redazione il torinese

Venezia, come un anno fa: la Chiesa dei pirati affonda in laguna

Vi riproponiamo l’articolo pubblicato un anno fa, il 16 novembre 2018. La situazione non solo non è migliorata, ma peggiorata

E’ universalmente conosciuta come la basilica di San Marco, visitata ogni anno da 30 milioni di turisti. Oggi rischia di finire sott’acqua come tutta Venezia

In questi giorni l’acqua salmastra è arrivata al centro della chiesa, ha aggredito statue e sculture con la grande preoccupazione che l’umidità, salendo verso l’alto, raggiunga gli splendidi mosaici dorati bizantini del XII secolo fino a farli sparire. Per alcuni scrittori dell’Ottocento il tempio dell’evangelista Marco era la chiesa dei pirati, “immenso forziere di ricchezze composto da pezzi rubati o conquistati ad altre civiltà, un sogno orientale, una chiesa moresca o una moschea cristiana innalzata da un califfo convertito”. San Marco è un pezzo d’Oriente in laguna, un angolo di Costantinopoli trapiantato a Venezia. Quando i veneziani andavano alle Crociate tornavano a casa con un bottino enorme, con galee stracolme di marmi, colonne, capitelli e reliquie sacre portate via da chiese ed edifici storici nei Paesi orientali in cui andavano a far la guerra o a vendere i loro prodotti. Erano insuperabili in tutto ciò. Molti di questi oggetti, oggi collocati dentro e fuori la basilica, sono giunti dalla capitale dell’Impero bizantino dopo la IV Crociata del 1204, nota come il sacco di Costantinopoli, la crociata della vergogna, quando i cristiani massacrarono tanti altri cristiani. I più famosi sono i quattro cavalli di bronzo dorato che abbellivano l’ippodromo sul Bosforo, diventati poi i cavalli di San Marco. Venezia è impregnata di influssi bizantini e a quell’epoca era un via vai di artisti e mosaicisti greci che giungevano in laguna da Bisanzio per decorare le chiese cittadine. San Marco stessa è stata costruita nell’828 a croce greca sul modello della chiesa dei Dodici Apostoli che sorgeva su un colle della Roma d’Oriente dove oltre 500 anni fa fu abbattuta per lasciare spazio alla moschea di Maometto II il Conquistatore. Per evitare i danni causati dall’inquinamento atmosferico i cavalli originali sono al sicuro all’interno della basilica con un fascio di luce che esalta il loro splendore mentre sulla facciata della chiesa compare una copia della quadriga bronzea. All’esterno, nell’angolo che guarda Palazzo Ducale, stazionano quattro imperatori romani con spada al fianco, forse i tetrarchi che si divisero l’Impero, scolpiti nel porfido rosso, quasi fossero di guardia al Tesoro della basilica. Anche queste statue erano a Bisanzio e furono portate a Venezia nel 1204. Non erano a Costantinopoli e neppure ad Acri, come si è pensato per lungo tempo, i cosiddetti “pilastri acritani”, in bella mostra a pochi metri dai tetrarchi. Non sono stati trafugati dai veneziani a San Giovanni d’Acri nel 1258 ma in un’antica chiesa greca. All’interno di San Marco c’è un altro tesoro costantinopolitano. In fondo alla navata sinistra, i fedeli si raccolgono in preghiera davanti alla Nikopeia (Portatrice di Vittoria), l’icona dell’ XI secolo che i sovrani bizantini portavano in battaglia come amuleto e la custodivano nel monastero del Pantocrator a Costantinopoli. L’immagine sacra fu presa dai crociati dopo uno scontro con un reparto militare comandato dall’imperatore e finì a Venezia, ennesimo bottino della quarta Crociata. Si trovava nel medesimo monastero anche la magnifica iconostasi di smalti, gemme e pietre preziose collocata oggi nella Pala d’Oro in San Marco. Altri oggetti sacri e reliquie furono portati a Venezia dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204 e si possono vedere nel Tesoro della basilica. Fino a quando sarà possibile ammirare tutto ciò? Per la quarta volta nella storia l’alta marea ha invaso la parte centrale della basilica per arrivare proprio sotto l’altare della Madonna Nikopeia dopo aver ricoperto per 90 centimetri il pavimento a mosaico dell’atrio.

Filippo Re

 

L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica

Oltre 200 capolavori raccontano a Palazzo Madama la storia della maiolica italiana nella sua età dell’oro

C’è tutta la storia, affascinante e unica, della maiolica rinascimentale italiana – forse la forma d’arte che nella misura più completa e con i colori incredibilmente più accesi riflette il mondo in cui vivevano donne e uomini del Rinascimento – nella prestigiosa mostra, fra le maggiori del genere realizzate in anni recenti in Italia, allestita nella “Sala del Senato” di Palazzo Madama a Torino, fino al prossimo 14 ottobre. La rassegna riunisce per la prima volta oltre 200 manufatti (fra piatti, vasi, ciotole e brocche doviziosamente istoriate), autentici capolavori realizzati, fra la metà del ‘400 e la seconda metà del ‘500, dalle più prestigiose manifatture italiane e provenienti da collezioni private fra le più importanti al mondo nonché dalle stesse collezioni di Palazzo Madama. A curarne l’esposizione, in collaborazione con Cristina Maritano (conservatore di Palazzo Madama per le Arti decorative), uno dei massimi esperti mondiali del settore, quel Timothy Wilson cui si devono fra l’altro i cataloghi sistematici delle raccolte del British Museum di Londra, del Metropolitan Museum di New York, della National Gallery di Victoria in Australia e dell’Ashmolean Museum di Oxford, di cui Wilson è attualmente conservatore onorario. Fra le numerose opere selezionate, in un tripudio di colori di stupefacente vivacità – dai tipici fondi blu agli ocra intensi e ai gialli sfumati abbinati ai verdi luminosi – conservatisi nel tempo in modo perfetto (grazie alla particolare tecnica della maiolica), troviamo alcune chicche di autentica e prodigiosa maestria: dal grande “Rinfrescatoio del Servizio Salviati”, uscito nel 1531 dalla Bottega di Pietro e Paolo Bergantini di Faenza (oggi custodito in Palazzo Madama), alla “Brocca in porcellana medicea”, anch’essa nella raccolta di Palazzo Madama e prima imitazione europea della porcellana cinese, fino alla magnifica coppia di “Albarelli” (collezione privata), dall’incredibile lucentezza degli smalti, con decorazioni di animali, allegorie e motivi vegetali, opera di Domenego da Venezia, il più celebre dei Maestri lagunari della metà del Cinquecento. Ad aprire la mostra, in “Camera delle Guardie”, è una grande vetrina che richiama alla mente il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la “credenza”, dove le signore del tempo (soprattutto nelle residenze di campagna) esponevano in bella mostra le maioliche, che venivano anche usate a tavola o offerte come doni in occasione particolari, quali matrimoni e nascite. Particolarmente fiorente, divenne anche il loro utilizzo nei corredi da farmacia, commissionati in genere da istituzioni religiose. La seconda tappa della mostra porta poi nella “Sala del Senato”, con le “esclusive” maioliche di Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e Torino, realizzate dai principali Maestri dell’epoca, fra i quali Nicola da Urbino e Francesco Xanto Avelli da Rovigo (detto Santino), che fu anche colto umanista e poeta alla corte di Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino. L’iter espositivo prosegue, infine, illustrando l’ampia varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata (specifica caratteristica nata nelle botteghe dei ceramisti italiani), pittoricamente impreziosita da soggetti religiosi, ma anche profani e amorosi, tratti dai miti e dalla storia antica, o riguardanti – in caso di servizi araldici- lo status sociale della committenza, in genere importante. Le fonti grafiche per questo tipo di pittura (che andava a costituire, all’interno delle dimore signorili, una sorta di “pinacoteca in miniatura”) derivavano dai repertori di incisioni circolanti nelle botteghe dei “maiolicari” e che fungevano da tramite per riprodurre in scala ridotta le opere più celebri dei grandi pittori del tempo. Da Michelangelo a Raffaello, fra i più gettonati. In programma, a margine della mostra, è previsto anche un convegno internazionale dal titolo “Il collezionismo fa grandi i musei”, che si terrà il 16 e il 17 settembre nelle sedi di Palazzo Madama a Torino e del Palazzo dei Musei di Varallo Sesia.

Gianni Milani

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“L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica”

Palazzo Madama – Sala Senato, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 14 ottobre

Orari: lun. – dom. 10/18, mart. chiuso

 

 

 

Nelle foto

– Bottega di Pietro e Paolo Bergantini: “Rinfrescatoio del Servizio Salviati”, Faenza, 1531 
– “Brocca in porcellana medicea”, Firenze, 1575 – 1580
– Domenego da Venezia: “Albarello con allegoria della Terra”, 1550 -1570
– “La Sibilla Eritrea”, Faenza, 1500 – 1520
– Bottega di Orazio Pompei: “Bottiglia da Farmacia”, Castelli, 1550 -1560
– Francesco Durantino: “Coppa traforata”, Torino, 1578

Quel 12 settembre 1683

In Austria destra e sinistra litigano furiosamente, con mazze e coltelli, su un famoso evento di oltre tre secoli fa

Vienna liberata il 12 settembre 1683 dal grande assedio ottomano continua a far discutere gli storici e a far litigare le forze politiche. L’anniversario oppone la sinistra che governa la capitale e l’opposizione di estrema destra che chiede un monumento che ricordi la vittoria sui turchi musulmani. Il Comune non vuole la statua disegnata dalla destra, considerata troppo forte e offensiva verso i musulmani, ma una versione più soft. Quest’anno le due fazioni si sono perfino scontrate fisicamente sulle colline che sovrastano Vienna. Si racconta che, guardando la torre del Duomo di Santo Stefano a Vienna, un viaggiatore turco, nel Seicento esclamasse: “Voglia Allah concedere che possa essere trasformato in minareto e che un giorno risuoni da esso il richiamo alla preghiera musulmana”. Vienna fu attaccata più volte dalla potente armata ottomana che non riuscì mai ad occuparla. In particolare i due grandi assedi del 1529 e del 1683. Quanto patirono i viennesi assediati dai giannizzeri del sultano! Mesi di assedio, con pochi viveri, acqua, armi e munizioni, aspettando i soccorsi che tardavano ad arrivare. Il pensiero va soprattutto all’estate 1683 quando le madri austriache temevano per i loro figli che sovente venivano rapiti dai turchi nei dintorni della capitale. Se l’esercito ottomano avesse occupato la capitale imperiale è probabile che ben pochi sarebbero scampati al massacro e tanti altri ridotti in schiavitù. Da un testamento, datato 1694, si apprende che una donna anziana di Enzersdorf, nei pressi di Vienna, Maria Pockhin, piange disperata la scomparsa delle cinque figlie, rapite di notte dai turchi durante l’assedio e mai liberate, finite probabilmente in qualche harem di visir o pascià. La sua eredità, nonché i quattrini per far celebrare per 23 anni dopo la sua sepoltura tre messe alla settimana dai francescani del paese, viene consegnata a un parente, per lasciarla ancora dieci anni a disposizione delle figlie di cui non si hanno più notizie. Il documento è una preziosa testimonianza di come i viennesi vissero quelle drammatiche settimane con l’armata del gran visir Kara Mustafà sotto le mura di Vienna con 150.000 uomini armati e 300 cannoni. Sono i giorni che precedono il 12 settembre 1683, il giorno della liberazione di Vienna dall’assedio ottomano. La capitale barocca è in preda al panico e migliaia di viennesi fuggono terrorizzati dai turchi. Tra loro anche l’imperatore Leopoldo I che fugge da Linz con la famiglia, 400 cavalli e 200 carri stracolmi di principi e principesse. Non meno numeroso e pittoresco è il seguito degli invasori della Mezzaluna nel quale spiccava l’harem mobile del sultano trasportato da cento carri. I viennesi, intanto, venivano invitati sd arrendersi e a convertirsi all’islam. Gli abitanti, stremati dalla carestia e dalla paura, si preparavano al peggio. A salvarli ci penserà un uomo chiamato Giovanni, il re polacco Giovanni Sobieski, che alla testa dei suoi ussari e di un’alleanza internazionale piomberà come un’aquila sull’accampamento ottomano mettendo in fuga i turchi e arrestando l’espansione dell’Impero dei sultani verso il resto dell’Europa. Insieme a Sobieski c’era anche un giovane Eugenio di Savoia che comandava un reggimento di dragoni. Era il 12 settembre 1683, una giornata memorabile nella storia dell’Europa moderna. Il gran visir Kara Mustafà fu strangolato dai suoi fedelissimi e la sua testa fu portata al sultano. Per i turchi fu l’inizio del declino. In 15 anni persero quasi metà dei territori conquistati nei tre secoli precedenti.

Filippo Re

 

Berlinguer, trentacinque anni dopo

Sono passati trentacinque anni dall’11 giugno del 1984, il giorno in cui è morto Enrico Berlinguer. Gli fu fatale l’ultimo comizio tenuto qualche giorno prima a Padova in vista dell’appuntamento elettorale per il rinnovo del parlamento europeo. Le immagini, per lo più in bianco e nero, ci rimandano il suo viso scavato, il corpo minuto. Una velata malinconia nello sguardo , il timbro di una voce antica. Quella stessa voce che proponeva – con lucidità –  una visione del mondo nuova; la necessità di portarsi dietro tutti in scelte più avanzate, di cambiamento, dove impegnare i destini di un popolo che si diceva comunista, ma di un tipo del tutto originale, italiano e democratico, innervato nella Costituzione repubblicana. Quell’uomo che sembrava così  fragile, si chiamava Enrico Berlinguer. Gentile, riluttante, pacato, colto. Uomo di unità, affezionato alle speranze dei giovani, schivo e apparentemente inadatto alla leadership al punto che -come qualcuno disse –  stava male prima di ogni incontro televisivo. Un uomo, secondo  Alfredo Reichlin ( scomparso un paio d’anni orsono, con il quale ebbi l’onore di lavorare quand’era direttore de L’Unità, giornale glorioso che ora non c’è più) che per conformazione fisica e psicologica “poteva fare il bibliotecario”, ma che si dimostrò un eccezionale e insostituibile “capo di un popolo”.

La folla che lo salutò in occasione dei funerali per le strade del centro di Roma fu la testimonianza più evidente dell’amore che il popolo italiano provava per questo uomo gracile e forte allo stesso tempo, partito dalla Sardegna non per fare la “carriera politica” ma per “impegnarsi” nella politica. Tra quei drammatici fotogrammi che accompagnano i suoi ultimi istanti in piazza della Frutta , ce n’è uno, quasi impercettibile a un osservatore poco attento: quello del suo ultimo sorriso alla folla, dopo aver pronunciato le sue ultime parole “..lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini”. Sta tutto in quel sorriso la bellezza di Berlinguer. La bellezza di chi ha scelto di occuparsi in maniera disinteressata degli altri; di avere uno scopo nella vita che va oltre se stessi. In quel sorriso è racchiuso un manifesto politico, troppo in fretta archiviato dopo la sua morte e troppo strumentalmente ritirato fuori per esigenze di propaganda. Il sorriso di un uomo che  è ancora tra noi perché le sue intuizioni politiche e culturali avevano scavato nel profondo della crisi italiana, ne avevano tirato fuori i nervi scoperti attraverso i quali si poteva vedere il futuro della nostra società e dell’Europa.

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 Un uomo, fatto passare per un conservatore e che, all’opposto, sapeva leggere con visionaria lucidità il cambiamento in corso, cercando di proporre una via d’uscita democratica, non populista.  Berlinguer riuscì ad affrontare un tema ostico e da molti  mal digerito  come l’austerità che non aveva nulla a che vedere con le ricette neoliberiste e monetarie ma con l’idea di affrontare il tema dei consumi  e della produzione all’interno di una società più giusta, sobria, solidale, democratica, attraverso una migliore distribuzione dei redditi e una condivisa responsabilità tra le classi che esistevano (e esistono..) ancora. Un discorso che affascinò il cattolicesimo progressista e che confermò quella diversità dei comunisti italiani che si fondava non certo sulla purezza ideologica, ma sull’appartenenza a una comunità e a un’idea  della politica basata su una visione morale ( e non moralista), intesa  come servizio, studio, avanzamento e lotta democratica. Si dirà che il mondo è cambiato, è più veloce, ha altre esigenze, e che sono stati commessi tanti errori lungo il cammino. Nulla può essere più vero. Gli stessi che sostengono questo, tante volte, argomentano di come il nostro paese sia cambiato in peggio, per la crisi e per lo spazio esiguo che hanno le giovani generazioni, per l’assenza di futuro. Forse è cambiato in peggio anche perché, invece di contrastare alcune derive,  le abbiamo assecondate; perché si è stati troppo indulgenti nello sposare parole d’ordine, modi di essere, ideologie che non appartengono a una parte che si propone di essere la parte dei più deboli; perché così tanto impegnati a ricercare il futuro si è pensato, più volte in questi anni, di trovarlo gettando via le lezioni del passato.

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Ecco perché, senza nostalgie ma con il senso dell’attualità, riemerge potente l’insegnamento di Berlinguer. Perché non basta un tweet per “riempire la propria vita”, ma occorre riscoprire il pensiero lungo, quello che invita a guardare al mondo con realismo e creatività, innovazione e obiettivi proiettati nel futuro. Quel “pensiero lungo”, che non è ideologia arrugginita né fuga dalla realtà, manca molto alla politica di oggi. E Berlinguer questo “pensiero lungo” lo cercava nelle suggestioni che arrivavano dall’ambientalismo, dal pacifismo, dai movimenti delle donne. Con il sorriso di chi diceva “.. Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”. Parole dette con un sorriso, dolce e determinato. Parole di Enrico Berlinguer.

Marco Travaglini

Pic-nic ferragostano senza problemi di infezioni alimentari

Feste di mezza estate appena fuori Torino per la classica scampagnata, grigliate in campeggio, pranzi al mare: in estate aumentano i casi di tossinfezione alimentare. Le alte temperature stagionali facilitano la moltiplicazione di batteri e la produzione delle loro tossine. 

 

Durante i mesi estivi il numero di tossinfezioni alimentari aumenta in maniera considerevole. Secondo l’americano Center for Disease Control, nella tarda estate i casi aumentano dalle 2 a 4 volte rispetto all’inverno e anche i report europei confermano il trend: in Piemonte, in media, a luglio e agosto i casi sono più numerosi del 15% rispetto all’inverno.

 

Questo accade per due motivi. In primo luogo, le temperature ambientali sono più alte e, associandosi spesso ad un’elevata umidità, favoriscono la moltiplicazione batterica e la produzione di tossine. Il secondo motivo è di tipo sociale, legato all’aumento delle attività all’aperto, dei barbecue e dei pic-nic, situazioni in cui le condizioni igieniche della propria cucina o del ristorante non sono certo garantite.

 

Da oggi quindi, davanti al barbecue o sul plaid da pic-nic sarà utile attenersi a queste poche ma fondamentali  regole: pulire le mani e la zona di preparazione del pasto, separare i cibi crudi dai cotti, mantenere la catena del freddo, cuocere bene gli alimenti a rischio e riporre gli avanzi in maniera corretta.

 

PULISCI le tue mani e la zona dove preparerai o mangerai il tuo pasto

SEPARA gli alimenti che cuocerai sul posto, da quelli pronti al consumo

RAFFREDDA tutti gli alimenti con siberini e borse termiche fin da casa

CUOCI bene la carne, soprattutto quella più spessa e quella di pollo

RICHIUDI con cura gli avanzi per non contaminarli

 

 

 

David LaChapelle. Atti Divini

Colorate, visionarie, sacrali e dissacratorie: in mostra alla Venaria Reale le opere del “Fellini della fotografia”, scoperto e lanciato da Andy Warhol Ce n’è di che uscirne frastornati. Meravigliosamente frastornati. E meravigliosamente stupiti. Sono infatti un magnifico attentato all’immediata capacità interpretativa del comune osservatore, le grandi e grandissime (per qualità e dimensioni) opere fotografiche firmate da David LaChapelle ed esposte, fino al 6 gennaio del prossimo anno, nelle sale della “Citroniera della Scuderie Juvarriane” alla Reggia di Venaria. Classe ’63, americano del Connecticut, fotografo ma anche regista, lanciato negli Anni Ottanta da Andy Warholl (che gli offrì il suo primo lavoro per la rivista”Interview Magazine”) LaChapelle presenta in mostra 70 fra i suoi lavori più iconici, in un percorso visivo assolutamente singolare e rivoluzionario, rivelatore dell’incontro-scontro fra un’improbabile, smaccatamente appariscente umanità e il rigoglioso fiorire di una natura che si presta nella sua altrettanto immaginifica opulescenza all’invenzione di storie e universi da fantastico “paradiso colorato”. Un mondo visionario e bizzarro, il suo, barocco e surreale, ironico ma anche un po’ terrifico, sacrale (“Atti Divini”, recita il titolo) e in cert’ottica blasfemo, legato alle grandi citazioni rinascimentali ma anche al fascino del glamour e del fashion e a quello stile “post – pop” che ne hanno fatto uno dei fotografi più celebri dello star system americano e non solo, prediletto da personaggi del mondo dello spettacolo che vanno da Madonna a Lady Gaga, da Michael Jackson a Leonardo Di Caprio fino a politici come Hillary Clinton e ad atleti come Lance Armstrong e David Beckham. Ecco allora, in “Rape of Africa” (2009), una splendida e sensuale Naomi Campbell posare sdraiata come una creatura del Botticelli e come parte di un affollato improbabile campionario di varia umanità (con tanto di flora e fauna) che per sfondo ci ripropone le miniere d’oro dell’Africa; e ancora, citando in una sorta di magico artificio creativo, la “Venere” del grande Maestro rinascimentale, quel fantasioso “Rebirth of Venus” (sempre del 2009) con conchiglie – meno imponenti e con altri usi di quella che traghetta a terra la Venere botticelliana – nastri svolazzanti e molto terreni nudi maschili al posto di Zefiro in coppia con Aura e della casta sacerdotessa Hora, ancella della dea che qui appare avvolta nel verde smeraldo di foreste tropicali, alle spalle l’intenso blu di un mare che non è quello greco, ma quello dell’isola hawaiana di Maui, dove l’artista vive ormai da anni. Commistioni non casuali. Artifici geniali. Con cui solo un “grande” può permettersi di giocare, di sfidare e sfidarsi. Dice Denis Curti, insieme a Reiner Opoku, curatore della mostra: “LaChapelle si fa continue domande sulla bellezza, su verità e finzione. Le sue opere sono ricostruzioni straordinarie, che non hanno subìto nemmeno un secondo di photoshop. Sembrano paradisi, mondi idilliaci, ma poi nascondono ingiustizie e orrori ambientali. E’ una sorta di Fellini della fotografia”.Sulla stessa linea, “Showtime at the Apocalypse” (2013), ritratto della famiglia Kardashian – da anni la più criticata e chiacchierata d’America – presa a simbolo delle nostre più intime paure e ossessioni, accanto alle vivaci ed elettrizzanti “Land SCAPE” e “Gas”, progetti di nature morte (entrambe del 2013) in cui l’artista riunisce “oggetti trovati” per creare raffinerie di petrolio e le loro stazioni di servizio interconnesse, presentandole come “reliquie in una terra bonificata dalla natura”. Al centro dell’iter espositivo, troviamo “Deluge” (2007), folgorazione da Michelangelo lungo i sentieri della Cappella Sistina.Altra colta citazione.E ancora, opere inedite della nuova serie “New World”(2017 – 2019): in esse c’é tutto lo stupore di LaChapelle per il “sublime” e la tensione alla “spiritualità” in scenari di lirica utopia tropicale. Di Giovanni Tironi il progetto espositivo, la mostra è organizzata da Civita Mostre e Musei con il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude e il prezioso supporto di Lavazza, che proprio in occasione di “Atti Divini” ha inteso rinnovare la propria collaborazione con LaChapelle, affidandogli la realizzazione (sotto la direzione creativa dell’agenzia Armando Testa ) del progetto “Calendario 2020”, di cui in mostra troviamo esposta in anteprima la foto “Realize”. L’intero progetto – dicono da Lavazza – sarà “svelato in autunno e avrà come focus l’impegno verso la sostenibilità in difesa della Terra”.

Gianni Milani

 

“David LaChapelle. Atti Divini”

Reggia di Venaria – Citroniera delle 

Scuderie Juvarriane”, piazza della 

Repubblica 4, Venaria Reale (TO); 

tel. 011/4992333 o www.lavenaria.it

Fino al 6 gennaio 2020

Orari: dal mart. al ven. 10/18, sab. dom. e festivi 10/19,30, lun. chiuso

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Nelle foto

– “”Land Scape Kings Dominion”, 2013, Caption David LaChapelle

I segreti del Testamento di Marco Polo

In mostra al MAO-Museo d’Arte Orientale di Torino

 

Lontana l’immagine epica e leggendaria dell’impavido viaggiatore ed esploratore (nonché mercante ed ambasciatore alla corte del Gran Khan) più famoso della storia. Al suo posto, si legge quella intima e inedita dell’uomo reso fragile dalla malattia, che sente accanto il soffio della morte e rivive nella memoria – in un nostalgico ma sereno flashback di quasi settant’anni di vita – affetti, amori, avventure, generosità non sempre forse assecondate nel tempo terreno e trepide comprensibili paure. E’ questa l’immagine “segreta” che emerge da “Ego Marcus Paulo volo et ordino”, la replica scientificamente conforme del Testamento di Marco Polo, presentata il 14 giugno scorso in Palazzo Madama ed esposta, fino al 15 settembre, al MAO- Museo d’Arte Orientale di via San Domenico a Torino. Scritto su una pergamena di pecora nel 1324 e pubblicato, dopo un lungo e minuzioso lavoro, da Scrinium (organizzazione veneziana, nata nel 2000, che ha fatto della conservazione del patrimonio culturale mondiale la sua autentica mission), il Testamento racchiude l’anima – per certi versi – inaspettata di Marco Polo, nato a Venezia il 15 settembre 1254 e a Venezia scomparso l’8 gennaio 1324. Un uomo ricco, generoso e profondamente attento agli affetti famigliari (al punto di ignorare volutamente le “regole” allora in vigore rispetto ai passaggi ereditari), un uomo che anche in punto di morte volle stupire con le proprie disposizioni testamentarie: questo ci racconta il documento in cui appare, in primis, la volontà di elargire cospicue elemosine e donazioni alle chiese e alle congregazioni religiose cittadine, quasi a volersi meglio assicurare la salvezza dell’anima nell’aldilà. Per sua esplicita volontà, si dovrà inoltre provvedere a restituire la libertà al suo fedele schiavo di origine tartara, Pietro, e a rimettere alcuni importanti debiti. Ma non solo. Stando sempre alle disposizioni testamentarie, Marco destina la parte più consistente della sua eredità alla moglie Donata Badoér e alle tre figlie Fantina, Bellela e Moreta in un momento storico in cui gli eredi venivano scelti esclusivamente fra i membri maschili della propria discendenza. E davvero strabiliante è l’elenco delle proprietà e degli oggetti favolosi lasciati alle donne di casa, preziosa conferma fra l’altro delle sue straordinarie imprese in Cina e del viaggio (compiuto attraverso la “Via della Seta” e tutto il continente asiatico) narrato nel “Milione”: dai bottoni di ambra alle stoffe traforate in oro, ai drappi di seta e alle redini di foggia singolare, fino al pelo   di yak e ad una “zoia” in oro con pietre e perle del valore di “14 lire di danari grossi”. Questo, almeno in parte, quanto si evince dal documento la cui ricerca è iniziata alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, dove si conserva fin dalla prima metà dell’Ottocento la pergamena su cui Marco Polo, dal letto di morte, dettò le sue volontà al prete-notaio Giovanni Giustinian e che venne ritrovata all’interno del Codice Marciano che raccoglie anche i testamenti del padre Niccolò e dello zio Matteo, compagni di Marco nel lungo viaggio alla corte di Kublai Khan (il più illustre discendente di Gengis Khan) del 1271. Documento che il mondo accademico si è conteso per anni, ma il cui studio avrebbe comportato seri rischi di danni per l’usura dell’originale. Di qui l’idea, maturata nel 2016, da parte del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, insieme alla Biblioteca Nazionale Marciana e a Scrinium di avviare un progetto congiunto per realizzare un clone (in tutto sono oggi 185, per un valore di 5mila Euro l’uno, già tutti venduti nel mondo) perfettamente corrispondente all’originale stesso. “La prima fase è stata quelle delle indagini bio-chimico-fisiche sulla pergamena”, spiega Ferdinando Santoro, presidente di Scrinium che continua: “Contestualmente, il professor Attilio Bartoli Langeli, paleografo di fama internazionale, ha realizzato la prima edizione diplomatica corretta e completa del testo. Il Testamento è stato quindi consegnato per il restauro all’Icrcpal, Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma. Quindi è intervenuta Scrinium per le fasi di rilievo e le successive riprese ad altissima definizione sui documenti”. Un iter durato tre anni, contrassegnato da ricerche altamente impegnative che portano infine alla realizzazione per la Biblioteca Nazionale Marciana della prima replica conforme del Testamento (quella esposta oggi al MAO), di impressionante perfezione e certificato con firma autografa del direttore della Biblioteca, insieme alle preziose edizioni diplomatica e interpretativa, curate dal professor Attilio Bartoli Langeli, e ad un volume di approfondimento storico-scientifico a cura di Tiziana Plebani, con contributi di illustri storici e specialisti della materia.

Gianni Milani

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“I segreti del Testamento di Marco Polo”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11; tel. 011/4436927 o www.maotorino.it

Fino al 15 settembre

Orari: dal mart. al ven. 10/18, sab. e dom. 11/19; chiuso il lunedì

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Nelle foto
– Testamento di Marco Polo
– Ferdinando Santoro, presidente Scrinium
– Testamento di Marco Polo, edizione diplomatica e certificato di conformità

 

 

Elvio e Aida, “Fred e Ginger” di periferia

Elvio e Aida condividevano una tal passione per il ballo tanto da esser protagonisti in tutte le feste che prevedevano musiche e danze. Lui, impeccabile nel suo abito scuro, con la camicia candida dal colletto inamidato e l’immancabile cravattino nero, era pronto a condurre la sua partner nel vortice del ballo. Lei, orgogliosa del nome impostole dal padre Augusto, melomane che adorava Verdi, portava con leggiadria e innata eleganza anche gli abiti più semplici e nello sguardo gli brillava una luce intensa, colma di passione. Non v’era danza o ritmo che li trovasse impreparati al punto da dover rinunciare a quel travolgente amore che li portava a misurarsi ogni volta con i più audaci passi del loro vastissimo repertorio. Dal liscio romagnolo da balera ai valzer viennesi, dalle veloci polke al sensuale tango argentino, dai ritmi sudamericani di samba e cha cha cha all’americanissimo foxtrot: nulla era precluso alla formidabile coppia. E pur scarseggiando l’abilità in pista non mancava loro il coraggio e la voglia d’essere protagonisti. Non importava quale festa frequentassero, da quelle de L’Unità, dell’Avanti o dell’Amicizia alle sagre paesane del coregone o della cipolla ripiena, dagli appuntamenti delle Pro loco a quelli degli Alpini o ai festeggiamenti in piazza del Santo patrono. Ogni qualvolta vi fosse un orchestra, della musica e una pista da ballo, l’immancabile duo non esitava ad esibirsi in volteggi, passi veloci che s’incrociavano e sguardi assassini che tradivano un sentimento che raramente lasciava indifferenti coloro che li guardavano ballare. Ogni volta Elvio e Aida pensavano che il pubblico li stesse ammirando con qualche punta d’invidia. E pensavano che gli incitamenti e quell’averli paragonati a Ginger e Fred da quelli che li salutavano da bordo pista, fosse un giusto seppure un tantino esagerato riconoscimento alla loro bravura. Non osavano pensare che la somiglianza con la Rogers e  con Astaire riguardasse l’aspetto fisico. Ginger era bionda, bella e snella mentre Aida era bruna, piuttosto robusta e dotata di un naso importante. Elvio pareva un parente stretto dei pali del telegrafo da tanto era magro e allampanato. Per di più era quasi completamente calvo e solo un piccolo e solitario ciuffo di peluria rossiccia spuntava sulla parte posteriore della nuca. Dire che fossero belli era ben più che un azzardo ma erano più che certi che agli occhi del pubblico,  vedendoli ballare, ogni difetto spariva, cancellato dal fascino e dal portamento naturale dei due ballerini che si credevano baciati da Tersicore, la musa della danza nella mitologia greca. Per tanto tempo si esibirono  così, disinvolti e spensierati, incuranti del passar degli anni e degli acciacchi. Non c’era sciatica o artrite che potesse tenerli lontani da ritmi lenti o sincopati. Elvio trascinava nel ballo le sue lunghe gambe, calzando lucide e nere scarpe dalla suola antiscivolo. Aida, abbandonate definitivamente le décolleté con il tacco a causa dei calli e della difficile stabilità, aveva optato per delle Superga bianche, impreziosite da luccicanti brillantini. Che cos’è la bellezza se non una delicata espressione del meglio che possa inquadrare uno sguardo, della leggera ebbrezza che regala un gesto di così rara raffinatezza come può esserlo un volteggio, un caschè, un passo doppio perfettamente eseguito? La loro impressione era che il pubblico li ammirasse, sostenendo con affetto le loro evoluzioni. A parere di Elvio non occorreva essere esperti per intuire un segno d’eleganza in quelle loro movenze dove al notevole gesto atletico si accompagnava l’armonia lieve del talento. In fondo bastava crederci e loro, nel più profondo del cuore, ci credevano eccome. Cosa importava se quella che per i due funamboli del ritmo equivaleva ad una straordinaria prova di classe, al pubblico che frequentava feste e balere pareva più un insieme di impacciati tentativi di giri di danza, poco disinvolti e alquanto malfermi e vacillanti ? Nessuno osò mai avanzare una critica, una seppur minima osservazione, un timido e velato consiglio. Per tutti bastava quel binomio – Elvio e Aida – per perdonare tutto. Il senso della gioia del ballo della coppia faceva sognare anche chi non aveva dimestichezza con danze e melodie. Ma il tempo, com’è noto, è tiranno e così i nostri Ginger e Fred sono diventati troppo anziani per cimentarsi sulle piste delle balere. Ma non rinunciano a frequentare i luoghi che conobbero i loro successi e anche la sola presenza è ricompensata da un caldo applauso. Non è più quello caldo e generoso che sottolineava le loro prestazioni e che la coppia salutava con un inchino e un sorriso, ringraziando gli astanti. E’ diverso, quasi un omaggio alla carriera. L’intensità è sempre quella di un tempo, soprattutto da parte di coloro che hanno i volti incorniciati da argentee o bianche ciocche di capelli. Nei loro sguardi si legge una punta di nostalgia che, ben motivata, non guasta. Elvio e Aida, sorreggendosi uno con l’altra, ringraziano con un cenno delle mani e l’abbozzo di un inchino. Il tempo nella clessidra scorre senza guardare in faccia nessuno ma per i due danzatori ha deciso di fare uno sconto, salvando le loro gesta dall’oblio. E da critiche e rimproveri che comunque non si sarebbero meritati nemmeno ai tempi dei loro “anni ruggenti”.

 

Marco Travaglini

In aumento le bombe d’acqua

La ricerca ha messo in rilievo nuove evidenze sul rischio climatico  

Pubblicato su Geophysical Research Letters, è lo studio dei tre esperti di idrologiaPierluigi Claps, Daniele Ganora e Andrea Libertino del Politecnico di Torino

Le città italiane sono in ritardo nel predisporre piani di adattamento ai cambiamenti climatici e soprattutto alle cosiddette bombe d’acqua che, fra l’altro, stanno crescendo di numero e intensità. È l’allarme lanciato da uno studio del Politecnico di Torino apparso su Geophysical Research Letters e scritto da tre esperti di idrologia: Pierluigi ClapsDaniele Ganora e Andrea Libertino del Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente, il Territorio e le Infrastrutture del Politecnico di Torino.

 

La ricerca ha messo in rilievo nuove evidenze sul rischio climatico che derivano da una banca dati che unisce eventi storici e rilevamenti dalle reti di monitoraggio regionali.

L’indagine esamina in particolare i nubifragi estremi italiani, ormai comunemente denominati bombe d’acqua e conclude che in alcune aree la loro intensità sta effettivamente aumentando.

 

Le piogge torrenziali di breve durata, tipicamente di qualche ora, mettono a dura prova i sistemi di drenaggio delle città e sono sempre più spesso causa di vittime, determinate dalla mancanza di preavviso, di conoscenze e di prudenza, soprattutto alla guida. A partire dal 2000, anno della grande alluvione del Po, la stragrande maggioranza delle 208 vittime censite dal CNR-IRPI nel progetto POLARIS sono state causate da alluvioni improvvise generate da forti nubifragi di breve durata. Molto spesso questi disastri sono avvenuti in aree urbane, che mostrano sempre di più la loro vulnerabilità rispetto a questi eventi, tanto intensi quanto improvvisi e concentrati geograficamente.

 

Queste caratteristiche rendono ancora oggi molto arduo il compito della Protezione Civile di assicurare alla popolazione un sufficiente preavviso – spiega in particolare il Pierluigi Claps, docente di Idrologia e Protezione Civile – Questo rende a volte molto gravosa la responsabilità dei sindaci di indicare in tempi brevi le misure di emergenza da adottare, come insegnano i casi di Genova, 2011 e Livorno 2017La preparazione della popolazione rispetto alle piene improvvise, le cosiddette ‘flash floods’, si può costruire preparando scenari di rischio nei quali si simulano eventi di pioggia di forte intensità per prevedere le conseguenze quando le opere di protezione non dovessero risultare sufficienti, come nel caso di Via Fereggiano a Genova

La ricerca del Politecnico di Torino fornisce elementi proprio in questa direzione: i risultati sono basati sull’elaborazione di piogge torrenziali registrate in intervalli da 1 ora a 24 ore, tratte da una banca dati che non ha precedenti in Italia, costituita da circa 5000 stazioni che hanno funzionato nell’arco di un secolo, a partire dal 1915.  Un campione rappresentativo di 1346 stazioni ha reso possibile rilevare, su base statistica che in alcune aree d’Italia la frequenza e l’intensità delle bombe d’acqua mostra tendenze all’aumento nel tempo, a causa della maggiore capacità dell’atmosfera di immagazzinare vapor d’acqua, grazie al riscaldamento globale. “L’Italia risulta un paese di per sé vulnerabile ad alluvioni e frane, ma la ricerca evidenzia che, indipendentemente dalla fragilità del territorio, è proprio il clima a mostrare una intensificazione dei suoi fenomeni estremi nel Nord-Est, in Liguria ed in altre aree del centro e del sud del paese” spiegano gli esperti.

 

La complessità orografica e geografica dell’Italia non consente di concludere che vi sia in atto un aumento complessivo dell’intensità dei nubifragi nel nostro paese – aggiunge Andrea Libertino che ha affrontato l’argomento nella sua tesi di dottorato – Le analisi mettono piuttosto in luce specifiche condizioni locali, con aree dove l’aumento è statisticamente rilevante (triangoli rossi) ed altre dove è invece evidente il contrarioQuanto all’aumento della frequenza con cui si manifestano gli eventi, dare una risposta è difficile ed i risultati non consentono ancora conclusioni significative”.

 

Esaminando infatti l’andamento nel tempo dei ‘record’ nazionali di pioggia totale in poche ore, i ricercatori hanno rilevato che il ritmo con cui questi record vengono superati è cresciuto solo nell’ultimo decennio, e solo in alcune aree geografiche, senza però raggiungere l’evidenza statistica. “È stato possibile ottenere questi risultati – sottolinea Daniele Ganora, docente di Protezione Idraulica del Territorio al Politecnico – solo disponendo dei cento anni di osservazioni della banca dati I-RED, pubblicata dagli stessi autori sulla rivista Hydrology and Earth Systems Sciences, una delle poche raccolte al mondo in cui i nubifragi sono registrati alla scala nazionale per periodi così lunghi. Un archivio così cospicuo ha reso possibile adottare metodi statistici, denominati “record-breaking” mai prima d’ora utilizzati per misurare se la frequenza delle piogge estreme stia aumentando”.

 

Finanziare la ricerca significa anche fornire ai cittadini elementi concreti su cui basare i propri comportamenti e le richieste da indirizzare ai propri amministratori – conclude Claps – In questo caso i risultati sono arrivati anche grazie a fondi che il Politecnico di Torino ha reso disponibili in autonomia ai propri docenti e ricercatori per compensare la scarsità di occasioni di finanziamento in ambito nazionale. Una proposta di ricerca su questo argomento, presentata in collaborazione con scienziati di fama interazionale di altre università italiane e del CNR, è stata recentemente bocciata dal Ministero per l’Università e la Ricerca nell’ultimo bando PRIN”.

 

Quando i metalmeccanici erano più dei pensionati

Chiara Appendino ha annunciato la conclusione urbanistica di una porzione di città. Zona industriale che noi bocia chiamavamo Ferriere, zona industriale intasata di stabilimenti.  Acciaio e gomma. Con la Michelin che faceva concorrenza alla Ceat, tutto concentrato nella zona Nord, la mitica zona Nord. Il PCI aveva decine di sezioni o di case del popolo
 Tutto ordinato: centro Crocetta e precollina che votavano Dc e le periferie che votavano i comunisti o i socialisti. Muri neri come la pece.  In mezzo agli stabilimenti piccole case con il ballatoio che seguivano con estremo ordine le gerarchie sociali. Dai piani bassi con operai ed artigiani torinesi, alle soffitte piene dell’ ultima immigrazione dal Sud.  In mezzo molti veneti se non istriani.  Gli istriani erano un mondo a sé. Enclave anticomunista nella barriera rossa per antonomasia. E ne avevano ben donde, perché cacciati dalle loro case . Calabresi e siciliani si stavano organizzando, diretti verso Porta Palazzo e i suoi commerci.Con i Pugliesi ottimi commercianti del mercato. Mercati che cominciavano ad essere predisposti verso le 3 e 30 o 5 del mattino. Il primo turno alla Feroce (Fiat) iniziava alle 6. Prima corsa verso Mirafiori alle 4,45. Un altro mondo, un altro pianeta, un altro modo di vivere. Scarsa la vita notturna.  Con Fred Buscaglione che emigrato a Roma trovava la morte troppo presto ad aspettarlo. C’ erano gli echi di scrittori della resistenza, con Beppe Fenoglio, probabilmente il migliore e fieramente monarchico ed anticomunista.  La dolorosa assenza di Cesare Pavese che non aveva saputo tradurre in azione la libertà vissuta dalla letteratura americana. Ed Italo Calvino, ottima sintesi tra pensiero politico ed azione politica. Dalle Ferriere alla casa editrice Einaudi, alla rude razza pagana di Norberto Bobbio, icona mondiale del laicismo. Sempre tutto ordinato: l’intellettuale faceva il pensatore, l’operaio produceva ed il padrone comandava.  Per antonomasia il padrone cattivo si chiamava il padrone delle Ferriere. Lavoro durissimo nelle fonderie. Grandi forni con grandi colate. Gli alti forni non si spegnevano mai, notte e giorno compresi sabato e domenica. Solo d’ agosto la fermata dovuta per manutenzione e pulizia.
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Tanta fuliggine e tanta silicosi.  Operai con i polmoni rovinati. Non erano soli. Le mogli che lavano le tute e i figli che giocano sempre in strada o negli oratori. Di lavoro si moriva anche in questo modo. Sempre in modo ordinato, con tragica fatalità.  Il primo magistrato torinese che indago’ sulle morti alla Fiat fu Sorbello nel 1968. Prima di allora nessuno moriva in officina.  Grazie a medici compiacenti il decesso avveniva in ospedale. Vittorio Valletta docet. Chi protestava veniva licenziato.  Per non lasciare nulla d’ intentato c’era la schedatura degli operai da parte della Fiat. Se era illegale poco importa: la sicurezza era garantita. Tra servizi segreti deviati e servizi d’ informazione privati Torino ha dato il suo contributo a Gladio e P2. Come lo scandalo dei petroli, con dentro imprenditori nostrani o genovesi, quando  i magistrati andavano da Pertini che gli parlava nelle cantine della Camera per paura delle intercettazioni. Divago? Forse, ma Torino era centrale nel bene e nel male. E da tutta Italia arrivavano i “cafoni” del Sud che morendo letteralmente di fame erano disposti a qualsiasi tipo di lavoro. Manovalanza a basso costo con la prima occupazione regolarmente e rigorosamente in nero ed un posto alla Feroce era  un punto inarrivabile per i più. E metà degli intellettuali novelli rivoluzionari che volevano  conoscere la rude razza pagana.  Nanni Balestrini con il suo libro Bibbia. Vogliamo tutto.  O Adriano Sofri che prendeva in parola Palmiro Togliatti che (polemicamente) gli diceva: provaci tu nel fare la rivoluzione. O Toni Negri che oltre a indottrinare chiedeva soldi per le armi.  I disastri sono sotto gli occhi di tutti.  E noi bocia che per giocare sognavamo i muri sporchi di nero per carbone e fuliggine. E le fabbriche erano parte della nostra vita e della nostra formazione. Tutti a Torino avevamo un parente stretto che lavorava o aveva lavorato alla Feroce. O perlomeno da artigiani e piccoli industriali o commercianti che  lavoravano per la Fiat. Lo scontro c’ era eccome.  Persino sul calcio.  Il Torino dove i tifosi erano fieramente anti Agnelli. Poi l’operaio-massa capovolge i rapporti tifando Juve. E nel 1980 cambiò tutto. Ironia della sorte, da lì a poco il piano regolatore di Cagnardi e soci si inventò le Spine, dove prima c’ erano fabbriche case servizi ed assi di penetrazione. Per una città che cambiava  più turismo più servizi e meno industria. Era una città che cercava se stessa sapendo di non poter più essere quello che era stata. Tutto cambiava ed il sindacato passava dai metalmeccanici, categoria più numerosa  come iscritti e come importanza politica, ai pensionati sempre più numerosi.Torino non sapeva che cosa sarebbe stata. Ed oggi continua nel cercarsi,  pur non trovandosi. Tutto è tempo. Viene il tempo di pensare al proprio passato. Con un presente incerto.  Ed il futuro manco immaginabile.
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Patrizio Tosetto