pasolini scrisse i “Turcs” nel 1944 a Casarsa, dove abitava la madre, sotto le bombe che cadevano anche sul Friuli, ispirandosi a un fatto storico che aveva sconvolto questa terra alcuni secoli prima, ovvero la tragica invasione della cavalleria musulmana proveniente dai Balcani. All’interno della chiesa di Santa Croce si trova una lapide votiva realizzata nel 1529 dagli abitanti di Casarsa in segno di gratitudine per aver evitato il saccheggio dei turchi trent’anni prima. A questa iscrizione votiva è ispirato il dramma teatrale “I Turcs tal Friul”, un atto unico in dialetto friulano scritto da Pasolini negli ultimi anni della guerra. Il testo spazia dagli eventi di fine Quattrocento storicamente documentati, con Casarsa risparmiata dalla furia degli invasori forse, come recita una leggenda, per l’improvviso alzarsi di un polverone che ha impedito ai turchi il passaggio in questo paese, fino ai fatti della seconda guerra mondiale che vide anche Casarsa invasa dai tedeschi, attaccati dai partigiani e bombardati dagli alleati anglo-americani che miravano ai ponti e alla ferrovia sul Tagliamento. È la storia di una piccola comunità agricola costretta a fare i conti con la violenza degli aggressori, la tragedia della guerra, i lutti e le sofferenze. L’incursione turca in Friuli nell’autunno del 1499 si è profondamente saldata nella memoria dei friulani, all’epoca sotto il dominio di Venezia. Camarcio, Cervignano, Strassoldo, San Giovanni, Cusano, Fiume Veneto, San Floriano, Pordenone, Cordenons, Roveredo, Aviano, Spinazzedo….è lungo l’elenco delle devastazioni e delle crudeltà compiute dai turchi che giunsero perfino a poche decine di chilometri da Treviso e Mestre dove gran parte della popolazione fuggì in preda al panico. È utile per conoscere queste vicende storiche il libro di Roberto Gargiulo “Mamma li turchi, la grande scorreria in Friuli” (edizioni Biblioteca dell’Immagine) in cui l’autore, friulano, ricostruisce quel drammatico periodo sul finire del XV secolo. L’impero dei sultani stava attraversando un periodo di grande espansione dopo la conquista di Costantinopoli bizantina nel 1453 e l’occupazione, seppure temporanea, di Otranto nel 1480 con le armate inviate da Maometto II con l’obiettivo di risalire la penisola e prendere la capitale della Cristianità. In realtà i turchi erano già penetrati in Friuli nel 1472 e nel 1477 con distruzioni sistematiche e incendi di villaggi per poi ritirarsi con molti prigionieri. Comandati dal pascià bosniaco Iskender Beg (nulla a che vedere con Giorgio Castriota Skanderbeg) oltre 15.000 akingy, spietati incursori a cavallo, giunsero sull’Isonzo e invasero la pianura arrivando a Udine. Nel 1479 la Repubblica di Venezia stipulò un trattato di pace ventennale con i turchi. Vent’anni di tregua, poi ci fu l’invasione più terribile, nel 1499. Un flagello, con oltre 130 paesi distrutti, rasi al suolo e dati alle fiamme, chiese profanate e incendiate e migliaia di friulani uccisi o fatti prigionieri. Tra le macerie di paesi e cittadine mucchi di cadaveri maleodoranti, bambini lasciati vivi o morti per le strade, pochi i superstiti. Felice per il risultato della campagna militare, Iskender inviò al sultano 300 friulani prigionieri come regalo personale mentre la regione si presentava come sfigurata da una furiosa grandinata.

 

Corsier sur Vevey, l’ultimo rifugio del “diseredato della società”

Aveva nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita. Toccato dalla grazia del genio era il guanto rovesciato della nostra civiltà, il miele e lo schiaffo, lo scherno ed il singhiozzo; era il nostro rimprovero e la nostra speranza di essere uomini.

Testimone universale commosse e rallegrò i cuori di tutte le razze e latitudini, ovunque si celebrasse il processo all’iniquità, alla presunzione, al cinismo dei ricchi e dei potenti, ovunque dal dolore potesse scaturire la protesta del debole sopraffatto e il riscatto dell umiliato. Uomini e donne di tutte le età e colore si riconobbero in lui, si contorcevano dalle risa e sentivano salirsi dentro pietà per se stessi. Andavano per gioire e uscivano pieni di malinconia”. Così Giovanni Grazzini, su “Il Corriere della Sera” celebrò la dipartita di sir Charles Spencer Chaplin, morto nella sua casa di Corsier sur Vevey intorno alle 4 della mattina di Natale del 1977. A Corsier sur Vevey, in Svizzera, Chaplin aveva fissato la sua dimora quando, nel 1952, venne allontanato dagli Stati Uniti “per gravi motivi di sfregio alla moralità pubblica e per le critiche trasparenti dai suoi film al sistema democratico del Paese che, pure accogliendolo, gli aveva dato celebrità e ricchezza”. Tutto a Corsier continua a parlare di Chaplin, ogni angolo, ogni via, ogni palazzo, la sua casa, le sponde del lago Lemano vegliate dalla statua di Charlot. La villa di Corsier, nel 2016, è stata trasformata nel “Chaplin’s World”, il mondo di Chaplin, che consente al visitatore di entrare in contatto con la vita, le opere e le passioni di un uomo che ha dominato con la sua arte il XIX secolo, creando un cinema immortale e quanto mai attuale. Charles Chaplin nacque 130 anni fa, il 16 aprile 1889 a East Street, nel sobborgo di Londra di Walworth. Il padre era un attore di varietà con il vizio dell’alcol, la madre un’attrice che ebbe poca fortuna e che, con gli anni, iniziò a mostrare segni di cedimento mentale, affetta da crisi depressive. Dopo un’infanzia difficile, Chaplin iniziò ad esibirsi come fantasista negli spettacoli itineranti di Fred Karno, diventando, insieme a Stanley Jefferson, meglio conosciuto come Stan Laurel, uno degli attori più apprezzati. E’ tra il 1914 e il 1915 che nasce Charlot, “the Trump”, il vagabondo, l’omino dal volto imbiancato, dagli occhi bistrati e dai buffi baffi, con un’eleganza tutta sua: indossa una giacca troppo stretta e troppo corta, sulla quale non dimentica di appuntare un fiore, veste pantaloni ampi e larghi pieni di toppe, ha scarpe lunghe con suole simili a grandi bocche che, ad ogni passo, rischiano di spalancarsi, porta una bombetta e una canna di bambù come i gentiluomini dei quartieri alti. Film dopo film, attraverso la figura di Charlot, Chaplin dà voce al “diseredato della società”, all’umile, al reietto, alla massa inascoltata e lo fa con garbo estremo, senza la necessità di abbandonarsi a immagini violente, ma facendoci toccare con mano la crudeltà di un mondo nel quale bisognerebbe, invece, tendere alla felicità. E’ Charlot a mostrarci le ingiustizie profonde che sarebbero sanabili se l’uomo non vivesse nel proprio ristretto egoismo, è Charlot a prenderci per mano e a condurci sul ponte di una nave di terza classe, emigrante tra gli emigranti, disperato tra i disperati che viaggiano verso una terra promessa, pieni di speranze che, invece, verranno deluse, è con Charlot che viviamo il dramma di di una fabbrica che condanna l’uomo a gesti ripetitivi, a ritmi assurdi e allucinanti, quelle fabbriche che Simone Weil, negli stessi anni, avrebbe definito capaci di spezzare l’essere umano, di distruggerne il coraggio, la coscienza e la dignità. Con Charlot conosciamo la storia di un padre che è adottivo e solo, conosciamo l’immagine di una famiglia monogenitoriale nella quale quello che conta davvero non sono i legami di sangue, il benessere o le convenienze, bensì l’amore puro e semplice. E’ sempre Charlot, nel 1940, a dare il volto, in una geniale parodia dei totalitarismi che schiacciavano l’Europa, contemporaneamente ad un barbiere ebreo e a Hitler, in una straordinaria dicotomia tra bene e male, tra giusto e ingiusto, in una satira tagliente e delicata al tempo stesso, con un finale commovente in cui i due personaggi si scambiano e si sovrappongono e in cui Chaplin regala ad un mondo violento e dominato dall’odio il suo discorso all’umanità, lirico e commovente messaggio diretto al cuore dell’uomo: “Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, neri o bianchi. Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità, ma non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca ed è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell’oca, verso l’infelicità e lo spargimento di sangue”. Il discorso all’umanità assume toni visionari, dipingendo un’epoca fatta di una comunicazione rapida e spesso sbagliata, nel passaggio in cui Chaplin afferma “La mia voce raggiunge milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l’uomo a torturare e imprigionare gente innocente. A quanti possono udirmi io dico: non disperate. L’infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell’ingordigia umana: l’amarezza di coloro che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. Qualunque mezzo usino, la libertà non può essere soppressa”. La tecnica deve essere al servizio dell’umanità, di tutta l’umanità, non di pochi folli che ingannano le masse e che la utilizzano per instillare odio. Anche “Monsieur Verdoux” ci presenta, in fondo, semplicemente, uno Charlot invecchiato, un po’ più elegante e forse un po’ più cinico, costretto dalla società e dalla crisi economica a trasformarsi da onesto contabile a Barbablù, pur di riuscire a mantenere la propria famiglia e pronto, alla fine ad abbracciare il proprio destino e a consegnarsi alla giustizia, non senza, tuttavia, invitare l’uomo a riflettere sull’assurdità di una società che ha legalizzato, attraverso la guerra, l’omicidio di massa. “Se parliamo poi di massacri” afferma Verdoux “non abbiamo autorevoli esempi? In tutto il mondo si fabbricano ordigni sempre più perfetti per lo sterminio in massa della gente, e quante donne innocenti e bambini sono stati uccisi senza pietà, e magari in modo più “scientifico”! Eh, come sterminatore sono un misero dilettante, al confronto”. Charles Chaplin è stato per tutta la vita un uomo innamorato degli altri uomini. Il Governo americano lo definì “comunista”, allontanandolo dagli Stati Uniti, definizione che Chaplin rifiutò sempre perché il suo immenso, struggente amore per l’umanità andava oltre la catalogazione imposta da una parola, da un termine, da poche lettere. In ogni sua opera, nella maschera di Charlot troviamo questo sentimento, ma anche il profondo, inguaribile ottimismo del bambino cresciuto nei sobborghi poveri di Londra che Chaplin conserverà intatto dentro di sé per sempre. E’ quel bambino ad insegnarci che, alla fine, dopo tante difficoltà e dopo tanti problemi, dopo tante ingiustizie e dopo i periodi bui, l’uomo troverà sempre il coraggio di rialzarsi, di prendere per mano il suo simile, di voltare le spalle al passato e di incamminarsi lungo una nuova strada che si dirige verso il futuro.

Barbara Castellaro

BAROMETRO SULL’AFFITTO DI CASE PER VACANZA IN ITALIA

CRESCE LA VOGLIA DI VIAGGIARE: L’87% DEGLI INTERVISTATI HA FATTO UNA VACANZA DI ALMENO 4 NOTTI, CON UN INCREMENTO DEL +12% RISPETTO AL 2018

 

In un mercato sempre più fluido, nascono precisi profili dei viaggiatori moderni – gli alternativi e gli esclusivisti – con diversi comportamenti e attitudini di spesa. Chi sceglie le case vacanza genera un impatto economico sul territorio pari a 2,9 miliardi di euro

  HomeAway®, esperto globale delle case per vacanza, e CISET, Centro Internazionale sull’Economia Turistica fondato da Università Ca’ Foscari di Venezia e Regione Veneto, presentano i dati della seconda edizione del barometro sull’affitto di case per vacanza in Italia*.

Emerge in generale un cauto ottimismo rispetto alla propensione di viaggio degli italiani che sembrano disposti a viaggiare di più. L’87% della popolazione – tra i 18 e i 65 anni – ha infatti potuto godere di una vacanza lunga, superiore alle 4 notti, in aumento rispetto a quanto registrato nel 2018 sul periodo aprile 2016-2018.

Ottimistiche anche le previsioni di vacanza per il 2019, anno in cui l’89% degli italiani ha in programma almeno un soggiorno fuori casa tra aprile e dicembre.  Di questi, il 43% opterà sicuramente per unalocalità dove sia garantita un’offerta di case vacanza, altrimenti cambierà destinazione.

In questo scenario generale, che sottende ad un mercato sempre più fluido in cui anche il turista si sente “residente temporaneo” del luogo scelto per le proprie vacanze, si inserisce l’indagine commissionata da HomeAway che, quest’anno, presenta un’importante novità. Sono stati infatti tracciati il profilo dell’utente italiano che sceglie la casa vacanza e il profilo di coloro che invece prediligono l’hotel, analizzandone per la prima volta i diversi comportamenti in termini di abitudini di viaggio e di spesa. L’analisi ha portato a delineare così precisi segmenti di viaggiatori: gli “alternativi” (chi utilizza sia case per vacanza che hotel) e gli “esclusivisti”, che includono sia coloro che utilizzano solo case per vacanza sia coloro che utilizzano solohotel.

“Gli alternativi”, chi sono?

I dati più interessanti di questo studio emergono proprio dal campione di indagine di chi sceglie sia case per vacanza che hotel. Questo segmento è composto per la maggior parte da giovani (il 40% ha < 34 anni) e adulti (il 23% ha 35-44 anni), risiede soprattutto al Nord (il 45%) o al Sud (24%) e ha uno status socioeconomico medio-alto, sia in termini di istruzione che di ceto sociale. Rispetto agli altri profili ha una maggiore propensione al viaggio: quasi l’80% di loro ha fatto almeno 2 vacanze lunghe e 2 short break negli ultimi due anni e, tra le due tipologie di alloggio (case per vacanza e hotel), il 56% di loro valuta e sceglie la prima.

Dove, come, quando, perché e con chi viaggiano gli alternativi?

Dove? Le destinazioni preferite da questo segmento di viaggiatori sono in assoluto le località balneari, che registrano il 47% delle preferenze, seguite dalle città d’arte (22%) e dalla montagna (11%). L’appartamentoè la tipologia di alloggio più gettonata, scelta dal 52% degli intervistati, seguita dalla casa indipendente/villetta (25%). Le altre tipologie di alloggio legate alla vacanza scelta (ad es. bungalow per le vacanze al mare, baita per la montagna, etc.) contano per il 20%.

Quando? L’estate è senza dubbio la stagione prediletta, in particolare il periodo giugno-agosto è preferito dal 56%, con un picco ad agosto (25%). L’autunno, e in particolare settembre, è scelto dal 16%, seguito dalla primavera, in particolare maggio (15%) e infine dall’inverno (gennaio soprattutto), che chiude con il 13%.

Perché? Gli alternativi amano viaggiare soprattutto per rilassarsi ed evadere dallo stress quotidiano (voto 4 su 5), godersi il meritato riposodivertirsi con i compagni di viaggio (voto 3,8 su 5) e infine per conoscere nuovi luoghi (voto 3,7 su 5) e nella scelta della destinazione, danno importanza anche all’offerta della stessa (enogastronomia 3,6, risorse culturali 3,5, naturali 3,3).

Con chi? Il gruppo è formato in media da 3 persone, con la maggioranza che decide di viaggiare in famiglia(partner e figli) o in coppia (entrambi al 36%). A seguire troviamo i gruppi numerosi, formati da partner/famiglia e parenti o amici (12%), gruppi di amici (11%) e infine chi sceglie di viaggiare da solo (2%).

Dove prenotano e come scelgono una casa per vacanze?

Le piattaforme online specializzate in affitti turistici sono il principale canale di informazione e prenotazione (37%), seguito dalle OTA e dai portali delle destinazioni turistiche, che registrano il 32% e il 30% delle preferenze, rispettivamente. Il passaparola tradizionale è ancora scelto dal 29% degli intervistati, mentre il 13% è un repeater (sceglie, cioè, sempre lo stesso alloggio). Chiudono le agenzie di viaggi (8%) e le agenzie immobiliari (7%).

La prima caratteristica presa in considerazione in fase di valutazione dell’alloggio è la posizione e il prezzo(voto 4 su 5), seguito dall’ambiente e i dintorni della casa (voto 3,8 su 5) e infine le recensioni su internet e il contatto diretto con i proprietari e i gestori di case vengono valutati con un voto di 3,6 su 5.

“In Italia il mercato degli affitti ad uso turistico è in crescita costante ed è uno dei più attivi in Europa, sia dal lato dell’offerta che della domanda, grazie alla diffusione di piattaforme e siti web specializzati in affitti – ha sottolineato Valeria Minghetti, Chief Senior Researcher di CISET -Da qualche anno a questa parte la figura del viaggiatore si è evoluta: la vacanza di stampo tradizionale esiste sempre di meno e ormai è pensata come esperienza per vivere i luoghi. In un mercato sempre più fluido e mutevole, abbiamo individuato quindi una tipologia di turista ‘ibrido’, che cambia le sue scelte e i suoi comportamenti in base alle sue molteplici individualità”.

 

“Gli esclusivisti”, chi sono?

E gli altri due segmenti? La ricerca ha tracciato anche il profilo degli esclusivisti. Coloro che hanno scelto di soggiornare solo in case per vacanza sono per la maggior parte adulti o maturi (il 47% ha più di 45 anni) e risiedono in prevalenza nel Nord Italia (57%). La loro vacanza ideale è tradizionale, prevalentemente al mare (45%) e in montagna (14%). Amano viaggiare in famiglia (42%) o in gruppi numerosi (15%) e in gruppo di amici (13%) per la prenotazione utilizzano sia le piattaforme specializzate in affitti brevi (32%) sia le OTA e altri intermediari (30%).

Diverse invece sono le abitudini di chi sceglie solo l’hotel; il target di riferimento ha un’età media più elevata (il 51% ha > 45 anni) e risiede un po’ in tutta Italia, ma con una maggiore concentrazione al Centro. Viaggia soprattutto in coppia (44%) o in famiglia (27%) e opta per una tipologia di vacanza più eterogenea: il 39% sceglie un soggiorno nelle città d’arte, mentre il 32% va al mare. Le cosiddette “bed banks” (i portali specializzati nella prenotazione di camere) sono il tool di riferimento per il 50% degli intervistati, seguiti dai portali delle località turistiche (27%).

 

Spese extra e impatto economico, i target a confronto

 

Ma veniamo alle spese extra: il barometro HomeAway/CISET indica che gli “alternativi” spendono in media € 573 per l’affitto e una cifra più che doppia in spese extra – € 1.165 Euro – per tutto il soggiorno, per un totale di € 1.738. Delle spese extra, la maggior parte è destinata alla ristorazione (40,4%).

Tra gli “esclusivisti”, sono i sostenitori delle case vacanza a spendere di più, non tanto in termini di affitto, quanto in attività da svolgere durante il proprio soggiorno, con un miglior indotto per il territorio (€ 766contro € 664 sostenuto da chi alloggia solo in hotel), dato un gruppo di viaggio più numeroso e una maggiore durata del soggiorno.

In generale, il fatturato generato da chi utilizza case per vacanza (esclusivisi e alternativi) si aggira intorno ai € 2,9 miliardi, di cui poco meno di € 1 Mld è dovuto alle spese di affitto e € 1,9 Mld sono le spese extra a destinazione.

A chiusura della presentazione dei risultati, Gualberto Scaletta, Country Manager Italy Vrbo, ha così commentato: “Siamo contenti di aver rinnovato anche quest’anno la nostra collaborazione con il CISET per la realizzazione di questo studio che quest’anno si è ulteriormente arricchito di importanti novità, Questa seconda edizione, infatti, fornendo diversi profili e comparandoli tra loro, ci offre molti dettagli interessanti per conoscere meglio, e per la prima volta, in maniera così dettagliata, quelli che abbiamo definito “Gli alternativi”, un profilo di turista, più fluido, consapevole e che sceglie sia l’hotel che la casa per vacanze, confermandoci ancora una volta quanto oramai siano due soluzioni di alloggio a tutti gli effetti complementari. In un contesto, anche se lieve, di ripresa economica – aggiunge il manager – in cui il viaggiatore diventa sempre più esigente e quindi più “fluido”, credo sia strategico ascoltarne più attentamente i bisogni e ad anticiparne le esigenze e per farlo è sempre più utile realizzare indagini come questa, che ci aiutano a tracciarne un profilo preciso, al passo con i tempi e non limitativo”.

* Definizione generica non corrispondente ad alcuna definizione legale

**Metodologia di analisi

  • Indagine CAWI condotta da SWG su un panel di 60.000 persone rappresentative della popolazione italiana
  • Intervistati Italiani 18 – 65 anni che hanno fatto almeno 1 vacanza/breve soggiorno (almeno 1 notte fuori casa) in Italia nel corso degli ultimi 2 anni (marzo 2017-aprile 2019)
  • Periodo: prima metà di aprile 2019
  • I campioni intervistati:

– Turisti in case per vacanza: 1.300 interviste a persone che negli ultimi 2 anni hanno trascorso almeno 1 notte in un alloggio in affitto e che hanno utilizzato anche altre tipologie di alloggio (hotel)

– Turisti in hotel, che NON utilizzano case per vacanza: 600 interviste a persone che negli ultimi 2 anni hanno trascorso almeno 1 notte in hotel, ma non in un alloggio in affitto

DALL’ASIA ALL’ITALIA: “VIETATO MANGIARE CANI E GATTI”

LA ONLUS CINESE “WORLD DOG ALLIANCE” FARÀ IL PUNTO GLOBALE SU QUESTA BARBARA USANZA


A pochi giorni dal famigerato “festival della carne di cane” di Yulin (Repubblica popolare cinese), in Parlamento si riparlerà del consumo e del commercio della carne di cane (e di gatto) in Asia e nel resto del mondo: un’usanza che, secondo stime attendibili, costa la vita a 30 milioni d cani ogni anno. Martedì 11 giugno, nella sala “Caduti di Nassirya” del Senato, l’on. Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente, presenterà la sua proposta di legge che vieta la macellazione, il commercio e il consumo della carne di cane e di gatto. Ospite d’onore, direttamente da Hong Kong, sarà il direttore della World Dog Alliance, rappresentata in Italia dalla LEIDAA, che da anni si batte a livello globale contro il consumo e il commercio della carne di cane e che, per l’occasione, farà il punto sui progressi della legislazione in Asia, negli Stati Uniti e in Europa. La conferenza stampa avrà inizio alle ore 12.

IL CONSUMO DI CARNE DI CANE IN CIFRE

30 MILIONI DI CANI sono uccisi e mangiati ogni anno in Asia; IL 70 PER CENTO sono animali domestici sottratti alle famiglie;

L’80 PER CENTO dei vietnamiti e il 60 per cento dei coreani mangia carne di cane; IL 20 PER CENTO della popolazione cinese mangia carne di cane;

TORTURARE un cane prima della “lavorazione” è un metodo consigliato per preservare le presunte proprietà “energetiche” della carne.

(Fonte: World Dog Alliance)

Trent’anni di Guardia Costiera

L’8 Giugno, ricorre il trentesimo anniversario della nascita della Guardia Costiera, istituita nel 1989 quale articolazione tecnico operativa del Corpo delle Capitanerie di porto

Il Corpo nasce ufficialmente con un Regio Decreto del 20 luglio 1865. La Guardia Costiera, così come noi la intendiamo, tuttavia, appartiene a un’epoca più recente.

Sarà solo con un Decreto interministeriale dell’8 giugno 1989 che verrà attribuita ufficialmente la denominazione di “Guardia Costiera” ai reparti tecnico-operativi del Corpo, attribuzione alla quale negli anni successivi farà seguito l’adozione della tradizionale livrea bianca e del logo, ormai noto, raffigurante una fascia tricolore con al centro un’àncora nera su campo circolare bianco.

Per celebrare questa ricorrenza, a Catania, lo scorso 5 giugno si è tenuta, una esercitazione di soccorso in mare, che ha visto l’impiego di mezzi aerei e navali nonché la presenza di figure specialistiche come gli aerosoccorritori e soccorritori marittimi della Guardia Costiera. Il 6 giugno è stato dedicato, invece, ad una giornata di studio nella quale è stata ripercorsa la storia della Guardia Costiera: un’istituzione moderna, che fonda le proprie radici nelle attività di carattere amministrativo connesse con gli usi civili e produttivi del mare, organizzata oggi con mezzi aeronavali e tecnologie all’avanguardia, con uomini e donne che operano ogni giorno in favore della collettività.

L’evento, al quale ha partecipato il Comandante Generale delle Capitanerie di porto – Guardia CostieraAmmiraglio Ispettore Capo Giovanni Pettorino, si è svolto alla presenza degli ex Comandanti e Vice Comandanti Generali, dei Comandanti Regionali e del personale del Corpo insignito della Medaglia d’oro.

Grazie anche alla preziosa testimonianza dei decani del Corpo, è stato tracciato un breve quadro delle condizioni storiche che hanno portato alla creazione della attuale Guardia Costiera italiana e degli eventi più importanti che hanno contraddistinto il suo percorso operativo: dalla missione in Albania (1991), la prima compiuta fuori dai confini nazionali, allo sventato disastro ambientale  della nave “Rhodanus” sulle coste della Sardegna (2010), passando per i soccorsi effettuati nel Mediterraneo centrale, alle navi Costa Concordia (2012) e Norman Atlantic (2014).

Particolare commozione, ha suscitato tra tutti i presenti, il ricordo del Comandante Natale De Grazia, medaglia d’Oro alla memoria, morto il 12 dicembre 1995 mentre indagava, con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, su una complessa attività ambientale legata a traffici illeciti operati da navi mercantili nel Mediterraneo.

M.Iar.

Autista di bus ubriaco mentre sta per portare in gita la scolaresca

DALLA LOMBARDIA

La Polizia Stradale di Brescia ha fermato il conducente di un autobus, sul quale stava salendo una scolaresca, perché è risultato positivo all’alcoltest.  Una pattuglia  ha controllato un pullman di alunni delle superiori pronti per una gita e l’uomo non era nelle condizioni di guidare: alle 7 e 30, aveva un tasso alcolico superiore al consentito.

Giappone, consigli per il viaggio

Più di undici ore di volo, dodicimila chilometri di distanza, un mondo diverso, diverso dal nostro, dalla nostra cultura, dalle nostre abitudini, differente persino dall’Asia che lo circonda. Moderno e all’avanguardia ma anche resistente alle tradizioni, antiche e gloriose, coinvolgenti e misteriose. Il Giappone, il paese del Sol Levante, profondità e sostanza, un luogo che dà la sensazione a chi lo visita di essere distante davvero, “lontano dalla mia vita” diceva Nicolas Bouvier, il viaggiatore svizzero. Questa isola, accompagnata da moltissime altre, merita di essere visitata, è un posto unico, fertile di cultura, fitto di contrasti, caratterizzato da una simmetria e da un equilibrio spesso incomprensibili. Tokyo, avanzata ed evoluta, con i suoi grattacieli, la sua vita frenetica, immensa e spiazzante. Kyoto antica capitale e centro religioso del paese, i suoi templi incastonati nelle vecchie case e il Cammino del Filosofo. Hiroshima memore di terribili e storici dolori, odierna città della pace con il suo imperdibile Memorial. Osaka vivace e produttiva con il Museo di Arte Moderna e la Cerimonia del tè. E poi Nikko, Inari, Nara, Miyajima, il Monte Fuji e una lista lunghissima di luoghi da conoscere e da vivere. La diversità, la lontananza e la complessità ci spingono alla scoperta di questa terra con uno spirito esplorativo e curioso, con una voglia irresistibile di conoscere e inoltrarci senza riserve in questa cultura millenaria, ma il viaggio è invitante anche per la serenità e la fiducia che questo luogo ci ispira, per la promessa di sicurezza e affidabilità. Alcuni consigli di viaggio renderanno la visita in Giappone ancora più comoda, faciliteranno il soggiorno e saranno di supporto preventivando alcuni possibili inconvenienti. Un primo suggerimento per prepararsi al viaggio è quello di andare sui blog di esperti del paese che sono, rispetto alle guide turistiche o alle brochure d’agenzia, più completi, minuziosi di particolari e punti di vista, per esempio: marcotogni.it , sognandoilgiappone.com o viaggiappone.com . Molto importante è l’affitto di un wifi portatile per almeno due motivi, il primo riguarda l’assenza di nomi delle strade e una mappa virtuale quindi può risultare davvero utile, il secondo riguarda la lingua: quasi nessuno parla inglese e un supporto digitale può essere d’aiuto per traduzioni e utilizzo dei trasporti pubblici (ordinabile online prima di partire, da ritirare e consegnare in aeroporto o nel primo/ultimo albergo dove si soggiorna) . E proprio riferito agli spostamenti è il prossimo consiglio: l’acquisto del Japan Rail Pass, per viaggiare in treno per evitare di acquistare i biglietti ogni volta, e della Suica o Pasmo Card per usufruire dei trasporti a Tokyo. Un servizio molto utile (a pagamento) è l’invio delle valige da un albergo all’altro, questo consente di viaggiare leggeri soprattutto se tra due soggiorni si inseriscono gite giornaliere.

Il volo per il Giappone dall’Italia è davvero lungo, molte sono le compagnie che ci arrivano a cominciare dalla nostra compagnia di bandiera che ha il volo diretto ma solo su Tokyo mentre le altre europee arrivano e ripartono anche da Osaka e per chi fa il tour è molto comodo non dover tornare nella capitale giapponese per il rientro. Considerato il tempo da passare in aereo sarebbe meglio che l’aereo fosse comodo e grande per permettere un minimo di movimento e la seduta con lo spazio necessario per riposare . Qualcuno vola, a mio avviso, con aerei troppo piccoli per rotte così lunghe.

Gli alberghi sono molto curati e puliti, anche le categorie minori, si può soggiornare quindi senza spendere una fortuna, l’unica cosa da controllare è la dimensione della stanza che rispetto ai nostri standard è decisamente più piccola. Sicuramente da fare è l’esperienza del ryokan, l’albergo tipico giapponese, notte sul futon, cena sul tatami e relax nell’onsen, le loro terme, dove si accede esclusivamente senza indumenti. Se si vuole risparmiare un po’ si può escludere la colazione solitamente abbastanza costosa, non si avranno problemi a trovare catene internazionali o bar locali.

Mangiare è semplice, ci sono ristoranti ovunque perfino alcune fermate delle metropolitane hanno un’ala ristorazione. Oltre al cibo giapponese, buonissimo anche nei locali più piccoli e semplici, si trova molto facilmente anche quello internazionale e perfino l’italiano. Per ovviare al problema della lingua e per fare chiarezza sul cibo offerto le vetrine dei locali espongono plastici dei piatti, alcuni invece hanno all’esterno delle macchinette per ordinare e pagare, il cibo verrà poi ritirato al bancone e mangiato ai tavoli.

I periodi più indicati ma anche più turistici, e quindi affollati sono, per la fioritura dei ciliegi, marzo e aprile e l’autunno sia per il clima ma anche per i colori che la natura offre. Maggio è un altro periodo buono per andare ma attenzione alla Golden Week, che in genere cade nella prima settimana, feste nazionali e vacanza per i giapponesi. In questo periodo gli abitanti del luogo viaggiano e fanno pellegrinaggi, trovare posto negli alberghi, sui treni o aerei è più difficile.

Quest’ultimo più che un consiglio è una positiva costatazione: la proverbiale gentilezza dei giapponesi a cui bisogna abituarsi. Sì perché è davvero tanta, presente in ogni loro gesto, a decoro di ogni azione e di rinforzo in ogni loro risposta: inchini, sorrisi, tentativi ad ogni costo per accontentare le persone a cui forse non siamo abituati e che potremmo considerare spesso come formalità inutile, ma non è così, è parte della loro meravigliosa e delicata cultura, anche questo è il Giappone.

Maria La Barbera

 

Normandia, le spiagge dello sbarco e le memorie di vincitori e vinti

STORIA
All’alba del 6 giugno 1944 ebbe inizio la più grande offensiva militare della storia con lo sbarco in Normandia. In quello che verrà ricordato come il “giorno più lungo” – in codice, operazione “Overlord” – gli anglo-americani impiegarono un impressionante numero di uomini e mezzi. Circa 150mila soldati americani, britannici, canadesi, polacchi e francesi attraversarono il Canale della Manica, trasportati o appoggiati da quasi 7 mila navi e 11 mila aerei,  sbarcando su cinque spiagge – ribattezzate Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword– nel tratto di costa normanna che si estende per circa un centinaio di chilometri,tra Le Havre e Cherbourg. I nazisti del Terzo Reich avevano costruito , dalla Norvegia al sud della Francia, un sistema di bunker e fortificazioni conosciuto come il “Vallo Atlantico” ed erano convinti che un’eventuale sbarco alleato sarebbe avvenuto nel Pas de Calais, nel punto in cui la costa inglese e quella francese sono più vicine. E lì avevano concentrato gran parte delle loro forze. L’operazione “Overlord” avvenne invece più a sud, sulle spiagge di Nomandia e la battaglia divampò violentissima. Nel primo giorno dello sbarco furono più di diecimila le perdite alleate  tra morti – oltre un terzo del totale – , feriti, prigionieri e dispersi. Oltre novemila quelle tedesche. Sul litorale della Côte de Nacre, la splendida costa  di madreperla, da Deauville a Cherbourg, da Arromanches al  promotorio della Pointe du Hoc, si consumò una delle vicende più drammatiche e sanguinose della storia del ‘900. Il panorama stupendo che domina e s’affaccia sull’oceano rende quasi impossibile immaginare tanta violenza e dolore. Eppure basta guardarsi attorno per vedere ancora le ferite prodotte dai campi di battaglia: voragini aperte nel terreno dalle bombe piovute dal cielo e dal mare, resti delle casematte e dei pontoni sulle spiagge, bunker e postazioni d’artiglieria pesante,i tanti cimiteri e musei di guerra disseminati un po’ ovunque a testimoniare ciò che accadde più di settant’anni fa. Lo sbarco in Normandia fu decisivo per la vittoria degli alleati che ad un prezzo altissimo riuscirono a conquistare una testa di ponte, combattendo per altri due mesi prima che l’esercito tedesco cedesse e cominciasse una ritirata che sarebbe finita soltanto ai confini della Germania. La battaglia di Normandia durò dal 6 giugno al 25 agosto del 1944, con la liberazione di Parigi, e fu una delle più cruente tra quelle combattute sul fronte occidentale, costando più di 70mila morti fra gli alleati e oltre 200mila fra i tedeschi. Altri 20mila furono i morti fra i civili. Moltissimi di quei soldati caduti riposano oggi  nei 30 cimiteri distribuiti in tutta la regione, dei quali 22 nel solo dipartimento del Calvados. Ci sono quelli canadesi di Bretteville-sur-Laize e Bény-Reviers e quelli britannici ( ben sedici), a partire da Bayeux, una delle prime città ad essere liberate dai nazisti dove, il 16 giugno 1944, il Generale De Gaulle tenne il suo primo discorso sul suolo francese libero. Il cimitero di Bayeux raccoglie le spoglie di quasi quattromila combattenti britannici e un memoriale che ricorda i 1809 soldati del Commonwealth che non hanno ricevuto una sepoltura. Senza nulla togliere a questi luoghi di memoria, ce ne sono almeno due tra i tanti che meritano un’attenzione particolare. Il primo è quello di Colleville-sur-Mer, il più famoso cimitero americano della seconda guerra mondiale in Europa,  che ospita – allineate sotto le croci bianche – le tombe di 9387 soldati caduti durante lo sbarco e i combattimenti che seguirono. Situato sulle alture che sovrastano la spiaggia ribattezzatabloody Omaha, la sanguinosa Omaha,  è meta ogni anno di un milione di visitatori. All’entrata del cimitero c’è un moderno centro visite e l’intero memoriale è gestito dall’American Battle Monuments Commission (ABMC), un’agenzia indipendente creata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1923 allo scopo di conservare la memoria dei cimiteri militari americani. Le croci di Colleville-sur-Mer spiccano nel loro candore sul curatissimo prato all’inglese. Una grande bandiera a stelle e strisce sventola sospinta dalle folate di vento che soffiano dall’Atlantico portando con se una pioggia fine e intensa. “Croci candide, luminose, erette, protette da centinaia di uomini, circondate da felpato silenzio”, scrisse tempo fa Paolo Rumiz. Al punto d’apparire come “croci della causa giusta, il simbolo di una guerra pulita. Croci di prima linea. Vicine al cielo, in cima alla collina, con vista mare”. Quindici chilometri più a sud, quasi sperduto nella campagna, c’è il piccolo abitato di La Cambe. Siamo sempre nel dipartimento del Calvados e non distante dal paese c’è il cimitero dove riposano i corpi di 21.222 soldati tedeschi. Il doppio di quelli sepolti a Coleville, in uno spazio che più o meno è la metà. Qui l’immagine è del tutto diversa. Ciascuna delle pietre tombali, di un’estrema semplicità, porta inciso i nomi di due soldati. Su una piccola e verde collina al centro del cimitero, svetta una croce di pietra che pare voler proteggere l’uomo e la donna raccolti in preghiera che gli stanno a fianco. Inizialmente era anche questo un cimitero militare americano. I caduti dello sbarco furono sepolti su un lato e quelli tedeschi sull’altro. Quando, nel 1948, le salme dei soldati americani furono esumate e trasferite negli Stati Uniti, quello di La Cambe divenne interamente un cimitero militare tedesco. Non c’è nulla di spettacolare o  scenografico. Più raccolto, al punto da indurre quasi naturalmente a riflettere, La Cambe si presenta più come un campo della pace che un cimitero di guerra. Anche lì la pioggia sferzava le croci di pietra scura, quasi prostrate a terra, “schiacciate dal destino scuro che la storia, scritta dai vincitori,riserva agli sconfitti”.Non c’è vigilanza armata e nemmeno un religioso silenzio lì attorno, essendo quasi ai bordi dell’ autostrada Parigi-Cherbourg, dove rombano le auto e i Tir. Non è a ridosso della linea del fronte, affacciato sulle spiagge del “D-day”. Questa, a quel tempo, era una retrovia. Eppure, nonostante quello di La Cambe sia “un cimitero dei vinti” è più percepibile lì che altrove l’orrore, la violenza e l’incubo della guerra. Un orrore, parafrasando ancora Rumiz “più esplicito”, che non induce al rischio di “sdoganare altre guerre”. Una scritta in pietr
a ammonisce in tedesco “dunkel ist”, “è buio”. Buio come il destino dei tanti che caddero su entrambi i fronti nel 1944,  sotto quella luce del nord di Normandia che gli impressionisti immortalarono sulle loro tele.

Marco Travaglini

(foto di Barbara Castellaro)