Al Gobetti, repliche sino al 5 febbraio
Un lungo mese di repliche – sino al 5 febbraio, sul palcoscenico del Gobetti – per questo “Otello” shakespeariano, nella traduzione di Emilio Cecchi e Giovanna Cecchi, produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Progetto Urt, un unico blocco di 140’ senza intervallo, a cui Jurij Ferrini sembra aver dato anima e corpo. Una tragedia di incondizionato amore e di terribile, cieco odio, ogni cosa nel cuore di un eroe, di un ufficiale di colore, ma anche una tragedia di sospetti, di quelle parole portate a poco a poco alle labbra nella prospettiva di una vendetta e nella distruzione di un altro, nell’occasione di una donna, di una quasi bambina innamorata del proprio sposo, della figlia di un notabile di una qualche potenza occidentale, sperduta nelle acque del Mediterraneo tra i rumori e le ansie della guerra, spinta giorno dopo giorno sempre più a fondo da un meccanismo perverso e subdolo che un diavolo le ha costruito intorno. L’occasione di un avvicinamento a quella “nostra coscienza occidentale” che senza mezzi termini, di gran fretta, è definita “falsa”. “Quando leggo un testo, soprattutto un grande classico – tiene a motivare Ferrini nelle note di regia – non posso fare a meno di chiedermi che cosa possa significare per il pubblico di oggi.” Ieri e oggi, le radici e i rimandi, gli sguardi paralleli, un incrociarsi di ponti gettati sulle intenzioni e sui sentimenti, sulla malvagità e sulla menzogna del nostro quotidiano.
Nessuno lo vieta ad un regista che si fa quasi coautore, appunto per il suo sguardo nuovo, una esperienza apprezzabile quando anche sia l’occasione “per un lucido e appassionante esame del viaggio a ritroso da un infinito oceano d’Amore fino alle fonti dell’Odio più puro”, il Bene e il Male a fronteggiarsi da sempre. Tuttavia, su quelle pedane inventate (abbastanza poveramente) da Jacopo Valsania (a lui si devono anche le luci, con Gian Andrea Francescutti), contro un fondale di soli e di lune, dentro un orizzonte di alberi e scure montagne, poca colpa se lo spettacolo tarda a prendere corpo: quel che non convince è quell’oggi, tanto sbandierato, che sino al termine della serata continua a parere del tutto posticcio. Non spaventano più gli abiti moderni, non siamo più alla metà degli anni Sessanta quando con innegabile shock del pubblico Luigi Squarzina per “Troilo e Cressida” rivestiva gli attori dello Stabile genovese delle divise del ventesimo secolo, seguito poi da Lavia e da Ronconi e certo da altri: qui sono un posticcio perché nulla aggiungono all’azione, al racconto naturalissimo che Ferrini rivendica di aver visto “nella mia immaginazione”. Poi c’è il pericolo del medioriente, c’è la sopraffazione maschile, c’è l’ombra del razzismo che circola tra le truppe e va oltre, c’è la lettura del gran personaggio di Iago, la fiducia riposta in lui e il tradimento, il marcio della coscienza e la distruzione di sé e degli altri portata sino in fondo.
Scrive poi qui uno che continua a dubitare fortemente dell’uso dei microfoni in scena, per dire, per scandire, per ritagliare che?, microfoni di cui si fa un gran uso e microfoni che per altri versi li diresti benedetti dal momento che l’attore, nel momento in cui deve pronunciare la propria battuta dal fondo del palcoscenico, non è più nettamente udibile: quello stesso Ferrini che, accennando appena nel trucco la propria “negritudine” con dei tatuaggi tribali che lo rendono più un Maori che un “moro”, da sempre erroneamente definito “negro”, sembra essere incerto sulla strada da percorrere sino in fondo senza ripensamenti. L’“Otello” di Ferrini, il triangolo Moro/Desdemona/Iago, tutto rimane un fatto privato, a dispetto di certe intenzioni di voler ampliare il campo alla “tragedia della violenza umana” e di volerlo immergere nell’”ultimo straordinario movimento culturale e rivoluzionario del mondo moderno”, il ’68, fatto di opposizione alla guerra in Vietnam, di battaglie per i diritti civili, di libertà sessuale, di rifiuto di ogni autorità.
Di Ferrini interprete non arriva in platea la costruzione di un personaggio, al di là di un gran muoversi e di un imperioso quanto furioso vociare. Troppo resta nelle intenzioni e non trova sbocco autentico e tangibile. La parte maschile dei suoi compagni, per differenti gradi, non possiede – o il regista non ha saputo tirar fuori dai giovani attori quel tanto di sentimenti e di consapevolezza dell’accaduto che è nei personaggi più o meno minori – una già affermata robustezza. Sul versante femminile, oltre la Bianca di Sonia Guarino, lascia un segno nel finale la ribellione della Emilia di Maria Rita Lo Destro e mostra con una eccellente sfaccettatura di toni una Desdemona fatta di giovinezza, fragilità e acre stupore Agnese Mercati; mentre un lungo discorso a parte meriterebbe la prova eccellente di Rebecca Rossetti, uno Iago che non avevamo mai visto (questa sì felicissima intuizione di Ferini), una sorta di Linda Hamilton di “Terminator”, anfibi, calzonacci militari, attillata nera canottiera con spalline, capelli corti impomatati all’indietro. Le si poteva aggiungere un lanciafiamme, non avrebbe stonato, già la pistola con cui fa fuori la povera concorrente che sta per spifferare ogni cosa fa legittimamente al caso suo. Uno Iago che rischia di essere il vero protagonista della tragedia. Si può allora dire che Rossetti sappia quel che vuol dire la costruzione di un personaggio, una sorta di simbolo del Male a tutto tondo, del male gratuito gestito per scommessa, nella voce e nella postura mai in eccesso, nel rivelarsi e nel nascondersi, nella strada che semina di sospetti e di indizi detti a fior di labbra e no, anche usando in maniera assai propria tutta l’ironia verso la mal riposta scalata al successo. Pubblico pressoché osannante alla prima, mentre a me rimanevano tutti i dubbi della realizzazione.
Elio Rabbione
Le foto di scena sono di Luigi De Palma
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Mah… non capisco che spettacolo abbia visto