«Da medico infettivologo e igienista prima ancora che come sindaco e padre». Con queste premesse Nicola de Ruggiero, Sindaco di Rivalta di Torino, ha firmato la petizione che un gruppo di mamme con bimbi affetti da malattie rare ha lanciato sul noto sito di petizioni on line change.org per chiedere ai parlamentari di non approvare, su un tema delicato come quello delle vaccinazioni ai bambini, le modifiche alla Legge Lorenzin contenute nel decreto Milleproroghe. «Se non interverranno modifiche alle nuove normative utilizzerò tutti gli strumenti a mia disposizione per fare in modo che nelle scuole rivaltesi entrino solo i bambini in regola con le vaccinazioni. Farò con forza e determinazione la mia parte e chiedo anche alla scuola e all’ASL di fare altrettanto». «Lo dicono molto bene queste mamme, a cui va tutto la mia stima e il sostegno per la battaglia che stanno combattendo: una società che si rispetti non può permettere di mettere in difficoltà la sua parte più fragile. I loro figli, piccoli giganti guerrieri che combattono con forza immensa, aggrappati alla vita, meritano la massima attenzione». «Ho fatto in tempo ad avere compagni di scuola resi zoppi per la poliomielite degli Anni 50 e ho iniziato la mia professione da medico nel 1980 in Campania in piena emergenza terremoto. Una situazione di grave rischio di proliferazione di malattie infettive.
Ho visto e ho contribuito a far sì che da quella catastrofe non ne scaturissero altre. Da allora molto è stato fatto e mai avrei pensato quasi 40 anni dopo che l’Italia volesse tornare indietro sul tema dei vaccini. Troppi sapientoni in giro per le aule parlamentari che parlano, scrivono e votano di temi che non conoscono e che possono causare danni irreversibili». «Nella mia vita ho fatto due giuramenti importanti: il primo il giuramento di Ippocrate, quello che tutti i medici prestano prima di iniziare la professione e che ci impegna ad esercitare la professione in scienza e coscienza, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione. Il secondo giuramento l’ho fatto sulla Costituzione Italiana quando sono diventato Sindaco che all’articolo 32 recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Questi due fari mi guidano giorno per giorno nel mio impegno professionale e civile».
Marco Manfrinato, 44 anni, di Ivrea è morto ieri sera a Romano Canavese a causa di un incidente stradale. Stava percorrendo la strada provinciale 82 per Montalenghe quando la sua Moto Kawasaki 1000 si è scontrata con una Peugeot guidata da un uomo di 52 anni, rimasto illeso. Finito sull’asfalto il centauro e’ morto sul colpo.
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La nazionale italiana di nuoto paralimpico ha concluso i Campionati Europei con il nuovo record di 74 medaglie, divise tra 29 ori, 23 argenti, 22 bronzi, piazzandosi seconda nel medagliere alle spalle della sola Ucraina. In aggiunta a queste, la spedizione azzurra ha raccolto 6 record del mondo e 2 record europei. Tra i protagonisti della rassegna continentale ci sono i due piemontesi Carlotta Gilli e Marco Dolfin, che con le loro ottime prestazioni hanno contribuito ad arricchire il bottino della nazionale. Carlotta Gilli (Fiamme Oro/Rari Nantes Torino), classe 2001 e allenata da Andrea Grassini, ha trionfato in tutte le gare cui ha partecipato e ha stabilito due nuovi record del mondo. Nei 50 stile libero S13 ha chiuso in 26”90, davanti all’ucraina Anna Stetsenko (27”83) e alla spagnola Marian Polo Lopez (28”63). Nei 100 stile libero S13 si è ripetuta in 57”98, precedendo podio la stessa Stetsenko (59”46) e la spagnola Ariadna Edo Beltran (1’02”35).
Nei 100 dorso S13 ha vinto con il nuovo record del mondo di categoria di 1’05”76, migliorando il precedente stabilito nel 2016 dalla russa Anna Krivshina (1’06″85). In un podio analogo a quello dei 50 stile libero, ha messo dietro la Stetsenko (1’09”54) e la Polo Lopez (1’11”21). Nei 200 misti SM13, infine, ha abbassato il record del mondo che già le apparteneva dalla passata stagione, portandolo da 2’23”62 a 2’22”12. Argento ancora una volta alla Stetsenko (2’29”87), bronzo alla Edo Beltran (2’34”66). Carlotta Gilli è poi salita sul terzo gradino del podio con la 4×100 stile libero mista, la prima staffetta nella storia del nuoto paralimpico italiano composta da atleti ipovedenti. Salvatore Urso (1’08”79), Alessia Berra (1’01”72), Carlotta Gilli (57”78) e Fabrizio Sottile (55”57) hanno chiuso con il record italiano di 4’03”86 dietro a Ucraina (3’54”70) e Spagna (4’03”58).
Marco Dolfin, classe 1981 tesserato per Fiamme Oro e Briantea 84, è invece tornato a casa con una medaglia, l’argento dei 100 rana SB5. L’ha conquistata con il tempo di 1’41”36, alle spalle dello spagnolo e primatista del mondo Antoni Ponce Beltran (1’29”85) e davanti al portoghese Ivo Rocha (1’44”25). Nei 50 farfalla S6 e nei 200 misti SM6 si è dovuto accontentare del quarto posto, rispettivamente in 38″09 e in 3’15”02. “Mi aspetto grandi cose da questo Europeo” aveva dichiarato in settimana Marco, soprannominato “The Doctor” poiché chirurgo ortopedico, “soprattutto portare a casa una medaglia per i miei due bambini; sono molto esigenti e mi hanno chiesto di non tornare a mani vuote”. Promessa mantenuta.
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Io e l’Olivetti
PRIMA PARTE / Ermanno Castellaro, classe 1946. Nato a Ivrea, ha sempre vissuto nella “città dalle rosse torri” ed è un eporediese doc. Per diversi decenni è stato un dirigente alla Olivetti di Ivrea, scalando nel corso della sua vita i vari livelli dell’azienda fondata nel 1908 da Camillo Olivetti e resa grande dall’intuito e dalla capacità del figlio Adriano per il quale l’Olivetti non era solo una fabbrica “ma un modello, uno stile di vita”. Il racconto della sua esperienza lavorativa, riassunto in quest’intervista non è solo una narrazione autobiografica di una persona che ha conosciuto quest’azienda lavorandoci per una vita intera, ma rappresenta un documento importante per conoscere e riflettere una volta di più sulla straordinaria storia di un modello aziendale che rappresentò “la grande utopia che nessuno ebbe mai il coraggio e la fantasia di imitare”.
Come è iniziato il rapporto con l’Olivetti?
“Quando finisci l’esame di maturità tecnica alle ore 11 di un mercoledì di luglio e alle 12 ti viene recapitata una lettera da un fattorino della Olivetti contenente una convocazione ad un colloquio di selezione per il venerdì successivo, dire che resti basito è dire poco. Tralascio le considerazioni e le incertezze che scattarono in un giovane di 19 anni: l’assunzione, quasi sicura perchè eravamo i primi periti usciti dall’Istituto Tecnico di Ivrea, voluto fortemente da Olivetti, che andava a precludere la possibilità di continuare gli studi (corso di laurea in matematica) o rinunciare ad una autonomia economica e fornire un piccolo contributo alla famiglia che doveva fare i conti con una sola retribuzione. La capacità decisionale, la testardaggine e forse l’incoscienza sono sempre state le mie armi nel bene e nel male e così decisi di accettare l’ assunzione che avvenne nel mese di settembre del 1965”.

Che mansioni le furono assegnate?
“Mi occupai di disegno tecnico per circa un anno (ero un elettrotecnico e di quel che avrei dovuto fare non capivo nulla). Venni spostato allo stabilimento Telescriventi, ma anche quì per circa un altro anno furono solo delusioni (fossi andato all’Università!).Un giorno venni chiamato dal Direttore di stabilimento, che aveva capito il mio disagio, il quale mi offrì la responsabilità di un piccolo centro avviamento della nuova telescrivente con il coordinamento di quattro-cinque persone : questa attività segnò la mia fortuna. Visti i buoni risultati, quando il prodotto andò in produzione, diventai il capo reparto del controllo con circa 90 dipendenti (non avevo ancora 23 anni). Nel 1973, avendo vinto un concorso interno, potei frequentare un corso di “Promozione Quadri Tecnici” (quelli che chiamavano i superperiti) della durata di 15 mesi a tempo pieno : grandissima esperienza. A febbraio 1975 venni inserito nella funzione del Personale (termine oggi obsoleto, sostituito dall’ anglosassone HR) e ci rimasi, con responsabilità crescenti, sino al giorno di andare in pensione : erano passati in un baleno quasi 37 anni: quante soddisfazioni !”.
Quali sono stati gli “anni d’oro” dell’azienda di Ivrea?
“Credo che l’Olivetti , dal 1955 al 1965, abbia vissuto il suo periodo migliore: questo è il decennio, fatto di due lustri molto precisi, l’ultimo di Adriano e il primo del post Adriano. Nei racconti e nelle reminescenze personali questo è il periodo delle assunzioni massicce di operai, di giovani tecnici delle scuole professionali e degli istituti tecnici, di laureati, non sempre in linea con le esigenze organizzative, talvolta ridondanti, ma questa era la filosofia di Adriano :”se ci capita un giovane che vale lo assumiamo. Un lavoro glielo troveremo“. Oggi la potremmo chiamare la ridondanza organizzativa, ma state tranquilli, esiste solo più in qualche ente pubblico”.
In quel periodo – che in parte coincise con gli anni del boom economico italiano – l’ Olivetti era una delle aziende leader nel settore dell’alta tecnologia, all’avanguardia nella progettazione e realizzazione di macchine per scrivere..
“Quelli erano gli anni della meccanica che dava margini molto alti, anni in cui non ci si preoccupava più di tanto dei costi, ma solo del fatturato e si guardava alle acquisizioni con una certa leggerezza come nel caso della Underwood, società americana con una grande tradizione nel settore delle macchine per scrivere. A proposito di Underwood mi colpì una frase di Renzo Zorzi nel discorso che tenne il 4 ottobre 2001 per ricordare i 100 anni dalla nascita di Adriano : “quando incontrai Adriano a Milano, di ritorno da New York, stanco, rattristato….e gli dissi che tutti i giornali parlavano di questo grande evento, lui mi rispose : caro Zorzi, se invece di far parte del gruppo degli avvocati e dei contabili fossi andato con gli ingegneri ad Hartford, io quella azienda non l’ avrei mai comprata. E’ una fabbrica vecchia, con macchinari obsoleti e maestranze anziane...”.
A parte queste considerazioni, non si può negare che l’Olivetti fu una scuola di vita: il rispetto per le persone, la cultura in generale e quella del design in particolare, il culto del bello, i servizi sociali (mense, colonie, infermerie, asili) furono per tanti anni i valori che differenziarono questa azienda da tutte le altre anche nel dopo Adriano, ma non dimentichiamo che fu un grande centro produttivo e di sviluppo tecnologico d’avanguardia, quindi non fu un ente di beneficenza come tanti la descrivono oggi dimenticando la “fabbrica” perché, anche se Adriano era stato un imprenditore illuminato, era comunque stato un imprenditore nel vero senso della parola, attento alle nuove tecnologie, al design, ai mercati, alla qualità dei prodotti, alle risorse umane e soprattutto alla creazione del profitto, senza il quale le aziende non si sviluppano e muoiono”.

Vennero gli anni ’60. Improvvisamente, durante un viaggio da Milano a Losanna, muore Adriano Olivetti. Era il 27 febbraio 1960. Lasciava in eredità un’azienda presente su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero…
“Sì, lasciò anche un’impronta indelebile, un segno inconfondibile nella storia dell’azienda, del Canavese e in tutta l’industria italiana. Dagli anni ’60 l’azienda si arricchì di prodotti per ufficio, ma i cambi di tecnologia e le poche risorse lasciate da Adriano provocarono una crisi finanziaria che dovette essere gestita, nel 1964, da un “Gruppo di intervento” costituito da Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI con Bruno Visentini Presidente e Aurelio Peccei Amministratore Delegato. Ricordiamoci che nel 1965 l’Olivetti presentò il primo calcolatore da tavolo P101 e che solo tre anni dopo la Divisione Elettronica venne ceduta alla General Electric (grande occasione persa – dov’era il Governo? – quello francese nel frattempo lanciava importanti piani a favore delle aziende a sviluppo meccanico ed elettronico). Con riferimento al periodo che va sino ai primi anni sessanta si può affermare, senza tema di smentita, che Olivetti fu una grande scuola,insegnò come si dovrebbe vivere non solo in un’azienda, ma anche al di fuori, come ci si identifica nel luogo di lavoro, come si fa cultura e come si trasmette il “bello” non solo attraverso le mostre e gli incontri con gli artisti, ma anche attraverso le linee dei prodotti. Insegnò il rispetto della persona. Qualcuno ha sostenuto che non seppe trasmettere le metodologie, ma non sono d’accordo, perché le cose di cui sopra erano dentro ad ogni lavoratore che le elaborava a modo suo e con quel grande senso di appartenenza alla fabbrica che aveva il piacere di chiamare “ditta”. Va sottolineata anche la funzione del Personale. In quegli anni svolse un ruolo centrale, collaborò con il Centro di Psicologia, studiò l’integrazione dei lavoratori agricoli nel mondo industriale, si occupò molto di cultura, pensò al recupero dei lavoratori con handicap (Centro R), fu un riferimento per i problemi familiari, soprattutto sul piano economico e, cosa importantissima fu sempre attenta ai livelli occupazionali: in Olivetti non si licenziava”.
Sul finire degli anni ’60, iniziarono gli anni del grande cambiamento..
“ Il periodo che data dal 1965 al 1978 fu quello in cui si verificarono, in ambito aziendale, ma soprattutto nel mondo una serie di eventi e di mutamenti di portata immensa che provocarono, all’interno delle imprese, delle trasformazioni radicali nei rapporti tra dipendenti e impresa e impresa e sindacato. Dai movimenti ideologici del ’68 parte il cambiamento radicale delle relazioni con il personale e il sindacato, perché mutano le filosofie economiche, politiche e sociali in tutta Europa: c’é una gran voglia di cambiare il mondo e con una velocità senza precedenti. Tutto un sistema viene preso in contropiede, ma a farne le spese non sono tanto le aziende sul piano economico quanto il livello dirigenziale travolto da questo improvviso cambiamento. In questo scenario la funzione del Personale é a rischio, non é più garante dei capi di line, delle regole, delle norme; continua a predicare teorie di gestione che più nessuno accetta (per partito preso), crollano i rapporti con il sindacato che ha comunque perso il controllo di una parte della massa operaia: qualunque atteggiamento assuma é perdente. L’Olivetti si salva essenzialmente per due motivi: uno perché é fatta prevalentemente di lavoratori canavesani che non si portano sulle spalle i problemi dei loro colleghi che vivono nelle metropoli o nelle periferie e che hanno dovuto, la maggior parte, abbandonare il Mezzogiorno; due perché comunque in Olivetti esiste ancora un attaccamento alla bandiera: ancora una volta la cultura olivettiana emerge, i lavoratori non dimenticano, fanno tanto baccano, ma, per fortuna poco danno”.
In quegli anni che responsabilità aveva e che ricordi le sono rimasti?
“Ho vissuto quegli anni negli stabilimenti con responsabilità di capo reparto, sono stato trascinato da quei cortei di centinaia di persone che contestavano tutto, danneggiavano a volte le attrezzature, “defenestravano” i capi ribelli, ma fortunatamente non accadde mai nulla di grave: forse non sapevano neppure loro cosa stessero cercando veramente ! I responsabili del Personale tennero sempre un atteggiamento di buon senso cercando il dialogo con gli operai e il sindacato e senza mai usare metodi repressivi. Vennero accusati da altri imprenditori di essere dei deboli e troppo dalla parte delle masse operaie, ma in Olivetti non si videro mai persone gambizzate, bulloni lanciati contro i capi, automobili bruciate. Ancora una volta la “cultura Olivetti” aveva vinto. Passata la fase calda in cui si incrociarono e a volte si scontrarono le logiche del cambiamento della società con quelle dello sviluppo tecnologico, tutto sembrò tornare lentamente nella normalità tentando di realizzare un cambiamento globale, ma con la giusta gradualità”.
Ci fu un’ evoluzione anche nei rapporti…
“Certamente. La funzione del Personale dovette abbandonare i vecchi schemi cercando un giusto equilibrio tra fabbrica e società. Dall’altra parte un sindacato pieno di contraddizioni, imbottito di ideologie che lo stavano logorando e che troppo tardi capì che la perdita di efficienza e di efficacia si stava trasformando in perdita di competitività e di mercato, compromettendo l’intero tessuto economico italiano. Sono anche gli anni in cui gli ammortizzatori sociali diventano eccessivamente generosi, i lavoratori sono super garantiti, gli assenteismi sono alle stelle (8-12% gli uomini e 14-16% con punte di 20% le donne), il costo del lavoro é tra i più alti in Europa. In questo periodo così

travagliato, con i conti che continuano a preoccupare, c’é comunque la forza di guardare alla tecnologia e alle problematiche del lavoro: si sviluppano nuove metodologie quali le isole di montaggio, le UTI e le UMI (unità integrate) dove il lavoratore è responsabile di una parte importante del prodotto e lavora in autocontrollo. In queste unità integrate vengono svolte da un unico operaio quelle mansioni che prima erano responsabilità di più persone: era un notevole passo verso il job enrichment che andava a seppellire il job rotation. A seguito di queste innovazioni sul metodo di produrre, anche gli uomini della struttura del Personale dovettero avvicinarsi al prodotto e al modo di realizzarlo entrando sempre più nel vivo nell’organizzazione, nelle metodologie e nei processi, sensibilizzandosi sui temi della qualità, dell’efficienza e dei costi. Purtroppo le cose non andavano molto bene, i prodotti non si rivolgevano al futuro, si continuava ad insistere sulle calcolatrici e sui prodotti elettromeccanici, l’azienda era un insieme di produzioni meccaniche ed elettromeccaniche e non si capiva bene quali settori guadassero e quali perdessero. Si sperava che lo Stato potesse occuparsi in modo serio di Olivetti”.
Marco Travaglini
(prima parte – segue)
:
Le foto delle architetture olivettiane di Ivrea sono di Paolo Siccardi, giornalista e photoreporter free-lance, cofondatore del collettivo fotografico Walkabout-Ph
Barbara Rosina (Presidente dell’Ordine regionale): “Ringraziamo le imprese piemontesi che decidono di essere socialmente responsabili”
21 agosto, Torino. Quest’oggi si celebra la Giornata Mondiale dell’Imprenditore e gli assistenti sociali del Piemonte apertamente plaudono alle imprese locali che decidono di essere socialmente responsabili, ossia quelle che, nel definire le proprie strategie e i propri codici di comportamento, tengono conto non solo dei legittimi interessi legati al profitto ma anche delle aspettative di tutti i possibili stakeholders: clienti, fornitori, comunità.
“Crediamo – afferma Barbara Rosina (Presidente dell’Ordine Assistenti Sociali del Piemonte) – che la contrapposizione tra interessi dei lavoratori (e più in generale di una comunità) e interessi d’impresa non sia viva e alimentata in ogni realtà. Lo conferma il monitoraggio compiuto da CSRPiemonte, un progetto nato nel 2010 per volontà di Unioncamere Piemonte e Regione Piemonte. L’indagine del 2016 fa emergere che circa un’impresa su due delle 2.646 rispondenti ha investito o investe attualmente in azioni di CSR (Corporate Social Responsibility)”.
Per azioni di CSR si intendono quelle indirizzate al benessere dei dipendenti, alla sostenibilità ambientale, allo sviluppo di prodotti e processi sostenibili, al potenziamento delle comunità locali e alla creazione di iniziative di solidarietà e sostegno umanitario. “In tal senso – aggiunge Rosina – si distingue positivamente il biellese, realtà in cui il 54% delle aziende intervistate ha dichiarato di essere stato o di essere attivo nel campo della CSR. Superiori alla media regionale risultano anche due delle province del Piemonte meridionale, Asti (54,1%) e Cuneo (52,1%). Un trend positivo e in crescita che avvalora l’immagine degli imprenditori come cittadini sensibili a quello che succede nella comunità ed intenzionati (almeno una buona % della categoria) di porsi, in rapporto con essa, in modo inclusivo e solidale. Auspichiamo che questa tendenza chiami in causa tutte le imprese ancora reticenti al cambiamento”.
Tante sono le note positive evidenziate dai professionisti dell’aiuto relativamente all’imprenditoria piemontese. Barbara Rosina, però, sollecita ad affrontare una questione denunciata dalla stessa Unioncamere. Ad inizio del mese, l’ente ha rivelato che quasi 2 imprese su 3 ricercano il personale con canali “informali”, mentre solo il 2% utilizza i Centri per l’impiego. Anche sul versante privato solo il 5% delle imprese fanno ricorso alle agenzie del lavoro, associazioni imprenditoriali e società di somministrazione.
Rosina esorta: “Invitiamo gli imprenditori ad un cambio di rotta, anche al fine di rendere più efficaci le attuali misure di contrasto alla povertà, come il REI (reddito di inclusione). Occorre nella selezione del personale un reale coinvolgimento dei Centri per l’Impiego (CPI), i servizi pubblici deputati al matching tra domanda ed offerta di lavoro nonché ad attuare iniziative e interventi di politiche attive. Tutti gli Assistenti sociali, a maggior ragione quelli impegnati in progetti di contrasto alla povertà, sono disponibili ad un confronto diretto e a possibili proficue collaborazioni”.
“Appare in ultimo importante evidenziare – conclude Rosina – come i servizi sociali possano affiancare il mondo dell’imprenditoria nell’inserimento nel mondo del lavoro di persone con disabilità, attraverso il collocamento mirato che consente (tramite progetti personalizzati) di mettere a disposizione delle esigenze produttive la professionalità acquisita dal lavoratore disabile. È da sottolineare l’importante ruolo che le piccole e medie imprese, capaci di gestire efficacemente le problematiche di impatto sociale ed etico con azioni di CSR, potrebbero assumere in questo ambito”.
Sabato 25 agosto, al Colle del Sestriere, verrà celebrato il 74° anniversario della battaglia del Sestriere. Una ricorrenza speciale che coinciderà con il 26° anniversario del Monumento alla Resistenza che ricorda il sacrificio dei 210 caduti della Divisione Alpina Autonoma “Serafino”, delle brigate partigiane “Garibaldi” e “Giustizia e Libertà”, dei civili che persero la vita sulle balze delle Valli Chisone, Germanasca, Sangone e in alta Val di Susa nei venti mesi della guerra di Liberazione. La manifestazione, promossa dall’Anpi e dal Comune di Sestriere, si svolge con il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte e del Comitato Resistenza e Costituzione. Alle 10,45, dopo i saluti dell’Anpi e del Sindaco di Sestriere e Presidente del Comitato Promotore Valter Marin, il Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte, Nino Boeti terrà l’orazione ufficiale.
(Nella foto del Comune di Sestriere una passata commemorazione)
“Anni luce” a Borgate dal vivo
Galleria d’arte Gagliardi e Domke, via Cervino 16, Torino
Venerdì 24 agosto alle ore 16 il festival Borgate dal Vivo ospiterà Andrea Pomella che, in dialogo conHamilton Santià, presenterà il suo ultimo libro “Anni Luce” (add editore, 2018). Ad accompagnarli con la chitarra, Adriano Viterbini dell’ormai storica band romana Bud Spencer Blues Explosion. L’incontro, organizzato in collaborazione con TOdays festival, è gratuito e si terrà nella Galleria d’arte Gagliardi e Domke a Torino.
“Anni Luce”, inserito tra i dodici libri finalisti del Premio Strega 2018, è una storia grunge: è la storia di un’amicizia, dove al centro ci sono i Pearl Jam, la loro musica e “Q.”, il compagno di sbronze, amico, viaggiatore e chitarrista che fece conoscere la nota band statunitense ad Andrea Pomella.
“Ten, il primo disco dei Pearl Jam, uscito nel 1991 fu un treno che travolse la mia giovinezza. – dice Andrea Pomella – Venticinque anni dopo, decisi di scriverci un pezzo, la ricorrenza lo meritava. Il treno passò di nuovo sopra le mie rovine trascinandosi dietro tutto ciò che si metteva in moto quando dalle casse dello stereo fluiva una loro canzone, il vortice di angosce, divertimenti, memorie, furori, gioie, inquietudini che si incanalava attraverso la loro musica”.
Andrea Pomella è nato a Roma e ha pubblicato monografie su Caravaggio e Van Gogh, il saggio sulla povertà “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” (Laurana, 2012) e il romanzo “La misura del danno”” (Fernandel, 2013). I suoi racconti sono stati pubblicati su “minima&moralia”, “doppiozero” e “Rivista Studio”.
Hamilton Santià è nato a Torino. Interessato principalmente ai rapporti tra cultura, politica e società, scrive da anni su siti e riviste, principalmente di musica, cinema, cultura pop e comunicazione politica (tra le testate con cui collabora e ha collaborato: “Mucchio Selvaggio”, “l’Unità”, “Pagina99”, “Artribune”, “Rolling Stone”, “Losing Today”).
Adriano Viterbini è nato a Marino (RM) e vive a Roma. Chitarrista appassionato di delta blues, rock-funk e musica alternativa. Nel 2000 comincia a suonare nel circuito musicale romano e nel giro di pochi anni si impone come uno dei chitarristi più completi e personali della scena italiana ispirato dal blues del delta Mississippi, da Ry Cooder, dal rock più stoner e dal pop più nobile. Nel 2007 fonda, insieme a Cesare Petulicchio, i Bud Spencer Blues Explosion. Nel 2010 è artefice del progetto blues Black Friday. Nel 2013 torna alle origini. e pubblica il suo primo disco solista, “Goldfoil”. A fine 2014 partecipa alle registrazioni del disco di Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè “Il padrone della festa”. “Film o Sound”, del 2015, è il suo secondo disco solista. Tra le tante collaborazioni: Bombino, Nic Cester, Davide Toffolo
Borgate dal Vivo è stato definito il festival più grande d’Europa dedicato ai territori più piccoli: i borghi e le borgate alpine. Per la III edizione Borgate dal Vivo è diventato Performing Alps: oltre alla letteratura, comprende anche altre forme artistiche, dal teatro, alla musica, al cinema, alla danza. L’ obbiettivo del Festival è di contribuire alla rinascita dei borghi e delle borgate alpine e alla lotta contro il loro spopolamento. Gli eventi, tutti in forte relazione con i luoghi che li ospitano, sono rivolti sia agli abitanti di queste aree periferiche, che vengono sempre più rivalutate da un punto di vista ambientale e architettonico, sia al grande pubblico che può riscoprire piccoli luoghi di grande bellezza.
Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni, ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo
Di mio nonno ricordo le mani. Dovevano esser state delle mani grandi e forti. Capaci di strette sincere e di una presa ferma. Io le ricordo, poco prima di morire, coperte da vene blu che – dopo aver viaggiato per una vita come i fiumi del Carso – erano risalite in superficie, accompagnandone dolcemente i tremolii e le incertezze. Mani da lavoratore, rese dure dai calli ma – immagino – capaci di tenerezze per quanto si potesse cogliere questa disponibilità affiorante come una debolezza tra le pieghe del suo carattere burbero e severo.
Il nonno – nato all’inizio dell’ultimo decennio dell’ottocento – si era fatto, tutta intera e senza sconti, la prima guerra mondiale. Dal 24 maggio del 1915 all’11 novembre del 1918 furono, per i tanti come lui che – fortunati – riuscirono a portare a casa la “ghirba”, giorni, settimane, mesi ed anni durissimi. ” Si vede che non era la mia ora“, diceva quasi a giustificazione di non aver fatto la fine di tanti suoi compagni, morti o dispersi. Alpino del Battaglione “Intra” come tanti altri provenienti dalle nostre zone e dal varesotto, prima di partire per il fronte era stato assegnato in un primo momento alla caserma “Simonetta” di Intra e poi alla “Urli” di Domodossola. Sulla divisa portava la nappina verde degli Alpini dell’Intra, quelli che non mollavano mai ed avevano scelto un motto ( “O u roump o u moeur!” ) che era tutto un programma. Quella guerra fu una vera carneficina. Fu, al tempo stesso, l’ultimo conflitto del passato – con la sua guerra di trincea, lenta e di posizione – ed il primo grande conflitto in cui si usarono senza risparmio tutti i mezzi moderni, come aeroplani, mezzi corazzati, sommergibili e – terribili e disumane – le armi chimiche, tra cui il gas “iprite” che prese il nome dalla città belga di Ypres, dove fu utilizzato per la prima volta per iniziativa dei tedeschi. Sopravvissuto agli assalti alla baionetta ed agli scontri sulle montagne del Carso e sul Grappa, il nonno – con in grado di sergente maggiore- combatté senza tregua per portare a casa intera la pelle.
Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni, ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo. Comandò, negli ultimi mesi, dopo che una granata aveva spezzato la vita al capitano ed ai due sottotenenti, i suoi uomini dando prova di buon senso e di coraggio. Gli affidarono così un reparto formato da giovanissimi della classe 1900, arruolata nel 1918 in vista della prevista offensiva della primavera 1919 e che, tolto qualche volontario, non venne mandata in prima linea perché la guerra terminò prima. Quand’aveva la vena malinconica si lasciava scappare qualche accenno. Ricordo la descrizione inorridita dei soldati passati per le armi perché erano scappati dal fronte dopo Caporetto. Mi parlava delle frasi tracciate sui muri delle case come quella, famosa, del “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!”. Di ricordi, s’intuiva ne avesse molti ma parlava poco e malvolentieri. Era stato decorato con una medaglia di bronzo e due encomi solenni per ” l’assidua, fervida, utile opera prestata, per il costante efficace esempio di coscienzioso adempimento del dovere, combattendo per la Patria sul Monte Grappa e sull’altipiano del Carso“. Il nonno morì prima di vedersi assegnare la Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto. Una onorificenza che non gli avrebbero comunque dato perché si era rifiutato di farne richiesta. L’Ordine di Vittorio Veneto venne istituito per legge nel marzo del 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a coloro che avevano combattuto per almeno sei mesi durante la prima guerra mondiale o precedenti conflitti. Per ottenerlo bisognava avanzare, tramite il comune di residenza, una propria, personale domanda al capo dello Stato. Quando venne il vigile, modulo alla mano, a proporre di compilarla, il nonno lo mandò via con modi bruschi.
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“Dopo quasi cinquant’anni non so che farmene del titolo. Se quelli di Roma vogliono fare qualcosa di buono, allora diano una mano alle famiglie di quelli che sono stati mandati a morire sui fronti. Io ho solo fatto il mio dovere anche se la guerra è una cosa schifosa, dove a rimetterci sono sempre i poveri cristi“. In un cassetto della credenza scoprii, accanto alla medaglia ed ai nastrini tricolori, una vecchia e consumata cartolina postale spedita da Innsbruck, la capitale del Tirolo. Raffigurava il Castello di Ambras, caro all’arciduca Ferdinando II d’Asburgo. Il bollo sull’affrancatura portava la data del 12 maggio 1923. E la scritta, in un italiano scarno e stentato, diceva : “Amico taliano, grazie per tutto. Molti belli saluti“. La firma, quasi illeggibile, pareva di un certo Hans Maier o Hans Heigher. Probabilmente un montanaro, inquadrato in qualche battaglione d’assalto dei Kaiserschutzen tirolesi. Il nonno era geloso dei suoi segreti e non ne fece mai cenno ma so bene che molti alpini e molti “tiratori dell’imperatore” fraternizzarono, trovandosi ad alte quote gli uni di fronte agli altri, tutti montanari che sentivano più il legame della terra che il richiamo del sangue e l’astio del confine. Si fronteggiavano, sparandosi addosso, ma molti lo facevano controvoglia, per obbligo e non certo per scelta. Chissà cosa si dissero e che fecero in quei giorni e in quei luoghi dove si combattevano le battaglie “più alte della storia”. Non l’ho mai saputo e non lo saprà mai nessuno. Il nonno, questo suo “segreto” se l’è portato via con se, per sempre. E non fatico a credere che la stessa cosa sia capitata al suo amico d’oltre frontiera. Sono passati tanti anni da allora ed anche i ricordi sfumano, diventano trasparenti, impalpabili. Si ha paura di toccarli per non vederseli ridurre in polvere e volar via. Resta però un fatto. Duro come la pietra su cui sono fissate le lettere di metallo dei nomi dei caduti e dei reduci della “grande guerra” sul lastrone all’entrata del cimitero di Baveno. Tra i tanti nomi quello del nonno non c’è. Lui che della guerra non riuscì ad evitarne neppure un attimo è stato omesso, dimenticato. Sono certo che se lo venisse a sapere ne sarebbe sinceramente contento, godendo di quel po’ d’oblio che le dimenticanze, a volte, possono regalare.
Marco Travaglini
Grande caldo fino a 36 gradi
Sarà ancora grande caldo a Torino e Piemonte con qualche grado sopra la norma del periodo, a causa dell’alta pressione atlantica rinforzata da aria africana. In aumento le massime fino a mercoledì. Secondo le previsioni dell’ Arpa -Agenzia regionale per la protezione ambientale si registreranno 36 gradi martedì nel Novarese, 35 nell’Astigiano e nel Torinese.
