CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 628

David Row. Investigations

La coinvolgente irregolarità dell’arte nelle opere dell’artista americano esposte alla “metroquadro” di Torino

Si intitola significativamente “Investigations” la raffinata personale di David Row (americano di Portland, dove nasce nel ’49, e che lascia per vivere oggi a New York e nel Maine), ospitata da Marco Sassone negli spazi della Galleria “metroquadro” di corso San Maurizio, a Torino. “Investigations”, come dire: indagine, ricerca, salto libero nell’imprevedibilità di forme, spazi e colori; meandri in cui Row s’aggira da abilissimo pittore –detective, senza fretta alcuna (almeno sembra) di uscirne con in mano soluzioni e verità definite una volta per tutte, tastando invece con fiuto e assoluta singolarità i sentieri più immaginifici dell’arte. Che, per lui, sono sentieri di costante e certosina investigazione segnica e cromatica, portata avanti “attraverso forme, spazi, poligoni irregolari ed ellissi carichi – si è scritto – di grande energia ma bilanciati da un equilibrio e una precisione formale, a loro volta fratturati e frammentati da sottili linee in vividi colori fosforescenti”. Riconosciuto oggi fra i più importanti artisti americani operanti nell’ambito della pittura astratto-concettuale, David Row è stato allievo alla “Yale University” di Al Held – cui molto devono ancora oggi i suoi “spazi geometrico-luminosi” – e a New York ha lavorato fianco a fianco, negli anni Ottanta, con l’allora giovane generazione di artisti astratti come Peter Halley, Mary Heilmann (figure centrali nel movimento concettuale di quegli anni) e Ross Bleckner (celebri i suoi lavori di riflessione sull’epidemia dell’Aids). Alla torinese “metroquadro“, l’artista espone una contenuta serie (in tutto una decina) di recenti lavori a olio su carta “Arches”, ideati per la realizzazione di tele e tavole di dimensioni maggiori, ma assolutamente opere in tutto e per tutto perfettamente compiute e vive di una loro ben specifica e poetica realtà. Realtà di forme inaspettate e ricorrenti, come le ellissi e le grandi X, affidate al fascino esemplare di colori intensi e saturi e di una particolare qualità della luce, che é memoria, ancor oggi vivida, degli anni adolescenziali trascorsi in India. “Investigazioni”, si diceva. Su forme all’apparenza “scivolose” (la definizione è dello stesso Row), che, nel gioco delle parti, si diverte e tende a coinvolgere lo spettatore, invitandolo quasi a interpretare le parti finali di soggetti dalle marcate o bislacche geometrie, mancanti nel perimetro regolare della cornice ed estese “oltre”, ad occupare simbolicamente lo spazio circostante. Così negli “Studi” (tutti del 2017) “for Depth Grammar” o “for Moon shadow”, non meno che nel delicato “for New flash” accanto al più perentorio “for State of the Nation”, ci troviamo di fronte a lavori bidimensionali “che possono anche essere letti come ‘spaziali’”, aggiungendo una “dimensione scultorea”, uno “spazio infinito multiprospettico” a motivi modulari che inizialmente rappresentano solide certezze, interrotte e frammentate – work in progress – da linee nette e luminose e da segni graffiti e graffianti che raccontano di casualità impreviste e imprevedibili, come del continuo ricorso a sperimentazioni grafiche di tattile e visiva piacevolezza. Insignito dei più prestigiosi Premi e all’attivo numerosissime mostre a livello internazionale, David Row (che oggi insegna alla “The School of Visual Arts” di New York) è presente nelle collezioni permanenti dei più importanti Musei americani, e non solo; di recente il “Portland Museum of Art” ha acquisito una sua grande opera che sarà posta all’ingresso dello stesso Museo e il CMCA (Center for Maine Contemporary Art) di Rockland inaugurerà il prossimo anno, nel suo nuovo edificio progettato da Toshiko Mori, la prima tappa di una mostra itinerante il cui spazio espositivo principale sarà dedicato proprio ai lavori di Row.

Gianni Milani

“David Row. Investigations”
Galleria “metroquadro”, corso San Maurizio 73/F, Torino; www.metroquadroarte.com
Fino al 20 giugno
Orari: dal mart. al sab. 16/19

Nelle foto

– “Study for Depth Grammar”
– “Study for Moon shadow”
– “Study for New Flash”
– Study for State of the Nation”

 

Montiglio Monferrato, ciak si gira

Proseguono felicemente le riprese dello stimato regista, il Sindaco Tasso: “Una vetrina importante per il rilancio del territorio

Sino al prossimo 25 maggio il borgo senza tempo di Montiglio Monferrato, nato nel 1998 dalla fusione con i colli divini di Colcavagno e Scandeluzza, prosegue la propria vocazione fattiva a set del nuovo film, dal titolo ‘Qui non si muore’ di Roberto Gasparro, giovane regista di belle speranze che, per l’occasione, ha radunato attorno a sé un cast vincente di firme di ieri, di oggi e di sempre del miglior cinema italiano, con un occhio attento anche alle nuove proposte di talenti. “Una vetrina importante, che ben si sposa con la vocazione di richiamo internazionale insita in Montiglio Monferrato, e che intendiamo nel tempo rilanciare e sostenere: l’opera di Roberto Gasparro ha colorato paese e frazioni di umanità, partecipazione ed entusiasmo. Ovunque tutt’intorno si respirano gioia e soddisfazione. Gliene siamo vivamente grati”. Montiglio è un paese meraviglioso, gli abitanti sono fantastici, noi stiamo tutti benissimo e mangiamo tantissimo. Quindi, prevedo di ingrassare molto prima di far rientro a Torino: sarà forse anche per questo che qui mi definiscono spesso un’artista di peso e di spessore?”, scherza soddisfatta Margherita Fumero, nel film madre del Sindaco che riporterà la vita a Montiglio Monferrato. E prosegue: “Un’ esperienza arricchente: letti copione e trama, ho detto subito sì, perché insegnano che cos’è l’amore, anche attraverso la rinascita di un borgo sul fil rouge del valore assoluto della libertà in cui ciascuno può realizzarsi secondo il proprio sentire, dove si rispettano le idee degli altri. Un grande insegnamento a tutti, specialmente in questi controversi, litigiosi tempi moderni”. Per Alessandro Gamba, alla prima prova da protagonista in video cui spetta la parte del figlio della Fumero, quale primo cittadino omossessuale grazie al cui operato torneranno le fatidiche nuove nascite nel borgo monferrino, “Alle volte la vita e il caso sorprendono: non sono assolutamente del mestiere, ma mi sono dato subito disponibile a prendere la palla al balzo per quest’avventura piovutami addosso dal Cielo come un dono provvidenziale. L’attualità del tema è stata la molla decisiva perché accettassi subito e di buon grado: il mio modo di contribuire attivamente all’incontro armonico tra generazioni differenti, tutte partecipi della sfida più giusta, ovvero il prosieguo della vita in un luogo che profuma di storia”. Interviene anche Franco Barbero, storico e affermato attore comico piemontese: “Interpreto uno degli anziani del Paese. L’opera racchiude in sé un bellissimo messaggio: occorre aprirsi al nuovo cogliendo di esso e da esso tutto il meglio che può apportare, evitando però di farsi fagocitare completamente da esso. E’ l’equilibrio che fa la differenza”. Entusiasmo pieno anche per il nome di punta del cast, il Premio David di Donatello Tony Sperandeo: “Se è vero che noi siciliano siamo famosi per le calorose accoglienze, qui ci hanno superato con una gentilezza da applausi. Siamo trattati da star, eppure siamo soltanto operai del cinema. Ringrazio il Sindaco, la Giunta, la gente e i Professionisti tutti che ci hanno coadiuvato. Sono conosciutissimo per i film di mafia, però questa è la quarta volta che indosso i panni di un prete”. Per poi concludere: “Mi piace Roberto Gasparro, è carico di entusiasmo e dirige tutto benissimo: avrei dovuto fare la parte di un ministro burbero e cattivo, invece l’ho convinto a farmi vestire i panni di Don Gaetano. E poiché sono un prete discolo, la curia mi ha messo al 41 Bis, battuta che cito anche nel film: quindi, alla fine, tutto torna!”. Anche il valente Giorgio Serra è, nella finzione cinematografica “Piero, uno dei quattro vecchietti discoli che sperano di rilanciare questo paese. Con la viva speranza che questi sogni si avverino, colpendo la sensibilità di tutti e di chi di dovere anche nella realtà quotidiana”, confida. Nel cast anche la brava Barbara Bacci che, come lei stessa ammette, si è “Già innamorata del posto e dell’atmosfera monferrina, che permea tutto di energia speciale, particolare, e tutto questo mi piace tantissimo. Su questo set è magia pura l’incontro fra generazioni diverse unite sotto il segno di questa pellicola che è di per sé un inno alla vita, sintesi virtuosa dell’appuntamento, al crocevia del destino, di mondi, storie e componenti differenti ma complementari. C’è una connessione naturale, ho molto da imparare dai più anziani del cast. Roberto Gasparro è un ottimo collante fra tutti, ha le idee chiare ma lascia anche ampio spazio in scena al meglio di ciascuno di noi, stimolandoci continuamente”. Conclude il regista: “Sono loro a darmi la carica, hanno una vis artistica genuina e instancabile. Persone cordiali a telecamere spente tutti, perfette macchine da guerra mentre giriamo. Al momento tutto molto positivo, dal ciak all’interazione con la gente e il territorio. Grazie di cuore al Sindaco Dimitri Tasso, vera anima di questo Paese, amatissimo e stimatissimo da tutti i suoi concittadini. Proseguiamo ancor più decisi e convinti sulla strada felicemente intrapresa”.
 

Al Museo Diocesano in mostra l'Ultima Cena

Ultima cena è il titolo emblematico della mostra che il Museo Diocesano di Torino, in piazza San Giovanni 4, ospita dalla scorsa Santa Pasqua fino a domenica 9 giugno prossimo

L’esposizione raccoglie tredici opere d’arte contemporanea ispirate al tema dell’Ultima Cena, realizzate da tredici artisti di respiro nazionale, proprio come tredici erano i commensali intorno a Gesù. Gli artisti presenti sono Armenia, Cavegnago, Consiglio, Costanzo, Frazzi, Gajoni, Love, Monta, Pesce, Prevenuto, Rota Candiani, Sikie Todaro. L’Ultima Cena costituisce una delle scene bibliche più rappresentate nella storia dell’arte. Coglie un istante drammatico che si legge negli atteggiamenti e nel volto dei protagonisti, con Cristo rappresentatoal centro, nella sera precedente il giorno in cui sapeva che sarebbe stato crocifisso e quando già conosceva le intenzioni degli Apostoli, di Giuda che lo avrebbe tradito per pochi denari, e di Pietro, che lo avrebbe rinnegato per ben tre volte. Se l’Ultima cena più celebre è  quella dipinta da Leonardo da Vinci, oggi conservata nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, molti altri artisti sono riusciti, come quelli le cui opere sono ora in mostra al Museo Diocesano, arappresentare questo soggetto in dipinti carichi di mistero e misticismoL’evento è realizzato in collaborazione con il Parco d’arte Quarelli di Roccaverano nell’Astigiano, che espone en plein air molte opere di artisti di fama e talenti emergenti. L’ingresso ha il costo di 5 euro comprensivo della visita al Museo, gratuito con la tessera Torino Musei.

 
Mara Martellotta

Una sorta di alchimia

“In fondo questa mia vita è un eterno concerto

un palcoscenico aperto animato ogni giorno di piu’”

La mia mente si accende e il destino qui gioca i suoi assi…

Se solo potessi non smetterei piu’.

Lo scorso venerdi ho tenuto un concerto, con la voce non proprio ok, insomma, un polipetto che vuole accompagnarmi senza regredire quasi a voler sfidare il medico che me lo toglierà nei prossimi mesi. Ma quel concerto mi ha fatta riflettere, la preoccupazione che mi portavo sulle spalle da settimane, la “non presenza” della mia voce per come la intendo io, quella presenza, l’agitazione e sound check non proprio splendidi mi hanno fatta arrivare sul palco con i sudori….poi …la magia, e tutto ha funzionato perfettamente, inaspettatamente. E quando accadono queste cose, proprio allora, comprendo sempre più la ragione di questa mia vita fatta di sole verità e zero finzioni, a partire dall’ammettere con me stessa che questo è ciò che volevo, voglio e vorrò fare per sempre: cantare.

“Una sorta di alchimia

che ci vuole qua

basta un niente ed è magia

tutto il resto… banalita”

Con la realizzazione di questo brano, Renato Zero dimostra tutto il suo Amore per la musica che è, da sempre, il suo lavoro. Direttamente da “Presente” questa settimana ci soffermiamo su “Non smetterei più”, cantata con un’altra voce grandiosa, quella di Mario Biondi. Nel brano viene descritto anche il rapporto con i suoi fans, quindi una canzone che parla di Renato come artista e del suo pubblico. Una foto, un saluto e ciascuno si goda Renato, dopo tanto silenzio era giusto arrivasse anche a te….Mi piace molto la tonalità calda con cui Mario Biondi pronuncia quel “Renato”

“Mille volte caduti, mille volte rialzati… Questa nostra determinazione ci premia così”

Lo dico sempre nelle mie lezioni:”il tuo livello di soddisfazione dipende dal tuo livello di coraggio” ed il coraggio lo esprimi anche nella forza che metti per rialzarti quando cadi, quando credi di non farcela più. Perchè il cuore dell’uomo è come il vestito del povero; è dove è stato rammendato più volte che è più forte. Ascoltate questo album, se desiderate, prestate attenzione a questo brano “non smetterei mai” e rimettete in bolla la vostra vita, se potete, perchè esiste, a parer mio, un solo tipo di successo: quello di fare della propria vita ciò che si desidera, e non smettere mai. Se siete tanto fortunati da trovare il tipo di vita che vi piace, dovreste anche trovare il coraggio di viverla.

Buon ascolto!

Chiara De Carlo

https://www.youtube.com/watch?v=7VKKCptpRb4

***

Chiara vi segnala i prossimi eventi … mancare sarebbe un sacrilegio!

L'isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria
***
Piersandro Pallavicini “Nel giardino delle scrittrici nude” -Feltrinelli- euro   16,00
 
Cosa fareste se a 60 anni, improvvisamente, ereditaste inaspettatamente una vagonata di miliardi, tanto per capirci, una rendita sicura di due milioni di euro al mese? Se, come la protagonista Sara Brivio, aveste velleità letterarie e qualche sassolino da togliere dalla scarpa, magari fareste come lei. Ed ecco che in questo divertente romanzo di Pallavicini gronda l’ironia sul mondo letterario. La protagonista, infatti, come eredita la montagna di soldi che l’odiato padre si era fatto a sua insaputa inventando il Viagra e il Cialis, si toglie subito un paio di sfizi. Compra una rombante jaguar color “verdone”; ma soprattutto una magnifica casa nel centro di Milano, dove va a vivere con le sue due amiche più care, Elena e Fanny, scrittrici di nicchia e scarso successo. La villa vanta un magnifico giardino in cui le tre si godono il sole nude, leggendo, al riparo dagli sguardi del mondo esterno. Però la soddisfazione più grande per Sara è aver creato un premio letterario col suo nome che mette in palio la bellezza di 500.000 euro; concepito anche per ridicolizzare i soliti noti del jet set editoriale e far vincere, invece, gli eterni esclusi che, come lei e le sue amiche, hanno ottenuto scarsa fama e niente pecunia. Le vicende del premio si intersecano con il lussuoso stile di vita di Sara, che ora può permettersi qualsiasi capriccio. Per esempio, prenotare 3 posti in business (così sta più comoda e tranquilla) per Vienna, alloggiare nella suite deluxe (da 2100 euro a notte) dell’hotel più lussuoso, tutto per gustarsi la migliore Sacher al cioccolato della città. Dietro a questo ci sono però anche le ferite che la vita le ha inferto. Il padre scappato tanti anni prima, mentre lei era incinta e accudiva da sola la madre devastata dal cancro. Poi il disastroso matrimonio con Giorgio -velleità da scrittore ed omosessualità latente- finito con un divorzio, e il sommo dispiacere dell’unica figlia che non la vuole più vedere. Hai voglia a trovare consolazione nei soldi…. Ma nel romanzo scoppiettante, intriso di continui rimandi e citazioni c’è molto di più: personaggi curiosi, a volte estremi, meschinità e pochezza di un certo milieu letterario, e vedrete anche come andrà a finire la seconda edizione del Premio Brivio che fa concorrenza nientemeno che allo Strega. Preparatevi a divertirvi e sorridere.
 
 
Ulrich Alexander Boschwitz “Il viaggiatore” -Rizzoli-   euro 19,00
 
Questo è un romanzo sull’Olocausto, diverso da tutti gli altri, e arriva da molto lontano. Racconta, passo per passo il tentativo di fuga di Otto Silberman, un ricco ebreo che non ha saputo prevedere la catastrofe. Un po’ per ingenuità, un po’ perché non è sempre facile accorgersi delle atrocità intorno a noi, mascherate dapprima da tenui segnali, e poi deflagranti in tragedia di portata storica. La vicenda inizia dopo la drammatica Notte dei cristalli tra 9-10 novembre del 1938, in cui nel pogrom condotto dagli ufficiali del Partito Nazista e dalla Gioventù hitleriana, su ordine di Goebbels, bruciarono e vennero distrutte circa 1500 sinagoghe e case di preghiera ebraiche, migliaia di negozi, case private e cimiteri. Otto Silberman in una notte perde tutto. In casa irrompono teppisti fanatici che distruggono più possibile; la sua azienda gli viene praticamente espropriata in un attimo dall’avido socio ariano; la moglie fugge dal fratello, altro ariano che vigliaccamente negherà ospitalità a Otto. Il romanzo accenna a lager, treni della morte, filo spinato e sterminio; ma lo fa da lontano, inquadrandoli come eventualità remote a cui il protagonista un po’ crede e un po’ non ritiene umanamente possibile. Silberman ha messo in salvo e porta con sé solo una ventiquattrore con ciò che resta del suo patrimonio: 41.000 marchi che potrebbero tornargli utili se riuscisse a passare il confine. Dalla sua ha l’unica fortuna di avere i tratti somatici di un ariano, ma il passaporto denuncia la sua appartenenza alla razza ebraica, da sterminare. Non vi dico di più della sua odissea da un treno all’altro….fino all’epilogo. Ma chi era e che destino ha avuto l’autore? Ulrich Alexander Boschwitz aveva appena 23 anni quando scrisse in poche settimane “Il viaggiatore”. Ne aveva 27 quando morì in una traversata dell’Atlantico su una nave inglese che fu silurata dai tedeschi al largo delle Azzorre. Era nato a Berlino nel 1915, figlio di un commerciante ebreo convertitosi al cristianesimo e morto durante la 1° Guerra Mondiale; mentre la madre apparteneva ad una ricca famiglia di Lubecca. Scappato dalla Germania in seguito alla promulgazione delle leggi razziali nel 1935, ebbe vita breve e difficile. Fu esule in Svezia, Norvegia, Francia e Inghilterra, da dove fu espulso in quanto tedesco e nonostante le radici ebraiche, infine venne deportato in Australia. Nel 1942 si imbarcò su una nave di profughi che rientravano in Europa e lì la sua giovane vita finì negli abissi. Il suo libro rimase chiuso per 80 anni negli Archivi della Biblioteca Nazionale di Francoforte e dobbiamo la sua riesumazione alla lungimiranza di un editore tedesco. Durante il rientro in nave Boschwitz aveva con sé una versione perfezionata del manoscritto, quasi un amuleto, proprio come la valigia del protagonista del romanzo anch’esso in fuga dall’odio razziale.
 
 
Kevin Powers “Un grido nelle rovine” – La nave di Teseo-   euro 19,00
 
E’ un magnifico affresco della guerra civile americana ed uno spaccato di sapore Faulkneriano dello schiavismo di metà 800 quello che Powers ci regala in “Un grido nelle rovine”.
L’autore è nato e cresciuto a Richmond in Virginia nel 1980, si è arruolato nell’esercito a 17 anni ed è stato uno dei giovani soldati inviati in Iraq tra 2004/5. Quell’esperienza gli ispirò nel 2012 il suo romanzo di esordio “Yellow birds”: un caso editoriale internazionale che si è portato a casa premi prestigiosi ed è stato finalista al “National Book Award”. Dopo l’Iraq è tornato a casa nel sud degli Stati Uniti e si è Laureato in Letteratura inglese alla Virginia Commonwealth University.
In “Un grido nelle rovine” dimostra ancora una volta di saper maneggiare la scrittura in modo sublime.   E lo fa raccontando un’altra storia di guerra e violenza, ambientata nel posto in cui è cresciuto, la Contea di Chesterfield in Virginia, all’epoca della sanguinosa guerra civile e dello schiavismo più crudele. La vicenda inizia con le voci che nel 1870 darebbero ancora per viva Emily Reid Levallois, per’altro dichiarata morta dal cancelliere della contea. E chi sarebbe? La figlia del proprietario terriero Bob Reid, cresciuta in un’epoca in cui era dato per scontato che sfruttare, punire, picchiare ed ammazzare gli schiavi fosse cosa del tutto normale. Ed ecco uno spaccato della vita nelle piantagioni dov’era lecito mozzare le dita dei piedi agli schiavi che tentavano la fuga, come accade al giovane Rawls. O si poteva essere spediti, per qualunque inezia, nella terribile Lumpkin’s Jail, la prigione di Richmond in cui erano rinchiusi gli schiavi, ed è proprio lì che finisce anche la giovane Balia, di cui Rawls era innamorato. Bob Reid è tutto sommato un padrone che non vessa più di tanto i suoi subalterni. Di tutt’altra tempra è invece il suo vicino Antony Levallois, uomo spietato, senza scrupoli, pronto a torturare e uccidere per un nonnulla. Quando Reid parte per la guerra, Levallois approfitta della sua lontananza per portargli via tutto. E’ lungimirante e sa bene che le future ricchezze arriveranno, non tanto dalla coltivazione di tabacco e cotone, ma dal progresso, per esempio, dei mezzi di trasporto, supportato da grandi capitali e industria. Il suo disegno è chiaro: usurpa la proprietà di Reid e la rade al suolo per farci passare la futura ferrovia di cui è padrone, gli porta via gli schiavi, seduce e sposa la giovane Emily che appena 12enne si lascia incantare dal suo tono protettivo e paternalistico. E’ decisamente amaro il ritorno di Reid, mutilato di un braccio e zoppo, malato più ancora nell’anima per le brutture a cui ha assistito sui campi di battaglia. Arriva e la sua vita precedente è tabula rasa: Levallois gli ha portato via tutto, figlia compresa….e cosa rimane al reduce sfigurato? La vendetta…

 
 
 

La musica elettronica di Christian Fennesz e il rock dei Negrita

Gli appuntamenti musicali della settimana

Martedì. Al Blah Blah suonano gli svedesi Liar Than Bandit. Al Jazz Club Oscar degli Statuto, presenta da solista “Sentimenti travolgenti”. Al Magazzino sul Po per il Fringe Festival,c’è La Stanza di Greta.
Mercoledì. All’Osteria Rabezzana suona il trio della cantante Elisabetta Prodon, per un tributo a Chet Baker. Al Jazz Club si esibisce il trio del batterista Manfredi Crocivera. Al Blah Blah sono di scena i metallari R.IP..
Giovedì. Al Milk suona Fabrizio Bosso con il quartetto Blue Moka. All’Astoria è di scena Verano. Al Teatro Colosseo ultima replica per la PFM con il tributo a De Andrè. All’Opificio Cucina e Bottega per “Novara Jazz”, si esibisce il duo 78 Line. Al Blah Blah suona il trio britannico Virginmarys.
Venerdì. All’Hiroshima Mon Amour si esibiscono i Sick Tamburo. Al Teatro Colosseo i Negrita festeggiano i 25 anni di attività. Al Blah Blah sono di scena i You Said Strange. Al Circolo della Musica di Rivoli, Christian Fennesz rielabora in chiave elettronica le partiture di Gustav Mahler. Al Bunker si esibisce il rapper Speranza. All’OffTopic è di scena il duo Blindur.
Sabato. Allo Spazio 211 si esibisce Alosi. Al Jazz Club suona il trio di Marco Betti. Al Teatro Colosseo arrivano i Nomadi. A El Paso suonano i Plastination , Contropotere e CCC CNC NCP. Allo Ziggy si esibiscono i Respect For Zero.
Domenica. Al Mezcal di Savigliano suonano i Black Tusk. All’OffTopic è di scena il rapper Priestess.
 

Pier Luigi Fuggetta    

Paolo Rumiz. Un filo infinito per salvare l’Europa

Giovedì 9 maggio Paolo Rumiz ha presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino il suo ultimo libro “Il filo infinito”, il racconto di un viaggio tra i monasteri benedettini che porta lo scrittore triestino a contatto con la storia di uomini straordinari che hanno rifondato l’Europa in un momento di grave crisi, ricostruendo un continente lacerato dalla caduta dell’impero romano. Il “Viaggio alle radici dell’Europa” nasce quasi per caso, due anni fa, durante un altro viaggio, quello nei territori feriti e martoriati dal terremoto. Rumiz, giunto a Norcia, entra nella piazza principale e si trova di fronte ad uno spettacolo che lo colpisce: le due chiese sono crollate e distrutte, ma è rimasta intatta la statua di San Benedetto, patrono d’Europa. Nella notte lo scrittore cerca informazioni su un santo che non conosce, su un uomo dell’Appennino che, con la sua regola, ha avuto la forza di rifondare un Occidente in decadenza e travolto dalle invasioni barbariche, riuscendo a convertire e a rendere sedentarie popolazioni affamate di cibo e di guerra, per nulla paragonabili ai poveretti che, oggi, cercano rifugio nei nostri territori, attratti dalla speranza di un domani migliore. L’idea di un viaggio tra i monasteri d’Europa nasce dalla necessità di un triestino, laico, magiapreti, di comprendere come, in un momento molto più difficile di quello che il nostro continente sta vivendo oggi, in anni in cui l’Europa stava attraversando un periodo estremamente buio, un gruppo di uomini sia riuscito, attraverso il lavoro, la preghiera, il silenzio, la cultura e soprattutto il cibo a ricostruire un mondo che sembrava morto, integrando popolazioni diverse e conquistandole con una Regola che è quanto mai attuale. Il percorso tra quindici monasteri collocati in sette nazioni viene scandito da susseguirsi di incontri perché quello che rende unico un viaggio non sono i luoghi che si visitano, ma le persone nelle quali ci imbattiamo durante il cammino.
 
.
Tra le pagine di questo libro che diventa una ricerca di una soluzione che ci consenta di ricostruire, ancora una volta la nostra Europa, Rumiz ci accompagna a conoscere persone straordinarie come l’abate Wolf “padrone di undici lingue, amante della musica, studioso di teologia, filosofia, zoologia, chimica e astronomia, missionario in Africa, insegnante al pontificio ateneo di sant’Anselmo a Roma, autore di una trentina di libri” che si rivela un uomo di una semplicità disarmante quando confessa candidamente “siamo contadini”, sottolineando come i benedettini compiono una rivoluzione culturale quando, primi uomini liberi, prendono in mano una zappa e iniziano a lavorare la terra, creando un sistema economico. L’abate conduce Rumiz a visitare gli orti, le stalle e, infine, il cimitero tripartito: da una parte riposano i soldati della Wermacht, in un’altra gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio e nella terza i monaci che dormono sotto piccoli cumuli di terra smossa, sormontati da una croce di ferro che indica il mestiere che fecero in vita. In questo luogo di pace l’abate Wolf indica la propria tomba, già pronta, un cumulo che viene ad innaffiare ogni giorno, non un “memento mori” tragico, ma un simbolo di speranza perché i benedettini non pensano “troppo all’eterno nel senso orizzontale della durata. Immaginano l’istante in cui si siederanno al tavolo delle nozze”. Tra musica celestiale, manoscritti antichi e preziosi, incontri straordinari Rumiz giunge a comprendere che questi uomini sono stati capaci di costruire un mondo in grado di dialogare con il laico in un momento in cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo sull’Europa e sono queste le radici dalle quali dobbiamo partire. Soltanto facendo nostra e attualizzando una lezione che parla di accoglienza, di integrazione, di speranza, di lavoro, potremo salvare e rifondare questa Europa che si sta disgregando sotto i nostri occhi. Bisogna ripartire dal mito di Europa, la fanciulla che Zeus, trasformatosi in un toro bianco, rapì e portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Europa fu la prima migrante della storia ed è il suo destino essere punto di arrivo per i popoli, essere luogo di dialogo, di convivenza, di democrazia perché anche nei momenti più difficili “democrazia” significa speranza che anche il più debole, il più misero degli esseri umani possa vincere contro un potente.
 

Barbara Castellaro

 
 

Queen Eye: dodici artisti contemporanei raccontano il mondo delle donne

Percorrere le sale della mostra Queen Eye significa fare un vero e proprio viaggio nell’universo femminile Allestita al piano terreno del Castello di Adelaide, sede del Museo Civico della città di Susa, la mostra è nata per raccontare lo sguardo delle donne in tutte le sue molteplici declinazioni. «Regine, madri, mogli, imprenditrici, migranti — racconta il curatore, Stefano Angelo Paschero le donne sono tutto questo e molto altro: l’associazione Artemide ha deciso di dedicare loro una mostra per raccontarle attraverso gli occhi di dodici artisti contemporanei di talento, sia donne che uomini». In questo modo, lo sguardo delle donne non si limita ad essere solo quello delle artiste che espongono i loro lavori, ma anche e soprattutto quello delle protagoniste femminili delle 70 opere presenti in mostra.  Si tratta di lavori realizzati con tecniche e stili completamente diversi, aderenti alle differenti personalità degli artisti. Così, alle opere di Marco Sciarpa, estremamente pop per stile e colori ma non per questo banali, fanno da contraltare gli scatti di Enzo Gargano, fotografo attento alle relazioni umane. Presentano in mostra una serie di fotografie pure Gianni Caruso e Pamela Cirella. Quest’ultima espone anche un paio di opere su carta, «nate per fissare in un’immagine i momenti bui e i momenti belli della vita di ogni donna». Sullo stesso materiale lavora Anna Olmo, che nei suoi disegni lascia che sia la forma ad emergere liberamente: «Le donne protagoniste delle mie opere — tiene a precisare l’artista — nascono per sottrazione perché oltre al carboncino uso la gomma con cui cancello il segno per far emergere la figura». Invece, in tutte le opere di Gabriele Bosco, è la preparazione rossa della tela a emergere volutamente lungo i contorni delle figure. La presenza di animali felini rappresenta la costante dei dipinti di Matilde Negro, mentre il dialogo con la pittura metafisica costituisce la cifra distintiva delle opere di Davide Pognant Gros. Oltre alla riproduzione di un dipinto di Giorgio De Chirico, il giovane artista valsusino presenta due lavori densi di significato: «In Medusa racconto della donna che seduce l’uomo per poi abbandonarlo, mentre in Notte trasfigurata, rappresento un uomo e una donna incinta abbracciati e senza volto per riflettere sulla decadenza della condizione umana». Attraverso un’installazione e un dipinto su tela, Sara Francesca Molinari affronta il tema della violenza sulle donne, mentre Anna Branciari gioca con i colori per dare vita a poetiche immagini di fantasia. Venere Chillemi presenta in mostra alcune tele e una serie di sculture, lavori che concepisce e realizza come strumenti di ricerca e di riflessione spirituale. Infine, Rosalba Castelli racconta l’amore tra due donne attraverso un’installazione di otto dipinti su tela. Questi ultimi fanno parte di C(i)elate, un progetto artistico articolato, che prevede la realizzazione di una performance. Intitolata Chi sono le nuvole e incentrata sul concetto di identità, si terrà alle ore 18 del prossimo venerdì 17 maggio: «Proprio in occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia — precisa il curatore Paschero — per ribadire che al Castello non facciamo distinzioni. Tutti gli esseri umani legati da un rapporto di amore e rispetto per noi danno vita a una famiglia». Proprio per la famiglia, comunque intesa, il Castello ha pensato a un pacchetto speciale: l’ingresso al museo, comprensivo della mostra, costa 6 euro, quello ridotto 3 euro, ma per due adulti e due bambini il biglietto è unico a 10 euro. Si tratta di un’iniziativa lodevole, che nasce dalla volontà di far conoscere un luogo ricco di storia: nei mesi di maggio e giugno, il Castello apre le sue porte ogni venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. 
Giulia Amedeo

I divieti non servono a capire

Di Pier Franco Quaglieni
La scelta” tutta politica” del presidente Chiamparino e del sindaco Appendino di vietare all’ultima ora la presenza al Salone dell’editore di Salvini va rispettata perché i due interessati se ne sono assunti la piena la responsabilità. Ma essa tuttavia suscita non pochi dubbi in chi è di convincimenti liberali perché i liberali non amano i divieti e si ispirano a Voltaire che destava certe idee,ma diceva di voler lottare fino alla morte perché esse possano essere manifestate liberamente.Io,sia chiaro,non metterei mai in gioco la mia vita per difendere Casa Pound che è mille anni- luce distante dalle mie idee che si ispirano al pensiero liberal-democratico e laico.Ma, proprio perché liberale e laico, non posso condividere le decisioni dell’ultimo momento di Chiamparino ed Appendino ,affermando allo stesso tempo una condanna senza appelli per ogni forma di fascismo ,comunque camuffata. Voglio tentare di fare alcuni ragionamenti a mente fredda,sgombra da pregiudizi settari,ammesso che in questo Paese, nel clima incandescente in cui ci troviamo,sia ancora lecito farlo.Ieri su “La stampa “ e’ comparso un articolo di Waldimiro Zagrebelski, non propriamente un liberale, nel quale quasi mi identifico. La civiltà culturale e giudica europea ha sempre garantito a tutti, specie a chi è più distante,il diritto di manifestare il suo pensiero. E sempre ieri ho letto tanti articoli e prese di posizione che manifestano spirito liberale e tollerante. Forse oggi molti di quelli che hanno scritto ieri ,si trovano a disagio di fronte alle decisioni prese ieri era. Il Salone che non voleva politici, per non essere trascinato nella campagna elettorale ,e’ diventato invece oggetto di un’aspra polemica politica, come mai era accaduto in trent ‘anni.C’è’ sicuramente da rimpiangere l’equilibrio avveduto di Picchioni e Ferrero rispetto agli attuali gestori del Salone . Lo stesso notaio Giulio Biino presidente del Circolo dei lettori,copronotore del Salone ,da uomo di legge, ha sollevato dei dubbi sulla limitazione imposta al diritto di parola . Certo, dà molto fastidio che un giovane editore ,neppure trentenne ,si dichiari fascista e ritenga Mussolini il più grande statista italiano,come già disse Gianfranco Fini prima di essere folgorato sulla via di Damasco dalla tesi del “fascismo male assoluto”. Da’ fastidio non perché possa essere illecito dichiararsi tale- lo ha riconosciuto Zagrebelski che non e’ illecito dichiararsi fascista – ma perché significa che certi valori, che sembravano essersi affermati, sia pure faticosamente, una volta per sempre, sono tutt’altro che condivisi da tutti.Questo è il dato che involontariamente mette in evidenza la decisione di Chiamparino e Appendino. Se c’è gente ,sia pure poca ,che ad oltre settant’anni dalla fine ingloriosa e drammatica del fascismo,lo rimpiange ,ciò deve essere motivo per una seria ed approfondita riflessione e non per dichiarazioni di fede fini a se’ stesse, simili a vere e proprie giaculatorie laiche che non servono a salvarci dal male del fascismo. C’è da domandarsi se la presenza di fascisti in Italia sia un fatto patologico rispetto alla democrazia o non si debba invece considerare ,visto il numero molto ridotto di nostalgici ,un fatto fisiologico ad un sistema democratico, in quanto gli apologeti della violenza e della forza sono forse un elemento irriducibile in ogni umana società. Ampliando per un attimo il discorso va detto che una società formata tutta da buoni cittadini democratici resta un’utopia impossibile da realizzare: Caino ed Abele ,ad esempio,sono, purtroppo,una dura,implacabile realtà che dobbiamo condannare e combattere, pur sapendo che essa non è facilmente estirpabile dalla storia umana . Solo un sano realismo machiavelliano può preservarci da mali peggiori,evitando le utopie dell’uomo naturalmente buono di Rousseau o dell’uomo “virtuoso” di Robespierre, vittima egli stesso del terrore giacobino da lui fomentato:reminiscenze lontane, eppure incredibilmente vicine al clima infuocato del Salone del libro di Torino in cui brilla soprattutto l’evidente giacobinismo del sindaco Appendino e dei consiglieri comunali grillini che si lasciano andare a vere e proprie forme di virulenza polemica totalmente prive di qualsivoglia cultura storica.
.
Chiamparino invece ha la sua storia che viene direttamente dal Pci e merita più rispetto proprio perché sempre coerente con le sue idee che non ha mai sostanzialmente cambiato nel corso dei decenni.Pensare ad un Chiamparino liberale in effetti sarebbe quasi un ossimoro. In ogni caso appare in tutta la sua vistosa vacuità chi, pur non essendo grillino, ha mandato nel 2016 con il suo voto al ballottaggio, Appendino a fare il sindaco di Torino al posto di Piero Fassino.Oggi può toccare con mano il grave errore commesso eleggendo Appendino. Palmiro Togliatti, uomo coltissimo che aveva letto e studiato Machiavelli e Marx, non credo si sarebbe messo ad urlare contro l’untorello fascista,negandogli uno spazio al Salone. Corazzato di cultura storica, egli,pur nel suo cinismo quasi assoluto, si differenzia totalmente da questa sinistra odierna , formata in larga misura da quelli che Vittoria Ronchey chiamava i “figlioli miei marxisti immaginari”, per lo più parolai sessanttotini o loro diretti eredi. Togliatti, ministro di grazia e giustizia,volle l’amnistia per partigiani e repubblichini, all’indomani del referendum istituzionale del 1946, per chiudere la pagina della guerra civile ,scontentando molti comunisti che criticarono il suo provvedimento di clemenza che copri’ veri e propri crimini,anche se non “particolarmente efferati”. A molti di quelli che hanno strillato più forte in questi giorni consiglierei una lettura di Togliatti che sarebbe loro estremamente utile per capire la complessità della storia che non divide mai la mela esattamente in due parti. Il problema è come circoscrivere e battere ogni forma di neo- fascismo risorgente nel modo più aperto e convincente senza rinunciare alle libertà di parola di chi la pensa diversamente. Il bello della democrazia e’ proprio quello di consentire ai suoi nemici di parlare,anche se Popper poneva dei limiti agli intolleranti. Uno storico autorevole come Carlo Ginzburg dovrebbe aiutarci a capire perché non tutti gli italiani sono antifascisti e ci sono invece persone che non esitano a dichiararsi fascisti. Dire di disertare il Salone per non mescolarsi con loro è una scelta in ogni caso poco utile a consentirci di capire il problema del neofascismo nell’Italia di oggi . Posso comprendere e anche condividere che la sopravvissuta novantenne di Auschwitz Halina Birembaum possa avere a ridire sulla presenza dell’editore di Salvini e rispetto la sua testimonianza come se fosse quella di Primo Levi. Ma gli altri che si sono espressi sul tema non hanno i titoli morali della Birembaum e spesso hanno peccato di eccessiva faziosità . Le frasi ad effetto-non dimentichiamolo- non risolvono i problemi e servono esclusivamente a riempire i giornali di panna montata ,perché le dichiarazioni bellicose e gladiatorie che abbiamo letto rivelano un’intelligenza corta e un grado di intolleranza molto alto. La presidente dell’ANPI che non voleva partecipare al Salone per non infettarsi avrebbe dovuto invece forse dovuto più umilmente domandarsi se anche l’ANPI non avesse commesso qualche errore, riducendo a volte l’antifascismo ad un fatto reducistico, come accadde nel secolo scorso per i Mille di Garibaldi, sopravvissuti all’impresa in Sicilia. Festeggiare il 25 aprile o premiare il sindaco di Riace  non basta a far crescere tra i giovani e i cittadini in generale una coscienza democratica che non venga imposta da qualcuno,ma nasca da una radicata e profonda convinzione personale. Non si può obbligare tutti con la forza a pensarla allo stesso modo, alla maniera dell’ANPI o di chiunque altro, a meno di cadere più, o meno volontariamente, in una sorta di mistica antifascista. La mistica, non dimentichiamolo mai, e’ quanto di più lontano ci sia dal pensiero democratico – liberale e laico. Al Salone, a scegliere i libri e a deciderne la sorte, debbono essere solo ed esclusivamente i visitatori e i lettori: nessuno, neppure i magistrati, sono autorizzati a decidere quali siano i libri buoni da ammettere e i libri cattivi da respingere. Che il presidente uscente della Regione e il Sindaco di Torino, abbiano anche presentato esposti non come singoli cittadini,ma in rappresentanza delle rispettive istituzioni appare un fatto senza precedenti. Un atto che sembra più emotivamente elettorale che ragionato. Nella Costituzione della Repubblica non c’è mai un riferimento all’antifascismo e si parla del “disciolto partito fascista” solo in una norma finale e transitoria. Questo è il merito storico dei Costituenti: aver scritto una costituzione antifascista in positivo e non in negativo. Nella sostanza e non nella forma.
.
E’ un merito che già vedeva Piero Calamandrei che,pur costituente, non era così entusiasta della Costituzione,come si evince da un suo discorso all’Assemblea costituente che pochi ricordano. L’antifascismo è certamente un valore importante,ma va testimoniato con coerenza ,facendo crescere una consapevolezza democratica che deve essere acquisita volontariamente come scelta e non imposta da altri. Questo è l’elemento discriminante tra chi è liberale e chi non lo è.Sicuramente non c’è obbligo di essere liberali,ci mancherebbe altro. Ma chi è liberale non può lasciarsi intimidire e tacere perché l’esempio della tolleranza liberale vale sopratutto per le idee intollerabili. La proposta più esilarante che abbiamo letto in questi giorni e’ venuta dal Torino Pride che pretende niente meno che la firma di un codice etico per partecipare al Salone. Si tratta di una vera e propria sciocchezza perché il Salone deve essere una sorta di Pireo della cultura in cui la categoria del bene e del male non c’entra nulla.Un porto in cui ci si incontra e ci si scontra in libertà assoluta. Con idee opposte, anche diametralmente opposte, che sono il vero sale della democrazia . Solo le dittature pretendono uniformità di consensi. Gobetti diceva che le idee è meglio che siano diverse e contrastanti perché solo dal loro scontro nascono nuove idee. Gobetti era intransigentemente antifascista e pagò un prezzo altissimo per questa scelta coraggiosa a cui bisogna rendere l’onore dovuto. Ma Gobetti era anche un liberale,malgrado la sua intransigenza che portò Prezzolini a definirlo un cherubino della rivoluzione. Cantare in coro e’ l’opposto della democrazia e l’idea di andare a cantare “Bella ciao”al Salone lanciata da una assessore regionale uscente ha tutto il sapore della trovata elettorale, con tutto il rispetto dovuto alla canzone più popolare della Resistenza. Il Salone non è fatto per i coristi,ma per tanti,tantissimi solisti capaci,per usare parole di Montanelli di steccare nel coro dei conformismi. Come non ho protestato a suo tempo per la presenza al Salone di Sofri e di Curcio,come non ho protestato per la presenza dei libri del pluriomicida e terrorista Cesare Battisti ,così non mi scandalizzavo per la presenza dell’editore vicino a Casa Pound che ha pubblicato il libro-intervista di Salvini il quale, forse, non sarebbe stato neppure in grado di scrivere in proprio un suo libro. Semmai mi scandalizzo del fatto che abbiamo dei politici incolti e grossolani come Salvini che ,per altro-gli va riconosciuto-non ha neppure mai tentato di approdare al Salone,avendo capito per tempo che la cultura non è esattamente il suo forte. Semmai mi scandalizzo per il bassissimo livello degli interventi contro Salvini e la sua casa editrice. E noto che, di fatto ,nessuno si è schierato dalla sua parte. E questo deve far riflettere. Non mi scandalizzo neppure per l’assenza dell’editore vicino a Casa Pound che legittimamente è stato deciso di escludere da chi aveva il potere di farlo,scindendo un contratto che pure era stato sottoscritto altrettanto legittimamente ,come ha riconosciuto anche il direttore Lagioia. A questo punto però, altrettanto legittimamente, credo di avere il diritto di dissentire.  Con questo dissenso non si sento meno antifascista di altri. Lo sono e lo rimango, anzi proprio per questo motivo, mi permetto di dissentire perché il fascismo fu basato sui divieti. Nel campo della cultura,per dirla con il ’68 francese,per me è “vietato vietare”. Non sopporto il Sessantottismo, ma il suo essere libertario lo condivido. Credo che Marco Pannella mi avrebbe indicato questa strada: criticare con durezza gli avversari nemici della democrazia,ma garantire a tutti il diritto di parola.  Non dimentichiamo che l’intera vicenda ha dato una visibilità a questa casa editrice sconosciuta che neppure un’agenzia di pubblicità avrebbe potuto garantirle. E vietare può significare anche rendere incredibilmente attrattivo qualcosa che di per sè non lo sarebbe,anzi sarebbe disgustoso. Anatole France scrisse che, facendone un peccato,il Cristianesimo ha fatto molto per il sesso. E il sesso ha di per sé una forte, naturale attrattiva. Non vorrei che rendendolo proibito,un libro suscitasse un interesse che non merita affatto.  Trattandosi di un divieto esplicitamente politico,vedremo le conseguenze che potrà avere anche sul voto di fine maggio. Ma, forse,la maggioranza degli elettori si sarà nel frattempo scordato anche il Salone del Libro, oltre che le polemiche che ha suscitato e che lo accompagneranno. Viviamo in un Paese in cui, in fondo, la cultura interessa a pochi e una delle cause del risorgere del fascismo è proprio questa:la mancanza di un’adeguata cultura che consenta di non dimenticare cosa sono state la dittatura e la guerra per milioni di Italiani. 
.
P.s. Vedo al Salone del libro delle persone che molto civilmente passeggiano in silenzio con frasi antifasciste. Questo è un modo di essere presenti che approvo totalmente perché non impedisce a nessuno di manifestare le proprie idee .

scrivere a quaglieni@gmail.com

Eugenio Bolley: il gioco dell’arte e della montagna

La storia di Eugenio Bolley è la storia di un artista anticonvenzionale e generoso che sogna in grande. Nato nel 1935 a Gap, in Francia, lavora a Torino come dirigente industriale sino al 1973, quando decide di trasferirsi a Bardonecchia. Tra le montagne della Valle di Susa adotta uno stile di vita rigoroso, scandito dai tempi della natura, dalla lettura della Bibbia e dal lavoro artistico. Bolley realizza sculture, dipinti, disegni e litografie sin dagli anni Cinquanta del Novecento. Nelle sue opere colorate, l’artista descrive il mondo che lo circonda con la fantasia e l’ingenuità proprie dei bambini.  Stupore e meraviglia rappresentano il denominatore comune degli oltre 1300 lavori che portano la sua firma. Si tratta di opere che Bolley sogna di vendere con l’obiettivo di destinare la totalità dei ricavi a iniziative di solidarietà. L’ambizioso progetto di Bolley ha incontrato il sostegno di Reale Mutua. La compagnia assicurativa ha decido di offrire all’artista l’aiuto necessario affinché il suo sogno possa completamente compiersi. Per tale ragione, dopo aver fortemente voluto la pubblicazione di un volume monografico dedicato all’artista, Reale Mutua ha deciso di organizzare una mostra.  «Reale Foundation ha proposto al Museo della Montagna di esporre le opere dell’artista — spiega il direttore generale di Reale Mutua, Luca Filippone — per compiere un ulteriore passo verso la realizzazione del sogno di Bolley». La mostra, intitolata «Eugenio Bolley: il gioco dell’arte e della montagna – opere 1950-2019», verrà inaugurata alle 18.30 di questo pomeriggio e sarà visitabile sino al prossimo 23 giugno. Nelle sale del Museo della Montagna saranno esposti circa 80 lavori dell’artista. Già nel 2006 il museo aveva dedicato alle opere di Bolley una mostra al Forte di Exilles, dimostrando di apprezzare l’attenzione dell’artista nei confronti della salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza in montagna. «Accogliamo ora con piacere le opere di Eugenio Bolley — dichiara Daniela Berta, direttore del Museo della Montagna — e condividiamo con Reale Mutua lo scopo benefico dell’iniziativa». In effetti, al termine della mostra si terrà un’asta benefica a favore di Dynamo Camp Onlus. L’associazione gestisce l’unica struttura italiana di terapia ricreativa, nata per regalare a bambini affetti da malattie gravi o croniche momenti di divertimento, socializzazione e spensieratezza. Alla Onlus verrano consegnati i ricavi derivanti dalla vendita delle creazioni di Bolley, artista outsider dal cuore grande.  
 
Giulia Amedeo