E poi arrivano le cinque statuette per “Anora” di Sean Baker

La consegna degli Oscar 2025, vincitori e vinti

E poi il giorno dopo ti stai a chiedere se quei giudizi siano pienamente centrati, se quelli che avevi in mente tu fossero giusti o sbagliati, o di comodo, o troppo personali per simpatia o chissà che altro. Ti rendi conto che il Cinema ha tutti i numeri e le caratteristiche per essere Arte ma che tante (troppe?) volte è Business, mosse studiate a tavolino, soprattutto un’altalena su cui è facile salire ma da cui è anche maledettamente facilissimo scendere. Prendete le tredici candidature dell’imperfetto “Emilia Perez” di Jacques Audiard: al di là di una imbarazzante ammucchiata dell’intero cast a Cannes ovvero un Palmarès alle quattro attrici senza distinzione o soppesatura di sorta, a Hollywood, dopo una strombazzatura d’eccezione e una battaglia senza esclusioni di colpi, è stato sufficiente andare alla riscoperta di una manciata di tweet della prima attrice trans – velocemente candidata: con il sospetto da parte di chi scrive queste note che Karla Sofìa Gascòn sia stata catapultata nell’empireo delle protagoniste per tirare un dispettuccio a Mr Trump che tratta il mondo anche geneticamente in buoni e cattivi piuttosto che per convincenti qualità – destinati negativamente a messicani e afroamericani per far crollare in quattro e quattr’otto l’intero castello di carte. Onde per cui, delle tredici candidature ne sono andate a segno soltanto due, la miglior canzone a “El mal” e la miglior attrice non protagonista a Zoe Saldana (lei più nelle vesti di protagonista del film!) che certo non aveva rivali.

Certo non la nostra Isabella Rossellini, nella serata tutta luci e star del Dolby Teather, che si sarà pur messa in blu velvet in onore del suo amore trascorso per David Lynch e per la grandezza di un regista, con tanto di agghindo con gli orecchini di mamma Ingrid sul set di “Viaggio in Italia” di papà Roberto: ma quei suoi otto minuti in “Conclave” di Michael Jackman non hanno convinto i membri dell’Academy che forse avranno comparato gli altri otto minuti della storia del cinema, quelli irripetibili di Anne Hathaway nei canori “Miserabili” che valsero all’attrice, quelli sì, la meritatissima statuetta nel 2013. Morto un papa se ne fa un altro, caduta “Perez” ci si aggrappa all’altrettanto imperfetto “Conclave” e a quel “Brutalist” firmato da Brady Corbet che convince, nella prova soprattutto eccezionale di Adrien Brody, oscaribilissimo e così è stato, capace ancora una volta dopo “Il pianista” di Polanski di costruire e trasmettere emozioni come pochi altri, ma dove vedi una regia e una scrittura prima che si vorrebbero grandiose ma che in alcuni tratti (nella seconda parte del film) non hanno oliato a dovere i loro ingranaggi. “The Brutalist”, tuffo in un film classicheggiante, di lento ed elegante racconto, che sa con intelligenza di architettura e di riscatto, degli aspetti consolatori e costruttivi dell’arte, che guarda allo scempio di ieri e alla Storia di oggi, che si porta anche a casa le statuette per la miglior colonna sonora e la miglior fotografia, lasciando immeritatamente a “Wicked” dei pur talentosi Nathan Crowley e Lee Sandales il premio per la migliore scenografia.

Insomma l’altalena di cui sopra ha fatto vittime illustri, il Fiennes di “Conclave” o la Demi Moore di “The Substance” che risorta alla sessantina a nuova vita e data sino alla vigilia per vincitrice e che con il sorriso di circostanza avrà l’altra sera pensato che un’occasione così chissà quando le ricapita; soprattutto il bel (e allegramente giallognolo e ingioiellato) Timothée Chalamet che ha speso cinque anni della sua vita per diventare un perfetto Bob Dylan e poi ha dovuto cedere le armi davanti alla prova del finto architetto Làszlò Tòth (e con lui, le dieci candidature originali di “A Complete Unknown”, secondo e terzo riconoscimento alla fotografia di Lol Crawley e alla colonna sonora originale di Daniel Blumberg): magari vada a chiedere a quel collega che si chiama Leonardo Di Caprio quanta anticamera ha dovuto fare per impugnare la sua prima statuetta. A sovvertire le carte, in un crescendo che si è ispessito di giorno in giorno, e a rovinare del tutto le speranze di “Brutalist”, è arrivato “Anora” di Sean Baker, non ancora un gigante nel firmamento di celluloide, già Palmarès a Cannes, che stringe oggi tra le sue giovanili quanto sfacciate braccia gli Oscar per il miglior film e la miglior regia, per la miglior attrice protagonista, per il miglior montaggio e la miglior sceneggiatura originale: con ogni carta in regola, ben raccontato e con un ritmo invidiabile, con una scena centrale di risicata violenza di parecchi minuti (ci sono voluti dieci giorni per girarla) che è un pezzo di cinema da mandare agli annali, con la consacrazione di uno scricciolo spuntato fuori quasi dal nulla, Mikey Madison (anche se io continuo ad avere negli occhi e nella mente la prova maiuscola di Fernanda Torres in “Io sono ancora qui” di Walter Salles, per fortuna miglior film straniero, moglie ineguagliabile di uno dei tanti desaparecido) a incarnare come meglio non potrebbe l’escort caduta nella passione e nella bambinaggine del rampollo di un magnate russo.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene di “Anora”, “Emilia Perez” e “The Brutalist”.

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