Quante volte abbiamo sentito parlare di dress code, cioè quel codice spesso non scritto che impone un certo abbigliamento per accedere ad una festa, ad un evento?
Abito lungo per le dame, smoking per gli uomini, no jeans, no sneakers, ecc.
Ricordo ancora la prima volta in cui entrai alla Camera dei Deputati dove, nonostante il caldo torrido, era obbligatorio indossare giacca e cravatta: la giacca l’avevo con me, la cravatta la comprai lì vicino; lo stesso dicasi per il Casinò di San Vincent dove, in alternativa, era consentito indossare una maglia dolcevita (non so se ora sia ancora così).
Stesso discorso per le banche dove, fino ad alcuni anni fa, gli impiegati indossavano sempre giacca e cravatta.
Anche in questo caso l’abito indicava l’appartenenza ad un gruppo, esattamente come in pantaloni indossati sotto le natiche o negli anni ’70 le College o le Clarks, a seconda della fazione politica di riferimento.
Una multinazionale americana presente anche in Italia imponeva ai suoi commerciali la camicia bianca nelle ore antimeridiane mentre nel tardo pomeriggio era consigliato di indossarla azzurra.
Il primo testimonial della rivoluzione fu Sergio Marchionne, che si presentò da subito alle riunioni, anche in Confindustria (finché la Fiat ne fece parte), indossando un cachemire anziché la solita giacca ed il suo gesto fece scuola.
Ora il discrimine, se possiamo chiamarlo così, è costituito dai tatoo: se non li hai sei fuori, sei antiquato.
Un tempo, anche nell’Arma, non erano consentiti; poi sono stati ammessi solo se non visibili indossando la divisa.
Ad un colloquio di lavoro ho incontrato persone mediocri senza tatoo e veri geni con tatoo ovunque, come ho incontrato persone con i capelli cortissimi, puliti, che a malapena riuscivano a fare un cerchio usando un bicchiere, mentre ne ho viste altre con i dreadlocks comporre musica, scrivere libri o progettare palazzi.
Siamo portati a identificare come non pericolosi quanti somigliano a noi, almeno esteriormente, e di conseguenza classificare come negativi quanti da noi si distinguono; d’altronde, una delle motivazioni base del razzismo, della xenofobia è proprio non riconoscere come simili a noi quanti abbiano una pigmentazione diversa, parlino un idioma che non comprendiamo, preghino un Dio diverso dal nostro (abbiamo mai visto il nostro per giudicare il loro?) e così via.
Quindi ci basiamo su preconcetti, su stereotipi (i neri fanno così, gli arabi cosà, le filippine sanno fare solo le cameriere) che non ci permettono un’analisi obiettiva, una considerazione basata su fatti anziché ipotesi.
Esattamente come è vietato discriminare per motivi razziali, religiosi o etnici, dovrebbe esserlo anche per il modo in cui ci si veste, ci si acconcia o per il piercing che si indossa; certo, gli eccessi possono essere sgradevoli, ed è lo stesso concetto secondo il quale una segretaria di direzione che incontra clienti ed investitori dev’essere gradevole e non un orso travestito da impiegata.
L’igiene non deve mai essere trascurata, anche per rispetto delle persone con le quali entriamo in contatto, ma cosa indossiamo è affare nostro; la società, ho avuto modo di scriverlo in altre occasioni, si è data delle regole di convivenza per conformare usanze, comportamenti, aspettative. E’ evidente come qualsiasi deviazione può turbare, può insospettire perché viene vista come una ribellione, anche se pacifica.
D’altronde, andreste da un medico che vi accoglie in bermuda o in un’agenzia immobiliare in cui la titolare si presenti con i bigodini in testa? Saranno anche bravissimi, ma sicuramente all’inizio qualche perplessità la destano.
Come fare quindi per non essere vittima dei nostri pregiudizi? Non giudicare, ma basarsi sui fatti. Se un professionista è famoso per aver tanti clienti ed ha tutte recensioni positive non facciamoci fuorviare da nostri parametri di valutazione, ma basiamoci sulla sua professionalità: chi siamo noi per giudicare se un architetto sia competente nel suo lavoro, se un avvocato stia preparando un’arringa vincente oppure no?
Ricordate che vi sono molte, troppe persone che si recano a messa tutti i giorni ma appena uscite dalla chiesa riprendono a criticare ora questo ora quello; e quanti si vantano di fare adozioni a distanza, beneficenza qua e là, ma se una vicina li chiama perché ha bisogno che qualcuno si rechi in farmacia per il bimbo piccolo malato la criticano perché è una rompiscatole?
Sergio Motta
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