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Il peso dell’anima. Sempre che un’anima esista

Siamo dotati di una vita spirituale che abita gli spazi più reconditi del nostro materiale corpo fisico, oppure siamo esseri meccanicistici solo guidati da istinti, cellule, fibre, ossa, muscoli e circuiti neuronali?

Questa è una ‘insignificante domanda che semplicemente’ tormenta’ l’umanità dai suoi primordi.

Pur volendo ammetterne una non ancora provata esistenza, cosa formerebbe l’anima/coscienza? Si potrebbe delinearne una forma, definendone addirittura il peso?

In Occidente esiste un’antica raffigurazione dell’XI secolo, ancora visibile nel santuario di Monte Sant’Angelo, in Puglia. Lo stabilire il peso delle anime dei Cristiani spetterebbe all’arcangelo Michele, raffigurato con una bilancia che pesa le anime.

Bisogna tornare però indietro nel tempo e allontanarsi dall’Europa per altre testimonianze di questa operazione.

La teoria religiosa più storicamente affascinante risale al mito egizio della Psicostasia che ne stabiliva (bilanciato dal peso di una piuma) il valore di ogni essenza spirituale.

Nel Libro dei morti, il testo funerario egizio, viene descritta la pesatura del cuore o pesatura dell’anima. L’anima del defunto, prima di essere accolta nell’aldilà, veniva sottoposta a questo processo. Nella sala del tribunale di Osiride il dio Anubi, divinità della mummificazione (oppure Horus, dio della luce, del cielo e della bontà), poneva su uno dei piatti di una bilancia il cuore della persona; sull’altro piatto si reca invece una piuma, che rappresentava Maat (dea della giustizia).

Al dio Thot, divinità della saggezza, spettava l’esito dell’operazione. Se il cuore della persona era uguale al peso della citata piuma, significava una vita passata nella giustizia. In caso contrario interveniva Ammit, creatura mostruosa divoratrice delle anime.

Le interpretazioni su cosa sia la vita dopo la vita, sono però tantissime, praticamente collegate ad ogni cultura passate e presente.

Il loro fascino è indubbio ma noi cercheremo di affrontare l’argomento senza appoggiarci all’archeologia, a teorie religiose e ai miti, ma lavoreremo su confronti similmente razionali (quindi in linea di massima scientifici e riproducibili).

Secondo il medico statunitense Duncan Mac Dougall, nato nel 1866 in Massachusetts, l’anima avrebbe un peso riscontrabile e da lui calcolata nel 1907, con un proprio sistema empirico, in 21 grammi circa.

Pur se descriviamo esperimenti condotti con logiche di inizio XX secolo, il dato non può che portare ancora oggi a riflettere. Quale il sistema utilizzato dal medico statunitense? La medicina di allora era poco paragonabile con quella del giorno d’oggi, anzi, la sua logica di intervento – oggettivamente riscontrata – fu addirittura più vicina alla misurazione della tara dei gravi, rispetto a una teoria medica.

Mac Dougall pesò i corpi di sei persone sulla soglia della morte, ripesandoli dopo il decesso (allora i malati di diabete o tubercolosi a livello terminale erano portati in ospedale, che funzionava un po’ come i nostri Hospices).

A seguito di ripetute verifiche, il medico si rese conto che il corpo perdeva impercettibilmente peso.

Lo stesso esperimento con alcuni cani non diede alcuna variante di peso “prima-dopo”.

I risultati di tale esperimento vennero pubblicati sull’American Medicine Association con una sua teoria che quantificò in 21 grammi circa il peso dell’anima, in quanto i cadaveri stabilmente diminuivano di peso e tutti con simili differenze.

Ovviamente questa teoria, benché pubblicata, fu accolta dalla comunità scientifica con grande scetticismo, anche per la mancanza di esatte prove effettive sui metodi utilizzati, né tantomeno – ora come allora – dell’esistenza stessa dell’anima.

Secondo la maggior parte dei medici del tempo, questa diminuzione di peso si spiegò con il fatto che la temperatura del sangue in vita sia più alta e quindi tale cambiamento sarebbe provocato da una forma di sudorazione. Inoltre il medico utilizzò una bilancia industriale giudicata di scarsa sensibilità. Per un esperimento del genere il medium tecnologico deve essere invece precisissimo.

Altra spiegazione empirica fu trovata con l’osservazione nell’attimo del fine vita: con la cessazione del battito cardiaco, i polmoni si svuotano esalando il cosiddetto “ultimo respiro”. Infatti l’aria, per quanto minimo un suo peso ce l’ha!

Questo lontano esperimento, seppur non attendibile scientificamente, è diventato però estremamente popolare e rimasto impresso nell’immaginario collettivo. Fatto scientificamente curioso è però che dal 1907 nessuna ricerca ha più cercato di approfondire, confutare, affermare (soprattutto grazie agli stupefacenti traguardi raggiunti dalla scienza) sperimentalmente quanto messo a disposizione dal Duncan Mac Dougall.

Potremmo azzardare l’ipotesi che sia ancora in essere da parte della Scienza Medica una ritrosia culturale ad affrontare enormi concetti come l’esistenza di Anima, Coscienza e Spirito.

Recenti commenti (non sperimentali) ai fatti del 1907 portano almeno teoricamente a spiegazioni piuttosto convincenti. La perdita di peso di alcuni grammi non sarebbe un indizio al peso dell’anima, perché unicamente attribuibile a processi fisiologici come la perdita dei fluidi corporei, il rilassamento dei muscoli (che può portare ad espellere aria residua dai polmoni), nonché un veloce inizio di decomposizione dei tessuti e la presenza di insetti necrofagi.

Prima di addentrarci ulteriormente sull’argomento con un’altra più recente fonte, consideriamo utile portare a una veloce scorsa ai tre concetti, approssimativamente simili ma invece con sensibili differenze[1]:

. Anima = essenza metafisica, eterna e individuale e risultato dell’incontro/scontro fra spirito e materia. L’anima sarebbe la forma del corpo e di un suo intangibile principio vitale.

. Spirito = Lo Spirito rappresenterebbe Dio stesso, inafferrabile entità che risiederebbe in ognuno di noi.

. Coscienza = capacità della mente di presenza in uno stato di veglia (contrapposizione di incoscienza) nella quale si acquisisce consapevolezza del Sé, raggiungendo una “unità” di ciò che viene appreso con l’intelletto. Nella vita di tutti i giorni utilizziamo infatti spesso l’espressione “peso della coscienza”. Il termine è anche declinato come senso di Morale.

Su ciò ha lavorato il famoso Fisico francese Jean Emile Charon (Parigi 1920 – Ballainvilliers 1998). Ingegnere chimico, si specializzò in ingegneria nucleare, per orientarsi definitivamente verso la Fisica Teorica Fondamentale.

Charon, dopo lunghi studi è pervenuto all’ipotesi dell’elettrone (particella subatomica con carica elettrica negativa, ritenuta particella elementare); questa sarebbe anche fondamentale come dimensione dello Spirito e sinonimo di Forza Vitale.

Per ridurre il concetto a una facile comprensione, l’elettrone sarebbe il luogo fisico in cui la dimensione dello Spirito (il divino?) trova il suo collegamento con la dimensione della materia il cui piano, in questa prospettiva, cessa di presentarsi come essenza unicamente materica.

Innovatore totale, pur se non ancora riconosciuto (fatto non certo unico fra le grandi menti), questo Fisico francese, con una produzione intellettuale in bilico fra scienza teorica e filosofia ha scritto che:

“una Scienza che studi la formazione, la struttura e l’evoluzione dell’universo “deve lasciar coesistere nel suo linguaggio Materia e Spirito, anche se comunque sia compatibile con le esigenze di ogni linguaggio scientifico: rigore logico, rispetto scrupoloso dell’osservazione … Il compito più importante del XXI secolo sarà proprio quello di sviluppare lo studio dello Spirito, quale proprietà essenziale della materia e dei suoi poteri”.

Il suo lascito resta un aperto invito ad accogliere una prima idea su ciò che Hegel chiamò Fenomenologia dello Spirito, un concetto di vicinanza immateriale da leggere come ponte verso il linguaggio scientifico. Per condensare il concetto, La concezione dell’Evoluzione in Charon sarebbe imperniata sullo Spirito, quale autentico deus ex machina della stessa evoluzione, governata dallo Spirito e non dalla materia, o almeno non dalla sola materia.

Quindi torniamo all’inizio dell’articolo: esiste un’anima in ognuno di noi, esiste un Dio come essenza primigenia a capo di tutto ciò che viviamo e vediamo?

Le prime, elementari ricerche del medico Mac Dougall sull’esistenza di un corpo immortale residente nel corpo mortale potrebbero avere un senso o questi 21 grammi sono unicamente legati ad un umanissimo polmone che si svuota d’aria dopo la morte? Sono un minimo realistici remoti concetti religiosi come il biblico Uomo Pneumatico, essere vivente solo grazie a un divino e inesprimibile soffio vitale?

Albert Einstein, che di sistemi planetari, forze fisiche e masse stellari se ne intendeva, ci ha lasciato un possibilistico pensiero, pur se non collegato alla sua invitta Teoria della Relatività:

“Tutto è determinato da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Esseri umani, vegetali o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile”.

.. e se di misteri ne ha parlato lui, come possiamo vivere ancorati a troppe certezze noi?

Ferruccio Capra Quarelli

[1] I termini sono solo indicativi perché numerose fonti filosofico/religiose/psicologiche portano a sottili divergenze interpretative per ogni concetto.

Il termovalorizzatore del Gerbido ha aperto le porte all’ente nazionale Sordi

Il termovalorizzatore del Gerbido ha accolto una numerosa delegazione dell’ente Nazionale Sordi (ENS) di Torino, confermando la sua vocazione all’inclusività e all’apertura di tutti i tipi di pubblici.

La visita, resa possibile grazie al supporto di un interprete LIS, ha coinvolto oltre cinquanta partecipanti che hanno potuto seguire l’intero percorso, dalla presentazione introduttiva al sopralluogo negli spazi degli impianti in modo chiaro e partecipato. L’esperienza è stata arricchita da materiali visivi e infografiche che hanno facilitato la comprensione del processo di termovalorizzazione.

TRM si conferma così un punto di riferimento per la trasparenza e il dialogo con il territorio, offrendo visite su misura per scuole, enti, associazioni, con particolare attenzione però alle esigenze di ogni interlocutore. A testimoniarlo anche i numeri. Nel solo 2024 l’impianto ha infatti ospitato circa 2900 persone per visite didattiche a scuole di ogni ordine e grado, associazioni, professionisti, stakelholder territoriali.

 

Mara Martellotta

Dove sono gli scrutatori?

L’approssimarsi dei referendum del prossimo mese di giugno (e delle elezioni amministrative in alcuni Comuni) ripropone l’annoso problema delle defezioni di quanti vengano incaricati di svolgere la funzione di scrutatori (e Presidenti) nei seggi elettorali.

Vi sono appositi elenchi, nei quali ci si può iscrivere ma che vengono solitamente alimentati in autonomia dai Comuni, ai quali si attinge poi per formare gli equipaggi dei vari seggi.

Soprattutto negli ultimi anni si assiste al fenomeno dell’astensionismo (o dell’assenteismo, se preferite) mettendo così a rischio la formazione delle singole sezioni; malattie improvvise e assenze ingiustificate obbligano il Ministero dell’Interno a correre ai ripari reclutando in fretta i sostituti necessari, anche precettando dipendenti comunali.

Facciamo un passo indietro: negli anni 80, quando cominciai a votare, gli scrutatori erano designati dai vari partiti cosicché ogni partito, se non altro per vigilare che non venissero lesi i propri interessi, proponeva il numero necessario di componenti.

Successivamente vennero istituiti gli elenchi comunali, nei quali potevano iscriversi tutti i cittadini dai 18 anni in su.

Qualche anno fa, almeno a Torino, la precedenza nell’incarico di scrutatore venne data ai disoccupati pensando in tal modo, l’Amministrazione, di risolvere un minimo i problemi economici dei designati.

Fu l’inizio della fine: defezioni enormi, abbandoni durante le operazioni di voto misero in luce la difficoltà di coniugare senso civico, possibilità di guadagno e organizzazione di un diritto-dovere.

Vedremo quest’anno come andrà: certamente si nota, ogni giorno di più, la mancanza di senso civico e di voler partecipare, anche in un aspetto collaterale al voto, alla vita politica del Paese.

Vigilare sul corretto svolgimento del voto e, soprattutto, sullo spoglio delle schede significa garantire al Paese il rispetto della volontà degli elettori; io fin dal 1981 (appena diciottenne, in concomitanza col primo voto) ho sempre prestato servizio come scrutatore tranne durante il servizio militare, quando non mi chiamarono e con la riforma dei disoccupati descritta sopra. Ora si assiste ad una diserzione di massa, inspiegabile da qualsiasi parte la si guardi.

A chi presti servizio come scrutatore (o segretario) viene riconosciuto un compenso di 120 euro per 2 giornate di lavoro; nel caso si svolgano anche elezioni amministrative il compenso è notevolmente superiore. Se consideriamo, dunque, l’aspetto economico rinunciare a tale possibilità significa rinunciare a permettersi una cena per due, un week end da solo o un libro di testo universitario.

Se, guardando all’aspetto civico, pensiamo che è dovere di ognuno di noi garantire la democrazia, il regolare svolgimento delle elezioni, e svolgere incarichi amministrativi allora, a maggior ragione, non si comprende il perché di tale defezione di massa.

E’ vero che l’assenteismo ai seggi si osserva tanto tra gli elettori quanto fra i componenti dei seggi e, dunque, pare essere un fenomeno sociale ancora da studiare; di certo è che occorre arginare, se non sia possibile risolverlo, il fenomeno.

Perché continuiamo a usare schede cartacee e matite, anziché consultare un monitor e apporre una scelta digitale? Sarebbe sufficiente avere due sistemi separati, uno che verifichi se l’elettore ha titolo per votare e l’altro che raccolga il voto, non connessi tra di loro per evitare di abbinare l’elettore al suo voto, con sistemi che ormai qualsiasi azienda informatica può realizzare.

Così facendo si potrebbero unire due sezioni rendendo sufficienti 3-4 componenti, anziché 10, ed il problema sarebbe arginato.

Siamo sicuri di voler risolvere la questione? A chi non conviene?

Sergio Motta

De Gasperi, no alla ridicolizzazione

LO SCENARIO POLITICO di Giorgio Merlo

Un dato è sufficientemente certo ed oggettivo. E cioè, il magistero politico, culturale, sociale, istituzionale e di governo dei grandi leader e statisti del passato non è replicabile. E questo non solo per ragioni oggettive ma anche, e soprattutto, perchè le dinamiche politiche del passato non trovano più cittadinanza alcuna nella cittadella politica contemporanea. È il caso, nello specifico, del magistero di Alcide De Gasperi, forse il più grande leader e statista politico del secondo dopoguerra. Certo, è indubbiamente importante che molti – forse addirittura troppi – oggi ne richiamino la straordinaria coerenza nell’aver perseguito un disegno politico democratico, riformista, europeista, di governo e autenticamente costituzionale. E, con De Gasperi, anche quello del suo partito, la Democrazia Cristiana.
Detto questo per onestà intellettuale, non possiamo però assistere passivamente ad operazioni che appaiono quasi blasfeme sotto il versante politico. Penso, nello specifico, a chi oggi pensa di tradurre concretamente nella cittadella politica italiana una riflessione che le cronache dell’epoca riportano proprio ad Alcide De Gasperi. E cioè, la definizione della sua Democrazia Cristiana come di “un partito di centro che guarda a sinistra”. Operazione, francamente goliardica, fatta propria oggi dal partito personale di Italia Viva. E questo per due ragioni di fondo.
Innanzitutto perchè l’attuale coalizione di sinistra e progressista è composta – del tutto legittimamente – da 3 sinistre che si contendono la leadership politica di quella futura alleanza. E cioè, la sinistra radicale, massimalista e libertaria della Schlein; la sinistra populista e demagogica dei 5 stelle e la sinistra estremista del trio Fratoianni/Bonelli/Salis. Una coalizione, come emerge ogni giorno in modo persin plateale, che non tollera al proprio interno la presenza di una esperienza centrista, riformista e moderata. Se non come puro ornamento. Ne è conferma proprio l’esperienza del partito personale di Italia Viva che quotidianamente deve giurare fedeltà al progetto della Schlein e, addirittura, al verbo populista e demagogico dei 5 stelle. Di qui la “tolleranza” verso il partito di Renzi e le ospitate televisive nei talk di sinistra e politicizzati de La7 e sugli organi di informazione funzionali alla sinistra radicale e populista.
In secondo luogo “un partito di centro”, anche se “guarda a sinistra”, non può essere definito tale se si riduce ad essere l’espressione di una sola persona. Quello, al massimo, è un cartello elettorale che non declina un progetto politico ma è funzionale, come la concreta esperienza insegna, all’ottenimento di una manciata di seggi parlamentari per “grazia ricevuta” da parte dell’azionista di maggioranza della coalizione.
Ecco perchè, prima di scomodare la storia con la S maiuscola, forse è consigliabile essere leggermente più prudenti. Perchè si può, e si deve, giustamente ispirarsi al magistero politico dei grandi leader e statisti del passato. Meno consigliabile, appunto, è sfregiarne il magistero con operazioni politiche che più che propagandistiche rischiano di diventare puramente, se non esclusivamente, macchiettistiche.

Amici di Lazzaro: no al codice ATECO per “servizi sessuali a pagamento”

Caro direttore,

come associazione Amici di Lazzaro di Torino, che da 25 anni lotta contro la tratta di esseri umani e la liberazione di centinaia di donne vittime della prostituzione per sfruttamento ma anche per fragilità e disperazione riteniamo che l‘introduzione di un codice ATECO per i presunti “servizi sessuali a pagamento”, anche se formalmente motivata dall’esigenza di allinearsi ai codici europei, rappresenti un segnale culturale profondamente sbagliato e inaccettabile.

Tale codice non è applicabile in Italia, poiché il favoreggiamento della prostituzione continua a essere un reato. Tuttavia, il solo fatto che la prostituzione venga classificata come attività economica legittima all’interno di un sistema di codici ufficiali costituisce già di per sé una forma di normalizzazione di uno sfruttamento inaccettabile. La prostituzione non è un lavoro e non può essere equiparata ad esso.

Trasformarla in un’attività “registrabile” equivale a riconoscerla come lavoro, ignorandone le radici di disuguaglianza, violenza e marginalizzazione. Le persone che si prostituiscono – nella stragrande maggioranza dei casi donne – sono spesso vittime di fragilità economiche, sociali o personali. Definire questa realtà come un “servizio” è offensivo e pericoloso.

Il riconoscimento fiscale attraverso un codice ATECO:

  • contraddice i valori costituzionali e i principi di tutela della dignità umana;
  • legittima un immaginario che banalizza la compravendita del sesso, incentivando la domanda da parte dei clienti (quasi esclusivamente uomini);
  • ostacola la lotta alla tratta, offrendo una parvenza di legalità allo sfruttamento;
  • compromette il ruolo dello Stato come garante della giustizia e dei diritti, in particolare quelli delle donne.

Chiediamo al Governo di intervenire con chiarezza e responsabilità, revocando o ridefinendo questo codice, dissociandolo esplicitamente da qualsiasi forma di riconoscimento o accettazione della prostituzione come attività lavorativa.

L’unico intervento normativo sensato è quello che:

  • riduce la domanda, punendo i clienti;
  • persegue chi sfrutta o favorisce la prostituzione;
  • offre alternative concrete a chi ne è coinvolto.

La prostituzione non è un lavoro: è una ferita sociale. Legalizzarla o normalizzarla rappresenta una resa culturale, giuridica e politica.

Paolo Botti
presidente Ass. Amici di Lazzaro Odv
www.amicidilazzaro.it

A Volpiano nasce “Autonomo e Connesso”

 Per favorire l’autonomia delle persone con disabilità in una abitazione confiscata alla mafia

Un immobile confiscato alla criminalità organizzata è pronto a ospitare un cohousing per persone con disabilità. Si tratta dell’abitazione di via Trento 12 a Volpiano. Nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – Missione 5 “Inclusione e Coesione”, Componente 2 “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”, è stato avviato sul territorio dell’Unione dei Comuni Nord Est Torino (Unione NET) il progetto “Autonomo e Connesso”, finanziato attraverso l’investimento 1.2 “Percorsi di autonomia per persone con disabilità” in partnership con la Cooperativa sociale Il Màrgine e in collaborazione con il Comune.

Il progetto “Autonomo e Connesso” mira a favorire percorsi personalizzati di autonomia e inclusione sociale per persone con disabilità lieve, attraverso la co-progettazione del progetto di vita, l’accompagnamento verso soluzioni abitative condivise e il rafforzamento delle competenze personali, relazionali e digitali.

Tra le principali azioni previste:

·        la co-costruzione del progetto individuale con il coinvolgimento attivo di famiglie, operatori e professionisti;

·        il potenziamento delle autonomie domestiche e personali;

·        il supporto psicologico alle famiglie;

·        l’attivazione di percorsi di vita indipendente in appartamenti dedicati nei Comuni di Volpiano e Settimo Torinese;

·        il sostegno all’inserimento lavorativo e lo sviluppo di competenze digitali, anche attraverso strumenti di domotica.

Il progetto, di durata pluriennale, si avvale della collaborazione di un’équipe multidisciplinare composta da educatori, assistenti sociali, psicologi e altri professionisti del settore socio-sanitario. Sono inoltre previsti laboratori, attività sul territorio e momenti di confronto strutturati con famiglie e comunità. L’obiettivo è creare condizioni favorevoli per un’autonomia crescente delle persone coinvolte, attraverso un approccio integrato che valorizzi le competenze individuali e promuova l’inclusione sociale.

Per maggiori informazioni sul progetto è possibile rivolgersi agli uffici dell’Unione dei Comuni o alla Cooperativa sociale Il Màrgine, partner operativo dell’iniziativa.

La nuova comunicativa musicale dell’Ensemble Tamuz con l’Unione Musicale

Lunedì 14 aprile, al teatro Vittoria, alle ore 20, giunge al traguardo per questa edizione la serie “L’altro suono” che l’Unione Musicale celebra con l’Ensemble Tamuz proponendo due magnifici quartetti d’archi di Boccherini e di Schubert.

L’Ensemble Tamuz, nato nel 2017 a Berlino, riunisce musicisti di diverse nazionalità, con la comune passione per il repertorio musicale meno esplorato dell’età classica e romantica, da riproporre in esecuzioni storicamente informate. Nell’intervista rilasciata in esclusiva per l’Unione Musicale, i musicisti raccontano: “Il fatto di prevenire da Paesi, tradizioni e culture diverse è un grande arricchimento umano, di conseguenza musicale. La nostra ricerca interpretativa, volta al lato comunicativo ed emozionale si riflette e trova corrispondenza nello scambio musicale e umano tra noi, cinque amici dai background così diversi”.

La loro ricerca storica e filologica, oltre agli aspetti interpretativi, include anche quelli relativi alla ricezione. Le musiche a cui gli artisti dell’Ensemble si dedicano erano originariamente destinate ai privati, dove erano suonate fra famigliari e amici: una situazione completamente diversa da quella molto formale dei concerti attuali. Per questo i musicisti hanno messo in campo una serie di strategie per riportare in vita quell’approccio conviviale in chiave moderna.

“Come musicisti freelance – spiegano i musicisti – ognuno di noi ha fatto esperienza della crisi che sta attraversando la musica classica nel rapporto con il pubblico. Mettere in discussione la struttura tradizionale del concerto è stato un punto di partenza per la nostra riflessione su questo tema. Pensiamo che la distanza con il pubblico vada ridotta tornando a una dimensione più umana nel fare musica, che si basi sulla comunicazione  e l’interscambio, un maggiore focus sulla natura espressiva ed emozionale e, pertanto, più imperfetta nell’interpretazione, ponendo maggiore attenzione all’evento unico del concerto come evento aperto al dialogo e all’estemporaneità. Spesso suoniamo in cerchio con il pubblico intorno a noi, abbattendo la distanza tra palco e platea, luce e buio, entrata del pubblico e ingresso artisti. Con il nostro pubblico ci piace chiacchierare, intrattenerci, prendere un bicchiere di vino, scambiare commenti e critiche , e questo influisce sul nostro fare musica, perché stiamo raccontando una storia a qualcuno, comunicando con tanti individui e non con una massa indistinta e impersonale”.

I due Quintetti in programma a Torino presentano un’impronta intimista importante, che favorisce la complicità tra pubblico e artisti. Boccherini ha scritto i suoi quintetti quando risiedeva a Madrid presso la corte spagnola, dove impartita lezioni e faceva musica con il quartetto costituito dai membri della famiglia reale, aggiungendosi ai due violini, viola e violoncello. Il Quintetto di Schubert, per quanto sia musica di straordinaria profondità e dal colore quasi lunare, fu concepito in un ambiente cameristico, per un’esecuzione intima tra amici e dilettanti, ed è a questa dimensione che aspira l’Ensemble Tamuz con la sua lettura.

Biglietti: online sul sito www.unionemusicale.it oppure presso la biglietteria dell’Unione Musicale in piazza San Carlo 206

Orari: martedi-venerdi dalle 10.30 alle 14.30 – mercoledì dalle 13 alle 17. Il giorno del concerto dalle ore 19.30 presso il botteghino del teatro Vittoria, in via Gramsci 4.

Mara Martellotta

La Brigata ebraica e la liberazione. Il contributo degli ebrei nella Resistenza, ottant’anni dopo

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A cura di: Fondazione di studi storici Gaetano Salvemini, Associazione ItaliaIsraele di Torino, Centro Studi Nazionale Brigata Ebraica. Con la collaborazione di: Associazione Camis de Fonseca, FNISM – Federazione Nazionale Insegnanti, Consolato Polacco di Torino, Comunità ebraica di Torino

In mostra: dal 15 aprile al 4 maggio | Associazione Camis De Fonseca (Via
Pietro Micca, 15 scala A – 1 piano – Torino), tutti i giorni dalle ore 17:00 alle ore
20:00, chiusura domenica 20 e lunedì 21 aprile

Aperture speciali per visite scuole professori e associazioni scrivere a: info@fondazionecdf.it e lorenzo.cabulliese@fondazionesalvemini.com

Il 25 aprile 2025 si celebreranno gli ottant’anni dalla Liberazione. In occasione di un
anniversario tra i più significativi della storia del nostro Paese, la Fondazione di studi
storici Gaetano Salvemini, Associazione Italia-Israele di Torino, Centro Studi Nazionale
Brigata Ebraica, con la collaborazione di Associazione Camis de Fonseca, FNISM –
Federazione Nazionale Insegnanti, Consolato Polacco di Torino, Comunità ebraica di
Torino intendono fornire uno sguardo di approfondimento a una delle pagine meno
conosciute e più ripudiate della storia della Resistenza: il contributo della popolazione
ebraica nella lotta al nazifascismo.

Gli ebrei sono stati soggetti nel periodo della Seconda guerra mondiale a una
persecuzione e a uno sterminio sistematico senza precedenti, universalmente
riconosciuto, studiato e approfondito, entrato nei libri di storia dalle scuole elementari
ai corsi universitari. Ciò che invece per anni è stato spesso omesso e dimenticato è il
ruolo della Brigata Ebraica nella lotta di Resistenza e il suo valore nella Liberazione
dell’Italia dal nazifascismo.

Nel novembre 1944 sbarcò a Taranto, fra le truppe destinate alla VIII armata inglese,
una brigata di volontari composta da circa 5.000 uomini con un sorprendente vessillo.
Il vessillo era sconosciuto, ma su di esso vi era un simbolo che tutti avevano già visto:
la stella gialla a sei punte del popolo ebraico. I soldati erano tutti ebrei.

Molti dei volontari della Brigata Ebraica provenivano infatti dalla Palestina del Mandato
Britannico, l’antica Terra di Israele, altri dall’Europa, altri ancora dal Canada, Sud Africa
e Australia. Gli ebrei arruolati nell’esercito britannico in Palestina erano assai più
numerosi: circa 30.000, tuttavia, la Brigata Ebraica fu l’unica a combattere il
nazifascismo sotto una bandiera propria.

Il progetto prevede l’esposizione della mostra “La Brigata Ebraica e la Liberazione”
dal Centro Studi della Brigata Ebraica di Milano e una serie di eventi ad essa correlati
nelle date di apertura dell’esposizione. Inoltre, è prevista una formazione docenti
accreditata sul ruolo delle minoranze religiose nel processo di Liberazione: nello
specifico sugli ebrei e sui valdesi, con l’invito a tutti gli istituti scolastici e i docenti a
portare in visita le proprie classi all’installazione.

Attività:
– Formazione docenti: “Le minoranze religiose nella lotta di Liberazione”
14 aprile 2025 h 16:00 | Liceo Einstein | “I valdesi nella Resistenza” con Bruna
Peyrot

28 aprile 2025 h 16:00 | Polo del ‘900 | “Gli ebrei nella Resistenza” con Stefano
Scaletta

Al fine di fornire uno strumento didattico a tutto tondo, sarà inoltre prevista una
formazione docenti accreditata attraverso la FNISM per la durata di due incontri
da due ore ciascuno sul ruolo delle minoranze religiose nella Resistenza. Nello
specifico verrà approfondito il ruolo dei valdesi grazie al contributo della storica
Bruna Peyrot e quello degli ebrei e della Brigata Ebraica grazie al contributo dello
studioso Stefano Scaletta.

– Proiezione del film “In our own hands” (Soli nelle nostre mani), martedì 15
aprile ore 18:00 Presso l’associazione Camis De Fonseca (Via Pietro Micca, 15
scala A – 1 piano – Torino), durata di 1 ora e 20 minuti con sottotitoli in italiano; a
cura del Museo della Comunità ebraica di Trieste Carlo e Vera Wagner. La
storia nascosta della Brigata Ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale; regia
di Chuck Olin

– Presentazione libro “La Brigata ebraica tra guerra e salvataggio dei
sopravvissuti alla Shoah (1939-1947)” di Stefano Scaletta martedì 22 aprile ore
17:30 Presso l’associazione Camis De Fonseca (Via Pietro Micca, 15 scala A – 1
piano – Torino). Dialogheranno con l’autore: Davide Riccardo Romano, Silvio
Zamorani e Stefano Magni

– Proiezione del film “Freedom is not a gift from heaven” (La libertà non piove
dal cielo) venerdì 25 Aprile ore 18:00 Presso l’associazione Camis De Fonseca
(Via Pietro Micca, 15 scala A – 1 piano – Torino), durata 1 ora con sottotitoli in
italiano, con Simon Wiesenthal 1994; regia di Willy Lindwer

– Presentazione del libro di Ugo Rosenberg “Tutto iniziò da quel finestrino. La
storia di Kurt Rosenberg” (edizionicroce 2024), lunedì 28 Aprile ore 18:00
presso l’associazione Camis De Fonseca (Via Pietro Micca, 15 scala A – 1 piano –
Torino), dialoga con l’autore Ulrico Leiss de Leimburg, Console Onorario della
Repubblica di Polonia a Torino che mostrerà anche il breve documentario
storico “Dalla Polonia in Israele. I soldati ebrei dell’Armata di Anders”, prodotto
dal Consolato Polacco in Italia.

– Mostra “La Brigata Ebraica e la Liberazione”
La mostra prevede una serie di dodici pannelli esplicativi sul contributo degli
ebrei nella Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra e sulla storia
della Brigata Ebraica. A completare l’esposizione, due teche con materiale
originale e due manichini con riproduzione di divise.

La mostra sarà inaugurata martedì 15 aprile alle ore 13:00 sino alle ore
20:00 presso gli spazi dell’Associazione Camis De Fonseca, con aperitivo. E’
prevista un’anticipazione dell’inaugurazione riservata ai giornalisti alle ore
11:00 del medesimo giorno.

Interverranno: Marco Brunazzi (presidente Fondazione Salvemini), Laura Camis
De Fonseca (presidente Associazione Camis De Fonseca), Dario Disegni
(presidente Comunità Ebraica di Torino), Davide Riccardo Romano (direttore
Centro studi Brigata Ebraica), Stefano Scaletta (curatore della mostra), Marco
Carlo Zanetti (presidente Associazione Italia Israele di Torino).
È prevista una conferenza stampa di presentazione della mostra riservata ai
giornalisti alle ore 12:00 del medesimo giorno, con la presenza del
curatore Stefano Scaletta.

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: I giovanissimi e la guerra – Paola Del Din, la patriota – Lettere

I giovanissimi e la guerra
L’ausiliaria della Rsi Marilena Grill, barbaramente violentata e uccisa da un gruppo di partigiani all’età di 17anni, è stata ricordata ad 80 anni dalla sua  tragica fine dall’emissione di un francobollo. Un fatto eccezionale, se consideriamo le difficoltà che incontrò un libro su di lei scritto da Massimo Novelli. Il liceo d’Azeglio di Torino, di cui la ragazzina era alunna, ignorò il libro così come ignora il francobollo. Non c’è da stupirsene, ma da esserne indignati, perché larga parte di quella scuola si identifica nel “fascismo degli antifascisti”, come diceva Flaiano.
Gimmi Curreno  scappò dal Real Collegio Carlo Alberto mentre studiava, per unirsi ai partigiani di Martini Mauri che combattevano nel Cuneese. Venne fucilato all’età di 16 anni dai fascisti ed ebbe la medaglia d’oro al Valor Militare. A 80 anni dalla sua morte eroica, quando  davanti al plotone di esecuzione gridò via l’Italia e viva il Re ,nessuno lo ha ricordato, se escludiamo un mio pezzo sul Corriere. Era anni fa uscito un libercolo  dal titolo “Mauri e i suoi”, in una collana diretta dal noto storico di Torre San Giorgio, che ignorava totalmente il nome di Curreno. Miserie indecenti perché a scribacchiare il libro fu un piccolo pittore di Almese, non so dire se artista o imbianchino, che sarebbe stato anche  partigiano con Mauri di cui il comandante non mi aveva mai parlato. Ma io voglio trarre una riflessione che vada oltre questi fatti. La guerra civile porta dei giovanissimi a fare scelte anzi tempo.
Nella Grande Guerra i giovani falsificavano l’identità per andare al fronte, ma quasi sempre venivano rimandati a casa. Solo al Duca Amedeo d’Aosta venne consentito di essere arruolato a 16 anni, ma sicuramente non venne mandato in prima linea, come afferma certa agiografia. Mandare dei ragazzini in guerra fu proprio della Rsi, che sfrutto’ l’entusiasmo di quelli che Luciano Violante definì i ragazzi di Salò. Per altri versi dalla seconda guerra mondiale in poi sono state vittime i civili, bambini compresi. La guerra aerea ha distrutto intere città, quella nucleare americana in Giappone ha fatto un massacro infame. La guerra nucleare che stiamo rischiando dovrebbe portare i potenti del mondo a più miti consigli . Il 25 aprile io festeggerò soprattutto la fine della guerra anche se tanti fanatici maramaldi non deposero le armi e condussero una guerra civile personale. L’unico grande valore da celebrare è quello della pace che Kant sognava perpetua. Non sono un pacifista perche’ quella posizione favorisce le guerre, come diceva Pannella. Ma di fronte ad un disastro nucleare che può significare la fine del mondo, io sto dalla parte di chi opera per salvare la pace contro chi fomenta la guerra.
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Paola Del Din, la patriota
La prof. Paola Del Din, la partigiana autonoma, anzi la patriota menzionata dal re  Carlo III nel suo discorso al Parlamento è la Presidente onoraria della Fivl  di cui segue da sempre  l’attività. E ‘un simbolo della lotta di Liberazione ed è l’unica Medaglia d’Oro al Valor Militare della Resistenza  vivente, anche  per il suo servizio come agente dello Special Operations Executive (Soe) britannico durante la Seconda guerra mondiale. Paola Del Din è la partigiana friulana della Brigata Osoppo, che a 101 anni è tra gli ultimi testimoni delle operazioni dietro le linee, compiute dai servizi segreti britannici e per questo è entrata nel discorso al Parlamento italiano di Re Carlo III. Per i suoi 100 anni aveva ricevuto gli auguri del sovrano, tramite l’ambasciatore britannico in Italia Edward Llewellyn, nel 2023, oltre a quelli del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che l’aveva citata in una sua lettera al “Corriere della Sera” in occasione del primo 25 aprile da premier.
Del Din fu addestrata dal Soe e paracadutata in Friuli esattamente 80 anni fa: proprio oggi ricorre infatti l’anniversario dell’inizio della missione Bigelow a cui era stata assegnata la patriota. “So che in questo giorno stiamo tutti pensando a Paola, che ora ha 101 anni, e rendiamo omaggio al suo coraggio”, ha dichiarato Carlo III nel suo intervento alle Camere riunite. Del Din, prima di entrare ufficialmente tra le file del Soe nell’estate del 1944, aveva compiuto su incarico della Osoppo e del maggiore Manfred Czernin, ufficiale di collegamento britannico paracadutato in Friuli, un’altra missione ad alto rischio per portare documenti top secret al comando alleato superando la linea del fronte a Firenze. Inoltre ha sempre mantenuto un legame forte col Regno Unito, andando diverse volte a Londra nel dopoguerra, e con alcuni ufficiali conosciuti durante l’addestramento come agente. La prof. Del Din va ricordata per due altri fatti che l’hanno resa invisa alla sinistra : si è battuta per la difesa di Trieste italiana che i partigiani rossi volevano dare a Tito ed è stata durante il referendum idealmente  dalla parte del re Umberto II  con cui mantenne un rapporto anche durante il lungo esilio. Essere in contatto con lei da molti anni anche nella Fivl di cui è stata insuperabile presidente, è per me un titolo di onore. Suo fratello Renato, ufficiale degli Alpini , cadde durante la guerra di Liberazione nel 1944 e anche lui venne insignito della Medaglia d’oro al Valor Militare. E’ strano che il nome di Paola sia risuonato in Parlamento da parte del Re e per anni sia stato ignorato da chi ritiene che la Resistenza verde o azzurra, in una parola tricolore, non sia vera Resistenza.
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quaglieni penna scritturaLETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
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Da un torinese a un altro
Gentile Professor Quaglieni,Sono un torinese da anni residente all’estero. Per puro caso mi è capitato di leggere un suo articolo su Il Torinese, a proposito dei molti ristoranti tradizionali che hanno chiuso a Torino in questi ultimi anni. La lettura mi ha riportato ai miei anni giovanili e, come a lei, ha risvegliato molti cari ricordi.Vorrei condividere con lei solo un pensiero. I molti ristoranti da lei citati avevano tutti una personalità: arredamento, tipo di cucina, menu, titolari. Erano inconfondibili. Oggi, mi pare che imperi una standardizzazione dello stile, per cui le porzioni sono minimaliste, la decorazione dei piatti più importante della sostanza dei medesimi, gli ingredienti devono avere un pedigree più altisonante di un cavallo da corsa (guai se le cipolle rosse non sono di Tropea e il parmigiano non è stagionato 60 mesi).Si è persa la spontaneità e con essa, in qualche modo, l’allegria della convivialità. In compenso i clienti sono diventati tutti critici di cucina e sputano sentenze su Trip Advisor. Un caro saluto   
Riccardo Maria Radic

 

Condivido tutto il suo discorso. I locali che piacevano a noi non ci sono più. Forse c’è a Pino la Pigna d’oro  dove la famiglia Perotto mantiene ancora  una coerenza preziosa e rarissima, vera rara avis. In città si mangia male e aveva ragione Mario Soldati nel dire che solo in Provincia è meglio. Ma anche nei paesi è difficile trovare  oggi la buona trattoria di un tempo. Non voglio essere castrofista, ma come mangiano i giovani mi fa rabbrividire. Anche nelle case alle pentole è stato sostituito il microonde e la casalinga cucina in pigiama e d’estate in slip, magari fumando. E’ un altro mondo. Ho pena per questi giovani e per il loro futuro gastronomico e no. La convivialità si è persa del tutto. E’ meglio se andiamo al Centro  e al Sud. Torino è rimasta la città della Fiat e dei barachin, diventati tramezzini insipidi da acquistare al bar o al supermercato insieme ad una bottiglia di Coca Cola.
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Liberali
Perché, secondo lei, che è uno dei maggiori studiosi della storia del liberalismo, i liberali sono di fatto scomparsi come partito dalla scena politica italiana? Non così,  almeno in parte,  è  accaduto in Europa.    F. Arrighi
I motivi sono molti e risalgono al secondo dopo guerra quando i liberali si rivelarono incapaci di tener testa ai tre  partiti di massa: Dc, Psi, Pci. Buona parte del partito liberale di prima della dittatura fascista finì nella Dc,  nell’Uomo Qualunque e nei monarchici che nel 1953 ebbero un grande successo. Con la morte prematura nel 1945  di Marcello Soleri allora ministro del tesoro e loro massimo leader indiscusso, i liberali ebbero segretari mediocri. Lo stesso Malagodi fu troppo espressione della Confindustria.

 

Malagodi
Ma a dare la mazzata finale fu il trasferimento dalla destra alla sinistra della Dc del partito liberale voluto da Zanone che nel 1976 segnò il crollo di un partito che nel 1972 si stava quasi  riprendendo, tornando al governo. Un partito liberale collocato alla sinistra della Dc fece scappare i liberali verso la Dc. L’ultima mazzata la diede Tangentopoli perché anche il pli si fece prendere con le mani del sacco. La fine la decretò Costa,  chiudendo il partito e la sede storica di via Frattina per non pagare i debiti ed ottenere un seggio da Berlusconi per sè e i suoi amici. Berlusconi lanciò lo slogan della “Rivoluzione liberale” che illuse i residui liberali rimasti. Zanone ed altri invece scelsero il Pd dove il liberalismo era poco di casa . Un vero partito liberale non so se e quando potrà rinascere . Da un po’ di tempo sono nati in Italia  i conservatori che non sono di per sé liberali, anzi. FI attuale è la meno lontana dal liberalismo, anche se non diede  adeguato spazio a liberali veri come Martino e Biondi. Ma il discorso è più complesso perché, ad esempio, l’anarco – liberalismo sembra sedurre, senza avere possibilità di affermarsi politicamente: le semplificazioni argentine della motosega non si attagliano all’Europa. Oggi in un momento di esaltazione violenta  dei dazi da parte di  Trump  viviamo nel periodo storicamente più  illiberale: un ritorno al Medio Evo.