Quattro “streghe” salgono dai bassi napoletani

Ultima replica domani al Gioiello

Francesco Silvestri, scomparso nel dicembre di tre anni fa, legato a Torino per aver tenuto un paio d’anni la cattedra di Scrittura drammaturgica presso la Scuola Holden di Baricco, ha fatto parte di quella Nuova Drammaturgia Napoletana che ha visto con successo al proprio interno i nomi e le opere di Annibale Ruccello – il commediografo gli fu interprete per “Le cinque rose di Jennifer” -, Enzo Moscato e Manlio Santanelli, tra il mondo di ieri e la contemporaneità, il bianco e il nero di Parthenope e del Sud, la comicità e gli affanni, l’arte d’arrangiarsi e la fatica, l’onestà e il colpo di mano. Quel mondo compatto e sfrangiato che, tra tutti, anche la letteratura del giallo e no di De Giovanni e De Cataldo, le storie di Sorrentino e Capuano, di Martone e De Lillo e Corsicato hanno da tempo portato in primo piano. Una visione che non poco ha pure contribuito a far conoscere, da trent’anni in qua, sera dopo sera, facce e vicende che ormai un gran pubblico considera come familiari, facce che hanno terminato un percorso e altre nuove che si sono aggiunte, “Un posto al sole”, intramontabile soap opera di successo: al suo interno, s’è formato un gruppo composto da alcuni dei tanti elementi femminili – Gina Amarante, Luisa Amatucci, Miriam Candurro e Antonella Prisco – con la felice “intrusione” di Peppe Romano, là pieno di problemi affettivi e d’attività lavorativa. Di Silvestri stanno riproponendo sui palcoscenici italiani (da noi al Gioiello, solo per tre repliche, l’ultima domani 7 dicembre in pomeridiana) “Streghe da marciapiede”, un testo dei primi anni Novanta.

Vera black comedy, che trova ambientazione negli anni del fascismo, i bei costumi di Teresa Acone sono a riprova, in perfetto equilibrio tra la narrazione del reale e le sospensioni del surreale, tesa e a tratti divertente, coinvolgente per un pubblico anche spinto a sinceri applausi a scena aperta. La storia di quattro prostitute, tre nate nei bassi napoletani mentre l’ultima ha forse respirato un tempo le nebbie lombarde, condividono lo stesso appartamento in cui vige una regola di ferro, secondo cui mai nessun uomo dovrà mettere piede. Tuttavia una sera la Gina incrocia un ragazzo, reduce da un pestaggio, e lo fa accomodare. Alto e attraente, enigmatico, forse come staccato dal mondo che circonda quelle donne, il loro modo di vivere e le esistenze contorte, “una sorta di angelo oscuro della notte”, l’ospite prende a poco a poco per le padrone di casa il peso di un incubo, un essere non adatto a vivere con loro e capace altresì di mettere in discussione quei rapporti che sinora si sono creati, semmai a far insorgere vecchi peccati e incubi, affondati nel passato, un infanticidio, una violenza sessuale, una famiglia da cui si è fuggite, una natura di lesbica da cui per un attimo si avrebbe voglia di scappare. In una avvolgente sequenza d’incastri, delle azioni che hanno visto in quella casa un omicidio e degli interrogatori che dovrebbero essere chiarificatori ma che al contrario vivono tra misteri e ambiguità e interessi personali e quelle di oggi portate a un processo dentro cui rimarrà invischiato e vittima un ispettore sempre più convinto della loro natura stregonesca e malefica e a poco a poco ridotto a un essere che ha perso il cervello. La regia che Stefano Antonucci, nella scenografia essenziale fatta di cubi e pedane firmata da Ciro Lima Inglese e ancora con le canzoni di Michele Fierro, ha costruito intorno guarda ai particolari, ai diversi rapporti, al non detto che spinge sempre più da vicino, in maniera validissima, forte, del tutto convincente, facendosi carico anche di un paio di ragionate modifiche, la cancellazione del personaggio del ragazzo ma la cui presenza non può che rimanere viva e il far entrare in scena quello dell’ispettore, immediatamente coinvolto e succube dei raggiri femminili.

Molto del successo va alle interpreti, che siamo abituali a seguire in tivù ma che per la prima volta possiamo saggiare su un palcoscenico vero e proprio. Non più la scenetta, l’intermezzo mordi e fuggi, la prova si fa completa: che altro non è che una conferma. La breve scenetta prende spazio, diventa i 90’ di spettacolo, si è animata a tutto tondo, si è irrobustita, i caratteri se ancora ce ne fosse necessità si sono delineati maggiormente, certo, in una scrittura di più ampi profondità e spessore, ma nello spettatore si fissa la certezza di essere davanti a quattro eccellenti attrici. Antonella Prisco gioca appieno, in bell’equilibrio, tra le leggi del quotidiano e una sembianza intimamente staccata dal reale, dentro quell’aria di sogno e stralunata che già le conosciamo, Luisa Amatucci esprime in maniera viscerale la disperazione del proprio racconto, con l’umanissima tragicità della tragedia greca, Gina Amarante assai credibile tra esuberanza e desideri e gioie di un attimo, Miriam Candurro disegna con gusto l’appartata del gruppo, la più “signora”, quella che non vorrebbe confondersi. Non certo in disparte Pippo Romano, a fare da perfetto legame tra quei racconti di streghe che finiscono col distruggere. Vivissimo successo.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcuni momenti dello spettacolo.

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