redazione il torinese

Cremona – Fiat Torino: uno strano momento di strano gioco

Sembra difficile riconoscere giocatori e allenatori della Fiat Torino dopo la partita con Cremona, ricordando la loro intensità e qualità durante le Final Eight di Coppa Italia.


Premesso che se anche la stagione finisse qui, con la conquista del primo trofeo storico per la nostra città in ambito cestistico, non si potrebbe che essere soddisfatti di quanto realizzato quest’anno, ma risulta chiaro come vincere abitua al bene… e quindi le aspettative salgono. Ma, ad onor del vero, forse ci vuole ancora un pochino di esperienza per poter garantire qualità tutte le partite, ed è proprio quella che manca ancora alla FIAT Torino di quest’anno, e non certamente talento e capacità.La pazienza è la virtù dei forti e quindi è sperabile che sia i tifosi (quelli veri, non quelli il cui sport preferito è solo criticare per poter “valorizzare” la loro propensione alla negatività, forse anche nella vita quotidiana… ) che i giocatori si prodighino per migliorare quegli aspetti che ad oggi non sono sempre presenti.Il buon Simone dai Rude Boys ci dice molto sintetico “La solita mazzata a Cremona. Non un taglia fuori… non un rimbalzo…e Blue zero!”, e in effetti il nuovo arrivato deve ancora ambientarsi in questo basket italiano dove i difensori non si scansano quando entri e dove ogni tiro è fondamentale, ma il talento c’è e la fiducia esce con il tempo, se lo si concede, anche se è molto poco quello rimasto e quindi sarà obbligatorio stringerlo e fare in fretta il percorso di adattamento.


“Colo’ ha giocato male, ma è grazie alla sua follia, anche se non solo, che abbiamo vinto la Coppa Italia…” ci scrive via Mail Giovanni dei distinti gialli. E credo sarebbe bene sempre vivere nel presente, sognare il futuro ma non scordare il passato solo perché una partita è stata giocata oggettivamente male… Il coach è sicuramente sotto tensione, ma anche per lui è tutto nuovo e credo che con un pochino di esperienza in più anche i momenti negativi saranno assorbiti al meglio, perché le capacità umane di sicuro non gli mancano (splendido il siparietto con Vander Blue con tutti e due abbracciati e sorriso finale del giocatore) e poi quelle tecniche sono indiscutibili, ma il tempo è tutto dalla sua parte: dargli fiducia è un obbligo sano e doveroso.L’unico a fare eccezione è come al solito Garrett che continua nella serie di numeri spettacolari dalla rimessa e nelle sue entrate eccezionali per velocità di palleggio, gambe e fluidità di tiro. A volte si marca da solo, ma supportato in parte dal solito Deron e dallo stoico Mbakwe, ha contribuito fino al meno dieci del terzo quarto a far sperare nella rimonta. E’ andata male, si è giocato male, con un arbitraggio sicuramente non decoroso (vedi episodio di antisportivo e tecnico con espulsione di Vujacic, ma non solo: i primi tre interventi degli arbitri coincidono con alzate volontarie di mano di fallo dichiarato dai giocatori di Cremona tramutato dagli arbitri in sanzioni contro Torino, quali la prima palla recuperata da Sasha spinto fuori da Ruzzier e chiamata fuori dagli arbitri quando il play avversario alzava prima ancora del fischio il braccio e il braccio alzato di Milbourne prima che l’arbitro fischiasse il “passi” di Blue…) e probabilmente non decisivo per il risultato finale, ma si poteva fare di più.


L’importante è che si ritorni sul binario giusto giocandosela sempre fino all’ultimo secondo: in fondo il tifoso vero chiede solo questo, passione e volontà. La FIAT Torino è già un successo per il 2017 – 2018: speriamo che alzi ancora il livello di buoni risultati, anche perché “… a vincere si sta tutti meglio…”

 
Paolo Michieletto

Sì alle Olimpiadi, ma senza ripetere gli errori del passato (a costo di smitizzare il 2006)

AVVISTAMENTI  di EffeVi
Torino è messa talmente male che tentare i Giochi è una strada obbligata: ma attenzione ad evitare sprechi, spese folli, cattedrali nel deserto e danni alle imprese piemontesi. Un po’ di memoria, a costo di smitizzare il 2006

Se si ha il coraggio di guardare i dati socioeconomici di Torino, l’opzione di tentare la candidatura alle Olimpiadi del 2026 appare senza alternativa, e le controindicazioni all’operazione (ché ce ne sono parecchie, anche sulla scorta degli errori commessi nel 2006 e tuttora negati dai protagonisti dell’epoca) risultano comunque secondarie: meglio una scommessa azzardata che una morte per strangolamento, neppure tanto lento. I numeri sono impietosi, onestamente ricordati persino dal giornale cittadino tradizionalmente più sensibile al pudico orgoglio provinciale subalpino: poco più di 220mila imprese registrate, il dato più basso dal 2003; demografia delle imprese in saldo negativo di 3.000 unità; disoccupazione al 12,3% per gli uomini e al 12,8% per le donne, disoccupazione giovanile sopra il 40%. Formazione generale della forza lavoro bassa, alto indice di invecchiamento e di dipendenza. Numeri che collocano la capitale sabauda, già vertice del triangolo industriale del Nord, ai livelli di Napoli, Catania e Messina.

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Perciò, ben venga la scommessa delle Olimpiadi, nella consapevolezza che la strada è lunga e irta di ostacoli, e che bisognerà evitare che, dopo la prevedibile euforia e il boom immediato – ingenerato dalle peraltro sempre più scarne iniezioni di denaro pubblico – non sia seguito da uno scenario di fallimento tecnico, visti i precedenti. Con la differenza che la Torino del 2018 (già al limite del crack solo per il debito di GTT) non è la rutilante capitale del 2006.Gli ostacoli politici, intanto: non sappiamo quale sarà la composizione dei Governi che dovranno gestire in prima persona la candidatura e, eventualmente, il dossier se Torino dovesse vincere. Sappiamo che c’è un partito di maggioranza relativa, a Torino come a Roma, in cui la diffidenza per le Olimpiadi è diffusa, per essere gentili. Un partito la cui pancia profonda non risponde né al suo padre fondatore (l’appello di Grillo è stato smentito dal pronunciamento dei gruppi consiliari in Sala Rossa – un aspetto minore del generale distacco della creatura dal suo demiurgo) né alla volenterosa Chiara Appendino, che tra mille difficoltà si è accorta di quanto sia difficile interpretare Evita Peròn sotto la Mole.

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E’ curioso, infatti, che Il Sindaco, che siede al suo posto sorretta da un monocolore grillino, possa pensare di tirare dritto contro la maggioranza (tutta) che la sostiene. Ieri (lunedì) è stata respinta, col voto compatto dei grillini in Aula, una mozione del Pd a favore delle Olimpiadi. E questo, dopo che Appendino, contro la maggioranza a partito unico che l’ha portata lì e la sostiene, ha deciso di inoltrare autonomamente la lettera di manifestazione di interesse. Se ciò sia possibile in punto di diritto, richiederebbe l’impegno di illustri amministrativisti, ma in politica siamo alla prima elementare: un Sindaco che va contro la maggioranza si dimette, o chiede la verifica. E se la maggioranza si adegua – come apparentemente hanno fatto i consiglieri grillini – poi non può votare di nuovo contro se stessa due giorni dopo. Veniamo ora ai caveat, perché è inutile fingere che le Olimpiadi siano una festa a costo zero (con l’unica eccezione di Salt Lake City, che generò un surplus) e che la gestione dei conti e degli impianti non comporti un rischio di aggravio per decenni a carico della città ospite. Se siamo onesti, va detto che Torino 2006 fu globalmente un successo, non esente da ombre. L’Agenzia Torino 2006, che si è occupata degli impianti, delle infrastrutture a supporto e delle cosiddette “compensazioni”, ha fatto un buon lavoro, lasciando anche un surplus di 33 milioni finiti in parte al capoluogo in parte ai comuni di montagna. Non mancano le ombre: intanto i costi, che si sono moltiplicati dai 616 milioni di dollari a quasi 3 miliardi di Euro a consuntivo. E poi le grandi incompiute, impianti costosi insostenibili nella funzione originaria, come la pista da bob di Cesana (costo: 105 milioni), il trampolino di Pragelato (34 milioni), l’Oval (70 milioni) o il Palavela (50 milioni).

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Ritrovare una funzione economicamente sostenibile per questi impianti si è rivelato un esercizio al di sopra delle capacità dei nostri amministratori. E resta, ciliegina sulla torta, il villaggio MOI, una ferita aperta in città che tutti i candidati Sindaco del 2016 (a cominciare da Appendino) avevano promesso di sgombrare. Fateci un giro, se ne avete il coraggio. Ci sarebbe da stendere un velo pietoso sulla performance del TOROC, il comitato Olimpico presieduto da Valentino Castellani, incaricato della gestione degli eventi. Ma avendo visto una incredibile intervista dello stesso, forse varrà la pena di rinfrescare la memoria. Sotto la gestione del prof. Castellani – il cui compenso (che non fu mai ufficialmente comunicato, ma secondo un’inchiesta de “Il Giornale” poteva avvicinarsi al milione l’anno) – si mise in piedi una macchina di oltre mille dipendenti in cui non era difficile ritrovare impiegate intere famiglie, perché, (secondo la dottrina Castellani – espressa nella successiva vicenda dello scandalo di parentopoli sulle consulenze del Comune)“la città non è grandissima, l’ambiente è quello che è, diventa persino difficile non rapportarsi sempre agli stessi” (Castellani a Il Giornale, 14/11/2012).

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Tra un’indagine della Procura sugli affidamenti, le dimissioni mai chiarite del potente Vicedirettore Pochettino, successive iniezioni di denaro pubblico dovute all’incapacità di reperire sponsor (forse è difficile se ci si contenta di regnare con questi metodi su una “città non grandissima”), il Toroc tirò a campare, i suoi vertici neanche troppo male, fino alla conclusione. Furono necessari ben due commissariamenti di fatto (il primo, cosiddetta “cabina di regia”, vide l’allora Sindaco Chiamparino doversi far carico di cercare, lui, gli sponsor privati; il secondo fu più robusto, legato all’ennesimo salvataggio pubblico del barcollante Comitato Olimpico, e affidò le redini al sottosegretario Mario Pescante, nominato ad hoc, che non esitò a dichiarare: “Ci sono liti da cortile, tra persone inadeguate, che danneggiano i Giochi” (ANSA, 4 marzo 2005). L’ultimo regalo del Toroc fu mandare in fallimento 200 imprese locali di fornitori. Fu creata una società ad hoc, la Consortium (con modalità piuttosto curiose, un capitale sociale irrisorio e nessun dipendente), con il mandato di gestire i rapporti di fornitura. Dichiarò fallimento lasciandosi un buco da venti milioni e qualche centinaio di lavoratori piemontesi e torinesi che, forse, non hanno un buon ricordo delle Olimpiadi.
N.B. – I dati sopra riportati si riferiscono a documenti ufficiali e virgolettati da organi di stampa. Se a qualche autoproclamato padre della patria venisse il tarlo della querela, procuri prima di collazionare correttamente le fonti.

Ztl più lunga? Davanti al Comune la protesta dei residenti. La Giunta rinvia al 2019

Ieri sera davanti a Palazzo Civico erano alcune centinaia  i residenti del centro città intervenuti per protestare contro l’amministrazione comunale sull’ampliamento della fascia oraria a della Ztl. L’assessore alla Mobilità Maria Lapietra ha comunicato che se ne parla nel 2019, rassicurando che per i residenti non cambierà nulla. Il Comune dice di essere pronto a discutere idee e proposte.  L’ipotesi sarebbe comunque di chiudere il centro al traffico automobilistico almeno fino alle 19. Tra i partecipanti – un centinaio in sala colonne e altri duecento in piazza – serpeggiava però una visibile insoddisfazione.

La storia infinita della “Veneranda Fabbrica” del Duomo

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In saecula saeculorum

I barcaioli, per entrare a Milano con il marmo, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”

A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce e proprio all’imboccatura della Val d’Ossola , si trovano le cave da cui proviene il marmo del Duomo di Milano. Fu Gian Galeazzo Visconti, fondatore della “Veneranda Fabbrica del Duomo”, a decidere di sostituire il mattone, originariamente pensato per la costruzione del Duomo nel progetto iniziale, con il marmo. Una scelta motivata dalla sua bellezza cristallina, screziata di rosa, unita alla grande resistenza, al punto da condizionare non solo l’architettura e la statica del Duomo sormontato dalla “Madonnina”, ma anche la parte ornamentale. A questo scopo,  il 24 ottobre 1387, Gian Galeazzo cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia e concesse il trasporto gratuito dei marmi fino a Milano attraverso le strade d’acqua, in modo che fosse possibile averne sempre in abbondanza per conservare inalterato nei secoli lo splendore  dell’opera. Inizialmente la Fabbrica utilizzò la cava a cielo aperto detta delle Piane, situata appena sopra il letto del Toce ma, successivamente, si decise di spostare l’escavazione sempre più in alto, fino alla quota di 580 metri, a causa di smottamenti, frane e carenza di materia prima. Strumenti di ferro, come ad esempio picconi, mazze, punte, cunei, palanchini, furono i soli mezzi tecnologici in uso nelle cave, fin dalla loro apertura e alcuni di essi lo sono ancora oggi. Con l’avvento dell’energia elettrica, sul finire del XX° secolo, la lavorazione è diventata più efficace grazie alle innovazioni tecnologiche (filo veloce e lame a catena diamantati, etc.), che hanno reso più rapida e selettiva la preparazione dei blocchi di marmo. Il trasporto del materiale fino a Milano avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande e poi dentro al cuore della  città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese.

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Attraverso il sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il carico arrivava fino al Laghetto, oggi Via Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”. Nel 1874 la Cava Madre fu collegata all’abitato di Candoglia da una strada, ma il trasporto dei blocchi fino al cantiere rimase via acqua per cinque secoli, fino al 1920, per poi passare definitivamente su strada. L’esigua larghezza della vena di questo marmo rende difficile e costosa la sua estrazione. Ciò ha costituito uno dei problemi più assillanti per il rifornimento del cantiere del Duomo: risultava infatti particolarmente difficile prevedere la quantità totale di marmo richiesta da un così grande edificio e dal suo ingente apparato scultoreo. Per risolvere il problema gli architetti delle Veneranda Fabbrica furono costretti ad aprire nuove cave a quote sempre più elevate, con un conseguente aumento di costo e di tempo per il trasporto dei blocchi dai punti di estrazione fino all’imbarco sul fiume Toce. Un’ulteriore difficoltà era rappresentata, tanto nei secoli addietro, quanto ai giorni nostri, dalla percentuale di marmo utilizzabile, rispetto a quello scavato, che si aggirava tra il 10 e il 25%. Tutte queste incognite, tuttavia, non hanno mai fermato l’attività della Fabbrica, che ancora oggi affronta la grande impresa di conservazione del Duomo, curando la coltivazione e la manutenzione delle Cave, con il suo personale e il supporto delle più avanzate tecnologie.

 

Marco Travaglini

I diritti umani in Iran: cena solidale e dibattito per la festa di Nawruz

L’associazione Iran Democratico e International Help promuovono in collaborazione con Amnesty International un dibattito sulla gravissima situazione dei diritti umani in Iran. L’iniziativa viene realizzata in occasione della festa di Nawruz (capodanno iraniano) ed ha lo scopo di smuovere l’opinione pubblica e le autorità istituzionali, di fronte ai rischi che il regime iraniano rappresenta non solo per il proprio popolo ma per tutta l’area medio orientale e mediterranea. Repressione feroce all’interno ed aggressività ed espansionismo armato all’esterno, rappresentano un mix micidiale per la convivenza pacifica dei popoli, la democrazia e i diritti umani nel loro significato più ampio.

Sono stati invitati ad intervenire sul tema:

Erica Bastasin – Amnesty International

Younis Tawfik – Presidente del Centro Dar Al Hikma

Yooseph Lesani – Associazione Iran Democratico

Gianni Sartorio – International Help

Giampiero Leo – Vice Presidente Comitato diritti umani della Regione Piemonte

L’incontro si terrà mercoledì 21 marzo, alle 20,  presso il Ristorante Al Andalus del Centro Culturale italo arabo Dar Al Hikma Via Fiochetto, 15 e consisterà in una cena di solidarietà (costo 25 euro)  con cucina iraniana tipica a cui farà seguito il dibattito.

Ravensbrück, il lager delle donne

Quest’anno, alcuni dei gruppi di studenti distintisi nel Progetto di storia  contemporanea bandito dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte ( giunto alla 37° edizione) visiteranno Berlino e i lager nazisti di  Sachsenhausen e Ravensbrück, mentre altri si recheranno a Mauthausen, in Austria, e alla Risiera di San Sabba a Trieste. Ravensbrück, conosciuto come “il lager delle donne”, ha una storia molto particolare e terribile. Situato nella regione del Brandeburgo, 80 chilometri a nord est di Berlino, il campo venne costruito tra i primi del sistema concentrazionario nazista, nel 1939, allo scopo di internare le donne tedesche considerate asociali e le delinquenti comuni. Successivamente, nelle sue baracche e dietro ai suoi reticolati, finirono le donne deportate dai paesi progressivamente occupati dai nazisti: zingare, ebree, oppositrici al regime, lesbiche, testimoni di Geova. A Ravensbrück furono immatricolate 132.000 donne e decine di migliaia di loro persero la vita, fucilate o soffocate camere a gas con lo Zyklon B, il micidiale acido cianidrico, conosciuto anche come “acido prussico”. Tantissime altre morirono per malattia e stenti, sfiancate dal lavoro, dalla fame e dal freddo, oppure a seguito degli esperimenti medici di cui erano le cavie. La conoscenza e la Memoria di questo luogo, se pure negli anni ha conservato poco dell’originaria struttura concentrazionaria, può e deve essere un doveroso omaggio a tutte le donne che nel campo hanno sofferto e trovato la morte. Recentemente è stato presentato al Polo del ‘900 di Torino un libro di immagini su quel lager. Ovviamente un libro non può restituire qualcosa alla sofferenza patita da quelle donne  ma nel tentativo compiuto dall’autrice, Ambra Laurenzi , c’è l’impegno e la volontà di non dimenticarle e di non far dimenticare l’inferno di Ravensbrück. Con l’inserimento di fotografie realizzate negli ultimi dieci anni, l’autrice ha scelto di privilegiare non tanto l’immagine storica del campo, ma la sua contemporaneità attraverso le sensazioni che il luogo sollecita oggi. Una scelta che deriva dalla convinzione che un luogo della memoria debba essere percepito come testimonianza di una terribile pagina della storia, ancora in grado di interrogarci e di stimolare un viaggio interiore nella consapevolezza di ciò che è stato e che ci si augura non sia mai più. Una delle due sezioni conclusive di questo lavoro  è dedicata alle donne sopravvissute che, dopo aver creato nel 1948 un primo nucleo di ex-deportate appartenenti a quattro diverse nazioni, nel 1965 hanno costituito ufficialmente, con l’iniziale partecipazione di 11 Paesi, il Comitato Internazionale di Ravensbrück, che ancora oggi persegue i suoi obiettivi di tener viva la memoria di una delle vicende più atroci della seconda guerra mondiale e dei crimini nazisti.

 

Marco Travaglini

In cima al mondo per la libertà delle donne

FOCUS  di Filippo Re

Raha Moharrak è la prima donna saudita a scalare sei delle sette montagne più alte del mondo senza il velo e senza avere il permesso del padre o del marito divenendo un simbolo per la speranza di riforme nel regno.

Ha sfidato il sistema del “guardiano” in vigore in Arabia Saudita che prevede che le donne debbano avere il consenso di un maschio per fare certe cose come lavorare, viaggiare o praticare attività sportive. Anche su questioni che riguardano l’educazione e la vita privata delle donne deve essere sempre presente un tutore. Raha ha voluto sfidare tutto ciò e lo ha fatto con coraggio e determinazione. Si è allenata per alcuni mesi facendosi portare nel deserto da un’autista perchè le donne non possono guidare e ha cominciato a fare trekking sulle dune. Non poteva fare altrimenti poiché il regno saudita ostacola in tutti i modi lo sport femminile e lascia le scuole senza palestre. Lo sport è considerato un gioco solo maschile e va contro la religione a causa dell’abbigliamento. Nata a Gedda, Raha Moharrak ha 30 anni e negli ultimi cinque anni ha preso parte a una decina di spedizioni alpinistiche. Non è stato facile per lei liberarsi dei divieti imposti dalla famiglia che inizialmente era contraria alla sua passione e ai suoi sogni sportivi. Dopo infiniti tentativi è riuscita a convincere i genitori e a gettarsi nell’impresa di opporsi al “sistema”. E soprattutto è riuscita a mobilitare un gran numero di donne che hanno lanciato una campagna sui social media dal titolo “Io sono la guardiana di me stessa” mirata contro le norme in vigore in Arabia Saudita secondo le quali ogni scelta di una donna dipende dalla volontà del maschio “guardiano”, che può essere il padre, il marito, il figlio o il fratello. Hanno inviato al monarca re Salman 2500 telegrammi e una petizione di 14.000 firme. Nel maggio di tre anni fa Raha conquistò la cima dell’Everest (8850 metri), la prima ragazza araba a raggiungere il “tetto del mondo” dopo aver già scalato la vetta del Kilimangiaro e altre cime. Raha continua a scalare le montagne insieme agli uomini e la sua vicenda dimostra ciò che le donne arabe possono fare per emergere e autodeterminarsi nonostante i divieti e le rigide leggi che penalizzano le donne, in particolare in un Paese retrivo come l’Arabia Saudita dove alle donne non viene neppure concesso di guidare l’auto. Il regno dei Saud è infatti l’unico Paese al mondo in cui le donne possono acquistare una vettura ma non possono usarla. Il divieto non ha una base legale ma è stato introdotto nel 1990 per rispettare la tradizione tribale.

Una donna, se vuole spostarsi con la macchina, deve chiedere a un parente maschio di accompagnarla oppure pagare un autista e così ogni giorno. Per chi viola il divieto di guida sono previsti arresti, multe e condanne alle frustate. Nel 2015 due donne saudite furono arrestate dopo avere sfidato il divieto di guida e poi deferite alla Corte criminale specializzata di Riad, istituita per processi per terrorismo ma utilizzata anche per dissidenti pacifici e attivisti. Da anni le autorità saudite provano a bloccare i tentativi delle donne di guidare e nonostante non ci sia alcuna legge che lo vieta nel Paese, le autorità non rilasciano loro la patente e i religiosi ultraconservatori emettono fatwe contro le donne al volante. Divieti simili non esistono in nessun altro Paese del mondo, neanche negli altri Stati del Golfo. Eppure nel Paese arabico c’è ancora spazio per festeggiare le donne come è successo di recente con la Women’s Day, una festa che ricorda il nostro 8 marzo ma soprattutto la prima festa dedicata alla donne in Arabia Saudita, anche se rigorosamente coperte con il burqa nero e magari con gli occhiali da sole. In base alla classifica stilata dal World Economic Forum, l’Arabia Saudita si trova al 134esimo posto su 145 come parità fra uomo e donna. A sfidare il sistema che penalizza le donne ci ha pensato anche Sarah Al Souhaimi, diventata la prima donna presidente della Borsa saudita. Già direttrice generale da tre anni della banca di investimenti NCB Capital, Al Souhaimi guiderà la principale piazza finanziaria del mondo arabo. Anche nel settore bancario le donne cercano di trovare spazi per affermarsi dal punto di vista professionale e a volte ci riescono con grande successo.

 

(rivista “Il Dialogo-Al Hiwar” del Centro Federico Peirone)

 

Quali scenari dopo il voto

 

LA VERSIONE DI GIUSI  di Giusi La Ganga

Quando le cose sono complicate e l’emotività è grande, il dovere di un politico è quello di usare il cervello, di capire le ragioni degli avversari, di entrare in sintonia con gli elettori prospettando una via d’uscita, e di saper guardare un po’ più avanti dell’immediato. Questa premessa è indispensabile se vogliamo provare a capire cosa può avvenire in Italia nei prossimi mesi e quali rischi corrono le forze democratiche. Non mi soffermo sulle cause della vittoria di populisti e sovranisti (sono denominazioni discutibili, ma serve ad intenderci). Esse comunque vengono da lontano, dall’incapacità dei democratici di governare la globalizzazione e gli squilibri che ha generato. Solo una nuova capacità di analisi ed un nuovo progetto di società potrà riaprire la sfida con le forze antisistemiche. (Anche qui la definizione è sommaria, ma ci fa capire). In Italia, per la sua fragilità e per i gravi errori politici del PD, i fenomeni presenti in tutto l’Occidente si sono manifestati in modo straordinariamente impetuoso. Ed oggi non sappiamo come affrontarli. E veniamo al presente. Ieri la Direzione del PD ha deciso (giustamente) che la sconfitta subita comporta il passaggio all’opposizione parlamentare, per ritrovare una nuova capacità di analisi politico-sociale e per costruire un nuovo progetto.

Alcuni hanno argomentato stizziti: “Avete votato così; adesso arrangiatevi”. Stupidissima posizione. Bisogna esser più umili. “Stiamo all’opposizione perché vogliamo riordinare le idee e correggere gli errori”. Questo bisognerebbe dire. Non lo pretenderei da Renzi, che è costituzionalmente incapace di umiltà, ma dagli altri dirigenti sì. Ma veniamo al presente. Un governo all’Italia va pur dato. E questo in teoria compete a chi ha vinto le elezioni.   Il guaio è che non le ha vinte nessuno, nel senso che nessuno ha una maggioranza parlamentare. Qualche cervello fine del PD invita Lega e Cinque Stelle a far il governo insieme. Il che non avverrà mai. Per la semplice ragione che queste due forze si considerano ormai leader dei rispettivi schieramenti, e pensano di poter ancora ampliare la vittoria. Quel che si delinea all’orizzonte è un’intesa istituzionale (la presidenza di Camera e Senato) e magari la disponibilità di un governo breve (vi risparmio l’eventuale denominazione) ispirato dal Presidente della Repubblica, per varare una nuova legge elettorale e tornare al voto rapidamente.

Bene: un PD dotato di un minimo di raziocinio dovrebbe fare carte false per evitare un simile esito. Lega e Cinque Stelle possono accordarsi su una legge elettorale fortemente bipolare che stritola le forze perdenti il 4 marzo. Un voto accelerato non potrebbe che accentuare le tendenze in atto, rafforzando la Lega nel centrodestra e i Cinque Stelle a sinistra. (Dicono di non essere né di destra né di sinistra, ma di fatto svuotano, come in Grecia e in Spagna, il partito riformista di governo). E se si mettesse in atto una dinamica di questo genere rischierebbe di essere irreversibile. Agevolata da chi si illude in una rapida rivincita del PD. Aver votato con la fiducia la legge elettorale nella scorsa legislatura ha creato un precedente che ora si ritorce contro le eventuali vittime di un nuovo bipolarismo forzato. Insomma un bel pasticcio, in cui vengono al pettine tutti i nodi di un riformismo generoso ma improvvido, dimentico che il riformismo senza popolo sconfina nel velleitarismo. Su queste basi non è facile trovare una strada; ma per trovarla bisogna intanto sapere cosa cercare. Trovare il modo di dare un po’ di respiro alla legislatura mi sembra un passaggio necessario per tentare di ricostruire un’alleanza di centrosinistra, che si possa preparare ad una difficile riscossa. Reiterare rapidamente il voto non farebbe che inchiodare lo status quo, probabilmente peggiorandolo.

Lanfranco Bellarini e il mondo parallelo di “Carosello”

carosello5Era il 3 febbraio del 1957 quando la televisione mandò in onda la prima puntata di Carosello, portando nelle case degli italiani che avevano quella “scatola magica”, la “réclame”. Lanfranco Bellarini, ragazzone con una trentina d’anni sulle spalle, era al Bar dell’Imbarcadero, quella sera. I lampioni del lungolago di Pallanza, dall’altra parte del lago, parevano lucciole tremanti nel buio freddo di quelle sere. Era il primo esercizio pubblico ad avere la televisione e le trasmissioni erano un evento che richiamava un sacco di avventori. C’era persino chi si portava la sedia da casa, per potersi godere in santa pace lo spettacolo. La prima puntata di Carosello incuriosì tutti ma Lanfranco restò a bocca aperta, imbambolato. Per quasi vent’anni, fino al 31 dicembre del 1976 – quando toccò a Raffaella Carrà, con un certo “aplomb”, fare l’annuncio di commiato – non si perse una sola delle puntate che andavano quotidianamente in onda, dalle 20,50 alle 21,00. Per i ragazzini era quasi un segnale: immediatamente dopo Carosello, “tutti a nanna”. Solo due volte – venerdì santo a parte – l’appuntamento giornaliero con la pubblicità fu sospeso: quando a Dallas, il 22 novembre del 1963, fu assassinato il presidente Kennedy ed il 12 dicembre del 1969 quando una bomba provocò la strage di Piazza Fontana a Milano. La sera dell’annuncio della chiusura di Carosello, Lanfranco era a casa di suo fratello Vittorio, per passare in famiglia l’ultimo dell’anno. Le parole della Carrà, nonostante fossero state pronunciate con grazia, gli fecero l’effetto di una fucilata in pieno volto. Il Carosello non c’era più? Roba da matti. E perché mai? Non riusciva a farsene una carosello 4ragione. Non voleva credere alle sue orecchie. Il Carosello era l’unico momento della giornata in cui tirava il fiato. Meccanico nell’officina del Giusto, non aveva quasi mai orari e feste comandate. E prima di andare a letto, quei dieci minuti, erano come un sorso d’acqua per l’assetato nel deserto. Delle ragioni vere non gli importava nulla. Il mercato della pubblicità si stava trasformando? Diventava più moderno e dinamico? I produttori stavano diventando insofferenti verso i limiti di tempo imposti da questo modo di reclamizzare i propri prodotti? A lui importava un fico secco. A lui, Carosello piaceva: e bon! Se fosse stata una “boiata” perché i filmati di Carosello erano stati girati da registi come Sergio Leone, i fratelli Taviani ed Ermanno Olmi ? Perché prestavano la loro faccia attori come Totò, Govi, Gassman, Tognazzi, Manfredi, Fabrizi o il grande Eduardo De Filippo? Eh, perché? Il povero Vittorio non aveva parole e non riusciva a dar pace al fratello che sembrava davvero disperato per un lutto tanto doloroso quanto inatteso. I personaggi gli ballavano nel cervello, tutti insieme, come una sarabanda indemoniata. Calimero, piccolo e nero con l’olandesina della Mira Lanza stava insieme a Cimabue (“fai una cosa né sbagli due”), mentre la linea di Cavandoli – senza dire una parola – cercava la titina dentro una pentola a pressione della Lagostina. Unca Dunca, uscito dalla penna di Bruno Bozzetto, sognava la Riello mentre l’Omino coi baffi preparava un caffè con la “moka” Bialetti a Lancillotto ed ai cavalieri carosello 3della tavola rotonda. Il caffè, ovviamente, proveniva dalla Lavazza e l’avevano portato Carmencita e il suo “caballero misterioso”.Dall’angolo della strada balzava fuori, con i confetti Falqui, Tino Scotti che – muovendo i suoi baffi – diceva “basta la parola!”.Nel tourbillon c’erano tutti: “E che, ci ho scritto Jo Condor?”, “E la pancia non c’è più” grazie all’Olio Sasso, “Gigante buono, pensaci tu”, “Miguel-son-sempre-mi” ed il suo merendero, la famiglia degli Incontentabili alla ricerca di un elettrodomestico che li accontentasse. Vedeva Ubaldo Lay con il suo impermeabile da tenente Sheridan sorseggiare un’aperitivo Biancosarti mentre discuteva con l’ispettore Rock della Brillantina Linetti sul sorriso smagliante di Carlo Dapporto (vorrei vedere: si lavava i denti con la Pasta del Capitano).  L’attore Franco Cerri era l’uomo in ammollo che vedeva lo sporco andar via dalla sua camicia a righe e la biondissima svedese Solvi Stubing invaghiva tutti sussurrandoci “sarò la tua birra”.  C’era Virna Lisi che “con quella bocca può dire ciò che vuole”, mentre il grande Ernesto Calindri stava seduto al tavolino in mezzo al traffico caotico a bersi un estratto di carciofo (il Cynar) “contro il logorio della vita carosello 2moderna”. Come poteva stare senza quel motivetto (“Tatataratararatarara..”) che accompagnava l’apertura del sipario del teatrino in una festa di trombe e mandolini ? Lanfranco era disperato. Nel paese si era avviata una disputa tra chi denunciava gli effetti dell’educazione di massa al consumo e chi, invece, metteva in risalto l’arte della pubblicità e la «pubblicità come arte». Lui, solo con il suo malessere, stava sempre più  male e si chiuse in se, rifiutandosi di andar a lavorare. Non mangiò più e si lasciò andare fino al punto che le cure del dottor Verdi non servirono a nulla. Erano le quattro del mattino del 26 maggio 1977 quando passò dal sonno alla morte L’estate prima, sul “Corriere della Sera”, nel luglio del 1976, Enzo Biagi anticipò un “coccodrillo” per Carosello. Scrisse : “ Mostrava un mondo che non esiste, un italiano fantastico, straordinario: alcolizzato e sempre alla ricerca di aperitivi o di qualcosa che lo digestimolasse; puzzone, perennemente bisognoso di deodoranti e detersivi, sempre più bianchi; incapace di distinguere fra la lana vergine e quell’altra, carica di esperienze; divoratore di formaggini e scatolette, e chi sa quali dolori se non ci fossero stati certi confetti, che, proprio all’ora di cena, venivano a ricordare come, su questa terra, tutto passa in fretta”. Anche il Lanfranco Bellarini è passato in fretta. E’ passato dall’infanzia alla morte attraverso una lunga adolescenza. Si era rifiutato di crescere, come Peter Pan. Preferiva il mondo di “Carosello” alla realtà. Ciò che vedeva attorno a sé gli metteva paura ed angoscia, Aveva il terrore del male, dell’invidia e del dolore. Allora scelse la via più breve e più facile: evitò di guardarsi attorno e, come un bambino mai cresciuto, si chiuse nel suo mondo con Calimero, Capitan Trinchetto, Tato e Tata, Olivella e Mariarosa, Buc il bucaniere e Gino Bramieri che gli diceva “e mò? Moplen”. Scelse di vivere, libero, nel fantastico mondo del pianeta “Papalla”. Ed è rimasto lì.

 

Marco Travaglini

 

“Arma il prossimo tuo”. 100 foto al Museo del Risorgimento

STORIE DI UOMINI, CONFLITTI, RELIGIONI. FINO AL PRIMO MAGGIO

Ci esorta. Ci “implora” quasi Domenico Quirico, giornalista scrittore e grande inviato di guerra. Le sue parole, scritte ad accompagnamento narrativo della mostra ci strattonano con misericordiosa “violenza” per aiutarci e, in certo senso, “proteggerci” nella lettura più vera e profonda di quei centodieci scatti coraggiosi (per la maggior parte in bianco e nero) assemblati sotto il titolo ad effetto “Arma il prossimo tuo”, negli spazi espositivi del Museo Nazionale del Risorgimento, in Palazzo Carignano a Torino. “Abbiamo pietà, vi prego – scrive Quirico degli uomini che vedete in queste foto. Sono alle soglie della morte, o forse un po’ al di là ma lo ignorano”. E come non averne di pietà di fronte allo sguardo muto e perfino imbarazzato di Sergey, il soldato ucraino ritratto fra i resti di Promzona, un tempo la zona industriale di Avdiivka, nel cuore dell’annosa guerra del Donbass, dove i due eserciti governativo e filorusso si fronteggiano a poche centinaia di metri l’un dall’altro? Sergey guarda fisso l’obiettivo. Non è il terribile mirino di un nemico kalashnikov, ma l’occhio amico di una macchina fotografica. Armato fino ai denti, nel cinturone il soldato si porta addosso (e in fondo al cuore) un ben visibile crocifisso di metallo. Il tempo infinitesimale di uno scatto e

un’improvvisa vicina esplosione fa fuggire in opposte direzioni il soldato e il fotografo, che non si incontreranno più. Sergey morirà un mese dopo, il 25 aprile del 2017, ucciso da un colpo di un mortaio. A raccontarlo è Roberto Travan, fotoreporter di lungo corso (caposervizio de “La Stampa”, per cui lavora dal 1989), che insieme al collega – anche lui blasonato, entrambi torinesi – Paolo Siccardi (free-lance e collaboratore dal 2000 del Settore Esteri di “Famiglia Cristiana”) firma la rassegna organizzata in Palazzo Carignano fino al prossimo primo maggio, con il supporto di Fujifilm Italia. E’ la prima volta di una mostra fotografica al Museo di piazza Carlo Alberto e l’obiettivo vuole essere quello di raccontare, come forse mai finora é stato fatto, quanto la fede e il supposto dovere di combattere in nome di un Dio, oggi come ieri, siano spesso l’elemento comune, la sottile “linea rossa, non sempre visibile, capace però di alimentare conflitti che per

questo paiono non poter finire”. Conflitti dannatamente eterni. Dove esaltazione e fanatismo si fanno armi spietate contro tutti e tutto. Fuori d’ogni atto umano che possa dirsi vero atto di fede religiosa. Dalla Repubblica Centrafricana al Sud Sudan al Kosovo alla Siria fino all’Afghanistan Israele e Ucraina, gli scatti fotografici esposti ci portano in quattro macro aree ad alta intensità bellica: Balcani, Europa e Caucaso, Medio Oriente e Africa. “Queste foto – scrive ancora Quirico sono lampi di crudo dolore. La guerra e i segni di Dio: piccoli e grandi, pendagli e lapidi, chiese e moschee, segni tracciati sui muri e scritte che gridano Dio… La fede ottiene dall’essere umano ciò che nessun’altra dottrina ha mai ottenuto. Nel bene e nel male”. Nell’effimera gioia dei vincitori e nel pianto straziante dei vinti. E di chi resta. Nel grido di “Allah Akbar” urlato dai giovani combattenti dell’esercito siriano di liberazione, ritratti da Siccardi, che ad Aleppo si lanciano, votati al sacrificio, in battaglia o nella dolorante preghiera (la foto è sempre di Siccardi) alzata al cielo nella chiesa cattolica di Saint Andrews (Bor – Sud Sudan) per i cristiani Dinca massacrati dalle

truppe di etnia Nuer, per lo più composte da musulmani e animisti. Luoghi noti. Altri meno. Altri ancora sconosciuti. Lontani dai riflettori dell’informazione. “Luoghi in cui si continua a pregare. E a uccidere – e morire – in nome di Dio”. In atmosfere di laceranti macerie paesistiche e umane. Nel silenzio assordante che, in una foto di Travan, impietosamente avvolge la figura del sacerdote che a Talish (Nagorno- Karabakh) abbandona il villaggio, portando in salvo i simboli preziosi della sua fede, dopo la violenta offensiva dell’Azerbaijan. Il volto è chinato a terra, in una smorfia appena accennata di pietrificato trattenuto infinito dolore. E allora per davvero: “Abbiamo pietà, vi prego, degli uomini che vedete in queste foto… Camminano nudi nonostante i segni dell’Invincibile che portano addosso, nudi sotto lo sguardo di Dio”.

Gianni Milani

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“Arma il prossimo tuo. Storie di uomini, conflitti, religioni”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 www.museorisorgimentotorino.it

Fino al primo maggio . Orari: mart. – dom. 10/18