ilTorinese

Bollettino Covid: nuove vittime, 2641 contagi, 1652 guariti

CORONAVIRUS PIEMONTE: IL BOLLETTINO DELLE ORE 17.30

66.998 PAZIENTI GUARITI

Oggi l’Unità di Crisi della Regione Piemonte ha comunicato che i pazienti guariti sono complessivamente 66.998 (+1.652 rispetto a ieri) così suddivisi su base provinciale: Alessandria 5.906, Asti 3.231, Biella 2.095, Cuneo 7.534, Novara 4.897, Torino 38.202, Vercelli 2.516, Verbano-Cusio-Ossola 1.901, oltre a 374 extraregione e 342 in fase di definizione.

I DECESSI DIVENTANO 5.565

Sono 69 i decessi di persone positive al test del Covid-19 comunicati dall’Unità di Crisi della Regione Piemonte, di cui 10 verificatisi oggi (si ricorda che il dato di aggiornamento cumulativo comunicato giornalmente comprende anche decessi avvenuti nei giorni precedenti e solo successivamente accertati come decessi Covid).

Il totale è ora 5.565 deceduti risultati positivi al virus, così suddivisi per provincia: 858 Alessandria, 329 Asti, 266 Biella, 594 Cuneo, 513 Novara, 2.494 Torino, 282 Vercelli, 173 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 56 residenti fuori regione ma deceduti in Piemonte.

LA SITUAZIONE DEI CONTAGI

I casi di persone finora risultate positive al Covid-19 in Piemonte sono 149.575 (+2.641 rispetto a ieri, di cui 881, il 33%, sono asintomatici).

I casi sono così ripartiti: 501 screening, 1082 contatti di caso, 1058 con indagine in corso; per ambito: 355 Rsa/Strutture socio-assistenziali, 170 scolastico, 2116 popolazione generale.

La suddivisione complessiva su base provinciale diventa: 12.883 Alessandria, 6.869 Asti, 5.247 Biella, 19.738 Cuneo, 11.194 Novara, 80.947 Torino, 5.573 Vercelli, 4.820 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 866 residenti fuori regione ma in carico alle strutture sanitarie piemontesi. I restanti 1.438 sono in fase di elaborazione e attribuzione territoriale.

I ricoverati in terapia intensiva sono 39(+8 rispetto a ieri).

I ricoverati non in terapia intensiva sono 5.132 (18 rispetto a ieri).

Le persone in isolamento domiciliare sono 71.482.

I tamponi diagnostici finora processati sono 1.418.692 (+13.605 rispetto a ieri), di cui 748.560 risultati negativi.

Una madre alla ricerca del figlio scomparso e i giovani tra violenza e droga in un’America senza più illusioni

/

Il 38mo Torino Film Festival alle sue prime proiezioni on line

Ci si ritrova chiusi in casa, in quest’epoca di rapporti interrotti, davanti al proprio pc, a guardare le prime immagini di un festival che meno festival non si potrebbe, rintanati in un silenzio anonimo e in qualche modo persino doloroso. Ma tant’è. Prova, semmai ancora ce ne fosse necessità, della grande bellezza della sala, del fruscio del tuo vicino di poltrona, della visione di un pubblico che occupa con forza e passione gli spazi e assiste tra delusioni e applausi, dello scambio di idee con la persona sconosciuta, della tela bianca che ti regala da sempre mille e più emozioni. Ma tant’è. Una magia che in questo 38mo Torino Film Festival, varato crediamo tra mille fatiche dal suo direttore Stefano Francia di Celle e dal proprio staff, si perde, scompare, per restringersi in un rettangolino più o meno ampio, povero, inusuale. Ma tant’è. Un festival che pare dedicato alla rivoluzione femminile, uno specchio a riflettere tutti i mea culpa di questa nostra epoca, dedicato alla inequivocabile presenza della donna, alla sua voglia di fare e di essere presente, di guadagnare quelle posizioni a lungo negatele.

Una giuria di cinque donne legate al cinema, provenienti dalla Siria e dal Regno Unito, dal Giappone e dall’Iran e dall’Italia (Martina Scarpelli), tanto per cominciare, nessuna a ricoprire il ruolo di presidente. Belle affermazioni sempre al femminile a scorrere i titoli del concorso e non soltanto quelli. Il primo titolo ad ambire il traguardo finale con il suo premio di 18.000 euro vede una donna al comando, Fernanda Valadez, con la sua opera prima Sin senas particulares, una donna che scrive una storia, la dirige, la produce, e donne sono le sue più strette collaboratrici al risultato finale. Che indulge magari a qualche ricamo di troppo, come le visioni incalzanti della natura (gli alberi setacciati con sguardo troppo partecipe, il volo degli uccelli e le gocce d’acqua seguite nel loro lento scorrere al di sotto dei tetti), ma che non perde mai tutta la propria forza nel descrivere la disperazione di una madre, chiusa nella tragedia e nella violenza che oscurano quella parte di mondo che corre tra Messico e Stati Uniti. Due giovani sono scomparsi mentre cercavano di raggiungere un nuovo futuro, da tempo non se ne sa più nulla: poi di uno di loro viene rintracciato e riconosciuto il corpo carbonizzato, dell’altro, il figlio della donna, la borsa da viaggio soltanto. Mentre le autorità spingono questa madre a firmare quei documenti che chiuderebbero uno dei tanti casi che giorno dopo giorno occupano la miseria messicana e che troppo spesso vengono nascoste ai famigliari e ai mezzi d’informazione, Magdalena intraprende il suo viaggio alla ricerca del figlio per scoprire la verità: e lungo quel viaggio, sono gli incontri con altre madri e con la loro disperazione, con i sacchi in cui sono racchiusi i cadaveri e il puzzo che si espande da quei camion, con quelli che già infelicemente hanno intrapreso la strada del ritorno, per ricongiungersi ad una casa lasciata all’abbandono e i congiunti spariti. Un viaggio che è una cronaca, disperata e umanamente asciutta, che descrive il dolore ma non s’abbandona ad una commozione di facile maniera. Una linearità che sta negli occhi della protagonista Mercedes Hernandez, nella capacità della Valadez di raccontare con primissimi piani o con il ripetuto seguire della macchina da presa, vicinissima ai personaggi, l’aria di terrore che ormai impedisce di respirare in quelle terre. E ancora nella volontà della stessa regista di allontanarci dai massacri e dai fuochi che nascondono le tracce con una fotografia fuori fuoco: al centro della quale un demonio nerissimo continua ad affermare la propria oscura presenza.

Una terra desolata arriva anche dagli States con The evening hour diretto da Braden King, opera seconda di un regista pressoché cinquantenne tratta dal romanzo di Carter Sickels. Sono le montagne del West Virginia, con i suoi piccoli centri minerari come Dove Creek dove non c’è più lavoro, dove esistono file di roulotte a definirsi abitazioni, dove le nuove generazioni hanno ormai cancellato ogni idea di futuro o illusione e dove i vecchi si dondolano sotto il portico o vegetano in vecchie strutture di accoglienza. Tra i ragazzi circolano la violenza o la droga e le tante birre dell’unico bar, le ragazze si perdono in modo definitivo o cercano ma inutilmente di rifarsi una vita, qualcuna con un po’ più di fortuna ha l’occasione di riciclarsi come commessa. Tra tutti c’è Cole, allevato nella casa dei nonni, per i concittadini “il dottore” anche se è soltanto un semplice inserviente tra gli anziani della locale casa di cura: un giovane sveglio che tra cento gesti quotidiani pieni d’affetto s’è creato una più o meno redditizia attività rivendendo agli amici tossici quei medicinali sottratti ai suoi assistiti. Al pusher che la fa da padrone tra quelle quattro case la cosa non piace, come non piace che un vecchio compagno di liceo di Cole sia tornato in città per mettere su un suo personale mercato che andrebbe a rovistare tra quegli equilibri già da tempo stabiliti. King ha parecchio materiale su cui lavorare (c’è anche il ritorno a casa della madre di Cole, un tempo cacciata da un padre predicatore tutto inflessibilità e citazioni dalla Bibbia, la repulsione e forse il successivo riavvicinamanto di un figlio abbandonato), forse troppo, e non sempre riesce a governarlo. Certo il film mal sopporta la durata delle due ore; tra qualche personaggio ben tratteggiato (le illusioni e i progetti malsani dell’amico ritornato) e la descrizione di una natura bellissima che circonda il piccolo paese, si creano azioni e atmosfere che portano al finale intriso di sangue: ma si vorrebbe che la vicenda non andasse per assaggi sulle cose e sugli uomini, si ha l’impressione che manchi quella durezza che renderebbe ancor più ardua e dolorosa l’intera materia. Inoltre ci vorrebbe un interprete assai più incisivo: ma questo giovane Philip Ettinger appena spenta la visione ce lo siamo già dimenticati, senza alcun rimpianto.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Mercedes Hernandez, protagonista di “Sin senas particulares” di Fernanda Valadez (Messico/Spagna); due momenti di “The evening hour” diretto da Braden King e interpretato da Philip Ettinger

Sotto la pelle

La poesia di Alessia Savoini

 

Svestimi dei tuoi occhi, ho poca presa sui miei dardi:
cosa avrei potuto dire
di questo dio che mi affligge la gola,
di un desiderio che brucia sotto la gonna,
di una mano che inscrive il suo destino sul palmo
e d’una sventura che si estingue in una macchia d’olio.
Ho smistato le linee che collegavano questi nei,
ho tracciato la mappa di questo corpo:
cara mamma, quale conchiglia sostituirà domani il nostro fortino?
Proteggi questo limo, l’onda consuma sempre una riva;
così come l’onda spinge sempre il suo corpo,
l’onda è mozione e causa di una deriva.
Cosa ci è rimasto di questi occhi antichi che interpretavano i cardini immortali del cielo?
Quale parola indicherà la rotta dei quattro venti che salpano le sponde di questa mano?
Pulsa
sotto questa materia livida
il principio involontario che sospinge fiumi e sangue
e mantiene caldo,
tra i respiri di questa carne,
il regime di un irrinunciabile contatto
– creta, pelle e argille -,
mentre qualcosa di irreversibile e misconosciuto
segna le linee di questo volto.

La salute psicologica imbavagliata: un grave problema negato dal primo lockdown

Mercoledì 18 novembre il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi è sceso in piazza, a Montecitorio, indossando un bavaglio rosso in segno di protesta.

Un gesto per sottolineare come, in questi mesi di emergenza sanitaria, le numerose proposte attuabili di intervento psicologico alla popolazione non siano state prese in considerazione.

La pandemia ha generato un marcato incremento dei disturbi psicologici e ha inficiato negativamente sulla salute mentale delle persone che stavano già seguendo un percorso psicoterapeutico per altri motivi.

Il dato è allarmante: si stima che il primo lockdown abbia causato disturbi psicologici nel 65% degli Italiani (fonte www.rainews.it).

Di recente sono stata nel pronto soccorso di un ospedale e il medico che mi stava visitando, ad un certo punto, ha sbattuto la cartella clinica davanti a me iniziando a mostrare segnali di un inizio di esaurimento nervoso. Quando ho mostrato empatia nei suoi confronti mi ha detto: “Ci stanno facendo morire qua dentro”.

E come lui tanti altri operatori sanitari avrebbero bisogno, ora come non mai, di un sostegno psicologico.

Durante le mie visite in ospedale ho incontrato poi, in una sala d’attesa, una signora di una certa età che mi ha espresso la sua paura per essersi recata lì per fare la sua terapia dicendomi: “Qui c’è il Covid, rischiamo di morire?”.

La paura ormai è radicata ed è fuori controllo soprattutto nei soggetti più a rischio: come si può non comprendere l’importanza degli interventi psicologici in uno scenario come questo?

In tutto questo, non dobbiamo poi dimenticarci della categoria più fragile di tutte, perchè priva di strumenti psicologici adeguati data la giovane età: i bambini.

Sono una psicologa e attualmente sto lavorando come maestra in una scuola materna e quando i miei nuovi alunni mi hanno mostrato i disegni che tenevano raccolti nelle loro cartelline non ho potuto mettere da parte l’occhio clinico.

Mi sono ritrovata davanti a me tantissimi disegni di mostri: c’era anche il mostro arcobaleno!

Come si può pensare che tutto questo non abbia degli effetti sulla loro psiche così delicata? Chi dovrebbe contenere tutte le loro angosce dal momento che anche gli adulti sono allo stesso tempo spaventati?

Siamo tantissimi psicologi in tutta Italia, uno strumento prezioso di questi tempi, eppure nessuno ci tiene davvero in considerazione: come se la salute psicologica possa essere un optional e non un bisogno fondamentale.

Vorrei ricordare che non esiste vera salute se si cura il corpo ma si trascura la mente.

Sono diventata psicologa due anni fa e sono attualmente iscritta all’Ordine degli Psicologi del Piemonte: vorrei mettere a disposizione le mie competenze, anche su base volontaria, per supportare psicologicamente la comunità in questo delicato momento.

Chissà se qualcuno là fuori capirà di avere tra le mani la possibilità di aiutare il proprio Paese grazie alle risorse presenti sul territorio che da mesi ormai vengono soltanto “imbavagliate” e inascoltate.

Spero che il giorno in cui tutto questo nostro clamore verrà capito, non sarà ormai troppo tardi per contenerne i danni.

Dott.ssa Irene Cane, Psicologa

La squadra Aib della Valcerrina intitolata ad Aldo Visca

Aldo Visca, sindaco di Cerrina e consigliere provinciale ad Alessandria, recentemente scomparso a causa del Covid-19 era stato determinante nella nascita dell’attuale squadra di Aib – Antincendi boschivi della Valcerrina che ha la sua base operativa proprio a Cerrina Monferrato.

Nel lontano 1991 con una delibera del consiglio comunale, su impulso di Visca, all’epoca primo cittadino, venne creato il nucleo comunale anti-incendi, che è successivamente cresciuto sino alla sua attuale appartenenza Corpo Volontari Antincendi Boschivi. Con questa premessa la Squadra della Valcerrina non ha avuto dubbi e, nell’immediatezza della scomparsa, ha deliberato di cambiare il proprio nome in Squadra Aib P.C. (Protezione Civile) della Valcerrina Aldo Visca.

“E’ un modo per  non dimenticare tutto quello che Aldo ha fatto per noi, per il suo Comune, per la Valcerrina ed il Monferrato, sempre vicino ed attento alle nostre esigenza. Sarà un vuoto difficile da colmare nei nostri cuori e di tutto il territorio”, dice il responsabile della Squadra, Gianfranco Balocco.

E’ morto il noto penalista Ezio Audisio

L’ avvocato torinese aveva manifestato  i primi sintomi del Covid 19 intorno a fine ottobre

Poi era stato ricoverato in un ospedale di Torino.

Aveva 62 anni.

Lascia la moglie e due figli. Tra i casi più noti che ha affrontato, la difesa degli imputati al processo Thyssenkrupp.

 

“DC 2020. XX Congresso”. Il libro di Carmagnola democristiano doc

 “E’ solo una nutrita platea di accidiosi quella che non crede alla possibile rinascita dei Democratici Cristiani”

In copertina, l’immagine presa da una litografia che racconta , con toni umbratili, di un centro medievale del Nord Europa, piuttosto attivo con le sue piccole figure in primo piano, sorvegliate dall’imponenza “gentile” delle architetture urbane che s’impongono al paesaggio.

“L’immagine – spiega l’autore del libro – mi sembrava utile a ricordare una dimensione comunitaria ed europea”. E già si entra nel merito del nostro incontro con Mauro Carmagnola, giornalista, democristiano da sempre (è iscritto allo Scudo Crociato dal 1976) e oggi membro della Direzione Nazionale del partito, con l’incarico di segretario amministrativo. Suo il libro “DC 2020. XX Congresso”, di recente pubblicato da “Il Laboratorio Edizioni”. Un pamphlet storico-politico-giornalistico di un’ottantina di pagine che si leggono d’un fiato. Chiare, coraggiose, ben documentate, argute, oneste. E l’incipit già la dice lunga sul perché e sul dove Carmagnola vuole arrivare, denunciare e proporre. Queste infatti le prime quattro righe: “Nei confronti di chi intende rilanciare il progetto ideale e politico della Democrazia Cristiana, una nutrita platea di accidiosi replica che non esistono oggi le condizioni storiche per la sua riproposizione”. Bella stoccata, già in partenza. “E per accidiosi – prosegue – intendo tutti quelli che, pur proclamandosi democristiani o riconoscendo la necessità, anche oggi, di un partito che abbia affinità con la Dc storica non fanno nulla per organizzarsi in tal senso. Gente che recrimina senza agire”. Categoria del genere umano assai poco amata dai tempi dei tempi e relegata nella IV Cornice del Purgatorio perfino dallo stesso Dante, anche a questi “accidiosi”, Mauro intende rivolgersi. Forte e chiaro. “La Dc ha celebrato il suo XIX Congresso nell’autunno del 2018 in piena continuità giuridica con il partito sciolto in modo non corretto da Martinazzoli nel gennaio 1994. Dopo la ripartenza giuridica e dopo l’assestamento post-congressuale, mi sembrava giusto divulgare il nuovo corso della Dc. La chiusura causata da Covid nella primavera 2020 mi ha dato il tempo di trasformare documentazioni ed idee sparse in qualcosa di maggiormente organico.

Un libro appunto, in cui raccontare la Dc della diaspora, quella che è sopravvissuta o nel cuore dei suoi potenziali elettori o nelle esperienze di partiti e partitini che, comunque, mantengono viva una certa idea di politica”. In concreto, ciò che Carmagnola intende proporre è “un’attualizzazione di idee e valori che, se incanalati nella contemporaneità, mantengono tuttora la loro ragion d’essere”. “Penso all’economia a servizio dell’uomo, all’interclassismo, all’europeismo, alla propensione al confronto con chi la pensa diversamente, alla cooperazione internazionale: direi a quello che ci caratterizzava ieri e che manca alla politica di oggi, molto meno moderna di quanto vorrebbe far credere”. Una Dc dunque molto più che una formazione politica, un “partito – stato, un continente” come la definiva Leonardo Sciascia. “Direi più semplicemente un partito capace di continuare gli insegnamenti dei fondatori e di offrire buoni esempi, meno assillata dal conseguimento del potere e più impegnata a sferzare un sistema complessivamente inadeguato, dando rappresentanza a chi si riconosce nei valori propri di quelle prime generazioni”. Eppure per alcuni democristiani doc, da Guido Bodrato a Marco Follini (suo il libro “Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito”) l’era Dc è finita. Per Bodrato è stato un “fatto storico e oggi una pratica politicamente archiviata”, mentre Follini parla di voi nuovi democratici cristiani come “fantasmi della Dc”. Cosa rispondi? “Bodrato e Follini sono due autorevoli esponenti di un certo periodo della storia democristiana. Intelligentissimi, ma protagonisti di scelte non condivisibili. Il primo da eurodeputato lasciò il gruppo popolare che è oggettivamente la continuazione e l’attualizzazione delle Dc europee, alcune delle quali godono ottima salute. Follini attraversò quella fase del pendolarismo centrista e delle alleanze mutevoli che non è stata

Carmagnola e Baruffi, già Direzione nazionale Dc

compresa dagli elettori. Entrambi sono approdati al Partito Democratico, salvo, in vario modo ed a vario titolo, pentirsene. Sono la prova più evidente che ci sia bisogno di Dc”.

Quali i tuoi principali riferimenti all’interno dello storico Scudo Crociato? “Giovane doroteo, sono approdato trentenne al gruppo andreottiano restandovi fino a quando c’è stata la Balena Bianca. La lunga vicinanza a Vito Bonsignore mi ha certamente portato a condividere con lui tanti scambi di opinioni e di vedute sul partito, sulla società, sul succedersi dei tempi e delle situazioni. Alla Dc manca un’idra a quattro teste: Andreotti, Moro, Rumor e Donat Cattin. Al fotofinish, direi il Donat Cattin del preambolo ed il Donat Cattin prematuramente scomparso. Se non fosse mancato, avrebbe supportato e non lasciato solo Craxi a difendere la repubblica dei partiti, che necessitavano e necessitano tuttora di risorse, anche economiche.

Avrebbe, forse, salvato l’esperienza dei movimenti politici storici, rintuzzando Mani Pulite per quello che si è rivelata: un’operazione pericolosa per il Paese che ha dato inizio alla decadenza dell’Italia senza neppure risolvere alcun problema di moralitàpubblica. Anzi”. Se, come ironico sfottò (come non di rado capita), qualcuno ti dicesse “sei proprio un democristiano”, cosa risponderesti? “Da andreottiano accetterei gli sfottò, che direi danno una certa autorevolezza a chi li incassa con stile. ‘Certo, son proprio un democristiano’ gli risponderei. ‘E non ho di che vergognarmene’ puntualizzerei”.

Gianni Milani

Ubriaco aggredisce le cassiere per avere altre bottiglie

Arrestato dagli agenti del Commissariato Centro

Nei giorni scorsi un cittadino italiano di 51 anni si è recato per due  volte nell’arco di qualche ora presso un supermercato ubicato nei pressi di Piazza XVIII Dicembre.  L’uomo versava in un forte stato di ubriachezza la seconda volta, precedentemente aveva infatti acquistato una bottiglia di vino da 1 litro, e questa volta offendeva senza alcun motivo le due donne presenti all’interno del supermercato, alla cassa ed al banco salumi. Dopo averle aggredite verbalmente e minacciato di spaccare tutto nel negozio, ha chiesto loro di avere altro vino : alle rimostranze delle due donne, l’uomo ha minacciato di prendere il cellulare e spaccarlo in testa a quella a lui più vicina, dopodiché ha scagliato un pugno contro il plexiglass posto a protezione della cassa, facendolo rovinare addosso alla commessa. Intervenuta sul posto una pattuglia del Commissariato Centro, l’uomo è stato bloccato mentre si dimenava per terra. Ha poi opposta una forte resistenza durante il trasporto negli uffici del Commissariato, scalciando contro la portiera della volante. Gli accertamenti svolti a suo carico hanno fatto emergere diversi precedenti di polizia per reati simili; è stato arrestato per violenza privata, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Regione, Pd: “Bene il dietrofront sui medici stranieri”

“Accogliamo con soddisfazione il dietrofront della Regione sulla scelta di estromettere dai concorsi di reclutamento del personale sanitario, medici e infermieri stranieri” dichiarano il Vice Presidente della Commissione Sanità Domenico Rossi e il Presidente del Gruppo PD, Raffaele Gallo

“ Era quanto ci auguravamo” aggiungono “dopo aver preso in carico, come Partito Democratico, la denuncia fatta, nei giorni scorsi, da Asgi (l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) sull’esclusione, dai bandi regionali, di centinaia di operatori sanitari stranieri, nonostante fosse consentito dal Decreto Cura Italia di Marzo. Una scelta irrazionale in questo tempo di pandemia”.
Da ieri è ora possibile rispondere ad un nuovo avviso pubblico rivolto ai professionisti che abbiano conseguito il titolo anche all’estero.
“ Ci auguriamo” concludono gli esponenti dem “ci sia un’immediata risposta da parte degli operatori, che possa essere d’aiuto per alleggerire il carico di lavoro del personale sanitario, da troppo tempo sottoposto a turni estenuanti pur di assicurare le cure necessarie ai pazienti, e migliorare la qualità della cura per i pazienti”.

Raffaele Gallo – Presidente del Gruppo Pd in Consiglio regionale

Domenico Rossi – Vicepresidente Commissione Sanità del Consiglio regionale

Il principe racconta la storia di Valmacca

La vita e i ricordi di un comune rivierasco del Monferrato che attraversano l’arco temporale dagli anni Venti sino agli anni Quaranta del secolo scorso, narrati da un ‘Principe’: questo, in sintesi, il contenuto di ‘Acsì l’ha parlà  ‘l Princip’ – ‘Così ha parlato il Principe”.

A scriverlo è stato Felice Augusto Rossi, nato a Valmacca ottantadue anni orsono, laureato in pedagogia e filosofia, oggi docente a riposo dopo aver insegnato molti anni alle scuole elementari come maestro e alle scuole medie come professore di italiano. Rossi, che vive a Valenza, dove è diacono delle parrocchie del Duomo e del Sacro Cuore, ha però mantenuto molto saldi i legami e l’abitazione con il paese di Valmacca a metà tra la città di Sant’Evasio, Casale Monferrato, e la città di San Massimo, Valenza, “A Valmacca sono nato e vivevo – racconta, rievocando una tradizione dei tempi passati – nel Rione Napoli, perché era a Sud della strada principale che allora divideva il paese. Era una divisione fittizia, naturalmente, ma si diceva, a seconda che si fosse di qua o di la della strada, che si era del Nord e del Sud”. Nel suo libro, scritto in italiano, ma con forti accenni al vernacolo valmacchese di cui si dirà poc’anzi, ha una prima parte letteraria, dove il periodo in questione viene visto e raccontato, con gli occhi del Principe. Questi non era, però, un nobile, ma una persona che visse veramente tra il 1887 ed il 1964 in una baracca vicino al Po, ed ebbe una vita tutt’altro che facile, fatta di povertà a stenti. Il suo nome era Carlo Guazzora, figlio di Giacomo e di Rosa Zanetti. “Nella sua povertà – dice ancora l’autore – il Principe, è stato un maestro di vita. Attraverso la finzione letteraria gli faccio dire quello che ho trovato negli archivi storici, racconto episodi realmente avvenuti in un periodo – quello del fascismo – nel quale Valmacca era rifiorita, e lo dico pur di fede antifascista, ma quel che è giusto è giusto. Il Principe racconta quello che hanno vissuto i valmacchesi durante la guerra, all’8 settembre, ciò che hanno provato il 25 aprile. E si chiude con la scomparsa del Principe”. Una seconda parte, un vero e proprio libro nel libro, sono le note: ogni personaggio maschile e femminile citato nel libro viene indicato insieme alla sua famiglia. E vengono raccontati anche alcuni episodi che hanno segnato la vita di Valmacca: l’arrivo della prima 500, come si vedeva Lascia o Raddoppia, la guerra, “perché ciò che è in nota serve per capire quello che il Principe ha descritto”. Un altro ambito sul quale l’autore ha  lavorato sono le fotografie del tempo che fu, vero patrimonio visivo di recupero della memoria. Una quarta sezione, infine, contiene la mappa, strada per strada, rione per rione, casa per casa, indicando chi ci ha abitato, un lavoro davvero certosino. Dopo la bibliografia, piuttosto scarna, c’è la seconda parte nella quale Rossi effettua un’operazione di recupero della memoria, andando a riprendere tre delle moltissime storie fantastiche che il Principe raccontava in dialetto valmacchese. “Erano molte di più – dice ancora – ma sono riuscito a ricordare, a distanza di tanti anni, queste”. In questa parte le storie sono scritte in vernacolo valmacchese: “Il dialetto è la lingua madre, perché è la lingua che ti ha insegnato la mamma”, spiega ancora. E proprio al valmacchese, Rossi ha dedicato qualche anno fa una pubblicazione che ne detta alcune regole per l’uso scritto.

Massimo Iaretti