Sugli schermi “Hammamet” di Gianni Amelio

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

La superba immedesimazione di Favino nella debolezza di una storia

C’è un’unica, immutabile scena all’inizio e al termine dell’arco narrativo di Hammamet di Gianni Amelio, l’immagine di ribellione di un ragazzino che con un colpo di fionda sfonda un vetro di un istituto scolastico. Tra i due punti, la decadenza politica e soprattutto fisica di Bettino Craxi, gli ultimi sei mesi di un’esistenza controversa, la narrazione di una fuga e di un esilio (qualcuno, anche pubblicamente, ha osato usare il termine latitanza, con grande orrore della figlia Stefania, “latitanza un corno!” – nel film, Anita, forse un omaggio dell’autore all’amore per l’Eroe dei due Mondi), la sua volontà a far fronte ad una situazione che continua ad accusarlo – anche l’arrivo di un gruppo di rabbiosi turisti sulla spiaggia di Tunisi lo spinge a difendersi dall’accusa di aver sottratto all’Italia un cospicuo tesoro e a ricordare quelle monetine buttategli addosso davanti all’ingresso del Raphaël -, le giornate trascorse a formulare pensieri e a scrivere, a ricevere politici o l’amante che vuole rivivere intatte le emozioni di un tempo, come il dover fare i conti giorno dopo giorno con il diabete che lo ferisce (e certo le strutture ospedaliere del paese che lo ospita non sono le più adatte ad una cura e forse ad una guarigione, si potrebbe salire su un aereo per Milano ma c’è il rifiuto netto perché già s’immagina ad attenderlo i tribunali dello Stato), gli scatti d’ira verso la figlia che lo consiglia e tenta in tutti i modi di difenderlo dalla malattia, la sua arroganza e i suoi segni d’affetto (Amelio s’è immaginato un vecchio Lear alle prese con la saggia affettuosità di Cordelia) e di rincrescimento, il rapporto opaco con un figlio mai considerato all’altezza o con una moglie che trascorre il suo tempo davanti al televisore che trasmette vecchi film americani, il suo immancabile e lento soccombere.

Fatti, riletture, momenti che non generano certo troppe emozioni, che a molti (il pubblico di giovani) non potranno dire nulla mentre a quanti li hanno vissuti cercheranno di rinfrescare una memoria affievolita e il resoconto di un becero voltafaccia, di rimettere in piedi un uomo che per un decennio è stato il padrone indiscusso dell’Italia, l’esempio incrollabile di egocentrismo, il burattinaio di nani e ballerine come di quella politica passata poi, nel bene e nel male chi può ancora dirlo?, sotto le forche di Mani Pulite. Tutto questo tuttavia Hammamet lo ricostruisce in un eccesso di debolezza, attraverso un accumularsi di quotidiani episodi senza una vera robustezza – che non ci aspetteremmo dal forte autore di Così ridevano e Le chiavi di casa – ed un accattivante fascino, inserendo Amelio e il suo cosceneneggiatore Alberto Taraglio la figura del giovane Fausto, il figlio di un compagno di partito già pronto in uno degli osannanti congressi a base di sventolii di garofani a scoperchiare tutto quanto vi sia di falso e malato (finirà suicida), un giovane che armato di una piccola telecamera inquadra Craxi e ne cattura i pensieri e le confessioni e le recriminazioni, se ne fa memoria e portavoce. Quel rimpicciolire lo schermo in un nuovo formato è l’espediente di Amelio per staccare quelle parole dal contesto, per prendere le distanze dai fatti, per sottolineare ancora una volta “non ho mai votato socialista e non sono mai stato craxiano”: sarà, ma, con quel suo non esprimere giudizi definitivi, dal suo disegno il personaggio ne esce quasi in termini affettuosi e di comprensione, non s’è certo fatto ricorso ad un bisturi che abbia la rabbiosa consapevolezza di andare fino in fondo, geometricamente, a scoprire il marcio (e a non offendere il salvabile), non s’è certo compiuto un’azione mirabile come quella di Sorrentino, addentratosi nell’arcipelago Andreotti.

Hammamet soffre di personalissima debolezza, di un ritratto schizzato male e non chiarisce né la memoria né le idee a nessuno. Quella schermatura di anonimato – nessuno ha nome, eccetto la figlia, ma s’è detto storpiato – denuncia la mancanza di una storica robustezza che avrebbe senz’altro accresciuto il documento e la sua chiarezza: si fanno addirittura dei passi indietro nel finale, tra sogni di bassa lega, con l’incontro del protagonista a piedi scalzi sui tetti del duomo di Milano con la figura paterna (l’ultima prova di quel grande attore di cinema e di teatro – le sue interpretazioni allo Stabile di Genova! – che è stato Omero Antonutti) o con i due guitti, lui esile marionetta scomposta. Se ancora ce ne fosse bisogno, ti accorgi quanto il film si regga – “sia” – sulla impareggiabile e imperdibile interpretazione di Pierfrancesco Favino (quanti premi gli andranno a fine stagione?), che non soltanto con l’aiuto del trucco prostetico di Andrea Leanza si è appropriato appieno dei tratti visivi di Bettino Craxi: ma lascia sbalorditi quanto l’attore abbia lavorato in piena autonomia ed in grande saggezza sulla voce, sulle pause, sulle intonazioni, sul testone sghembo, su certe posizioni del corpo, delle mani che le immagini, ancora in occasione dei vent’anni dalla morte del politico in questi giorni sugli schermi televisivi, ci ridanno. Una immedesimazione superbia e singolare, che ha il potere di “guastare”, di allontanare, di far passare in secondo piano l’intera struttura drammaturgica del film.

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