CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 641

Pittori / Poeti / Pittori

FINO AL 17 DICEMBRE 

“Ho continuato fino a diciotto, diciannove anni a non sapere se la mia vocazione fosse quella del pittore piuttosto che quella dello scrittore”: a confessarlo é Franco Fortini, pseudonimo di Franco Lattes (Firenze, 1917 – Milano, 1994), poeta “difficile e intenso”, critico letterario e saggista, ma anche (pochi lo sanno) pittore. E pittore vero, con tanto di corsi all’Accademia e laurea in Lettere, con tesi in Storia dell’Arte su Rosso Fiorentino. Una passione per la pittura e per il disegno ben testimoniata per altro dalle oltre 300 opere conservate nell’Archivio del “Centro Studi Fortini” dell’Ateneo di Siena. E proprio Fortini è uno dei nove grandi artisti del nostro Novecento (con il dubbio del “cosa farò da grande?”) protagonisti della raffinata mostra “Pittori / Poeti / Pittori”, curata da Marco Vallora, con l’organizzazione della “Fondazione Bottari Lattes”, e allestita nel Palazzo Banca d’Alba, fino a domenica 17 dicembre. “Il titolo della mostra – spiega Vallora richiama una circolarità, un volano che evoca un’incertezza feconda tra arte e poesia. E’ un fenomeno che in Italia ha avuto alcuni esiti assai curiosi: artisti che all’inizio del loro percorso sono indecisi sulla strada da prendere, se farsi pittori, poeti, musicisti o saggisti”. Fortini optò per la “parola”, senza mai ripudiare però la pittura e soprattutto il disegno e l’opera grafica: suo in mostra un rigoroso “Autoritratto”, linografia su carta del 1936-’37, palese dimostrazione di un’abilità tecnica (nell’uso marcato e attento del lavoro di sgorbia) che andava ben oltre il semplice diletto del fare. La rassegna s’avvia con il bellissimo “Beccaccino”, regalato da Filippo De Pisis a Eugenio Montale (entrambi classe 1896, conosciutisi nel 1919 post-bellico): dono che voleva ricambiare l’omaggio fatto dal poeta ligure di una copia delle sue “Occasioni” con tanto di dedica al pittore ferrarese, che Montale sapeva essere anche buon poeta. E in mostra (dove di De Pisis scrittore troviamo manoscritti di poesie, libri rari e tele che rappresentano il tema del libro, della penna-piuma e del sonetto) scopriamo la lettera in cui, fra orgoglio e ironia, Montale confida al De Pisis: “Lei non lo sa, ma sono anche io pittore, e forse più bravo di lei”. Parole audaci se raffrontate ai risultati pittorici “non brillanti” ma “pugnaci”: incisioni, tele, bozzetti a pastello. Insieme a carte, lettere, autografi e fotografie. Allievo a Bologna, come De Pisis, di Roberto Longhi, anche per Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Ostia, 1975) la passione per l’arte e la pittura è per tutta la vita compagna fedele della sua attività di regista-scrittore-poeta-giornalista. In mostra ad Alba, troviamo disegni, scritti poetici e autoritratti. Particolarmente suggestivo il pirandelliano“Autoritratto con il fiore in bocca” realizzato a 25 anni, il volto verdastro ferito da violente pennellate bianche e nere, un fiore rosso in bocca e un disegno di ragazzo alle spalle; opera – s’è scritto – che parla già di “sconcertante anticipazione del tocco distorto di Francis Bacon”. Curiosa e abbastanza unica anche la caratteristica di Pasolini, messa in luce dalla rassegna (che propone anche spezzoni scelti e montati del suo cinema), di dipingere non solo con i colori tradizionali, ma con stramberie come fondi di caffè, olio e vino. E che dire di quello stravagante divertissement che pare essere il “Ritratto di De Pisis col pappagallo” realizzato da Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975) nel ’33? Quanto lontana è la lezione casoratiana e l’elementare monumentalità dei ritratti della gente di Lucania! Qui Levi bonariamente ironizza sull’eccentrica personalità di De Pisis, appassionato collezionista di strane “chincaglierie da Wunderkammer”, immortalandolo con giacca di un azzurro “polveroso” su cui trionfano chiassose medaglie, il fiore all’occhiello, la cravatta a pois e sul viso bello tondo il monocolo e l’orecchino, a far da pendant con gli anelli sopra il guanto di pelle. E, per finire, sulla spalla destra il “pappagallo Cocò”. Verso il “fantastico visionario” volano invece le opere di Giuseppe Zigaina (Cervignano del Friuli, 1924– Palmanova, 2015), apprezzato pittore ma anche superbo letterato, soprattutto per l’attività critico-interpretativa degli ultimi testi di Pasolini, di cui fu amico d’infanzia e con cui collaborò a vari film. In un ambito di singolare eccentrica “visionarietà” si collocano anche i disegni, i dipinti e le bozze di romanzi di Mario Lattes (Torino, 1923 – Torino, 2001): campi di creatività diversi, ma tenuti vivi con grande maestria, così come fu per Alfonso Gatto (Salerno, 1909 – Orbetello, 1976), poeta, scrittore, critico d’arte e perfino gallerista, ma anche pittore di deliziosi acquerelli, oli, tempere e disegni. Suo il libro “Coda di paglia”, illustrato da Mino Maccari (Siena, 1898 – Roma, 1989), anche lui pittore e incisore, ma pure scrittore e giornalista. Fu perfino caporedattore a “La Stampa”, sotto la direzione di Curzio Malaparte. Pittura “ricca e furente”, la sua; “anarchico e geniale”, per Pasolini disegna anche un manifesto di “Accattone”.

Gianni Milani

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“Pittori /Poeti / Pittori” Palazzo Banca d’Alba, via Cavour 4, Alba (Cn), tel. 0173/789282

Fino al 17 dicembre. Orari: mart. – ven. 15,30/19; sab. e dom. 10,30/18,30

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Le immagini:

– Franco Fortini: “Autoritratto”, linografia su carta, 1936 – ’37

– Filippo De Pisis: Interno con libri e bottiglietta”, olio su cartone, 1931
– Pier Paolo Pasolini: ” Autoritratto con il fiore in bocca”, olio su faesite, 1947
– Carlo Levi: “De Pisis col pappagallo”, olio su tela, 1933

Gerda Taro. La vita ribelle e breve di una fotoreporter


Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l’Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro. La sua tomba è nella 97° divisione, non lontana da quella di Edith Piaf e dal “muro dei Federati“, un luogo-simbolo dove, il 28 maggio del 1871, furono fucilati dalle truppe di Thiers gli ultimi 147 comunardi sopravvissuti alla “semaine sanglante”, la settimana di sangue che pose fine al sogno ribelle del governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questo è, senza dubbio, il luogo ideale per custodire le spoglie mortali della prima giornalista di guerra a cadere sul campo durante lo svolgimento della sua professione, entrata nella storia della fotografia per i suoi reportage realizzati durante la Guerra di Spagna. Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi entra giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costringono a rifugiarsi a Parigi. Nella ville Lumière degli anni folli, magistralmente descritta da Ernst Hemingway in “Festa mobile”, la stella cometa della Taro travolge le vite degli amici e degli amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conosce André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegna le tecniche del mestiere. Formano una coppia e iniziano a lavorare insieme. L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portano a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nasce così Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con questo pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambia il nome in Gerda Taro.

Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola. Si tratta di una scelta importante che li coinvolgerà e segnerà così profondamente da farli diventare alcuni tra i più importanti testimoni del conflitto, che seguono e raccontano al mondo attraverso scatti sensazionali e numerosi reportage pubblicati su periodici come “Regards” o “Vu“, la prima vera rivista di fotogiornalismo. Gerda con incredibile coraggio e sprezzo per il pericolo, rischia più volte la vita per fermare, attraverso le immagini, un momento del conflitto. Helena Janeczek ne “La ragazza con la Leica” ci regala un ritratto incisivo e significativo della Taro, raccontando che si “trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”. Gerda fotografa prevalentemente con una Rolleiflex, formato 6×6, mentre Robert preferisce la Leica. Poi anche lei inizia ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predomina l’individuo, i suoi scatti mettono a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini, immagini forti che descrivono, in punta di obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la seconda guerra mondiale. Le sue foto sono come la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, una vita segnata da passioni forti, da un’incredibile vitalità e da un desiderio di affermazione e di emancipazione che, storicamente, le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Questa vita viene spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolge proprio mentre torna dalla battaglia di Brunete dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che viene pubblicato postumo sulla rivista “Regards”. Sotto quel carro armato si spengono i sogni, l’entusiasmo, tutte le foto che il futuro avrebbe potuto regalarle e la breve ed intensa vita della 26enne Gerda Taro.Trasportata a Madrid, la fotografa resta cosciente per alcune ore, giungendo a vedere un’ultima alba: quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo viene riportato a Parigi, la patria della sua vita di artista, e, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, viene tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre viene scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblica in sua memoria “Death in the Making“, riunendo molte delle foto scattate insieme. La vita di Capa, da quel momento, sembra procedere in uno strano, inquietante e provocatorio “gioco a rimpiattino” con la Morte che il fotografo sfida, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli dà scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, nella guerra in Indocina, mentre Capa cerca, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.

Marco Travaglini

Le prime opere in concorso di TFF 35

Il vento e il paesaggio dell’isola di Jersey fanno da sfondo a Beast di Michael Pearce che ha aperto i titoli in concorso del TFF 35. Dove Moll, irrequieta 27enne costretta a restare sotto il tetto di casa dalla malattia del padre e da una madre troppo protettiva, ne fugge il giorno del suo compleanno per passare la notte in un pub ed il mattino successivo fare l’incontro con Pascal, un ragazzo problematico, qualche condanna alle spalle, rassicurante e violento, un rebus per chiunque gli stia vicino. Clima non troppo tranquillo se nell’isola nei medesimi giorni la polizia è alla ricerca di un assassino che ha già rapito e ucciso quattro ragazzine e sembra sfuggire a ogni cattura. Mentre tutti sono contro questo amore che è nato tra i due ragazzi, Moll nasconde a se stessa i dubbi sulla vera natura di Pascal, cerca di vederne soltanto i lati positivi, la bontà e la solitudine, le idee preconcette e le idee sbagliate che l’intera isola ha da sempre su di lui. Poi qualcuno verrà catturato e la vita pare tornare nella sua normalità: ma Moll avrà davvero cancellato i dubbi verso quel ragazzo. Pearce racconta una storia con una ammirevole tensione, in cui alterna sospetti e attrazioni, costruisce rapporti intensi e un thriller delle anime che si fa seguire fino al termine, cercando lo spettatore dove stiano pirandellianamente la verità e la finzione: avendo una protagonista femminile bravissima nelle luci e nelle ombre del proprio personaggio, tesa come una corda di violino, esplosiva nel proprio passato come nel destino altrui. Magari già pronta a farsi avanti per il premio alla migliore attrice.

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Invece non è sufficiente la presenza di Isabelle Huppert a salvare Barrage di Laura Schroeder, triplice bandiera Lussemburgo/Belgio/Francia, dove la regista mette come dentro ad un gioco di specchi i conflitti e gli affetti e le incomprensioni di tre generazioni. Una madre, Catherine, non si è mai curata della figlia, abbandonata ad una nonna che l’ha allevata secondo il suo modo vivere, di pensare, di scegliere. Quando la donna torna per reclamare d’improvviso un po del tempo perduto, non tutto fila liscio come ognuno si augurerebbe, troppe cose andrebbero cambiate, troppe lacune andrebbero colmate. Potrebbe anche essere un racconto con il suo perché, se avesse una sceneggiatura capace di calarsi più a fondo e una regia non pronta ad appiattire tutto quanto, in cerca di sobbalzi narrativi ma facile al contrario a cadere in depressive (per lo spettatore) zone di noia, impelagandosi in inquadrature e in attimi stiracchiati oltre il dovuto. Ancora per la serie passiamoci sopra, l’argentino Arpòn, con contributi venezuelani e spagnoli, diretto da Tomàs Espinoza, che confessa di aver impiegato quattro anni tondi tondi della sua vista a portarne avanti i preparativi e solo quattro settimane per la realizzazione. Male per lui. Perché si è messo in testa di narrarci, e fin qui ci è riuscito, le strane, disordinate giornate di un preside che vive col chiodo fisso di andare a controllare gli zainetti di ogni singola sua allieva, con la decisione di trovarci chissacché. Capita che in quello di una piccola ribelli ci scovi una siringa che serve ad fare iniezioni nelle labbra delle compagne; ma che poi tutto si perda in sentieri affatto suoi e si sfilacci in incidenti, scomparse, sospetti, puttane e pappa, licenziamenti, nuovi incontri, dentro un film che rimane confuso, disordinato, inafferrabile.

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Divertimento al contrario – anche se il bel carico di critica che ne potrebbe nascere rimane parecchio in superficie, pur costringendo lo spettatore a riguardare al “paese perfetto” e a quel tutto che si è sempre fatto per il bene del popolo – in The death of Stalin, a gennaio sugli schermi come Morto Stalin se ne fa un altro, di Armando Iannucci, di padre napoletano e madre gallese, ovvero i giorni che seguirono a quel 2 marzo del ’53, quando con la scomparsa del padre della patria sovietica, colpito nel suo studio da emorragia cerebrale, i suoi sottoposto Malenkov, Kruscev, Berja, Molotov e compagnia scalpitarono per nascondere documenti, imbandire alle masse i funerali, respingere le stesse per ordine e per terrore con i mezzi più finali, soccorrersi e annientarsi a vicenda in un balletto di facce annichilite, impaurite, ancora disumane, affidare a Kruscev (uno sfrenato Steve Buscemi, che sa difendersi bene dalle altrettanto efficaci caratterizzazioni dei suoi colleghi) la nuova guida dei popoli. Forse se il regista avesse reso più “storico” il film e non fosse caduto, a tratti, nel trabocchetto dello sberleffo, tutto sarebbe apparso più tremendamente vero. Davanti alle immagini, ci regaliamo un sorriso infelicemente amaro. Qualcuno, forse, non riesce a spremere neppure quello.

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In questo clima di tentennamenti iniziali, finisce con il soddisfare del tutto e divertire The disaster artist, scritto interpretato e diretto da James Franco. Il quale ha scommesso sul film peggiore mai apparso nella storia di Hollywood, quel The room che Tommy Wiseau sceneggiò diresse e interpretò nel 2003, flop colossale con un budget di 6 milioni dollari e un incasso di 1800. Con la ambiziosa volontà di inseguire i propri sogni, sempre lontano dall’arrendersi, con la frenesia intima e distruttiva di voler ripercorrere le strade di Ed Wood, Franco nelle vesti smoderate e senza ritegno di Wiseau dai teatrini in cui tenta di recitare Shakespeare piomba a Los Angeles in compagnia di Greg Sestero (sarà lui a raccontare in una autobiografia la storia di The room), un altro che vuole scalare il mondo della celluloide. Un rapporto nato sul culto di James Dean, fatto di amicizia e di speranza, di tanti tentativi, soprattutto di quella fiducia che vuol credere in Tommy. Non si sa da dove venga, né quanti anni abbia, né da dove gli arrivino tutti quei soldi che la produzione del film gli intacca, per tacere di un povero linguaggio in suo possesso che il doppiaggio prossimo dovrà rendere con esattezza. Se Greg è più timoroso e guarda anche ad altre occasioni umane e professionali, Tommy viaggia con i suoi capelli lunghi, con il suo lato eccentrico, con la doppia cinghia dei pantaloni a mettergli meglio in evidenza le chiappe, con il culo in piena visione per rendere assai più veritiera con la partner infastidita. Respinto da un mondo che pur tra i suoi lustrini l’ha già messo da parte, Tommy il film se lo farà da solo, compra l’attrezzatura sia in pellicola che in digitale, mette su una troupe presto stanca, ripete nel ridicolo scena dopo scena. Sino alla serata della prima, tra le risate della sala. Non volute e non dovute per un drammone di una passione a tre risolto con un colpo di pistola, prologo all’etichetta di film culto nelle proiezioni di mezzanotte nei cinema americani. Un successo postume, mentre oggi Tommy insegue ancora parecchi progetti e si dedica ai suoi studi di psicologia. Da vedere, per il ritratto di questo squinternato attore/autore, per una memoria messa all’angolo, per l’operazione che James Franco costruisce, a cominciare dalla sua interpretazione, fantastica, per l’allineamento con l’esempio iniziale (e si resti in sala seduti per gustare l’appaiamento dei vecchi e dei nuovi brani), per i camei di certi colleghi (Sharon Stone, Melanie Griffith, Zac Efron), per il divertimento che sparge lungo la storia, per la approfondita “povertà” di un uomo che pur aveva creduto in un sogno.

 

Elio Rabbione

 

Thyssen 10 anni dopo. Voci dalle fabbriche dell’acciaio

Con Giorgio Airaudo, Loris Campetti, Alessandro Portelli, Eugenio Raspi. Letture di Anna Abate, Gianni Bissaca, Vilma Gabri. Giovedì 30 novembre, ore 18, Binaria centro commensale – Fabbrica del Gruppo Abele, via Sestriere 34 a Torino

 

Ridare voce agli uomini che hanno visto la loro vita intrecciata e fusa con quella della fabbrica, una fabbrica particolare, violenta e coinvolgente, come quella che produce acciaio. È il tema dell’incontro organizzato, a pochi giorni dal decennale del rogo della ThyssenKrupp di Torino, dal Premio Italo Calvino e da Binaria centro commensale, giovedì 30 novembre alle ore 18, negli spazi della Fabbrica del Gruppo Abele (via Sestriere 34, Torino). Al centro, i libri La città dell’acciaio di Alessandro Portelli (Donzelli, 2017) e Inox di Eugenio Raspi (Baldini&Castoldi, 2017), che costituiscono due importanti narrazioni delle voci provenienti dalle fabbriche dell’acciaio di Terni e di Torino: due stabilimenti siderurgici con una storia che percorre tutto il Novecento, e non solo, e che ha coinvolto i maggiori poteri industriali italiani, culminando con la loro convergenza nella ThyssenKrupp. Una storia che coincide con il declino della produzione dell’acciaio in Italia, ma che può essere letta anche come la parabola della grande industria italiana e del concetto di classe operaia.

 

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Insieme agli autori, saranno presenti Giorgio Airaudo, che nei giorni dell’incidente di Torino era segretario provinciale della Fiom torinese, e Loris Campetti, giornalista da sempre impegnato sui problemi del lavoro. Immagini e letture dai testi di Portelli e di Raspi completeranno un incontro che vuole essere, insieme, un atto di conoscenza del presente e un omaggio ai sette operai che, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, vennero uccisi da un’ondata di fuoco nello stabilimento torinese. Protagonisti di “Torino – Terni. Dall’orgoglio al disincanto” sono due città legate a doppio filo alla nascita della grande industria, e i loro operai. Individui orgogliosi e combattivi, pur nell’estrema durezza della loro vita, che, per buona parte del secolo scorso, sono stati l’anima, il senso e la cultura di Terni e di Torino. Di questi uomini, Alessandro Portelli ci restituisce la memoria attraverso l’uso della sua fonte prediletta: la testimonianza orale.

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La città dell’acciaio è infatti il frutto di una ricerca storica di grande respiro perseguita lungo il corso di quarant’anni: oltre duecento interviste – che coprono almeno un secolo – agli operai delle acciaierie di Terni, danno vita al ritratto corale di un’Italia che passa dall’universo rurale a quello post industriale. Attraverso il racconto scandito dalla voce dei protagonisti, si assiste alla formazione di una centralità industriale che sembrava invincibile, e poi al suo declino, preparato dal sistematico smantellamento, pezzo dopo pezzo, degli stabilimenti. Insieme alla fabbrica, è un mondo intero ad andare in frantumi, con il progressivo e inesorabile sfaldamento di un’identità operaia che aveva nella dimensione collettiva della condivisione e della lotta la sua modalità di espressione privilegiata. Dell’ultima generazione operaia, quella del disincanto – ossia di quelli che arrivano in fabbrica “già scazzati e con la voglia di essere altrove” – Eugenio Raspi ci offre un ritratto dall’interno. Con il suo romanzo Inox, Raspi che per oltre vent’anni, fino al licenziamento, ha lavorato all’interno della Acciai Speciali di Terni fa entrare il lettore in ciò che resta dell’ex cattedrale ternana dell’acciaio. Centro del racconto è infatti il lavoro in fabbrica: un lavoro “sporco”, fatto di turni pesanti, di gesti precisi fuori dai quali il rischio di incidenti è quasi sempre un rischio mortale, ma anche dei conflitti che si instaurano tra operai, capisquadra, dirigenza e sindacati a causa di un contestato e difficile passaggio di proprietà. Come spiega l’autore nella nota finale al testo, “questo romanzo è il mio personale omaggio alla fabbrica in cui ho lavorato per venti anni, ma non solo: è un omaggio alla grande industria italiana che sta scomparendo per l’impotenza – o peggio ancora l’indifferenza – delle forze economiche e politiche del nostro Paese”.

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Giorgio Airaudo è nato a Torino nel 1960. Nel 1988 la Camera del Lavoro di Torino gli dà il compito di sindacalizzare i primi contratti di formazione e lavoro nello stabilimento Fiat di Mirafiori. Passa alla Fiom-Cgil e ne diviene prima segretario provinciale, poi regionale. Dal 2010 entra nella segreteria nazionale della Fiom come responsabile del settore auto. Nel 2013 viene eletto deputato con Sinistra Ecologia Libertà. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi La solitudine dei lavoratori.

 

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Dopo la laurea in Chimica nel 1972, ha insegnato per anni nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo alla fine degli anni ’70, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de «il manifesto». Negli anni successivi, sempre per «il manifesto», è inviato per le questioni europee, caposervizio dell’economia e caporedattore. Esperto di relazioni industriali, i suoi articoli sono dedicati a questioni sindacali. Ha pubblicato Non Fiat. Come evitare di svendere l’Italia (Cooper, 2002) e Ilva connection (Manni, 2013).

 

Alessandro Portelli è nato a Roma nel 1942. È considerato tra i fondatori della storia orale. Professore di Letteratura angloamericana all’Università «La Sapienza» di Roma, ha fondato e presiede il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa della cultura popolare. Collabora con la Casa della Memoria e della Storia di Roma e con «il manifesto». Ha scritto Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985 (Einaudi, 1985). Per Donzelli, oltre a Le città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia (2017), ha pubblicato L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Premio Viareggio 1999), Canoni americani (2004), Città di parole (2006), Acciai speciali (2008), America profonda (2011), Badlands. Springsteen e l’America (2015).

 

Eugenio Raspi è nato a Narni nel 1967. Per ventidue anni ha lavorato come tecnico specializzato nella più grande fabbrica di Terni, la Acciai Speciali. Dal 2014, al termine del rapporto di lavoro e in attesa di nuova occupazione, scrive storie. È stato finalista della XXIX edizione del Premio Italo Calvino con Inox, pubblicato da Baldini&Castoldi nel 2017.

 

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Torino-Terni. Dall’orgoglio al disincanto. Voci dalle fabbriche dell’acciaio.

A dieci anni dal rogo della Thyssen. Con Giorgio Airaudo, Loris Campetti, Alessandro Portelli, Eugenio Raspi, letture di Anna Abate, Gianni Bissaca, Vilma Gabri

 

Giovedì 30 novembre 2017 – ore 18

Binaria centro commensale – Fabbrica del Gruppo Abele

via Sestriere, 34 – Torino

TFF: forse una partenza più in sordina…

…le code e i film che non si riescono a vedere: ma poi si entra nel vivo della festa!

Innanzitutto i numeri. Film a disposizione per la truppa dei cinéphiles che quotidianamente si mettono in file chilometriche, raggiungono l’agognata poltrona e si sciroppano, con gusto o con disgusto la storia di turno, per poi rimettersi in coda dopo nella migliore delle ipotesi aver agguantato un panino al bar più vicino – e il giochetto dura per l’intera giornata -, ebbene quei film per l’edizione del TFF 2017 ammontano a 169. L’anno scorso 213. Bene, dirà qualcuno, meno visioni meno impegno, meno impegno meno stress. No. Sempre meno spazi (ci hanno pure tolto le tre sale del Lux, visti gli affitti che non saranno proprio delle bazzecole e i tagli doverosi (?) al budget finale), publico che pare aumentare a vista d’occhio, code che è capitato di vedere fare il giro su se stesse, il piacere di vederti arrivare al limitare della sala ed essere respinto perché i posti erano finiti. Ma anche questo è festival.

È anche festival – di quest’anno – che si rinunci la più rigorosa sala del Lingotto per “rifugiarsi” sotto il tetto della Mole (evvia, siamo pur sempre a casa nostra, si saranno detti tutti), alla madrina agghindata a dovere o al madrino di recente scoperta e si spalmino i doveri introduttivi su quattro belle personcine che ancora adesso ti chiedi ma che ci azzecca? Vabbe’ incrociare le arti, ma di “una performance inedita che racconterà il rapporto con il cinema” prodotta dallo chef stellato Ugo Alciati, dello scrittore Luca Bianchini, del designer Chris Bangle e del musicista e produttore Max Casacci, con tutto il rispetto, ma che ce ne facciamo? Come è anche festival inaugurare con un’operina che può andare diritta al mondo variopinto dei sentimenti, che può addolcire le pene di una certa età in cerca di rivincite esistenziali ma che resta di una leggerezza troppo impalpabile e scontata per lasciare un qualche segno. Succede in Finding your feet – Ricomincio da me di Richard Loncraine che l’agiatissima Lady Sandra (Imelda Staunton, la “Vera Drake” di Mike Leigh e la balia di “Shakespeare in love”) scopra nel bel mezzo di una festa che il consorte con cui ha trascorso un’intera vita la tradisca da anni con la sua migliore amica. Detto pane al pane al fedifrago, si fionda dalla sorella Bif (Celia Imrie), spirito da sempre libero, che buttandola nella girandola della propria esistenza le fa conoscere una taumaturgica scuola di ballo, i più o meno attempati allievi, i piccoli problemi e le felicità e le giornate che non sono poi così male. Come i ragazzotti della monaca Whoopy Goldberg, anche i vegliardi parteciperanno ad un concorso, tra i cliché più scontati di una due giorni romana, per uscirne chiaramente vincitori: senza tuttavia potersi sottrarre alla tragedia, dolorosa per Sandra ma anche capace di farle compiere quel “salto di fede” che la legherà allo spirito innamorato di Charlie (Timothy Spall, l’eccellente pittore Turner, premiato a Cannes tre anni fa). A parte i quindici minuti finali pasticciati in un andare e venire di decisioni prese e cancellate, la storiella corre via prevedibilissima ma piace quel trio di facce britanniche e soci, il loro modo di recitare, l’impegno a guardare ancora una volta avanti, la sfacciataggine di prendere la vita con un bel grido d’allegria.

Da segnalare nella sezione “Festa mobile” Casting di Nicolas Wackerbarth, un dietro le quinte che vuole mostrare con uno sguardo crudele e disilluso gli inganni e le frustrazioni del mondo del teatro, che il pubblico non conosce. Nell’anniversario della scomparsa di Fassbinder, la televisione tedesca vuole realizzare il remake delle Lacrime amare di Petra von Kant, affidandone la realizzazione ad una regista sicura e inflessibile che a pochi giorni dalle riprese non ha ancora deciso quale sia l’attrice scelta cui affidare la parte. I provini si succedono ai provini, le incertezze, i litigi e gli abbandoni non si contano, il clima e i rapporti si fanno sempre più difficili, è sufficiente che un trucco venga rifiutato o un’unica battuta non soddisfi, perché si contatti un altro nome, un altro viso. Ma ad interessare non è soltanto la protagonista, a poco a poco pare rubare spazio la frustrazione dell’attore che fa da spalla nei provini alle tante candidate, quel vedersi arrivare il vero pretendente al ruolo maschile, la sfiducia verso quella regista che cancellando promesse lo accantona in un ridicolo ruolo secondario. Un mondo di insicurezze e di sottrazioni, lucidamente rappresentato e interpretato da attori per noi sconosciuti con un piglio davvero reale e concreto.

 

Elio Rabbione

 

Vieni a ballare a Ogr Torino?

Partita dalla Francia e approdata poi in Spagna, arriva finalmente anche in Italia, alle OGR di Torino, la Festa della danza: il format dedicato al ballo,ideato e voluto dalla celebre ballerina e coreografa internazionale Blanca Li, che si terrà il 16 e 17 dicembre 2017. Il claim scelto per questa prima edizione italiana è “Vieni a ballare?”,ed esprime appienoil significato dell’evento: una grande festa collettiva aperta a tutti, in cui chiunque potrà provare una o più delle tante discipline artistiche presentate, originarie di tutto il mondo, antiche e moderne, conosciute e non. Chi sa che cos’è il Balboa? Quanti hanno provato l’electro dance o la pizzica? Il flamenco vi ha sempre affascinato? Questa è l’occasione per avvicinarsi a questi balli, apprendendo i primi rudimenti, provando i passi principali, divertendosi insieme.

ARRIVA IN ITALIA LA FESTA DELLA DANZA
DELLA 
BALLERINA E COREOGRAFA INTERNAZIONALE BLANCA LI

Dopo Parigi e Madrid, approda per la prima volta nel nostro Paese, grazie a OGR, il grande format dedicato alla danza aperto a tutti, in cui conoscere e sperimentare decine di balli di tutto il mondo.

 

 

Motore della Festa della danza è l’artista internazionale Blanca Li, ballerina, coreografa e attrice, conosciuta per le coreografie apprezzate nei più importanti festival internazionali oltre che per il suo lavoro a fianco di Beyoncé e Pedro Almodovar e per le sue incursioni nel mondo della moda per Jean Paul Gaultier e Stella McCartney.

La festa nasce dall’idea di rivolgersi al grande pubblico valorizzando la danza in tutti i suoi aspetti: il ballo rappresenta una delle forme più antiche di espressione dell’uomo e, tutt’oggi, può essere un’occasione di incontro e partecipazione, di scoperta culturale,nonché di attività fisica sana e alla portata di tutti.

La due-giorni, condotta direttamente da Blanca Li, sarà strutturata in fasce orarie (10-15 e 16-20) durante le quali saranno proposti differenti stili, con lezioni dal vivo condotte da maestri di ballo provenienti da scuole accreditate. Nello stesso tempo, presso le otto postazioni video collocate nell’area Fucine di OGR, sarà possibile cimentarsi autonomamente alla scoperta di altre sedici discipline, differenti da quelle presentate live. A tutto questo si aggiungeranno le esibizioni realizzate sul palco centrale, che permetteranno di “assaggiare” i vari stili della festa. All’interno di ogni fascia oraria,il pubblico potrà provare una o più danze, senza limiti di numero o di prove.

Programma differente per il sabato sera, dedicato al tango: le OGR si trasformeranno in una suggestiva milonga, animata dalle lezioni dei maestri, cui seguirà il ballo libero, per apprendisti e non.

La Festa della danza è promossa da OGR Officine Grandi Riparazioni in collaborazione con TPE – Teatro Piemonte Europa, che con Blanca Li ha già collaborato in precedenti occasioni artistiche.

 “La Fête de la dansea Torino è un invito a viaggiare nel vasto mondo della danza, un appuntamento interattivo, popolare e di festa. La sua straordinaria diversità compone una

ricchezza artistica e umana unica, fonte di incontri tra le persone. Balli da sala, danze di strada, danze tradizionali, danze classiche o contemporanee sono offerte alla scoperta del pubblico in uno stesso slancio di apertura e spontaneità. La Fête de la danseè pensata perché ognuno – genitori e bambini, gruppi di amici, giovani e persone anziane – possano divertirsi, scoprire o semplicemente imparare a danzare, da soli o con gli altri. Le installazioni, i corsi e le performance sono da vivere in modo libero e immaginifico” racconta Blanca Li, ideatrice della Fête de la danse.

Massimo Lapucci, Direttore Generale delle OGR, afferma: “Le OGR della cultura contemporanea accolgono una nuova stella internazionale come Blanca Li e la sua Festa della Danza: un progetto-evento che arriva per la prima volta in Italia, proprio a Torino nelle OGR, in un processo di ‘contaminazione’ tra eccellenza e giovani talenti, affermati ed emergenti. Le nuove Officine sono innanzitutto un laboratorio di innovazione, dove si sperimenta e si produce ogni forma di creatività: un luogo dinamico, di aggregazione, capace di attrarre pubblici sempre più ampi e trasversali”.

“La Festa della Danza non è solo un momento di celebrazione di una disciplina affascinante — il ballo, in tutte le sue forme. E’ una festa collettiva, un momento di aggregazione per pubblici diversi, per professionisti, appassionati o semplici curiosi; un’occasione per ritrovarsi in un contesto unico come quello delle OGR e diventare parte di un’opera d’arte vivente, pubblica e corale, fatta di corpi in movimento, linguaggi diversi e sonorità provenienti da tutto il mondo”dichiara Nicola Ricciardi, direttore artistico della OGR.

Joséphine Baker a Torino

Con lo spettacolo Still My Heart Beats di Maria Olivero

 

Venerdì 1 dicembre a Torino alla Casa del Teatro ragazzi e Giovani, alle ore 21, andrà in scena il concept musicale di Maria Olivero, Still My Heart Beats, dedicato alla storia straordinaria di Joséphine Baker. La cantante, autrice e musicista novarese, Maria Olivero, ha riunito intorno a sé artisti di primo piano in uno spettacolo fatto di canzoni originali da lei composte e narrazione per dare voce e musica ad una donna esempio unico di generosità, impegno e altruismo. Il giusto simbolo per arrivare ai cuori e sostenere il progetto TodayProject, contro le disuguaglianze e lo sfruttamento dei minori.

 

 

Joséphine Baker è una figura importante del Novecento: fu innovatrice nell’arte, tenace nella difesa dei diritti e della giustizia sociale. Amica di Frida Kahlo, divenne la musa di grandi personaggi del secolo scorso come F. Scott Fitzgerald, Picasso, Georges Simenon, Le Corbusier, Christian Dior.

Maria Olivero, artista da sempre interessata alle grandi figure femminili della storia, incrociando la vicenda umana e artistica di Joséphine Baker  ne ha compreso la potenza e il valore simbolico, e ha costruito Still My Heart Beats, uno spettacolo fatto di canzoni originali e parole che seguono la sua vita.

 

L’immagine di Josephine Baker del manifesto è il ritratto dipinto di Carlo Montana.

Still My Heart Beats è parte del progetto TODAY project che fa della parola Today- oggi l’imperativo per una cittadinanza attiva, responsabile, consapevole. Per informazioni sul progetto: www.todayproject.org

 

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Joséphine Baker – Still My Heart Beats di Maria Olivero

Casa del Teatro Ragazzi e Giovani – Torino

Corso Galileo Ferraris, 266

Venerdì 1 dicembre 2017  – ore 21.00

Ingresso € 15

Vedere la musica. Ascoltare le immagini

Se un fotografo rock (fra i più celebri della storia musicale internazionale) incontra, in un faccia a faccia all’ultima parola, uno scrittore ancor   giovane ma già con una bella serie di titoli in saccoccia- l’ultimo “La guerra dei Murazzi” per Marsilio Editore – e collaborazioni molteplici con quotidiani e riviste (anche musicali), programmi tv, case di produzione cinematografiche e compagnie teatrali… Ebbene sì, l’occasione è proprio di quelle intriganti. Di quelle che sarebbe opportuno non perdere. Perché da quell’incontro (vivamente consigliato agli appassionati di fotografia e di musica e di parole) potresti portarti dietro un impensabile e forse imprevedibile fagotto di emozioni, su cui riflettere e giocarci sopra per meglio capire   il segreto di mestieri -il fotoreporter, lo scrittore e mille altri – impegnati ogni giorno a svelare la complessità dell’animo umano e del senso più profondo ( “anche se un senso – dice un grande – non ce l’ha”) della vita. A conferma, ecco infatti, i temi di dialogo possibile fra i due: Come si vede la musica? O megliocome si ascoltano le immagini? Come può uno scatto raccontare davvero un artista, coglierne il percorso e la poeticaCoglierne l’anima, le paure, le gioie, i dubbi, il suo personale rapporto con il pubblico con la gente con i fatti del mondo che gli girano intorno? Guido Harari (è lui il fotografo rock, origini egiziane e albese d’adozione) cercherà di rispondere a queste domande illustrando la sua quarantennale carriera e chiacchierando con lo scrittore torinese Enrico Remmert

 

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L’appuntamento (ingresso libero) è per martedì 28 novembre, alle ore 18.30, allo “Spazio Don Chisciotte” della Fondazione Bottari Lattes, in via della Rocca 37b, a Torino. La conversazione sarà un viaggio nel mondo della musica, della fotografia e delle intersezioni possibili e impossibili tra queste due arti. Occasione, la mostra “Wall of Sound 10” che Harari presenta allo “Spazio Don Chisciotte” fino al 24 dicembre. Tra i fotografi italiani più apprezzati e conosciuti all’estero, capace di raccontare i grandi artisti in un solo scatto, Guido Harari ha collaborato con artisti del calibro di Fabrizio De André, di cui è stato uno dei fotografi personali, Lou ReedGiorgio GaberBob DylanVinicio CaposselaKate BushVasco Rossi, Lucio Dalla, Peter GabrielEnzo Jannacci e molti altri. Le sue immagini colgono gli artisti su set spesso improvvisati, in atteggiamenti inusuali, con espressioni talvolta inattese, da cui emerge in maniera immediata la loro personalità. In molti casi la vera molla di tutto si conferma una complicità autentica tra il fotografo e il suo soggetto. Sono ritratti che esprimono l’approccio umanistico umanizzante che muove da sempre il lavoro di Harari, la sua intima cifra stilistica.

 

g.m.

Info:Fondazione Bottari Lattes , tel. 011/19771755-1; www.fondazionebottarilattes.it

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Foto
– Guido Harari. Credit Ricardo Piccirillo
– Enrico Remmert

 

Il Premio Flaiano a Patrizia Asproni

Sabato 25 novembre alle ore 16,30 Patrizia Asproni riceverà il Premio Flaiano Cultura 2017 .Sala blu del Collegio San Giuseppe via San Francesco da Paola 23 . La dott. Asproni è stata la presidente della Fondazione Torino Musei. Il Premio consiste in una targa d’argento con una caricatura di Federico Fellini rappresentante Flaiano, soggettista della “Dolce vita”

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PREMIO ENNIO FLAIANO a PATRIZIA ASPRONI

La dottoressa Patrizia Asproni ha l’indubbio merito di aver individuato nella collaborazione tra impresa e cultura museale uno dei settori trainanti, in prospettiva, dell’economia italiana. Da oltre quindici anni si occupa di management culturale e di industrie creative. Dal 2001 è Presidente di Confcultura, (Associazione Nazionale delle Imprese per la valorizzazione e la promozione dei beni culturali, del turismo culturale, dell’innovazione tecnologica) e dal 2006 è Presidente della Fondazione Industria e Cultura, creata con l’obiettivo di creare un meeting place per aiutare le imprese ad utilizzare la cultura come leva di sviluppo economico e sociale.

È Presidente della Fondazione Museo Marino Marini a Firenze, e inoltre, Chairman della Piattaforma Tecnologica Europea Beni Culturali IPOCH2 e Co-chair della Joint Commission Italy-USA Cooperation on Science and Technology on Cultural Heritage. La dottoressa Asproni è altresì membro di prestigiose istituzioni e enti no-profit, quali Amici degli Uffizi, nel cui board of advisory è operativa, così come nella Rondine Cittadella della Pace ONLUS – promozione della cultura del dialogo e della pace – e nella Fondazione Palazzo Blu, in entrambe in qualità di membro del CDA.

Va altresì evidenziata la sua attività come direttore dei beni culturali per il Gruppo Giunti.

Presidente della Fondazione Musei di Torino dal 2013, si è dimessa da tale carica, ricoperta a titolo gratuito, nell’autunno 2016. Sotto la sua presidenza, i musei sono cresciuti visibilmente sia in termini di pubblico che di posizionamento sul territorio nazionale.

Il Premio intitolato a Ennio Flaiano è conferito alla dottoressa Patrizia Asproni in segno di riconoscimento dei suoi meriti di organizzatrice di importanti mostre, di promotrice di cultura, e della sua indipendenza di giudizio e spirito libero nei confronti dei pubblici poteri. Il suo ruolo internazionale onora la cultura italiana e contribuisce a diffonderla nel mondo in cui il nome di Patrizia Asproni è conosciuto ed apprezzato.

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La consegna del premio a Patrizia Asproni prosegue con la cerimonia di consegna del  Concorso “Mario Pannunzio” 2017:

– Sezione A – Poesia: I Premio: Alessandra CHIAVEGATTI magistrata

– Sezione B – Narrativa: I Premio: Annella PRISCO SAGGIOMO

– Sezione C – Giornalismo, Critica, Saggistica: I Premio: Francesca Romana FANTETTI

ex aequo: Gianmarco PONDRANO ALTAVILLA

– Sezione D – Tesi di Laurea: I Premio: Maria Teresa GASBARRONE

– Categoria Giovani: I Premio: Aurora CAIME

– Premio speciale del Presidente: Vittoria CAIAZZA

Graziella CARASSI

Mingo MUSSO

Isabella PIERSANTI

Antonio STOLFI

 

TFF al via. Il messaggio di Alice Filippi

Oggi, venerdì 24 novembre prende il via la nuova edizione del TFF. “ Il nostro impegno nel sostenere questo Festival – dichiarano Antonella Parigi e Francesca Leon, assessori alla Cultura rispettivamente per la Regione Piemonte e per la Città di Torino – guarda sia alla qualità culturale espressa sia alla valorizzazione messa in campo nel settore cinematografico, ambito strategico per lo sviluppo espressivo del territorio”. E il principale intento di valorizzare il territorio della nostra regione è appunto quello che caratterizza la Film Commission Torino Piemonte. Uno dei film che ha avuto il suo sostegno è “ Vai piano ma vinci” di Alice Filippi, che sarà proiettato al Reposi domenica 26 novembre alle ore 20,30 e lunedì 27 novembre alle ore 11,15 . Prodotto dalla MOWE di Roberta Trovato, è stato realizzato anche con il sostegno di Mibact –Direzione Generale per il Cinema. Si tratta di una storia vera,che ricostruisce la vicenda del rapimento dell’industriale monregalese Pier Felice Filippi ad opera della ‘ndrangheta ai tempi degli Anni di Piombo. Il film è stato girato a Mondovì nell’estate 2016 da Alice Filippi, figlia di Pier Felice, che, oltre ad averlo scritto e diretto, ne è anche protagonista come attrice, recitando nel ruolo della madre. Per approfondire le motivazioni e i retroscena del film abbiamo rivolto alcune domande alla regista.
Per quale motivo solo ora, dopo tanto tempo, è stato deciso di parlare di questa vicenda, che risale al 1978?
“ Subito dopo l’evento, mio padre non aveva più voluto parlarne. All’inizio non ci fu nessuno strascico, nessun racconto a casa. Ma nel 2011 si era pensato di riportare alla luce quella tragica vicenda. Erano passati molti anni e forse proprio per questo, dato che esperienze così drammatiche e dolorose hanno bisogno appunto di tempo per decantarsi, mio padre aveva pensato di riportarle alla luce. Inizialmente si era pensato di farlo con un libro, ma io, non essendo particolarmente versata nella scrittura, scartai quell’idea e pensai invece di farne un film. Iniziai a contattare tutte quelle persone che in qualche modo avevano avuto a che fare con quei fatti, sia familiari sia amici stretti sia forze dell’ordine. Chiamai un fonico e un operatore, poi contattai Roberta Trovato, che accettò di produrlo. Per ricostruire la vicenda, iniziai a fare mille domande a mio padre. Durante le riprese del film mio padre scherzosamente mi disse che nemmeno i carabinieri ,dopo che era riuscito a scappare dai rapitori, gli avevano fatto un interrogatorio così lungo. “
Fu un’esperienza che segnò in modo profondo tutta la vostra famiglia.
“Quando avevo 18 anni, se uscivo ricordo che mia nonna diceva a mio nonno di seguirmi con la macchina fino a casa, perchè Pier Felice era stato rapito a tarda sera proprio sotto casa. Per mia nonna fu una ferita grande. Senza parlare del nonno… Le telefonate erano intercorse proprio tra il nonno e il telefonista della banda dei rapitori e furono tutte registrate. Le registrazioni di queste telefonate furono conservate per anni dentro un cassetto da mio nonno. Dopo la sua morte e durante il trasloco che ne conseguì le ritrovai per caso proprio in quel cassetto. Si trattava di qualcosa di veramente molto forte. Una di quelle cassette riportava la dicitura. “ Paura di un padre”.
Suo padre era un appassionato rallysta, come del resto suo nonno, come Giancarlo, suo fratello morto prematuramente in un incidente , senza parlare di Luca…
“ Il rally si può dire faccia parte del DNA della nostra famiglia. Luca Filippi, mio fratello, è infatti un grande campione e sarà l’unico pilota italiano al via della Formula E che scatta il 2 e 3 dicembre a Hong Kong al fianco di Oliver Turvey.”
Il suo film contiene un messaggio particolare?
“ E’ una storia di speranza e di determinazione. Quella di mio padre fu una fuga calcolata nell’attesa del momento giusto. Dopo essersi tolto inizialmente la catena , se la rimise per non destare sospetti e poter così sfruttare il momento favorevole. Usò intelligenza e fermezza per arrivare all’obiettivo ma senza strafare, come si vede invece nelle fughe sensazionali e rocambolesche dei film.”

Helen Alterio