“Cara Italia, ti racconto come cambia lo sguardo”

INTERVISTA CON SUSANNA TRIPPA

Sulle orme di Oriana Fallaci: in libreria l’intensa scrittura tra cuore e mente dell’appassionata scrittrice bolognese, da anni in terra lombarda.

In un momento storico di continui cambiamenti, indecisioni e relativismi di ogni genere che fioriscono come funghi, val la pena fermarsi a riflettere. Per capire chi siamo, da dove proveniamo, e, soprattutto, dove stiamo andando. Quale direzione abbiamo intrapreso, e soprattutto quale approdo ci attende.

Per capire, per l’appunto, ‘Come cambia lo sguardo’ (Curcio Editore), alle volte, il più delle volte, occorre guardarsi indietro, alle spalle. E rivolgere l’occhio alla memoria dei ricordi: quelli più sottili, più fragili, forse anche più intimi e personali, ma che, spesso, sono anche i soli in grado di dare una giusta e corretta lettura al passato perché sia di piena utilità alla comprensione del presente.

Proprio come ha saputo fare Susanna Trippa, stimata scrittrice e intellettuale, che nel suo ultimo romanzo approfondisce, sul filo dell’autobiografia mai autoreferenziale né tantomeno celebrativa, i volti, i colori, gli umori, i pensieri, gli stili, le abitudini e gli atteggiamenti di un’epoca – il Sessantotto e i suoi lasciti – che, per certi aspetti, molto ricalca del momento attuale. Ecco che cos’ha raccontato ai nostri microfoni.

Susanna Trippa, dai racconti alla cronistoria autobiografica. ‘Come cambia lo sguardo’, in prospettiva narrativa?

I racconti di CasaLuet sono stati per me il riemergere della Scrittura che, anche se in sordina, era sempre rimasta al mio fianco fin da quando – bambina – m’immedesimavo nel personaggio di Jo in ‘Piccole Donne’. Devono il nome alla buffa casetta in collina dove sono andata a vivere, da quando scrivo. Tranne uno, I tre porcellini – ispirato a un episodio realmente accaduto a mio padre nel corso della seconda guerra mondiale – i racconti sono animati da personaggi che, come dice bene Stephen King, “s’inventano da soli”; e, aggiungo io, “cucendosi addosso ognuno la propria storia”. Come cambia lo sguardo è nato invece scandagliando dentro di me, lasciando con calma che i cassettini dei ricordi si aprissero e rilasciassero sulla sabbia i loro fumi del passato come fa la risacca.

Ognuno di noi lo può fare…

All’inizio pare di non ricordare, e invece la memoria fa riemergere episodi, sensazioni, persone che parevano del tutto dimenticati. Ricordare – dal latino Re-cor-da-re che significa “riportare al cuore” – perché, come scrisse Rudolf Steiner, “Dietro i ricordi sta il nostro Sé”. I miei si sono presentati, li ho trascritti in modo spontaneo, quasi in una sorta di scrittura “automatica”. Già lì mi accorsi che, in quel percorso di formazione – da bambina a donna, e soprattutto attraversando fasi storiche tanto diverse – lo sguardo cambiava, e tanto! Recentemente, una scrittura nascosta tra le righe mi ha chiamato con forza a verificare che lo sguardo era di nuovo cambiato: a quel punto sono nate le Riflessioni iniziali, in cui ho cercato di evidenziare i collegamenti – innegabili direi – tra quel passato, il Sessantotto in particolare, e il momento presente.

Che cos’è stato, per Lei, il Sessantotto?

Ragazza nella rossa Bologna, in quegli anni era quasi fisiologico essere affascinati dall’area del Movimento, farne parte: anche se costantemente da “cane sciolto”, come me. Rincorrevo un ideale di giustizia, e il Sol dell’Avvenir mi pareva incarnarlo. Molto guidava l’emozionalità. Il Sessantotto allora, anche se nato dalla contestazione globale e all’inizio quindi non politico, aveva poi finito per identificarsi con la Sinistra. Per me – e sicuramente non solo per me – significava anche rompere con tanti schemi vecchi che non convincevano più, fare conquiste personali, anche nel privato. A rivedere ora quei tempi… ha voluto dire anche illudersi di essere quasi onnipotenti, di non avere limiti… ha portato al disequilibrio, perché poi ti scontravi con la realtà, e i conti non tornavano. Io ne ero attratta e, allo stesso tempo, il mio sempiterno spirito critico mi faceva sorgere l’ennesimo dubbio. Calandosi poi in ambito strettamente politico, che belle le manifestazioni! Ma poi sentivo urlare “A piazzale Loreto c’è ancora posto!”, e non mi ci ritrovavo. E i compagni del servizio d’ordine mi parevano giocare alla guerra, come i bambini maschi che, nel cortile quando si era piccoli, con la cerbottana infilzavano lucertole.

 Come nasce l’idea di questo libro?

Il racconto autobiografico è nato con spontaneità. Mi sono accorta che mi piaceva molto ricordare, l’ho fatto e ho trascritto. L’idea delle Riflessioni iniziali è invece stata una scelta razionale. Scorgendo tanti e tali collegamenti tra quel passato e l’attualità, ho pensato che la mia testimonianza potesse essere utile. Il che mi fa pensare che non sono cambiata poi tanto: nonostante il mio occhio sia diventato molto critico nei confronti del Sessantotto, inseguo ancora ideali di giustizia.

 Quale, secondo Lei, un episodio cardine del Suo romanzo autobiografico?

Uno all’inizio, nei primi anni Cinquanta. Il ricordo principe della mia infanzia – quando, da piccolissima in un mattino di giugno, m’incantai dinanzi alle campanule screziate di rosa sulla rete del cortile, e mi parve l’Inizio, il primo mattino del mondo. Fu simbolico della meraviglia dell’infanzia – la mia in quel caso – di fronte alla vita. L’altro verso la fine del mio raccontare, quando, nel marzo del “77 mi ritrovai in una Bologna messa a ferro e fuoco dai “kompagni”, con ‘Radio Alice’ che guidava la guerriglia, e la polizia che caricava. Me ne andai, prendendo finalmente le distanze da tutto quel mondo, mentre pensavo: “Davvero ‘Radio Alice’ pensa si possa prendere Bologna? come il Palazzo d’inverno a San Pietroburgo? Ci hanno lasciati giocare, adesso dicono basta. Che ridicoli anche questi compagni!” Per me rappresentò la vera fine di un’illusione. E ancora una volta cambiò lo sguardo.

La ‘Città delle Due Torri’, oggi, secondo Lei, come appare rispetto a ieri?

Penso che Bologna, come molte altre città italiane, abbia un aspetto sempre più globalizzato. Quando ero ragazza io, la politicizzazione dei giovani era molto evidente, però accanto a questo fenomeno ancora resistevano le tradizioni. Penso a mio zio, che era il classico bolognese di una volta. Penso a certe mattine in cui, attraversando Piazza Maggiore, per andare all’Università, nell’aria nebbiosa scorgevo qualche vecchio ancora avvoltolato nella capparella nera che usavano nelle campagne, penso alle vecchie osterie – qualcuna ancora autentica – dove si andava la sera, a quella “Delle Dame” dove iniziò Francesco Guccini, alla vecchia trattoria del Mulino Bruciato. Ora a Bologna fanno politica sindacati, coop e partiti di pseudo sinistra, sostenendo a spada tratta la necessità dell’accoglienza più sfrenata di clandestini. Al posto della lotta di classe c’é il dogma dello ius soli e sempre più islam, ramadan, negozi etnici, burka etc. Succede così che molti ex compagni e operai e proletari si sentano messi da parte dai loro storici partiti di riferimento e votino Lega per esempio o FdI.

Un tempo Bologna, e oggi, invece, a quale o più città italiane attribuirebbe quel ruolo di focolaio o focolare della protesta?

Non mi pare che ci sia oggi un centro specifico, in Italia, per la protesta. Qua e là solo qualche manifestazione sporadica – colorata di vecchi schemi e temi – di centri sociali, Anpi et similia. Per paradosso – come insegna il filosofo inglese Roger Scruton – penso che i conservatori siano i veri rivoluzionari di oggi.

Destra e Sinistra: esistono ancora?

Sono categorie vetuste ormai. Lo scontro è tra l’Alto (grande finanza globalizzata) e il Basso (la gente, il popolo). In quest’ottica mi spiego l’enorme successo di Matteo Salvini presso la gente con la formula del “buon senso” che lui stesso sottolinea. La vera protesta oggi passa attraverso quelle persone – giovani e meno giovani – che non seguono più i vecchi schemi della politica. Persone che cercano di decodificare i pericoli di un’eccessiva globalizzazione, che vanno contro l’automatismo e la spersonalizzazione, che tentano di recuperare il legame con le proprie radici, il rapporto con la natura e i suoi ritmi, il che di conseguenza li aiuta anche a ritrovare in sé una dimensione più spirituale. Persone che cercano di ragionare con la propria testa, e s’inventano lavori nuovi in questa direzione. Sempre più consapevoli del grande danno dell’inquinamento, senza però cadere nella trappola/Greta che, come ho letto sull’Opinione delle Libertà, è un “movimento nato e studiato a tavolino, nel senso che è ingenuo ritenere che l’uomo unicamente sia responsabile di cambiamenti climatici, verosimilmente corrispondenti a fasi naturali nella vita del nostro pianeta”.

Anche da questo fenomeno però si può assimilare un elemento positivo…

Ogni cosa ha in sé un po’ di cattivo e un po’ di buono, ne sono convinta, anche perché altri ben più saggi di me l’hanno sempre sostenuto. E così può rappresentare uno stimolo a contrastare di più l’inquinamento – di cui non si può contestare l’esistenza – modificando abitudini personali oltre che collettive.

Come si inserisce, nel contesto culturale e storiografico generale attuale, il Suo romanzo?

Lo considero una testimonianza, che si unisce alle voci di quanti oggi (politici, giornalisti/scrittori e tanta gente “comune”, perspicace più di quanto si creda) vogliono riappropriarsi delle proprie vite contro i poteri forti che veicolano il pensiero unico.

Evidenzia nelle Riflessioni iniziali di come il Sessantotto abbia grandi responsabilità nelle dinamiche sociali e politiche attuali, in quanto, nel vuoto di principi fondanti, il Sessantotto ha finito a sua volta per rafforzare la posizione egemonica della Sinistra, che ormai sostiene solo le élite, pur camuffando il suo vero atteggiamento dietro la visione edulcorata di un mondo sempre più globalizzato, multiculturale e relativistico.

Evidenzia il pericolo dell’Islam in un mondo – il nostro – che è diventato estremamente – troppo – relativistico e appunto vuoto di principi. Tutto questo è avvenuto perché – liberi di crederci o no – esiste un piano contro l’autodeterminazione dei popoli.

Come per l’appunto aveva già compreso decisamente bene queste dinamiche Oriana Fallaci, da molti criticata.

Il mio romanzo – nella sua parte narrativa autobiografica – mostra anche, leggendo tra le righe degli accadimenti quotidiani, di come si abbia avuto troppa fretta di eliminare quanto era stato fatto negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, dalla ricostruzione in poi.

Ritiene che, anche oggi, vi sia un nuovo, possibile, Sessantotto?

Il Sessantotto di oggi sarà finalmente quella “contestazione globale” contro l’eccessivo consumismo, che doveva avvenire ma non avvenne, ingoiata come fu dalla politica. Però tale contestazione avrà finalmente compreso che non si può “uccidere il padre” perché occorre sempre avere un limen un confine, altrimenti il tutto si disequilibra. Avrà anzi compreso che deve rimettere Dio – il Sacro – all’interno del suo vivere.

Che cosa ne pensa di quanto accaduto a una Sua collega allo scorso ‘Salone del Libro di Torino’?

Sì, l’episodio di cui è stata protagonista la casa editrice ‘Altaforte’ e la scrittrice Chiara Giannini per il libro/intervista al ministro dell’interno Matteo Salvini, in cui è stata attaccata la libertà di espressione e di stampa, per cosa poi? per un’intervista innocente in cui Matteo Salvini dichiara di sentirsi lontano da tutti gli “ismi”.

Episodio che farebbe anche ridere perché l’esclusione di Altaforte dal Salone del Libro di quest’anno ha provocato un’enorme visibilità per il piccolo editore e il libro, in oggetto, è schizzato al primo posto nelle vendite. Oltretutto, questa esclusione si è rivelata ipocrita perché comunque in altri stand erano presenti, come sempre, libri fascisti e nazisti.

Mi trovavo anch’io al Salone del Libro – per fortuna il mio editore ‘Curcio’ dignitosamente non ha esposto quella dichiarazione strumentale di antifascismo con cui parecchi stand cercavano di cavalcare l’onda. Tutto questo sbandieramento di antifascismo contrastava invece ai miei occhi con l’enorme incombente stand – generosamente collocato all’ingresso nonostante le torture, le esecuzioni capitali e le discriminazioni – dello stato di Sharjah, uno dei sette emirati arabi, ospite d’onore al Salone quest’anno.

Una scelta che ha sollevato anche le critiche di Amnesty International.

Mi disgusta, devo essere sincera, questo eterno doppioppesismo, queste cause pseudo morali impugnate per motivi strumentali. In questo caso la dichiarazione “Io sono fascista” di Francesco Polacchi utilizzata – insieme ad altri numerosi strumenti tra cui attacchi della magistratura – contro la Lega durante la campagna elettorale prima del voto europeo. Ormai queste dinamiche sono talmente scoperte però, che la gente non se le beve più. Lo stesso vale per il fenomeno dell’accoglienza indiscriminata – con le scritte deliranti “Siamo tutti clandestini” in cui pezzo per pezzo anche questa trappola è stata smontata, scoprendo il business che sta dietro e, ancora più indietro, il piano per introdurre nuovi schiavi nel mondo del lavoro, con il doppio scopo di abbassare i salari, e poi sradicarci e frullarci insieme anche etnicamente per renderci sempre più automi che devono solo consumare. Il vero progetto che sta sotto a tutto è questo: il piano Kalergi dell’inizio Novecento. Non è fantascienza, basta guardarsi attorno per accorgersi che si sta attuando. Nelle mie Riflessioni iniziali ne parlo.

Chi sono per Lei, oggi, gli ‘antifascisti’?

Gli ‘antifascisti’ di oggi sono quelli che continuano a gridare: “Al lupo! Al lupo!” non accorgendosi – o rifiutando consciamente di accorgersi – che queste due ideologie Fascismo e Comunismo sono finite con il Novecento. Come ho già detto, il pericolo di oggi non è il fascismo ma la globalizzazione sfrenata in mano ad un capitale senza scrupoli che guarda alle persone solo come massa da sfruttare.

L’antifascismo è però ancora quel collante, ormai con poca presa però – già definito da Pasolini antifascismo “archeologico” – che tiene unito il popolo della ormai defunta Sinistra. A mio avviso, con questi comportamenti prevaricatori, gli antifascisti di oggi rischiano di essere i veri “fascisti”.

Media e antifascismo, presunto o reale. Ci spiega questo rapporto, per favore?

I media, tranne alcune eccezioni, rappresentano la cassa di risonanza del “pensiero unico”, del “politically correct” di cui l’antifascismo è uno dei cardini principali. Per sostenerlo utilizzano argomentazioni ormai fruste e rifruste, a cui forse non credono più neppure loro. Però devono obbedire agli ordini.

Si parte sempre dall’assunto che il fascismo sia per forza peggio del comunismo. Quindi per esempio, sì va beh… potremmo condannare anche le foibe o i gulag… ma vuoi mettere con i crimini fascisti e nazisti? Non c’è paragone.

E invece, se ci si documenta davvero storicamente, si vede che non è affatto così, proprio per niente. Negli ultimi anni sono stati anche aperti archivi storici, per cui esiste la possibilità di documentarsi maggiormente e rivedere delle posizioni. E invece no, stanno sempre tutti lì, non si staccano da luoghi comuni, che poi ultimamente abbiamo visto fare tanti danni. Con la scusa di esportare la democrazia siamo andati infatti in Iraq e in Libia a destabilizzare zone calde, anzi caldissime.

Con conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti…

A questo proposito mi ha molto colpito una riflessione del Dalai Lama, intervistato nel 1968 da Oriana Fallaci all’età di trentatré anni, già in esilio dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina comunista: Il fatto è che oggi non si può più pensare in termini di comunismo e anticomunismo, capitalismo e anticapitalismo: bisogna pensare alla soluzione che beneficia di più un popolo in particolari circostanze economiche, storiche, culturali. Trovo che questo pensiero del Dalai Lama –

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