CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 628

Leri Cavour, le estati di Camillo Benso

4 /  Oggi non voglio raccontare una storia, ma dipingere un quadro. Il cielo è turchese, la luce che si spande nell’aria è quella del mattino, si appoggia, timida, sulle cose del mondo, levigandone i contorni. Al centro della tela vi è una villa a pianta quadrata, suddivisa su due piani, ha pareti sobrie e bianche, eleganti nella loro austerità. Semplici bassorilievi decorano le finestre ed il portone principale, su tutto dominano i toni del bianco, dell’azzurro e del grigio; con educato contrasto si delineano le linee marroni e terra d’ombra del legno delle finestre e del portone principale. La villa è in procinto di svegliarsi, le imposte al piano superiore aperte per metà rappresentano un metaforico sgranchirsi dopo il riposo della notte. Tutto intorno vi è un gran fracasso di persone, contadini già stanchi si mescolano a qualche figura ben vestita, mentre un distinto cane da caccia insegue un gruppo di galline, un giovinetto porge dei fiori alla sua bella. Si sta eseguendo un quadro manierista, ricolmo di infiniti dettagli, uno in particolare va messo in risalto: nell’angolo in basso a sinistra, vicino all’anziana contadina che spia i giovani innamorati, il prete del paese sta discutendo con un signore dall’aria raffinata e dai lineamenti leggermente rotondi come i piccoli occhiali che indossa. Quello che si è delineato è un esercizio di pura fantasia, se avesse un titolo potremmo proporre: “Visione idealizzata di una giornata di Camillo Benso, Conte di Cavour, durante l’estate a Leri”. Sappiamo infatti che il grande statista piemontese, amava trascorrere più tempo possibile presso questo borgo, una sua tenuta estiva a cui egli era molto affezionato. Si dice che qui abbia scritto ben ottantatre lettere documentate.

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Ci troviamo nel vercellese, in una frazione di Trino, in una piccolissima borgata dalla storia antica e travagliata. I primi ad interessarsi alla zona furono i monaci Cistercensi, che, nell’XI secolo, bonificarono il territorio per adattarlo alla coltura del riso. La nascita del paesino è strettamente legata al Principato di Lucedio, di lì per nulla distante, e al Monastero di San Genuario, di cui era una grangia satellite. Il Monastero acquistò i terreni nel 1179 e ne trasse grandi benefici. Con il passare del tempo la borgata crebbe di importanza e di dimensioni, fino a quando, all’inizio dell’800, il territorio venne acquistato da Napoleone Bonaparte, che però non lo visitò mai di persona. In seguito la zona venne concessa al Principe Camillo Borghese, che lo vendette a Michele Benso di Cavour, padre di Camillo. Grazie agli interventi della famiglia Cavour il borgo cambiò completamente aspetto, trasformandosi in una sorta di azienda agricola, Camillo stesso progettò dei macchinari per l’epoca avanzati e moderni, volti sia al lavoro nei campi, sia a migliorare il sistema di irrigazione. Oggi, chi si avventura a perlustrare il territorio di Leri non trova alcuna facilità nell’immaginare l’operosità ed il fermento che all’epoca caratterizzava questa zona. Quando mi metto in macchina, con due amici, per raggiungere la borgata i colori attorno a me sono intensi, in netto contrasto gli uni con gli altri. Non sono io questa volta a guidare e decido di distrarmi guardando il paesaggio in continua trasformazione al di là del finestrino: penso alle vecchie pellicole in cui le scene erano tutte accelerate e i protagonisti si muovevano a scatti. Usciamo dalla via principale ed imbocchiamo una stradina sterrata e non capiamo nemmeno di essere arrivati a destinazione. Siamo scivolati in una atmosfera di onirico silenzio, la moltitudine di cascine e strutture a due piani sembrano essersi addormentate in seguito a chissà quale incantesimo; tutto sta riposando e nel sonno invecchia senza accorgersene.

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Estraggo la mia reflex ed inizio l’esplorazione: le crepe delle pareti sembrano rughe, gli oggetti di legno sono ingrigiti, in generale tutto pare sbiadito. Il paese di Trino visse fino agli anni ’60, poi iniziò a spopolarsi con lentezza inarrestabile. Si sparse la voce, in quel periodo, che sarebbe stata costruita una seconda centrale nucleare, in una zona troppo vicina perché gli abitanti dell’epoca potessero accettarla; fu questa, forse, la ragione principale della migrazione, e così, piano piano, qualcuno iniziò ad andar via, fino a quando rimase solo ciò che non poteva spostarsi. Negli anni ’80 ci fu un piccolo ripopolamento, alcune famiglie degli operai dell’Enel si trasferirono nelle vecchie cascine, ma fu una breve resurrezione di appena dieci anni. Negli anni ’90 qualcuno propose di costruire lì un Museo Nazionale dell’Agricoltura, ma le parole si persero nel vento, come l’ipotesi, del 2011, di iniziare i lavori di restauro per recuperare la tenuta della Famiglia Cavour, in occasione dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia. È malinconicamente romantica la sensazione che provo, osservando oggetti dimenticati, traccia silenziosa del vissuto di qualcuno, mi colpiscono uno stendibiancheria e degli adesivi appiccicati al muro ad altezza di bambino. Tutte le strutture sono prive di mobilia, le finestre e le imposte e le porte sono state scardinate e appoggiate ai muri, l’unico edificio chiuso ermeticamente è la chiesa. Ci aggiriamo tra quei colossi assopiti, il loro respiro calmo passa attraverso i battenti scarni, levigando con delicatezza la loro pelle di cemento e pietra, fino al momento in cui ci ritroviamo in uno spiazzo quadrato, che circonda un edificio, abbastanza ben conservato, dalla pianta quadrata e che si alza su due piani.

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È il cuore, un tempo pulsante, di Leri, villa Cavour. Entrare dell’edificio è difficoltoso, poiché tutto attorno sono cresciute delle siepi spinose, abitate da una moltitudine di api indaffarate: è complicato, ma non impossibile. Una volta varcata la soglia entriamo in un grande salone affrescato, i decori sono sulle tinte del blu e dell’oro, sulla parete che sta di fronte a me e in quella alla mia sinistra sono stati dipinti dei finti caminetti, il muro che sta alla mia destra è squarciato da due grandi finestre rettangolari. I segni delle intemperie sono visibili, ma pare che il tempo abbia voluto essere meno intransigente con questo edificio. La villa è abbastanza grande, priva di arredamento interno, ogni sala è dominata da una tinta differente, penso che se si frantumasse potrebbe trasformarsi in un ipnotico enorme caleidoscopio. Giriamo con calma, venendo meno alla tabella di marcia; scatto molte fotografie tentando di catturare le sfumature di colore, ad ogni passo rifletto sul fatto che ogni cosa, lì, è pregna di Storia. Abbiamo appena finito di visitare tutte le stanze, quando il cambiamento di luce mi avvisa che è ora di andare. Anche qui ci sono stati avvistamenti di spiriti e fantasmi, ed è il momento di lasciare spazio a loro, i degni abitanti di quei sogni lontani che i giganti di pietra ancora stanno vagheggiando.

Alessia Cagnotto

 

Genesi. La bellezza sconosciuta e fragile del pianeta Terra

Genesi rappresenta l’ultimo straordinario lavoro di Sebastião Salgado, fotoreporter documentario tra i più sensibili alle tematiche sociali ed ecologiche del nostro tempo. Nato in Brasile nel 1944, intraprende studi di Economia e soltanto agli inizi degli anni Settanta, ottenuto un incarico di lavoro nell’Africa equatoriale, inizia ad interessarsi alla fotografia. La vocazione amatoriale si trasforma rapidamente in progetto di vita. L’amore per l’Africa lo spinge a dedicare i primi grandi reportage al Sahel devastato dalla carestia e, negli anni Novanta, alle atrocità del genocidio in Ruanda. La pubblicazione La mano dell’uomo (1993) affronta con piglio critico, ma sempre empatico, le condizioni dei lavoratori impegnati nei lavori manuali che la meccanizzazione tecnologica sta sostituendo. In cammino (2000) illustra la tragedia dei lavoratori delle miniere d’oro in Serra Pelada nel Nord del Brasile i quali, espulsi dal processo di industrializzazione, finiscono per ingrossare la massa dei poveri nelle città. Documentando i grandi processi di trasformazione economica, sociale e ambientale in corso nel mondo, senza l’affanno di inseguire la stretta attualità, Salgado ha trovato una propria dimensione, unica nel panorama internazionale. Genesi costituisce un progetto di lungo respiro che Salgado inizia nel 2003 per concluderlo dieci anni dopo. Il lavoro è frutto di un lungo viaggio per il pianeta alla ricerca di luoghi non ancora offesi dall’uomo, dove è possibile catturare immagini che rivelino la magnificenza ancestrale e la potenza incontaminata della natura. L’opera finale si compone di duecento eccezionali fotografie che ritraggono regioni dove flora e fauna proliferano tuttora intatte ed in cui l’uomo vive in condizioni pressoché primitive. Lo sguardo consapevole ed amorevole di Salgado si posa sulle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea. Si leva in volo sui ghiacciai dell’Antartide e sulla taiga dell’Alaska. Ridiscende nuovamente verso i deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne del Cile, del Canada e della Siberia. Le sue fotografie, rese in un lucido bianco e nero, vanno a comporre un commovente itinerario fotografico, capace di catturare l’osservatore passo dopo passo, restituendo immutato l’incanto dei paesaggi come dei ritratti individuali o di gruppo.

Salgado si è messo alla ricerca del mondo a partire dalle origini, rivelando il percorso evolutivo svoltosi per milioni di anni prima dell’avvento dell’uomo. Il suo è un itinerario che si stende a perdita d’occhio per paesaggi terrestri e marini, laddove si fatica persino a distinguerne la linea di confine. Un itinerario alla scoperta di specie animali e popolazioni finora scampate all’abbraccio letale della vita moderna. La sua opera ci fornisce la prova che il nostro pianeta accoglie regioni immense e remote in cui la natura regna indiscussa, possente e silenziosa. La teoria di fotografie esposte ci suggerisce che i ghiacci dei poli, le foreste pluviali, le savane inospitali e le sabbie roventi costituiscono la superficie non solo più estesa ma soprattutto più ragguardevole della Terra. Sono queste regioni a proteggere con la loro vastità quasi inesplorata forme di vita la cui sopravvivenza si fonda proprio sull’isolamento. In queste lande il tempo scorre in modo circolare, le stagioni si succedono e ritornano seguendo un ritmo primigenio, lento, costante, che l’essere umano civilizzato ha finito per dimenticare.

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“Le fotografie di Genesi“, ha dichiarato la curatrice Lélia Wanick Salgado, “sono il tributo visivo a un pianeta fragile che tutti abbiamo il dovere di proteggere”. Oltre a esporre queste meraviglie misconosciute, appagando l’indubbio piacere estetico che ne deriva, Genesi rappresenta un monito severo che invita a una presa di coscienza. L’umanità non può continuare ad inquinare impunemente la terra che abita, occorre assumere un atteggiamento responsabile fondato sul rispetto per l’ambiente che ci circonda. È necessario agire per preservarlo, proteggendo le specie animali e i popoli che vivono ancora in simbiosi con la natura. Ci si può spingere persino oltre, provvedendo a riparare i danni che la modernizzazione più spinta ha provocato. Sebastião e Lélia Salgado hanno per primi dato l’esempio, contribuendo a riforestare una proprietà situata nel Sudest del Brasile. L’organizzazione no-profit che hanno creato per questo scopo, Instituto Terra, ha provveduto a piantare in quindici anni circa due milioni di alberi di oltre trecento specie diverse. Pianure e colline un tempo aride sono ora occupate dalla Mata Atlântica, la foresta pluviale subtropicale presente sulla costa intorno al Rio Grande. La ricostituzione di questo microclima ha richiamato uccelli e altri animali che erano scomparsi da decenni, permettendo il recupero della naturale biodiversità. Gli alberi sono inoltre in grado di assorbire il diossido di carbonio e, utilizzandolo per la fotosintesi, di liberare ossigeno. La riforestazione contribuisce quindi a limitare i danni prodotti dalle emissioni nell’atmosfera di questo gas serra responsabile del riscaldamento globale nonché dei cambiamenti climatici ad esso conseguenti Questo immenso e paziente lavoro di ripristino dell’ecosistema è stato descritto nell’ottimo documentario Il sale della terra, girato da Wim Wenders nel 2014. “Con gli alberi piantati”, hanno detto Sebastião e Lélia Salgado, “possiamo respirare meglio e nutrire speranze per il futuro del nostro pianeta”. Salgado non è mosso dall’idea di scattare fotografie belle o di inseguire la celebrità, ma da un senso di responsabilità che rappresenta anche la sua missione dichiarata: rendere visibile la rotta che l’umanità deve ripercorrere per salvaguardare il pianeta che abbiamo ereditato.

 

Paolo Maria Iraldi

 

Genesi, di Sebastião Salgado

Mostra organizzata da Civita Mostre

A cura di Lélia Wanick Salgado su progetto di Contrasto e Amazonas Images

Reggia di Venaria (To), Sale dei Paggi, dal 22 marzo al 16 settembre

Ogr, è tempo di “Spring Bang”

A sei mesi dal BIG BANG e in vista dell’apertura delle Officine Sud, hanno preso il via alle Officine Nord tre nuovi progetti con un unico focus tematico: il rapporto tra arte, tecnologia e innovazione

 

Dal 30 marzo scorso la programmazione delle Officine Nord delle OGR è entrata a pieno regime con il funzionamento simultaneo dei tre “Binari” dedicati alle Arti Visive. A sei mesi esatti dalla restituzione alla città di Torino della grande “cattedrale” industriale di corso Castelfidardo recuperata dalla Fondazione CRT, con lo “SPRING BANG” – il BIG BANG di primavera – le OGR definiscono completamente la mission della prima Manica, attraverso la realizzazione di tre nuovi eventi: la mostra “Social Facts” dell’americana, pioniera delle installazioni, Susan Hiller e i due progetti  “Learn & Play! teamLab Future Park” e “The NewsRoom”, tutti incentrati sull’unico focus tematico del rapporto tra arte, tecnologia e innovazione.“Si tratta di tre inediti e sperimentali progetti che mirano a riaffermare Torino come centro gravitazionale per i mondi del contemporaneo e dell’innovazione – sottolinea il direttore Artistico delle OGR Nicola Ricciardi – Nei primi sei mesi dall’opening abbiamo battezzato un nuovo ecosistema per lo sviluppo e la crescita del capitale culturale, sociale ed economico del territorio, in continuità con la propria storia. Questo nostro ‘SPRING BANG’ è un ulteriore passo in tale direzione, ovvero quella di fare delle OGR un luogo della città e per la città, dove contenuti unici e discipline a volte contrastanti trovino sede di produzione e contaminazione, e dove progettualità internazionali e pubblici diversi per formazione, estrazione, interessi convivano e interagiscano”. Ecco, dunque, nello specifico i contenuti dei tre progetti:

 

Il Binario 1 ospita fino al 24 giugno Social Facts”, mostra personale dell’artista americana ma inglese d’adozione Susan Hiller, a cura di Barbara Casavecchia: un percorso coinvolgente e spettacolare (il titolo è l’espressione che l’artista utilizza spesso per descrivere l’oggetto del proprio lavoro) incentrato su una nuova video- proiezione monumentale intitolata “Illuminazioni” (2018), cui ha contribuito, con le proprie voci, un gruppo di volontari torinesi. Sul grande schermo si rincorrono voci e suoni e volti e astratte composizioni cromatiche a mezza strada fra realtà e irrealtà. A tenere campo sono dunque situazioni misteriose e inspiegabili derivanti anche, nelle forme e nei contenuti, dalle precedenti esperienze operative della Hiller, che prima di dedicarsi all’attività artistica (lavorando soprattutto nell’ambito dell’arte concettuale e realizzando anche singolari opere sonore), ha studiato cinema, archeologia, linguistica e antropologia.

 

Fino al 27 maggio il Binario 2 è invece dedicato a The NewsRoom. Un’immersione sensoriale nelle notizie”, progetto realizzato da “La Stampa” creato per esplorare nuove forme di giornalismo, in collaborazione con il collettivo “Studio Azzurro” vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Lo spazio prende in questa occasione la forma di una mostra e di uno show digitale, di un’esperienza di giornalismo narrativo e interattivo basato sull’approfondimento.

 

Il Binario 3, infine, diventa la casa di Learn & Play! teamLab Future Park”, primo progetto permanente in Europa di “teamLab”, collettivo di sviluppatori giapponesi il cui successo è stato consacrato dal pubblico di Expo 2015. Il progetto accoglierà in un ambiente digitale interattivo i bambini dai 3 ai 10 anni, invitandoli a esplorare il confine tra arte e tecnologia attraverso un insieme di installazioni e postazioni immersive.

 

L’arte in tutte le sue declinazioni trova quindi   definitivamente casa nelle Officine Nord, con un forte attenzione ai linguaggi sperimentali delle arti visive e performative – presenti negli spazi dei Binari 1, 2 e 3 – e della musica – ospitata all’interno della Sala Fucine – mentre la suggestiva architettura del Duomo diventa punto di raccordo e di divulgazione del complesso programma delle OGR, ospitando conferenze, dibattiti e appuntamenti legati al Public Program.

 

“Spring Bang”

OGR – Officine Grandi Riparazioni, corso Castelfidardo 22, Torino; tel. 011/2764708 – www.ogrtorino.it

 g.m.

Nelle foto
– Susan Hiller: “Illuminazioni”, 2018
– “The NewsRoom”
– “Learn & Play”

 

Dante in esclusiva alla Biblioteca Nazionale Universitaria

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Visita guidata Sala Manoscritti e Rari 11 aprile 2018 ore 17
La fortuna della Commedia di Dante nella tradizione libraria della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ha radice antiche; già nei fondi ducali, infatti, la Commedia era presente sia in versione manoscritta che a stampa. La Biblioteca del Regio Ateneo torinese, istituita da Vittorio Amedeo II nel 1723, che ereditò la maggior parte del patrimonio librario della biblioteca ducale, incrementò, nel corso del tempo, tale fortuna con acquisizioni di vario genere. La visita, dedicata ad un ristretto numero di persone, offrirà l’opportunità, estremamente rara, di prendere visione diretta di una ventina di versioni manoscritte della Commedia,  con codici prodotti tra il XIV ed il XVI secolo, e di edizioni a stampa, a partire da un esemplare dell’edizione fiorentina del 1481 con il commento di Cristoforo Landino sino alla fine del XVIII secolo, custodite nella Biblioteca torinese.

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

A quiet place – Un posto tranquillo – Thriller. Regia di John Krasinski, con Emily Blunt e John Krasinski. In un futuro non troppo lontano: i terrestri sono stati decimati da una popolazione aliena pronta ad attaccare qualsiasi cosa produca rumore. Un padre e una madre con i loro due figli vivono in una fattoria isolata, circondati da forze misteriose, per difendersi hanno imparato ad usare esclusivamente il linguaggio dei segni. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Bob & Marys – Criminali a domicilio – Commedia. Regia di Francesco Prisco, con Laura Morante e Rocco Papaleo. Lui lavora in un’autoscuola, lei è casalinga, una coppia senza problemi se non fosse che la loro casa, ai limiti di un quartiere di degrado, non fosse presa di mira da una banda di delinquenti che la eleggono a magazzino per nascondere certa merce che scotta. La realtà è quella di Napoli, la storia ha autentiche radici nel passato ma il regista sceglie di inquadrarla con il cuore più che leggero. Durata 110 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, The Space, Uci)

 

Charley Thomson – Drammatico. Regia di Andrew Haigh, con Charley Plummer, Cloë Sevigny e Steve Buscemi. Tratto dal romanzo “La ballata di Charley Thompson” dello scrittore e cantante Willy Vlautin, è la storia di un quindicenne americano, abbandonato dalla madre e dalla vita già tormentata, non potendo neppure contare sulla figura del padre, un uomo che ama mettersi nei guai e perciò costretto a rapide fughe dalle cittadine del nord in cui ha appena trovato un lavoro. In un momento di sosta e di pace prolungate, Charley trova una sua piccola occupazione presso l’alcolizzato Del, si occuperà di un cavallo piuttosto male in arnese, quasi non più adatto alle corse di un tempo. Un giorno il ragazzo scopre che che l’animale sta per essere mandato al macello. Dal regista di “45 anni” con una premiatissima Charlotte Rampling, il giovane protagonista, bravissimo e premiato a Venezia con il premio Mastroianni, lo abbiamo visto come Paul Getty jr nel recente film di Ridley Scott. Durata 122 minuti. (Nazionale sala 1)

 

C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 3)

 

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo rosso)

 

Contromano – Commedia. Regia di e con Antonio Albanese. Il signor Mario, milanese doc e proprietario di un negozio di maglieria, ordinatissimo come ordinata è la sua vita, vede i suoi principi e le abitudini sconvolte dall’arrivo, chiaramente davanti alla “sua” vetrina, di un giovane senegalese che si mettere a vendere calzini a prezzi stracciati alle signore di passaggio. Che fare? Aiutarli sì ma a casa loro, è la parola d’ordine. E allora ecco che il signor Mario rapisce Oba, legandolo e mettendoselo in macchina, con l’intenzione di riportarlo in Africa. Ma i bastoni in mezzo alle ruote del progetto arrivano in tempi più che brevi, uno per tutti la presenza della sorella (?) di Oba. E allora, umanità o idee di ferro? Durata 102 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Il filo nascosto – Drammatico. Regia di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps e Lesley Manville. Nella Londra degli anni Cinquanta, il famoso sarto Reynolds Woodcock è la figura centrale dell’alta moda britannica, eccellentemente coadiuvato dalla sorella Cyril: realizzano gli abiti per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti.

(Romano sala 1)

 

La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, Eliseo Rosso, Reposi, Uci)

 

Il giovane Karl Marx – Drammatico. Regia di Raoul Peck, con August Diehl, Stephan Konarske e Vicky Krieps. Gli anni Quaranta del XIX secolo, l’esilio da Berlino e le fughe attraverso l’Europa, la povertà e gli stenti, la polizia sempre incalzante, le idee in crescita contro una classe dirigente e un capitalismo volti allo sfruttamento e alle ingiustizie, l’amicizia con Engels, figlio ribelle di un ricco industriale, la stesura del “Manifesto del partito comunista”. Durata 112 minuti. (Centrale in V.O., F.lli Marx sala Chico)

 

Hostiles – Ostili – Western. Regia di Scott Cooper, con Christian Bale, Rosamund Pike e Wes Studi. Nel 1892, due anni dopo il massacro di Wounded Knee, non ancora consolidata la pace tra indiani e visi pallidi, al capitano Joseph Blocker viene affidato l’incarico non facile di riportare nelle terre del Montana il vecchio capo Cheyenne Yellow Hawk, proprio il responsabile delle morti di molti soldati del capitano. Durante il lungo percorso molti fatti verranno a mutare i rapporti tra i due uomini, non ultimo la presenza di una donna cui gli indiani hanno distrutto l’intera famiglia. Paesaggi, personaggi che sanno d’antico, un genere che ha avuto vita gloriosa e che oggi, più che raramente, vede qualche debole accenno. Bale è un macigno, un trionfo di espressioni indurite, capace di conservare un’unica speranza nella scena finale, pieno di crudeltà e di piccoli affetti; il film è un vero capolavoro, nello spessore del racconto, nella cadenza che il regista sa imprimergli, nel vecchio quanto superbo impianto, nella rivisitazione di una intera Storia. Gli appassionati non se lo lascino sfuggire. Durata 127 minuti. (Greenwich sala 3)

 

Insyriated – Drammatico. Regia di Philippe Van Leeuw, con Hiam Abbass. Damasco è sotto assedio. In attesa della fine del conflitto esterno, una donna, madre di tre figli, si trincera con i vicini nell’unico appartamento risparmiato dalle bombe. La tensione cresce, il pericolo incombe, la casa inesorabilmente si trasforma in prigione. Durata 85 minuti. (Classico)

 

Io c’è – Commedia. Regia di Alessandro Aronadio, con Edoardo Leo, Margherita Buy e Giuseppe Battiston. Ti cade tra capo e collo un palazzo nel centro di Roma, ne fai un piccolo hotel e ti accorgi pure di quanto sia pesante la mannaia delle tasse. Perché allora non seguire l’esempio delle suorine del palazzo di fronte che con l’ospitalità a poveri e bisognosi vari si sono ritagliate un bell’angolo esentasse? Leo, anche coautore della sceneggiatura, studia allora di farne un centro religioso e volendo esagerare creare una nuova religione, lo Ionismo, un egocentrismo alle stelle, una piena responsabilità slacciata da ogni cosa o Ente che sappia di celestiale: risultato, un considerevole gruppo di adepti. Potrà funzionare? Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Lady Bird – Drammatico. Regia di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Lucas Hedges, Timothée Chalamet e Laurie Metcalf. Una storia che pesca nell’autobiografia, l’autrice, come il personaggio femminile del film, è nata a Sacramento, in California, e sin da giovane smaniosa di raggiungere la costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Nazionale sala 2)

 

Metti la nonna in freezer – Commedia. Regia di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, con Fabio Di Luigi, Miriam Leone, Barbara Bouchet e Eros Pagni. Un giovane e incorruttibile finanziere e una bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (The Space, Uci)

 

Il mistero di Donald C. – Drammatico. Regia di James Marsh, con Colin Firth e Rachel Weisz. Nel 1968 il Sunday Times lanciò una sfida, con un premio di 5000 sterline, un viaggio in solitaria senza interruzioni attorno al mondo. Vi accorse tra gli altri anche Donald Crowhurst, velista dilettante, imprenditore pieno di debiti, senza alcuna preparazione, pronto a mettersi in mare con un trimarano quantomai imperfetto, un misterioso individuo destinato alla sconfitta, deciso a scommettere con il mondo, sempre alla ricerca di miti da esaltare e di vittime da condannare, ma prima di tutto con se stesso, capace di abbandonare moglie e figli, che messo alle strette non trovò di meglio che truccare i dati della navigazione, le posizioni. Dal regista della “Teoria del tutto”, ovvero la personalità e la battaglia e gli studi di Stephen Hawking, di recente scomparso, Oscar meritatissimo per l’interprete Eddie Redmayne. Durata 112 minuti. (Romano sala 2, Uci)

 

Nella tana dei lupi – Azione. Regia di Christian Gudegast, con Gerard Butler e Pablo Schreiber. Il solido poliziotto con i suoi bravi problemi con cui convivere, l’alcol, i metodi non proprio ortodossi, una moglie che ha deciso di lasciarlo, una rapina finita male che è costata la vita di parecchi suoi uomini. Dall’altra parte una banda di delinquenti, un curriculum di tutto rispetto, dall’addestramento paramilitare alla permanenza nelle patrie galere, il progetto studiato in ogni più piccolo particolare a svuotare la Federal Reserve Bank di Los Angeles ritenuta inespugnabile. Durata 140 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Omicidio al Cairo – Giallo. Regia di Tarik Saleh, con Fares Fares. La morte di una cantante di successo nelle stanze del Nile Hilton Hotel, la sua relazione con un uomo che fa affari con il mondo della politica, un caso che si vorrebbe chiudere al più presto. La capitale egiziana del 2011, le rivolte e la corruzione senza limiti raccontata senza nulla nascondere, la criminalità che invade il paese, un commissario che pur tra le proprie zone d’ombra eccelle senza dubbio sui suoi superiori e che vuole andare fino in fondo pur di scoprire i colpevoli. Una cinematografia a molti sconosciuta, che merita con questo esempio d’essere tenuta d’occhio, un ritmo sostenuto nelle indagini che combattono contro le mazzette di quattrini che circolano a mo’ di ricompensa da una e dall’altra parte. Durezza e debolezze sulla faccia del protagonista. Durata 106 minuti. (Classico)

 

Oltre la notte – Drammatico. Regia di Fatih Akin, con Diane Kruger e Johannes Krisch. Katia vive dentro una famiglia felice, un figlio e un marito che dopo un periodo di prigione per spaccio ne è uscito e oggi lavora in una piccola agenzia di viaggi. Ma è una felicità destinata a morire: un attentato, che ha i suoi fautori in una coppia di estremisti legata al gruppo di destra greco “Alba dorata”, distrugge la vita dei suoi cari. Katia grazie al sostegno di amici e famigliari affronta la perdita e riesce ad andare avanti, ma quelle morti, con la ricerca ossessiva degli assassini, riaprono ferite e sollevano dubbi. Eccellenti le prime due parti del racconto, mal raccontata e poco accettabile l’ultima in terra di Grecia, se la protagonista decide di mettere fine ai suoi giorni insieme ai due giovani che gli hanno portato via la famiglia. Davvero una bella prova della Kruger, Palmarès per la migliore interpretazione femminile a Cannes lo scorso anno, e Golden Globe come miglior film straniero. Durata 101 minuti. (Nazionale sala 2)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 3)

 

Quanto basta – Commedia. Regia di Francesco Falaschi, con Vinicio Marchioni, Valeria Solarino e Luigi Fedele. La vicenda di Arturo, chef pieno di talento ma pronto a mettersi nei guai, una esistenza (finora) messa ai margini da molti. È anche finito dentro per rissa e   deve scontare una pena ai servizi sociali tenendo un corso di cucina presso un centro di ragazzi autistici. Incontrerà Anna, che lavora nella struttura, e il giovane Guido, affetto dalla sindrome di Asperger, innamorato della cucina. La vita di tutti i giorni, la collaborazione e la frequentazione di un talent da parte del ragazzo sapranno avvicinarli e stabilire una vera amicizia. Durata 92 minuti. (Ideal, The Space, Uci)

 

Ready Player One – Fantasy. Regia di Steven Spielberg, con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Simon Pegg e Mark Rylance. Tratto dal romanzo omonimo di Ernest Cline, uscito sette anni fa. Nel 2045 la terra è un luogo di guerre e povertà, l’unica felice evasione è il mondo virtuale di Oasis, legato ai fantasiosi anni Ottanta e ricco di scenari iperrealistici in cui è facile accedere. Lo scomparso James Halliday ha deciso di lasciare a chi lo ritroverà il prezioso Easter Egg: sarà il giovane Wade, da sempre alla ricerca di notizie sulla vita e l’attività del miliardario, si metterà attraverso l’avatar Parzival alla ricerca dell’oggetto e lo ritroverà, dovendo pure fare i conti con i potenti nemici di una multinazionale, concorrenti senza alcuno scrupolo. Durata 140 minuti. (Centrale V.O., Massaua, F.lli Marx sala Harpo, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci anche in 3D)

 

Ricomincio da noi – Commedia. Regia di Richard Loncraine, con Imelda Stauton, Celia Imrie e Timothy Spall. Il film che con risate, un po’ di autentica commozione e grande successo aveva aperto l’ultimo TFF. Scoperto che il marito la tradisce da anni con la sua migliore amica (mai fidarsi!), la protagonista scopre, attraverso l’eccentricità della sorella, quei tanti amici che la circondano, il suo modo spensierato di affrontare e condurre la vita, di avere voglia di buttarsi alle spalle tutto quanto, magari iniziando con il frequentare una sala da ballo. La attendono ancora altre prove ma un non più giovane innamorato la farà decidere la nuova strada da intraprendere. Nessuno scossone ma una bella botta di vita comunque, per lo spettatore e per la terna d’attori che sono tra il meglio del cinema e del teatro inglesi, da ammirare. Durata 110 minuti. (Romano sala 3)

 

I segreti di Wind River – Thriller. Regia di Taylor Sheridan, con Jeremy Renner, Elizabeth Olsen e Julia Jones. Tra le distese di neve del Wyoming viene inviata una giovane agente federale, non certo preparata a quelle temperature e soprattutto alla violenza che circola più o meno silenziosa in quei luoghi, per investigare sul ritrovamento del corpo martoriato di una ragazza scomparsa. Le dà sostegno e aiuto Cory, un navigato cacciatore impiegato a difendere il bestiame dagli attacchi dei predatori sempre in agguato, un animo tormentato, abbandonato dalla moglie dopo la scomparsa della figlia maggiore. Entrambi alla ricerca del colpevole, in un territorio dove ogni cosa sembra essere abbandonato alla violenza, in cui forse è necessario agire e rispondere esclusivamente con le sue stesse leggi. Dallo sceneggiatore di “Sicario” e “Hell or High Water”, terzo capitolo di una trilogia che ha affrontato il tema della frontiera americana oggi. Miglior regia a Un certain regard a Cannes lo scorso anno, grande successo al TFF. Durata 107 minuti. (Eliseo Grande, Ideal, Massimo sala 1 anche in V.O., Uci)

 

Succede – Commedia. Regia di Francesca Mazzoleni, con Margherita Morchio, Matteo Oscar Giuggioli, Brando Pacitto, Francesca Inaudi e Matilde Passera. Il mondo (stra)aperto di Internet, il mondo dei consigli suggerimenti confidenze gusti che circola senza limiti, il romanzo bestseller della diciannovenne Sofia Viscardi, maître à penser dell’etere, tutto quel che sentimenti ed emozioni della giovane protagonista Margherita, la città di Milano con i suoi nuovi grattacieli ha fare da contenitore, la musica e i primi baci, le cuffie perennemente appiccicate alle orecchie. La regista classe 1989, l’autrice classe 1998, il mondo dei giovani e giovanissimi: sarà (tutta) vera gloria? Durata 94 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

La terra buona – Commedia drammatica. Regia di Emanuele Caruso, con Fabrizio Ferracane, Giulio Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa vincente per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc: anche adesso, con un amichevole passaparola, il film, accompagnato con amore dal suo autore, si sta dimostrando, anche se imperfetto, un invidiabile successo. Durata 110 minuti. (Reposi)

 

Tonya – Drammatico. Regia di Craig Gillespie, con Margot Robbie, Sebastian Stan e Allison Janney. La storia della campionessa di pattinaggio artistico Tonya Harding, cresciuta tra i soprusi di una madre anaffettiva come quella disegnata dalla Janney, Oscar come migliore attrice non protagonista, sposata ad un uomo senza quattrini e parecchia violenza in corpo, lei gran temperamento focoso, grande carriera e grandi scandali. Come quello che la colpiì a metà degli anni Novanta, allorché la sua antagonistaNancy Kerrigan, alla vigilia dei campionati nazionali Usa, venne colpita alle gambe da un uomo, poi identificato, pronto a confessare di aver agito perché istruito e istigato dal marito della Harding. La creazione di un mito, la difficoltà a considerarla una donna e una campionessa in cui il pubblico non soltanto femminile si potesse riconoscere, il ritratto di un’America dove ognuno vuole emergere, in qualsiasi modo. Durata 121 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Groucho, The Space, Uci)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Greenwich sala 2)

 

L’ultimo viaggio – Drammatico. Regia di Nick Baker-Monteys, con Jürgen Prochnow e Petra Schmidt-Schaller. Ultranovantenne, da poco vedovo, Eduard, di origini tedesche, rimette in ordine i propri ricordi e rivisita il proprio passato, mettendosi su un treno per Kiev e andare là a ricercare la donna che fu il suo primo amore, quello più grande e mai confessato, mai dimenticato. Alle calcagna la nipote Adele, una ragazza abituata a vivere alla giornata e certo non interessata alle storie del passato. Non si tratta soltanto della storia personale, anche la Storia reclama una rivisitazione: vi sono delle radici, vive, che vanno comprese e conservate, c’è una tragedia chiusa nel passato e ancora ben viva nel tempo presente. Sarà per la ragazza una lezione difficilmente dimenticabile, di sentimenti e di memoria. Durata 107 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse)

 

Una festa esagerata – Commedia. Regia di Vincenzo Salemme, con Vincenzo Salemme, Tosca D’Aquino, Massimiliano Gallo e Iaia Forte. Gennaro Parascandolo deve preparare la grande festa per i diciott’anni della figlia, ma il decesso del signor Scamardella che abitava al piano di sotto spinge Gennaro a rinunciarvi. Chiaramente la moglie e la iretta interessata non sono assolutamente d’accordo: in più a scompigliare le idee del nostro s’aggiunge la figlia del defunto, che nei confronti di Gennaro coltiva delle più o meno strane idee. Durata 95 minuti. (Uci)

 

Un sogno chiamato Florida – Drammatico. Regia di Sean Baker, con Willem Dafoe e Bria Vinaite. Un motel di periferia, a Orlando, Florida, dove abitano certi poveri d’America, un mondo ben diverso dal lusso e dal divertimento di Disneyland. Ci abita pure la piccola e divertita Moone, figlia di una madre single perdigiorno, senza un lavoro e con un passato problematico, nella loro vita la presenza protettiva e affettuosa del manager del motel. Durata 111 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

 

 

 

Non dimentichiamoci di Pavese

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Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, certo non modelli di ortodossia morale di sinistra: il primo imputò a Pavese -da che pulpito- la “vanità” e un irrimediabile decadentismo; il secondo -addirittura- la mediocrità della scrittura

 

di

Enzo Biffi Gentili

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In questo 2018 ricorre il cento decimo anniversario della nascita di Cesare Pavese. Si presume, trattandosi di uno dei più importanti scrittori piemontesi del Novecento -e molto probabilmente di quello più noto al grande pubblico- che Torino, la Regione e altre istituzioni culturali stiano all’erta. Per ora, a livello locale il clima culturale non pare febbrile: sulla home page del Centro interuniversitario per gli studi di letteratura italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare Pavese” ancora campeggia l’annuncio del primo centenario della morte di Guido Gozzano, che ricorreva due anni fa; mentre la Fondazione Cesare Pavese ha organizzato il febbraio scorso un tour sui luoghi dello scrittore nell’occasione della festa di San Valentino, non a caso denominato “InnamoraTI di Cesare Pavese”, a prezzo scontato. A livello nazionale si nota maggiore preoccupazione, soprattutto da parte di siti dedicati agli studenti, perché un tema sul nostro potrebbe uscire alla prima prova dell’Esame di Stato, della Maturità. Intendiamoci: non si pretende certo che a ogni decennio si programmi una grande celebrazione, considerando che va tenuta presente anche la data di morte, il 1950, e quindi nel 2020 sarebbero settant’anni tondi… Ma la situazione d’oggi, politica e culturale, rappresenta un contesto particolarmente interessante per un confronto storico-critico spregiudicato sul corpus pavesiano.

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Difatti, in tempi nei quali la tradizionale dicotomia destra-sinistra appare in gravissima crisi, teorica e pratica, e la riflessione sul tema di Norberto Bobbio molto dépassée, l’ambiguità pavesiana si può rivelare, non solo letterariamente, una virtù. E sono stati proprio alcuni studiosi piemontesi nonostante la narrazione dazeglina e antifascista dominante a sottolineare aspetti quasi imbarazzanti del pensiero e dell’opera di Pavese, quali l’irrazionalismo e l’influsso di letture e figure allora poco frequentabili, da Karoly Kerenyi a Mircea Eliade, che fu sostenitore in Romania della parafascista Guardia di Ferro di Codreanu, sino persino a Julius Evola, ed eravamo, occorre ricordarlo negli anni Quaranta, e nella sede dell’Einaudi. Va quindi reso omaggio ai fondamentali interventi, nel secolo scorso, di Furio Jesi (Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, in “Sigma”, n. 3-4, 1964) e di Lorenzo Mondo, che su “La Stampa” dell’8 agosto 1990 rivelò parti censurate del Taccuino segreto di Pavese. Ma anche recentemente un altro piemontese illustre, Franco Ferrarotti, amico personale di Pavese, ha dichiarato l’impossibilità di considerarlo storicista, crociano o marxista (http://www.calabriaonweb.it/2013/10/15/il-mio-amico-cesare-pavese-e-quelli-che-non-lhanno-mai-capito-mi-telefono-prima-di-suicidarsi-ma-io-ero-al-mare-3/). E quindi possono essere oggi ancor meglio compresi e più severamente giudicati i correlativi e ingiustificabili attacchi di colleghi letterati romani, come quelli di Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, certo non modelli di ortodossia morale di sinistra: il primo imputò a Pavese -da che pulpito- la “vanità” e un irrimediabile decadentismo; il secondo -addirittura- la mediocrità della scrittura.

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Nelle foto, dall’alto:

Manuele Fior. Cesare Pavese da L’ora dei miraggi Oblomov 

Ben Heine DeviantArt Mircea Eliade

Camila Martins Saraiva. Norberto Bobbio

 

Notturni bosani

FINO AL 14 APRILE

Scriveva in “Viaggi e altri viaggi” (Feltrinelli, 2010), il grande pisano Antonio Tabucchi, scomparso a Lisbona nel 2012 e sicuramente il maggior conoscitore e traduttore di Ferdinando Pessoa: “Un luogo non è mai solo ‘quel luogo’: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”. Ora, non so se sia stato il caso o cos’altro a portare, nelle vacanze estive di quasi quarant’anni fa, Elena Saraceno fra le scogliere di Tentizzos e Torre Argentina (nella costa occidentale del centro-nord della Sardegna) e a farla invaghire così tanto della coloratissima Bosa, antico borgo della provincia di Oristano, magico “presepe” dalle case tutte colorate e abitato fin dall’epoca fenicia; fatto è che le parole di Tabucchi ci paiono proprio calzare alla perfezione nel caso particolare dell’ombelicale liaison che unisce l’artista torinese alla città (titolo conferitole durante la dominazione aragonese) di Bosa, oggi principale centro abitato della Planargia. “Proprio lì – ci racconta la Saraceno, che a Torino ha insegnato per più di trent’anni Educazione Artistica, dopo aver frequentato la Facoltà di Architettura e seguito i corsi di incisione alla Libera Scuola di Nudo dell’Accademia Albertina– ho cominciato a dipingere e a disegnare sistematicamente e con ferma convinzione”. E proprio lì, la pittrice compra casa negli anni Ottanta. A Sa Costa, nella parte più antica della città. Il posto del cuore, in assoluto, dove ritorna ogni estate, “di cui mi sono innamorata e che ho cominciato a dipingere, osservandone i mille aspetti diversi, i suoi angoli, la sua luce, le sue ombre, i suoi colori, perfino i suoi rumori o i suoi silenzi. Ma a modo mio, vedendola sempre uguale e sempre diversa”. Nella sua casa di origini medioevali, una delle tante coloratissime edificate con pietre di trachite rosa e attaccate l’una all’altra, a baciarsi muro a muro – lungo strade parallele unite da verticali scalette – e dominate dal Castello dei Malaspina (XII-XIII secolo), nasce la maggior parte delle sue opere, già esposte in mostre personali e collettive, ma anche un libro-diario, un “carnet de voyage”, dal titolo “Bosa e i suoi colori” pubblicato nel 2007 dall’editrice “Inchiostro Rosso”, in cui la Saraceno illustra i luoghi per immagini e parole manoscritte “con lo sguardo attento e paziente di un’esploratrice che ha preferito ascoltare piuttosto che parlare”. Un gesto d’amore per la “sua” città d’adozione.

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Sono quadri di colore, soprattutto, quelli realizzati dall’artista. Cromie multiformi e materiche che s’attaccano con forza alla tela e creano i muri delle case, i volti e le figure della gente che ci vive, quell’arcobaleno di magica suggestione che dà vita alla roccia del sovrastante Colle di Serravalle e che, qualche anno fa, ha fatto aggiudicare   proprio a Bosa il secondo posto come “Borgo più bello d’Italia”, dopo la siciliana Gangi. In questa mostra personale, ospitata nei locali dell’Associazione Culturale “TeArt” di via Giotto a Torino, troviamo una decina di acrilici su tela, tutti recenti o recentissimi, di medie dimensioni, dedicati alle ombre, ai misteri e alle suggestioni delle notte; di quei “Notturni bosani”, dove il silenzio è voce assordante dell’anima e dove i geometrici “giganti” della struttura urbana raccontano di tempi che appartengono a memorie lontane, impreziosite dal fascino di un fare poesia che solo il vero artista riesce a creare e a dominare. Strade, viottoli e vicoli, interni di cortile con i resti di una serata fra amici o in famiglia, un tavolino una bottiglia due bicchieri e una   testa in pietra sul muretto dove due mici paiono dialogare al chiar di luna, ancora lontani dal sonno a venire. I colori fanno breccia a fatica fra il nero del cielo e quello dei primi piani e delle quinte teatrali che hanno la sagoma di scure e larghe chiome appartenenti ad alberi secolari. Assente l’uomo. Di lui c’è silente traccia dietro quelle finestre chiuse e contornate di pietre di trachite, su cui s’abbattono con magnifica violenza larghe sciabolate di luce che danno calore e sagoma di racconto alla fitta oscurità della notte. Luoghi particolari. Che solo lì sembrano trovar ragione di esistere. Un po’ come per la collina raccontata da Cesare Pavese, non “un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere”. Così è anche per la Bosa di Elena Saraceno, che racconta: “La cosa che continua a ispirarmi è questo miracolo naturale e architettonico ancora intatto nonostante gli anni di grande cambiamento che abbiamo vissuto. Se vai a Tentizzos o ti fai un giro nell’entroterra ti rendi conto che il territorio è ancora integro o se ti fai una passeggiata lungo i vicoli di Sa Costa si respira un’atmosfera eterna e sembra che la modernità abbia voluto risparmiare ‘Bosa e i suoi colori’”.

Gianni Milani

“Notturni bosani”

Associazione Culturale “TeArt”, via Giotto 14, Torino; tel. 011/6966422

Fino al 14 aprile – Orari: mart. – sab. 17/19

 

 

L’arte si fa design e celebra l’acqua

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Operart – Via della Rocca 12, Torino

Dal 5 aprile al 10 maggio lo showroom torinese Operart organizzaAquae”, mostra multidisciplinare che abbatte le frontiere fra moda, arte e design autoprodotto. Performances e incontri arricchiscono l’evento, che è una novità per la cultura torinese. Installazioni modulate come onde del mare, oggetti di design che richiamano la fluidità dell’acqua, performances che della liquidità fanno il loro tratto fondamentale. Operart, showroom torinese di interior design, si trasformerà dal 5 aprile al 10 maggio in spazio espositivo multi-disciplinare per rendere omaggio, attraverso arte, design e moda, al terzo prezioso elemento della natura: l’Acqua, che, come diceva il poeta cileno Raul Zurita, è l’intermediario tra noi e le stelle, ogni sua goccia è un respiro dell’universo. “Aquae”, questo il titolo della mostra, vuole sensibilizzare il pubblico con fattori evocativi estetici e simbolici sull’importanza dell’acqua, patrimonio dell’umanità e metafora dell’energia vitale presente in ogni individuo. L’ esposizione guarda ai nuovi linguaggi espressivi, quelli che abbattono le frontiere tra arte e design autoprodotto, fenomeno in crescita e in grado di ispirare produzioni seriali numerate, disegnate da artisti per i grandi brands dell’interior design. Percorsi creativi e linguaggi uniti nel segno della modernità diffusa e partecipata. Una novità per il panorama artistico torinese, in linea con una tendenza che promuove il design concettuale e trova autorevoli consensi e pubblico in gallerie, musei e fiere di tutto il mondo. Un nuovo linguaggio espressivo che, interagendo con l’arte contemporanea, ne diviene parte. Raoul Gilioli, artista installativo, Walter & Hamlet, artisti eclettici e designer di moda con atelier a Torino, e Operart hanno ideato un ambiente espositivo ‘fluido’, dove le opere create dialogheranno con lo spazio appositamente riconfigurato e con i ricercati elementi di design tematici, allestiti in esclusiva per la mostra-evento.

 

Carlo Bocca, fondatore di Operart, ha creato un allestimento specifico sui due piani dello spazio espositivo in cui le opere degli artisti tra video-arte, design autoprodotto, installazioni e performances, dialogheranno con alcuni elementi di arredo dedicati. L’allestimento è stato ‘disegnato’ seguendo linee fluide, come onde e suggestioni materiche, giocando con le geometrie dello spazio ed il richiamo ancestrale dei materiali. Raoul Gilioli, artista installativo ideatore di Aquae, presenta in anteprima due collezioni tematiche realizzate in cristallo digitalizzato, legno grezzo e plexiglass. Le linee sono morbide e scolpite digitalmente o manualmente sulle superfici come tracce fossili di onde marine. Per l’occasione sarà presentato il monolite Terra di Minotti Cucine, un blocco di pietra rara disegnato da Claudio Silvestrin, autore e progettista per Fondazione Sandretto. La texture riproduce trame fossili d’acqua in sintonia con il tema del lavoro di Gilioli e le installazioni di Walter & Hamlet. Il duo ha un solido e riconosciuto percorso nell’ambito dell’haute couture, ispirato da una visione artistica contemporanea che si esprime in Aquae con 4 installazioni specifiche presentate in anteprima. Mariano Dallago, fotografo professionista tra sperimentazione e design, presenta una trasposizione delle immagini mediante matrici e calchi su gesso, trasformando le immagini fotografiche in opere luminose. Lo spazio espositivo sarà nel mese della mostra anche teatro di incontri con ospiti di rilievo, che dialogheranno con il pubblico. Il vernissage del 5 aprile si aprirà con la performance Aquae di Raoul Gilioli con Giulia Ceccarelli e una video-installazione in collaborazione con Fripsel.

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Sono previsti altri 2 appuntamenti il 12 aprile ed il 3 maggio, che si chiuderanno con lo spettacolare finissage del 10 maggio, curato dal duo Walter & Hamlet, con il Balletto di Torino intitolato ‘il Canto dell’Acqua’.

L’umanità semplice di Pietro Domenico Olivero

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Pur essendo famoso durante la prima metà del 700 come pittore di corte dei Savoia, di Pietro Domenico Olivero non fu mai allestita una mostra monografica; l’occasione viene data ora dal Museo Civico di Moncalvo attraverso la presentazione, ad opera di Aleramo Onlus, di diversi dipinti che denotano la sua tipica vocazione al genere delle “bambocciate”.

 

Accanto alla grande pittura aulica della ritrattistica e all’enfasi dei temi religiosi erano in voga le scenette episodiche intinte di paesaggismo dell’Olivero che venivano richieste dai reali, dalla nobiltà delle ville della provincia e da appassionati collezionisti. Quando nel 1705 morì il pittore di corte, il viennese Seyter protetto dalla Madama Reale Giovanna Battista di Nemours, che aveva istituito nel 1678 l’Accademia di Belle Arti per la protezione degli artisti, il figlio Vittorio Amedeo II si tenne caro il pittore apprezzandone il talento e il vivace temperamento. Dapprima gli furono dati incarichi minori di decoratore di fiori, accostandosi al fiorismo locale di radici fiamminghe e francesi,   in cui si specializzò in particolare Anna Caterina Gili, per la Reggia di Venaria e gli fu assegnato il compito di collaboratore di vedutisti e quadraturisti per affrescare colorite figurine nella veduta, voluta da Juvarra, per l’atrio del Castello di Rivoli, insieme al Michela. Divenne poi il maggiore esponente della pittura macchiettistica riallacciandosi al filone che si era diffuso a partire dal 1625 nella Roma papale ad opera della scuola dei Bamboccianti di via Margutta fondata dall’olandese Pieter Van Laer. Tra i molti generisti fiamminghi e olandesi si erano distinti anche gli italiani Michelangelo Cerquozzi, detto “Pittore di Battaglie”, Carlo Lanfranchi “Il flamenco” e in particolare Jean Miel che, soggiornando a Torino alla Corte di Carlo Emanuele II, aveva diffuso in ambito piemontese i suoi divertenti capricci con succose carnevalate e cacce. Sicuramente l’Olivero tenne conto di questo retroterra, accogliendo e dando una connotazione strettamente torinese alle canzonatorie e spiritose scenette popolane. La sua vena arguta, l’autoironia, per cui non disdegnava di ritrarsi con le proprie deformità, alla pari di un Toulouse Lautrec, la sagace osservazione di ciò che avveniva per strada resero la sua arte una perfetta testimonianza di usi e costumi della vita della città sabauda.

 

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Fiere, mercati, feste religiose e profane, risse di strada, cavadenti, giocolieri, imbonitori, osti, botteghe di ciabattini e di calderai, animano i dipinti freschi e maliziosi con la bonarietà scherzosa di chi si vuole divertire e divertirsi senza dare giudizi morali. Mai superficiale e volgare, però, poiché affiora sempre partecipazione e sensibilità umana, a volte malinconica, che addolcisce lo spirito dissacrante delle precedenti bambocciate romanesche mantenendo un’impronta di eleganza tipicamente piemontese. Significativo fu l’apporto delle incisioni di Jacques Callot esperto di bulino e acqueforti oltre che di decori, tra il raffinato e il grottesco, di tabacchiere e scatoline d’oro e di porcellana, la cui “Fiera dell’Impruneta” del 1620 è stata osservata dall’Olivero nel comporre” La fiera e la festa del santuario di San Pancrazio a Pianezza” del 1724 e “La processione al santuario della Madonna del Pilone” del 1744. Una maggiore finezza di tocco barocchetto si trova nelle sovrapporte della Sala degli Archivi di Palazzo Reale e della Palazzina di Stupinigi in accordo con lo spirito arcadico Juvarriano. Senza dimenticare che Olivero fu anche valente disegnatore come attestano i circa180 disegni, contenuti in un volume del Museo Civico torinese, che erano stati attribuiti erroneamente, nonostante la sua firma, dal mercato antiquario inglese a Jacques Van Laer. Le opere in mostra rendono partecipi delle tradizioni popolari e della parabola della vita quotidiana con rappresentazione dettagliata, sincera e garbata dei soggetti in cui egli si identifica; si sente parte di quell’umanità semplice e vera intenerendosi al cospetto di madri che cullano o allattano infanti mentre vendono la merce nei mercati, gioisce ai giochi dei bimbi e alla vista dell’albero della cuccagna, s’inebria di vino durante la festa dei brentatori, prova lo stesso stupore dei popolani che guardano attraverso il “ mondo nuovo” del pantoscopio usato dagli ambulanti nelle fiere, è orgoglioso dell’eroismo dei soldati nell’accampamento, prega insieme ai fedeli alla festa della Madonna del Pilone. Le immagini riportano una Torino riconoscibile negli usi, costumi e vedute paesistiche ma suggeriscono aperture più vaste superando i limiti strettamente locali allargandoli ai molteplici aspetti di un’epoca di grandi cambiamenti e del sorgere di una nuova coscienza avviata alla modernità.

 

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La sua è una pittura che parla del popolo ma non è pittura incolta poiché, oltre all’ampia conoscenza dei bamboccianti seicenteschi, tiene a mente la cultura figurativa dei grandi maestri del passato con uno spirito assolutamente diverso. Senza arrivare all’alta profondità di pensiero della commedia della vita di Pieter Bruegel troviamo lo stesso brulichio di figurine minute che si affaccendano nelle vedute ma, se nel grande olandese predomina l’amara ironia dell’affannarsi inutile e stolto di un’umanità spaesata guardata con disincanto, nell’artista torinese si coglie un’empatia che unisce armonicamente l’uomo al paesaggio; non più una considerazione dell’assurdità e della follia dell’esistenza ma un’ accettazione tra gioia e malinconia della vita e del lavoro anche se umile. Nel ritratto che presenta il macellaio a braccia conserte fiero del proprio ruolo, in primo piano, lasciando nello sfondo l’animale scuoiato appeso allo stesso modo del famoso dipinto di Rembrandt, sicuramente ricordato, non compare un simbolismo drammatico ma solo un’ispirazione iconografica e un virtuosismo tecnico dell’uso della luce e del colore. Più vicino sicuramente allo schietto realismo della “bottega del macellaio” di Annibale Carracci che coraggiosamente rompeva il tardo manierismo cinquecentesco, ormai l’Olivero nel 700 si sente a suo agio e libero di esprimersi secondo i propri interessi ben accettati da Vittorio Amedeo II che, pur consigliandogli una pittura più nobile, l’accoglieva benevolmente a Corte apprezzando i suoi dipinti di piccoli eventi pieni di poesia. Con lui non ci troviamo di fronte ad un semplice pittore di genere che risolve la pittura in banali e ripetitivi aneddoti, tanto disprezzati con sarcasmo da Salvator Rosa, che pure agli inizi era stato bambocciante, ma ad un vero artista che dà dignità ad un repertorio considerato minore in quanto la valutazione delle opere non deve essere vista attraverso una scala gerarchica di soggetti e temi scelti poiché tutte le poetiche sono legittime se si risolvono e concretizzano in Arte.

 

Giuliana Romano Bussola

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 Museo Civico Città di Moncalvo  7 aprile / 1 luglio 2018 – apertura sabato e domenica dalle ore 10,00 alle ore 18,00 durante la settimana su appuntamento informazioni – 327 7841338