redazione il torinese

Le "nemiche" delle Donne

Lo scorso 22 febbraio si è svolta la conferenza stampa organizzata dalle #ragazze del gruppo PMA in Piemonte. Tema, quello della procreazione medicalmente assistita, sensibile ed emotivamente coinvolgente e che tocca decine di migliaia di donne nella nostra regione. Conferenza intensa e con momenti drammatici quando oltre alle, legittime, richieste di adeguamento della legge regionale a quella nazionale dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) una delle #ragazze ha confessato di avere tentato tre volte il suicidio. Il non riuscire, seppure a poco più di venti anni, a diventare mamma, il sentirsi “difettosa” e fallita come donna l’avevano portata a quei gesti estremi. L’aiuto della madre e di uno psichiatra le hanno consentito di superare le difficoltà ed al nono tentativo a coronare il suo sogno. Per informazione, l’attuale legge regionale è ferma a 43 anni e tre cicli (tentativi) mentre quella nazionale arriva a 46 anni e sei cicli. Molte regioni italiane si sono già adeguate, da tempo, alla normativa nazionale. A fine conferenza stampa, dopo quasi un’ora e mezza, arrivò una trafelata consigliera regionale del PD, Nadia Conticelli, a dire che l’assessore alla Sanità della Regione Piemonte Antonio Saitta si impegnava ad adeguare la normativa regionale a quella nazionale. Cosa confermata, dopo pochi minuti, da un comunicato stampa ufficiale dello stesso assessore e da un post sui social, il giorno dopo, del Presidente della Regione Sergio Chiamparino. Conferenza stampa, intensità e drammaticità a parte, riuscita.
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Praticamente tutte le testate quotidiane presenti, agenzia di stampa, Rai con il Tg3 Piemonte e Retesette. Ampi servizi sui TG e sui quotidiani, compreso la testata che mi ospita ( http://www.iltorinese.it/pma-placido-quando-la-legge-non-basta-a-riconoscere-i-diritti/) , presenza di due consigliere regionali, oltre alla “trafelata” la Consigliera di Liberi e Uguali Silvana Accossato che aveva fatto, sollecitata, un’interpellanza urgente, impegno preso, dai vertici regionali, ad adeguare la legge regionale sulla PMA. Quindi tutto bene? Non proprio. Per capire la risposta occorre tornare un passo indietro e cioè alla preparazione della conferenza stampa. Oltre ad invitare tutte le testate giornalistiche, tutte le consigliere regionali, alcune hanno risposto ed altre no, il Presidente della Regione, ha risposto un suo collaboratore, l’assessore alla Sanità, non ha risposto, le #ragazze di PMA in Piemonte hanno invitato tutte, ma proprio tutte, le associazioni femminili o delle donne che dir si voglia. Da quelle datoriali, come AIDDA o FIDAPA, dalla storica Casa delle Donne al Centro antiviolenza, Centro studi, dalla mitica Federcasalinghe al Telefono Rosa, alla sconosciuta, per me, Soroptimist al più borghese Zonta, alle varie associazioni di donne medico alle Donne del Terzo millennio per finire, passando dalle Uscire dal Silenzio, alle per me sconosciute, e sono due, Tampep onlus.
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Forse ne ho dimenticato qualcuna di queste sigle, non quella ufficiale, visto le responsabilità sul tema, della Commissione regionale delle pari opportunità. Sigle, storie, azioni ed orientamenti diversi ma tutte, ma proprio tutte, accomunate dallo stesso comportamento, nessuna di loro ha accettato l’invito e partecipato alla conferenza stampa ne ha ritenuto di rispondere con una mail all’invito. Così prese da fare convegni spesso con risorse pubbliche e deserti o ad i quali partecipano loro stesse. Compresse da una autoreferenzialità fine a loro stesse, critiche, molte di loro, verso i partiti e la politica dai quali hanno preso i comportamenti più deteriori. Se non fai parte dei loro “cerchiettini” asfittici non esisti. E cosa fanno quando delle donne “vere” che hanno, poche, un figlio e che ne desiderano un secondo o il realizzarsi, per molte, del sogno della loro vita, la maternità, le invitano, chiedono ascolto, solidarietà anche di genere, come si usa dire, comprensione, aiuto? Non partecipano e nemmeno rispondono. Ho pena per loro, e mi vergogno io, sperando che un po’ di vergogna la provino, per loro. Le prime e vere nemiche delle donne sono, quelle e per fortuna non tutte, che dicono di impegnarsi per aiutarle.
 

La tarantella della politica

Ora c’è pure il fuoco amico di Calenda che preferendo Crosetto a Sergio Chiamparino butta il suo sasso , anzi i suoi sassi nello stagno del centro sinistra
Crosetto molto arrabbiato con la politica che non vuole saperne di una candidatura e che sostiene di essere di nuovo un uomo libero quando verranno accettate le sue dimissioni da deputato. Ed allora perché Calenda candida un politico che non vuole più essere candidato? Mistero. Direi mistero fittissimo. Basiti molti esponenti del Pd piemontese che arrivano a concludere che la boutade significa una delegittimazione del Chiampa. Ora? Che senso ha? Va bene che Calenda entra esce ritorna e si stufa del Pd. Eppure il Chiampa non è poi così filo PD. Anzi direi proprio che ha costretto obtorto collo ad affrontare questa avventura delle liste civiche. In fondo il Chiampa è riuscito nel rendere il PD indispensabile ma non sufficiente per le sorti del centro sinistra.  E la nostra Repubblica, almeno per ora , non è  più  bipolare ma tripolare. Con i pentastellati che si stanno sciogliendo come neve al sole. Parola d’ ordine di centro sinistra e centro destra: essere briosi. Ma mentre il centro destra se Salvini non molla continua ad avere il vento in poppa mi risulta difficile capire fino in fondo il PD. Credevo che il 3 marzo di sera si sapesse chi era il segretario. Precisamente se un candidato non supera il 50 % è tutto rinviato alla Assemblea Nazionale. Detto in altro modo, se Zingaretti supera la soglia non avrà condizionamenti. Viceversa dovranno fare accordi che presuppongono accordi.  Non capisco la ratio  di queste scelte congressuali organizzative. Si vedrà quanti voteranno, altro indicatore politico. Ma nel complicarmi il tutto ci sono anche quelli di Liberi e Uguali. Cerco  di capire ma non ci riesco proprio. Questo insieme viene dato al 6 o 7%  frazionato tra le liste che ci saranno. Quante? Qui ci vorrebbe un indovino. Nel mentre dal 15 febbraio Foietta non è più commissario  degli appalti  per la Tav ed in ultimo un supplemento d indagine della commissione costi e benefici.  
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Insomma, la tarantella continua. Con la solita ed a questo punto angosciata domanda: che cosa penseranno all’ estero di questo incomprensibile a fatuo atteggiamento del nostro governo? E che cosa penseranno di noi Italiani? Persino il sobrio Tria ha sostenuto che andare avanti nei lavori è anche una questione di credibilità.  Ciò che non interessa a Toninelli che rivendica di essere lui e non Conte ad aver chiesto questo approfondimento.  Evidentemente non hanno paura del ridicolo. Mentre quel che mi stupisce è l’affabilità di Matteo Salvini.  Imperturbabile continua: tanto io vinco e gli altri no. Riproponendo che quasi quasi in Piemonte il candidato del centro destra lo propone o impone lui.  Ricapitoliamo. Il Fregoli  che è responsabile almeno per il 50 % di questa tarantella sostiene che con la sua vittoria in Piemonte si risolverà la questione Tav. Lui che la complica, lui che la risolve. Intravedo un certo piano diabolico . Che, come succede a quasi tutti i piani diabolici, riuscirà grazie a diversi fattori,  perché in politica come nella vita non esiste il vuoto. O se momentaneamente esiste viene immediatamente riempito. Ed in questo caso da Matteo Salvini. Così non si capisce un Pd tanto tentennante.  Il fuoco amico di Calenda che già prima aveva provocatoriamente proposta la  Fornero sicuramente tra i più bravi ministri tecnici della Repubblica ma sicuramente tra i Ministri più invisi. Mi si può obbiettare che competenza e simpatia possono anche non coesistere.  Ma l’incresciosa realtà degli esodati è lei che l’ ha prodotta. Testimonianza che anche la competenza ha i suoi limiti. Chi viceversa non stupisce sono i pentastellati.  O quel che ne  rimane. L’ Appendino non ha più la maggioranza in consiglio comunale. Molti, come lo stesso Grillo, minacciano scissioni e cataclismi se Giggino cede a Matteo Salvini.  E la confusione genera insicurezza. Matteo è pronto ad essere la sola certezza.
Patrizio Tosetto

Un paese, due chiese e una campana di troppo

L’appuntamento era al quadrivio, verso l’ora di pranzo. Don Luigi, riposti nell’armadio i paramenti della Messa, inforcò la sua vecchia “Atala” nera e pedalò con vigore verso il luogo del “rendezvous”

In tasca portava, bene in vista, una copia de’ L’Avvenire, come pattuito, un segno di riconoscimento che, difficilmente, passava inosservato, essendo ben pochi i lettori di quel giornale a Borgo Vallescura. Don Luigi – detto anche Luison, data la sua non proprio esile corporatura dovuta ai piaceri della tavola – non si sentiva davvero a posto se non dedicava almeno un’ora al giorno alla lettura del suo amato “quotidiano di ispirazione cattolica”. Dai tempi del seminario, sul finire degli anni ’50, quando la lettura de “L’Italia” era d’obbligo per dare un’occhiata ai fatti del mondo, non aveva mai mancato di un giorno l’appuntamento all’edicola con il “suo giornale”. Così, quando gli era toccato scegliere un segnale convenzionale, non aveva avuto dubbi: esibire L’Avvenire! A volte, rimuginando durante le sue notti insonni o passeggiando sul viale che portava dal sagrato della chiesa dedicata a San Maurizio fino al piccolo camposanto, pensava a come fosse finito lì, in quel borgo collinare di alcune frazioni, tante case – la maggior parte vuote e sfitte – e poche persone. Nessuno l’aveva informato, tanto meno la Curia, che quello era un paese con due chiese, due parroci e una, infinita, lite su chi dovesse fregiarsi del titolo di arciprete. L’età contava poco nella disputa, incentrata piuttosto sul titolo d’onore di cui fregiarsi e sull’esercizio dell’effettiva giurisdizione su entrambe le realtà religiose. Chi doveva rappresentare San Maurizio e San Rocco? Da oltre mezzo secolo la questione era irrisolta e, con ogni probabilità, difficilmente risolvibile, considerato che tutti i parroci che si erano alternati nel paese si erano inspiegabilmente calati nel ruolo di duellanti – seppur in forme incruente – appena insediatisi. Anche i cinque vescovi che avevano, uno dopo l’altro, retto la Diocesi – nonostante l’impegno e la dedizione impiegati per trovare una soluzione definitiva a quell’increscioso braccio di ferro – si erano dovuti arrendere, chiudendo un occhio e rivolgendo le loro attenzioni a ben altri problemi. Così, a Borgo Vallescura, tutto proseguiva come sempre, compresi contrasti e disaccordi, dissidi e screzi tra lui, padre Luigi Borlotti, e Don Carmelo Greco. Da quasi un lustro entrambi i sacerdoti erano arrivati in paese provenendo, il primo, dalla campagna e dalle risaie della “bassa”, e il secondo dai monti della Sila. Entrambi avevano ottime referenze, stando a quanto aveva detto, presentandoli ai parrocchiani, il Vicario del Vescovo, don Anacleto Rugosi. I caratteri dei due sacerdoti non erano, però, delle più facili. Se padre Borlotti era scaltro, dotato di furbizia contadina e di spiccata arguzia, Don Greco era testardo come un mulo, scostante e poco incline ai compromessi. Quando il titolare della chiesa di San Maurizio scoprì che il suono melodico della campana era stato sostituito da un 33 giri che, opportunamente collocato sul piatto del giradischi, riproduceva i rintocchi che ritmavano lo scorrere della giornata dei credenti, dall’aurora al crepuscolo, dall’Ave Maria all’Angelus, si adirò molto. Nessuno l’aveva informato che la campana era stata rubata una decina d’anni prima e che, da quel momento, si era deciso di sostituirne i ritmi con un disco.
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Dalla canonica, i suoni salivano fino agli altoparlanti collocati sul campanile e si diffondevano nell’aria, richiamando i fedeli. Così, con qualche fruscio di troppo dovuto all’usura, i momenti più importanti della vita della loro comunità cristiana – dai lutti ai matrimoni, dalle messe alle festività – venivano scanditi grazie a quel vecchio vinile che “girava” sopra un ancor più vetusto radio-giradischi della “Phonola”. Padre Luigi Borlotti non aveva accettato di buon grado quella situazione. Anzi, era ossessionato dall’assenza di quello che per lui era un “sacro bronzo”. Una chiesa che si rispetti deve poter chiamare a sè i suoi parrocchiani. E un campanile orfano della campana è come un frate magro e mingherlino. Non è che non ce ne siano, intendiamoci: è che si tratta di un segno di povertà”. Aveva un modo tutto suo di esprimersi e non era proprio il caso di contraddirlo dal momento che si alterava, stizzito, diventando rosso in volto come un peperone maturo. Il paese era diviso in quattro frazioni, con il centro più importante – che dava il nome all’intero comune e ospitava il municipio, l’ufficio postale e l’unica osteria – in alto, sulla collina, a sovrastare tutto il resto. Da lassù, tra i faggi e i castagni che fasciavano l’altura, lo sguardo poteva abbracciare quasi completamente lo specchio del lago, da una riva all’altra e la chiesa di San Maurizio stava proprio lì, in posizione dominante. Ma, nonostante questo, a differenza di quella di San Rocco che si ergeva al limite della Via Crucis, dopo il bosco, nella frazione di Montedoro, era una chiesa senza campana. Roso dall’invidia, incurante del fatto che quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione, rappresentasse uno dei sette peccati capitali, padre Borlotti decise di infrangere anche il settimo dei dieci comandamenti: non rubare. Se la sua parrocchia non aveva la campana, nemmeno quella del sacerdote “rivale” doveva disporne. Così, accantonato ogni precetto morale e nascosta nel profondo della sua coscienza ogni remora, decise di rivolgersi a due balordi che, per poco prezzo, s’incaricarono di compiere il furto su commissione. Tramite un ladruncolo locale che, ormai redento, nel segreto della confessione, aveva raccontato a padre Borlotti le scorribande che l’avevano visto protagonista con i due, venuto a conoscenza del loro ultimo domicilio, li contattò. Venne così organizzato quell’incontro clandestino al quadrivio che, puntualmente, si svolse in tutta segretezza. In quattro e quattr’otto s’intesero anche se, per un istante, la battuta infelice del più grosso dei due – “certo che rubare la campana ad un’altra chiesa, è proprio uno scherzo da prete” – rischiò di fare andare a monte l’accordo. “La salita parte da qui”, disse a voce bassa Gualtiero Marin. “Basterà seguire il sentiero e, giunti al termine delle stazioni della Via Crucis, troveremo la chiesa”. Più conosciuto come Non son bon, appellativo un po’ malevolo che gli era stato appioppato perché quella era la risposta che dava quando intendeva schivare un lavoro, Marin era un omaccione corpulento. L’esatto contrario di Egisto Malfermi, magro come il manico di un piccone e basso di statura. Malfermi, a causa di una rapina finita male in Alto Adige, aveva scontato sette dei dieci anni di galera inflittigli dalla condanna e, dopo la sentenza, a causa di una battuta del maestro Dragotti, appassionato del Risorgimento, era diventato per tutti Silvio Pellico. Il Dragotti, con una punta d’ironia, sosteneva come il carcere di Bolzano non fosse paragonabile allo Spielberg e la causa della detenzione non potesse certo venir rubricata tra le più nobili (furto con scasso nel negozio di un orologiaio, ndr) “ma in fondo, sempre di galera si trattava” e quelle erano state “le sue prigioni”; quindi quel Silvio Pellico “ gli calzava bene.
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I due, “incaricati” da padre Borlotti, con fare rapido e circospetto, iniziarono a salire contando, una dopo l’altra, le cappelle. Alla quarta, raffigurante Gesù che incontra sua Madre, fecero una piccola sosta. Ripresero, poi, il cammino di buon passo e si arrestarono nuovamente alla settima stazione, davanti al dipinto che raffigurava Gesù mentre cadeva per la seconda volta nella salita al Calvario. Marin, ansimante e con il fiatone grosso, si fermò, ancora una volta, all’undicesima stazione, puntando gli occhi su quel Gesù inchiodato sulla croce che ben rappresentava i patimenti che l’omone stava provando. Silvio Pellico, meno stanco, lo esortò a compiere ancora un piccolo sforzo, rassicurandolo che, da lì a poco, sarebbero sbucati davanti alla chiesa. E così, sbuffando come un mantice, oltrepassata l’ultima cappella che raffigurava il corpo di Gesù deposto nel sepolcro, il massiccio Non son bon raggiunse il sodale sotto le mura del campanile della chiesa di San Rocco. La luna era piena, tondeggiante e gonfia di una luce gialla che illuminava il bosco, allungando le ombre. I due loschi figuri alzarono lo sguardo verso la sommità del campanile. Per Silvio Pellico sarebbe stato un gioco da ragazzi scalare esternamente quella torre, poggiando i piedi in aderenza sulle pietre che, al tempo stesso, sarebbero servite come appigli per le mani. E così fece. Giunto a destinazione, avvolse il batacchio con uno straccio, evitando di far risuonare la campana e – recuperata la cima che vi era legata –   la assicurò alla maniglia della campana. Quest’ultima, sganciata dalla trave, venne così calata lentamente fino a terra dove l’attendeva Marin. Sceso in fretta dal campanile, con l’agilità di un gatto, Silvio Pellico aiutò il complice a portare la refurtiva e, in pochi istanti, sparirono nel folto del bosco. In fondo alla Via Crucis, avevano lasciato la vecchia Ape 50 del Non son bon, e caricarono la campana sul cassone di lamiera. Avviato lo schioppettate motore, si dileguarono nella notte in direzione opposta al lago. La stazione ferroviaria era lontana dal paese. A piedi, disponendo di un buon passo, occorreva un quarto d’ora abbondante per raggiungere il piccolo albergo dove al maresciallo Tancredi Manetti era stata prenotata una stanza dall’economo della Curia, don Francesco Stella. Senza indugiare, seguendo le indicazioni ricevute, Manetti s’incamminò. La pensione, gestita dalla famiglia Tinchelli, si trovava a un centinaio di metri dal pontile d’attracco dei battelli che accompagnavano i visitatori all’isola Grande, nel bel mezzo del lago di Paglione. La signora Giulietta, una donna di mezza età dai lineamenti fini e dallo sguardo dolce, lo accolse calorosamente, mostrandogli subito la sua camera.
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Vista lago, signor Maresciallo”, si premurò di dire, sottintendendo un trattamento di favore. In realtà, essendo in bassa stagione, a parte il Manetti e Arturo Terzilli, poeta e pittore che, da anni, era ospite fisso della pensione “Al buon ristoro”, nessun altro cliente occupava le rimanenti otto stanze. Il maresciallo era stato inviato in quel paese stretto tra lago e colline per indagare su un furto alquanto strano: la campana di una delle due chiese, quella dedicata a San Rocco. Il luogo di culto sorgeva sulla piccola altura che portava lo stesso nome del santo pellegrino che, dal Medioevo, veniva invocato a protezione dai terribili flagelli della peste e delle epidemie. L’edificio, con la torre campanaria sulla cui guglia svettava una croce di ferro battuto, si raggiungeva seguendo la Via Crucis con le sue quattordici stazioni e da lì, in una notte di luna piena di due settimane prima, erano saliti i ladri, scalando il campanile fino alla sommità. Non doveva esser stato un compito così agevole, per i ladri, staccare la campana da 60 kg e, poi, calarla giù con una corda. Ma l’attività criminosa, compiuta nelle ore notturne, era passata inosservata fino a quando, la domenica mattina, Alfredo Bini, il sagrestano, aveva fatto l’amara scoperta, tentando di suonare la campana per richiamare i fedeli alla messa. Il parroco, Don Carmelo Greco, sporse subito denuncia ai carabinieri di Borgo Vecchio che, a loro volta, informarono il loro comando a Valle Scura. Le prime indagini non portarono a nessun risultato, così venne incaricato il Maresciallo capo Manetti, uno degli uomini più esperti di cui l’Arma poteva disporre in quel territorio. Dopo aver ascoltato il parroco e il sagrestano, raccogliendo le loro testimonianze, Manetti iniziò ad interrogarsi su quello strano furto. Chi poteva aver interesse a trafugare una campana? E per farne cosa, poi? Venderla? Forse, ma – ammessa la possibilità di fonderla per recuperare il bronzo – non era un’operazione così facile da eseguire. Ne sarebbe valsa la pena? Un furto su commissione da parte di un collezionista? Ne dubitava: ce n’erano di più belle e più antiche nelle chiese vicine. Decise di fare un sopralluogo. Giunto al culmine del sentiero, lasciatasi alle spalle la Via Crucis, venne colto di sorpresa dal temporale. Salendo nel bosco non s’era accorto di quei nuvoloni neri, gonfi di pioggia, che – addensatisi sui rilievi dei monti della Val Cupa – erano stati sospinti   dal vento fino alle colline che digradavano verso il lago. Iniziò a cadere la pioggia. Prima a goccioloni e poi, via via, sempre più fitta e intensa. Manetti trovò rifugio sotto la tettoia che riparava l’entrata della canonica. Padre Borlotti, nel frattempo, era roso dal rimorso e si era amaramente pentito per aver escogitato quella trovata e di avere chiesto ai due balordi di mettere in atto quel suo piano scriteriato. Cosa fare, ora, della campana trafugata? Quale destino riservarle? Per il momento, l’aveva nascosta nel fienile di Clementina De Nellis, la sua fidatissima perpetua. La donna, ignara e all’oscuro dell’intera vicenda, aveva risposto con sollecitudine all’istanza del parroco, consegnandogli le chiavi della cascina ormai in disuso.
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L’aveva fatto senza chiedersi il perché di quella strana richiesta. In fondo, pensava, “il Don avrà le sue ragioni e se vorrà dirmele me le dirà lui, senza importunarlo con le mie domande”. Il parroco di San Maurizio si arrovellava, consapevole di aver commesso un grave peccato commissionando quel furto a quei due che, in cambio del lavoro e del silenzio, avevano ricevuto due biglietti da 50 mila lire a testa e la doppia assoluzione – almeno dal punto di vista della fede – per il gesto compiuto. La campana non poteva certo essere restituita così, magari abbandonandola in uno dei campi. L’atto che aveva architettato era senz’altro esecrabile ma l’idea del possibile riposizionamento dello strumento musicale nel campanile di San Rocco non gli piaceva affatto. La sua contrarietà era così forte da ottenebrarne la mente. Così, prese una decisione d’impeto, evitando di rimuginarci troppo: gettare la campana nel vecchio pozzo vicino alla cascina abbandonata dei Laricini, dove da più di vent’anni, morto senza eredi il vecchio Augusto, nessuno aveva più messo piede. Non era molto distante dal fienile di Clementina e, attese le ore più buie della notte, quelle che precedono l’alba, Padre Giravolta, mise in pratica il suo progetto. Faticando non poco nel trascinare un vecchio carretto trovato nella casina abbandonata sul quale aveva caricato la campana, fermandosi a prender fiato di tanto in tanto, coprì il breve tragitto quasi fosse il suo, personalissimo, Calvario. Agganciata la campana alla corda, fece scorrere la carrucola finché udì il tonfo nell’acqua sul fondo del grosso pozzo. Nessuno avrebbe mai pensato di cercarla lì e, comunque, se un giorno – per puro caso – la campana fosse stata rinvenuta, non avrebbe potuto essere mossa alcuna accusa nei suoi confronti e la cosa sarebbe finita lì, avvolta in quell’oblio che circonda spesso i misteri che nessuno, in fin dei conti, muore dalla voglia di svelare. Inforcata la bicicletta, che aveva appoggiato alla staccionata del fienile, ritornò verso la canonica, più sollevato. Si era tolto un bel peso dallo stomaco e, seppure il peccato – e che peccato! – rimaneva intatto sulla coscienza, l’essersi liberato della campana era già un passo avanti. Ed ora, la sua parrocchia – pur con il giradischi e senza strumento a batacchio – aveva un seppur lieve, ma evidente vantaggio su quella di San Rocco, dove la cura pastorale era affidata a quella testa dura di Don Carmelo. 
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L’inchiesta del Maresciallo era arrivata ad un punto morto. Probabilmente, la campana era stata rubata per conto di qualche collezionista di arredi sacri. Negli ultimi tempi, questa tipologia di furti su commissione si era diffusa moltissimo e difficilmente le indagini avevano portato a risultati positivi. La maggior parte dei casi erano rimasti irrisolti, senza un colpevole e senza un evidente movente che potesse mettere chi investigava sulla pista giusta. L’unica cosa che balzava all’occhio, a Borgo Vallescura e nelle sue frazioni, era la forte competizione tra i due parroci, ma – dalle testimonianze che il buon Manetti aveva raccolto – non era certo una novità, considerato che la disputa durava da tempo immemore. Così, allargando le braccia con aria sconsolata, il Maresciallo dovette arrendersi, comunicando la fine dell’investigazione all’ormai rassegnato Don Carmelo Greco e, avvertito il comando di Valle Scura, al quale inviò, per fax, un rapporto dettagliato in cui si motivava il nulla di fatto, salutato con deferenza il parroco, prese congedo dalla signora Giulietta che gli augurò di tornare ancora alla pensione “Al buon ristoro”, “magari per riposarsi un po’ e non per queste beghe di paese”.E i parroci? Padre Luison Borlotti, per scontare il suo peccato, alla spasmodica ricerca di un qualcosa che potesse alleggerire la sua coscienza, regalò – con i soldi raccolti con le offerte in chiesa, ai quali aggiunse altro denaro di tasca sua – un giradischi a Don Carmelo, corredando il marchingegno con un bell’ Lp contenente una compilation di rintocchi di campane da far invidia. Il dono fu apprezzato dall’altro parroco, ma tutto questo non mutò di una virgola il clima di accesa competizione tra le parrocchie di San Maurizio e di San Rocco. L’unica variante era che, a “chiamare” i fedeli ora non restavano che i rintocchi di campane fasulle, incisi sui vinili.

Studenti di turismo di EnAIP Grugliasco alla scoperta di Berlino

Quattro giorni a Berlino organizzati nei minimi dettagli sono stati il risultato del Lavoro a Progetto della classe 2^ del corso di turismo di EnAIP Grugliasco

Per il primo anno, l’intera organizzazione della gita è stata affidata a studenti e studentesse che, come previsto dal loro percorso di studi, hanno saputo progettare perfettamente il soggiorno nella capitale tedesca. Il primo step è stato decidere la destinazione: dopo aver valutato costi e fattibilità di alcune capitali europee, gli allievi hanno scelto la città di Berlino. Da qui si sono poi occupati di prenotare i voli e riservare le camere in un ostello, prendendo contatti con la gente del posto e comunicando così in lingua straniera. La parte più interessante e divertente è stata però progettare gli itinerari da seguire ogni giorno: durante il percorso, ciascun allievo ha avuto poi l’opportunità di presentare a compagni e insegnanti il monumento o il museo visitato, proprio come una vera guida turistica. I partecipanti alla gita, ovviamente, sono stati gli allievi del corso di turismo, insieme alla classe 3^ del settore termoidraulico e ad alcuni compagni del settore elettrico e vendita; ad accompagnarli, gli insegnanti Silvia Formia, Davide Gelati ed Emanuele Basile, quest’ultimo anche in versione di fotografo ufficiale. Una volta giunti a Berlino, allievi e insegnanti non si sono fatti mancare nulla, tra una passeggiata per la East Side Gallery, la visita al Museo interattivo della DDR, alla porta di Brandeburgo, e al Reichstag, c’è stato spazio per la street-art tra i murales di Kreuzberg. Il risultato non poteva che essere positivo e soddisfacente: per i ragazzi si è trattato anche di un’opportunità per viaggiare, fare nuove scoperte, conoscere e confrontarsi con un contesto culturale diverso, dove le tracce dell’integrazione e i segni della storia del paese sono visibili ovunque.

 

Torino e il Piemonte dicono "No" alla violenza di genere

Il 6 marzo a Torino presso la Fabbrica delle E (Corso Trapani, 95)  si terranno gli Stati Generali del Piemonte per il contrasto alla violenza di genere. L’Assessora regionale alle Pari opportunità e Diritti, Monica Cerutti,  aprirà i lavori con Marco Giusta, Assessore alle Politiche delle Pari opportunità della Città di Torino. Una giornata dedicata a fare il punto, con tutti i soggetti coinvolti, su un tema di forte attualità, di fronte ai tanti, troppi episodi di violenza che la cronaca quasi quotidianamente riporta. Il tema della violenza di genere sarà affrontato subito con una restituzione sul lavoro svolto nel 2018 dai Centri Antiviolenza finanziati dalla Regione Piemonte. Successivamente una tavola rotonda dal titolo “Sistemi in relazione: rafforzare le sinergie” coinvolgerà la Questura, i Carabinieri, la Procura della Repubblica e l’Istituto Nazionale di Statstica sull’importanza del coordinamento degli interventi integrati contro la violenza. I partecipanti potranno poi prendere parte a gruppi di lavoro tematici interprofessionali. Durante la giornata saranno proiettati anche video particolarmente significativi, come quello dal titolo “Questo non è amore” realizzato dalla Polizia di Stato.

La polizia salva donna dalle fiamme

La Polizia di Stato di Vercelli ha salvato una donna che era rimasta intrappolata nel suo appartamento in fiamme

Nello specifico due pattuglie della Squadra Volante, impegnate nell’ordinario servizio di controllo del territorio, notavano in Corso Mario Abbiate del fumo intenso di colore nero che fuoriusciva da una finestra. Dopo aver allertato immediatamente la Sala Operativa, che inviava sul posto personale medico e dei Vigili del Fuoco, gli Agenti si precipitavano all’interno del condominio e riuscivano ad individuare l’appartamento dal quale fuoriusciva il fumo e dal quale provenivano le urla di una donna che sembrava essere bloccata all’interno. Dopo numerosi tentativi di mettersi in contatto con la donna, gli Agenti della Squadra Volante riuscivano a forzare la porta d’ingresso dell’appartamento e, una volta entrati, notavano che la cucina era ormai completamente invasa dalle fiamme e che l’intera abitazione era satura di fumo. Nonostante queste difficili condizioni, gli Agenti entravano nell’abitazione e dopo brevi ricerche riuscivano ad individuare la donna, stesa a terra priva di sensi, con la faccia rivolta verso il pavimento. A questo punto due Agenti trascinavano fuori la malcapitata e altri due si accertavano che non vi fosse nessun altro all’interno dell’abitazione; subito dopo iniziavano l’evacuazione del palazzo nell’attesa che arrivassero i Vigili del Fuoco. Una volta uscita dall’appartamento, la donna, che nel frattempo aveva riacquistato i sensi, in preda ad uno stato di shock, provava a rientare nella casa in fiamme ed era contenuta con molta difficoltà dagli Agenti. La donna, di origine nigeriana, ma regolarmente residente in Italia, a questo punto iniziava una forte resistenza contro gli Agenti, prima buttandosi a terra e appendendosi alla ringhiera, e poi mordendoli alle mani e colpendoli con calci e pugni. Nonostante ciò si riusciva a portarla all’esterno dello stabile e ad affidarla alla cura del personale medico che la conduceva in Ospedale per gli accertamenti del caso. Nel frattempo i Vigili del Fuoco riuscivano a domare l’incendio, consentendo ai residenti di rientrare nelle loro abitazioni.

M.Iar.

RATISBONA, UNA REGINA IN BAVIERA

Incantevole, storica e protetta dai suoi cittadini

Risalente al 1250, medioevale e romana, Patrimonio dell’Umanità UNESCO grazie alla sua incredibile e miracolosa conservazione nonostante la seconda guerra mondiale, Ratisbona, Regensburg per i suoi abitanti, o Castra Regina, ai tempi di Marco Aurelio, è una incantevole città universitaria che si affaccia sulle sponde del Danubio, in piena Baviera. Testimone di innumerevoli e secolari eventi storici, guardiana di ricchezze ed eredità antichissime Ratisbona   possiede un patrimonio artistico ed architettonico importantissimo mantenuto e conservato grazie anche ad una fortissima volontà cittadina che, attraverso una associazione, ha fissato una serie di regole come l’utilizzo degli edifici o l’omologazione dello stile degli esercizi commerciali in base a quello della città a cui anche i brand internazionali si sono dovuti adeguare, per fare un esempio le insegne commerciali devono avere determinate dimensioni e colori. Il Duomo di St. Peter, costruito in 3 secoli dal 1270, è un magnifico esempio di arte gotica, uno dei più belli della Germania, ospita il famoso Domspatzen: il coro di voci bianche. Il Municipio, Rathaus, con facciata barocca dove svetta una torre civica duecentesca è ornato di busti di guerrieri e porta al suo interno importanti documenti storici. Porta Praetoria, il più importante monumento romano della città,   e Neupfarrplatz, dove sorge il Memoriale in ricordo del Ghetto Ebraico, sono due tappe obbligate per conoscere il passato della città e le sue tradizioni. Poi ancora il bellissimo e suggestivo Ponte di Pietra, da dove ammirare le case a torre colorate tipiche del luogo, l’affresco di Davide e Golia sulla Goliathhaus, una delle case più caratteristiche di Ratisbona, il Castello di Thurn und Taxis residenza degli omonimi principi che organizzarono il primo servizio postale d’Europa, il Museo del Reichstag. Una curiosità, un passaggio opportuno e doveroso, è la casa   di Oskar Schindler, che salvò più di 1000 ebrei durante il nazismo. Oltre all’interessante e canonico giro turistico che arricchisce il visitatore di informazioni storiche e artistiche, è molto gradevole vivere questa città, fermarsi ad osservarla, respirare il clima allegro e ordinato che ci regala, entrare nei suoi festosi e curati negozi pieni di oggetti tipici ricercati. Laboratori di ceramiche, oggetti per la casa, tessuti, souvenir, a Ratisbona è tutto bello, tutto pregiato ed elegante, ma di una eleganza vivace, invitante, organizzata e diligente, rilassante. Ultima ma non meno importante è l’ attitudine di questa deliziosa cittadina al cibo, molti sono infatti i suoi ristoranti e bar dove mangiare piatti tipici   del luogo come gli Spatzle al formaggio, i crauti, i Canederli di Ratisbona o le Conchiglie del Danubio accompagnati ovviamente da una birra artigianale e tanta gentilezza.
 

Maria La Barbera

 
 

Nuoto, Alessandro Miressi oro nei 100 stile libero

Sul podio anche Helena Biasibetti e Alessandro Fusco

Archiviati ieri i 200 in tutti gli stili e le gare più lunghe – 800 e 1500 – il Trofeo Città di Milano è proseguito oggi con un ricco programma di gare, al mattino e al pomeriggio. Quattro le medaglie conquistate dagli atleti piemontesi, nel contesto di alto livello che sempre caratterizza il meeting del capoluogo lombardo. Una d’oro, vinta da Alessandro Miressi nei “suoi” 100 stile libero; tre di bronzo, due raccolte da Helena Biasibetti nei 50 e nei 100 farfalla e una da Alessandro Fusco nei 100 rana. Miressi, campione europeo e primatista italiano della gara regina, tesserato per Fiamme Oro e Centro Nuoto Torino e allenato da Antonio Satta, ha fermato il cronometro sul tempo di 49’’28, davanti a Luca Dotto (49’’87) e Alessandro Bori (50’’01). Una buona prestazione per Alessandro, impegnato nella preparazione che conduce agli Assoluti (2-6 aprile a Riccione), appuntamento nel quale centrare i minimi di qualificazione ai Mondiali, dal 21 al 28 luglio a Gwangju, in Corea. Per il campione torinese si è trattato della seconda medaglia nel meeting meneghino, dopo il bronzo vinto ieri nei 200 stile libero. Due volte sul terzo gradino del podio Helena Biasibetti, atleta della Dynamic Sport e della nazionale giovanile allenata da Donato Nizzia, che nella scorsa estate ha vestito la maglia azzurra agli Europei Junior raggiungendo la finale nei 100 farfalla. In mattinata ha nuotato i 50 farfalla in 27’’32 alle spalle delle azzurre Elena Di Liddo (26’’81) e Ilaria Bianchi (27’’02); nel pomeriggio la doppia distanza in 59’’99 dietro le stesse Bianchi (58’’26) e Di Liddo (58’’27) e con quattro centesimi di vantaggio sull’altra piemontese Aurora Petronio (Fiamme Gialle/Rari Nantes Torino, 1’00’’03), quarta. Due prestazioni brillanti, in particolare quella sui 100, nei quali Helena ha stabilito il proprio record personale migliorando l’1’00’’29 nuotato all’Energy Standard Cup di Lignano Sabbiadoro della scorsa primavera. Medaglia di bronzo anche per Alessandro Fusco, suo compagno di nazionale giovanile e portacolori dello Swimming Club Alessandria, allenato da Gianluca Sacchi. L’estate scorsa Alessandro si è laureato vicecampione europeo Junior nei 100 rana e oggi nella stessa distanza ha chiuso al terzo posto dietro gli azzurri Nicolò Martinenghi (1’00’’34) e Andrea Toniato (1’02’’40).

L’articolo completo su https://www.federnuoto.piemonte.it/finpiemonte/home_new/appro_new.asp?id_info=20190302185658&area=1&menu=agonismo&read=nuoto

Cous Cous Klan

A più di un anno di distanza dal suo debutto e dopo un centinaio di repliche Cous Cous Klan continua a divertire, emozionare e a far riflettere

Frutto della giovane compagnia Carrozzeria Orfeo, definita popolare e profonda, divertente e irriverente, cruda e fortemente poetica, l’allestimento rappresenta l’ultimo capitolo della trilogia composta da Thanks for vaselina (da cui sarà tratto un film con Luca Zingaretti nel cast) e Gente da bar. Il loro è un teatro impegnato e di evasione allo stesso tempo dove protagonista è la nostra complessa e nevrotica quotidianità. Amano raccontare spesso “gli ultimi, i perdenti, i meno accettati della società, mescolando generi, fondendo l’ironia con la tragicità, il divertimento al dramma, in una continua escursione fra la realtà è l’assurdo, fra il sublime e il banale.” Già nel titolo dello spettacolo “Cous Cous Klan” è evidente la volontà di farsi beffe dell’assurdità di ogni forma di discriminazione. E per scardinare pregiudizi e inquietanti conformismi, quali migliori grimaldelli se non il politicamente scorretto e l’ironia? In una spaventosa, e neanche troppo lontana, società in cui l’acqua è stata privatizzata, in una specie di discarica di rottami due roulotte sgangherate ospitano una galleria di casi umani. In una vivono tre fratelli: Achille, un giovane sordo muto un po’ ritardato, Caio un ex prete caustico e disfattista e Olga, una donna obesa con un occhio solo ossessionata dall’orologio biologico, nell’altra un ” musulmano-moderato”, Mezzaluna, continuamente insidiato dalla vicina che vorrebbe un figlio da lui e assillato dal padre che desidera per lui un futuro da terrorista come i fratelli. In questa piccola comunità di diseredati fanno irruzione un borghese, Aldo, di professione pubblicitario, cacciato di casa dalla moglie per averla tradita con una minorenne, e Nina una ragazza visionaria scampata alla morte. E sarà proprio quest’ultima ad offrire alla brigata un’occasione di riscatto dove ognuno troverà il proprio senso semplicemente così com’è. Lo spettacolo ha un buon ritmo e gli esilaranti e feroci scambi di battute strappano diversi applausi a scena aperta, merito del talento di tutti gli attori che danno vita a personaggi irresistibili. Innumerevoli i temi del nostro contemporaneo che emergono dallo spettacolo e che fanno riflettere sul presente. Le disuguaglianze sociali, l’emarginazione che procura voragini di solitudini, i problemi legati all’immigrazione, il difficile confronto tra il mondo occidentale e l’Islam, le violenze e i soprusi di ogni tipo, gli scandali e la corruzione che offuscano il Vaticano, famiglie che si sfasciano a causa di incontri effimeri, il desiderio di avere un figlio a tutti i costi. Ma non sembrano esaurirsi qui gli spunti di riflessione. Uscendo dalla sala si rimane un po’ frastornati dopo essere precipitati in questo mondo tragico portato alle sue estreme conseguenze, al limite dell’assurdo. Una trasfigurazione della realtà per restituirla potenziata, dove la violenza e la provocazione non sono mai gratuite, ma vanno a svelare il nostro disperato bisogno di poesia, di bellezza, di accettazione, di sentirci amati.

Giuliana Prestipino