Due grandi attrici, la eccellente e moderna regia di Livermore

Sino a domenica 5 febbraio, al Carignano, “Maria Stuarda” di Friedrich Schiller

C’è un angelo, due grandi ali bianche sulle spalle, al convergere delle due scale che monumentalizzano l’allestimento scenico della “Maria Stuarda” schilleriana proposta – in un ibrido persuasivo di classicismo e di rockettaro – da Davide Livermore, produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale e Centro Teatrale Bresciano. Una macchina teatrale all’apparenza schematica e semplice, firmata da Lorenzo Russo Rainaldi, ma altresì poggiante su tre piani di rappresentazione, dura, coinvolgente, immersa in quel colore rosso che è simbolo del sangue e della violenza, come rosso è il sipario che scende dall’alto come la mannaia di un boia. Quell’angelo è la fatalità, è il Caos e il caso, è la Storia che ogni cosa mescola e ogni cosa decide, è la mente arbitraria degli uomini. È la occasione improvvisa e cieca che ogni sera, al cadere di una piuma sulla destra o sulla sinistra del palcoscenico, decide quale delle due attrici rivesta il ruolo della regina scozzese e quale quello di Elisabetta d’Inghilterra.

Due leonesse che si fanno la guerra e che tendono a sbranarsi, uno scontro frontale dove l’una è obbligata a soccombere e l’altra a prevalere, un rinfacciarsi assassinii e invidie, affrontare rivalità e supplizio, esprimere durezza e preghiere, due regine e due attrici di rango, si usa dire quando ti trovi davanti una simile bravura, Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni. La mia serata al Carignano ha “previsto” Pozzi/Elisabetta e Marinoni/Maria, pronte a calarsi in un attimo nei gesti e nelle parole e nella psicologia del ruolo capitato; e in quel contesto rutilante, in quella impronta modernamente feroce impressa da un regista che sinora forse mai ti ha lasciato con l’amaro in bocca (anche negli allestimenti lirici scaligeri si è respirata un’aria di vitale rivoluzione) è stato necessario immediatamente e inevitabilmente dimenticare le austere coppie del passato, Ferrati/Zareschi, Brignone/Proclemer, Cortese/Falk, Lolliée/Bonaiuto e forse altre ancora che hanno abitato i palcoscenici e la vecchia tivù in bianco e nero. Siamo lontani secoli, le sonorità che invadono la scena (le musiche sono di Mario Conte, Giua con la voce bella ed efficace accompagna una chitarra elettrica che si pone a lato della scena ma che si fa anche personaggio in mezzo agli altri attori) tendono a quasi impoverire le parole forti del testo, a sovrastarle, ma poi sopraggiunge il peso delle due attrici a reimporsi e a rovesciare ogni attimo di incertezza.

Nell’avvicendarsi dei personaggi della corte elisabettiana, maschili e femminili, dentro gli abiti e le palandrane e le uniformi firmati da Anna Missaglia – mentre per le due sovrane si sono scomodati Dolce&Gabbana, ma per un gran bel vedere, visto che lamé e stoffe e colori, ed eleganza e ricchezza, la vincono alla grande -, Livermore come non ti aspetteresti mescola le carte, ogni cosa all’insegna ancora una volta del caso e del disordine (“in questo tempo così fluido a livello di gender, possiamo vedere con occhi diversi personaggi  che normalmente tenevamo sospesi in teche di vetro, dandoli per scontati”: ma è proprio soltanto una moderna fluidità a generare simili cambiamenti? Livermore è troppo intelligente per affidarsi alle scelte del momento), andando ad affidare a tre attrici ruoli maschili, del resto precisi, scavati, tesi e duramente resi, a partire da Linda Gennari che è un ottimo Mortimer e da Gaia Aprea che è Talbot conte di Shrewsbury (ma è pure una umanissima quanto attenta nutrice, con la bravura di sempre) e da Olivia Manescalchi che attraversa il Cavaliere Paulet e l’Ambasciatore di Francia e il Segretario di Stato, in una lodevolissima trasformazione. Forse rimangono più imprecisi nella loro unicità Giancarlo Judica Cordiglia e Max Nicosia, quest’ultimo dibattuto per pura ragion di stato, avventuriero e calcolatore, diviso tra i due cuori regali e artefice di un angolo erotico sfacciatamente buttato da Livermore in palcoscenico e che il vecchio Schiller, sin dalla prima rappresentazione a Weimar, nel gennaio del 1800, manco si sarebbe sognato.

Della bravura delle due protagoniste s’è detto, Marinoni nei toni sofferti di Maria e Pozzi in quelli regalmente feroci di Elisabetta: su di lei e sulla sua solitudine e forse anche sulla sua sconfitta si chiude la vicenda. E quei lamenti che si fanno rantoli belluini sono l’ultimo lampo di un’attrice che ammiriamo da sempre. Tutto è un attimo, mi pare voglia dirci Livermore con quella sarabanda finale, con quel finale con tanto di passerella e di ammiccamenti al pubblico caricatissimo d’applausi, con quell’allegria obbediente che ci riporta a Poli o a Trionfo: anche quella vicenda è un grumo ormai dissolto nel fluido della Storia, e noi oggi siamo qui a guardare in faccia altre malvagità.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Alberto Terrile

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