LE CENE DI BEATRICE
Era il 2007 quando la casa editrice Rizzoli pubblica “Scusa ma ti chiamo amore” di Federico Moccia, con tutta l’annessa tematica sulle differenze generazionali.
Un concetto da me ampiamente sottovalutato, finora.
Ebbene, sottovalutando si impara.
Ma cominciamo dall’inizio.
Dalla solita ricerca dell’amore, dalla passione per la cucina, dall’invito a cena da parte di Franco al Carlo e Camillo bistrot.
Anna la mia visionaria amica tenta sin da subito didissuadermi indicando più volte la mia data di nascita sul documento.
Una consueta stretta di mano con Franco e tutti quei gingilli appesi alla cravatta rendono chiaro ciò che Anna intendesse.
“Escludendo Raoul Bova, vent’anni sono eccessivi.”
Appare cosi. Un levriero dipinto a olio, ricoperto da stemmi e polvere.
Rigato da anni di sigari.
Chissà, mi domando, se la versione giovane di Franco Gray è a far festa con Lord Henry Wotton nella bellaParigi.
Chissà.
Superato il trauma iniziale ci conducono all’interno del Bistrot, prolungamento scintillante del Grand Hotel Sitea di via Carlo Alberto.
In pochissimi istanti vengo rapita dall’aria aristocratica dell’arredamento.
Boiserie, inserti dorati, drappeggi rosso carminio lungo le pareti e mise en place minimal. L’assenza di tovaglie rimarca il concetto “Pop” voluto per questo format. Dall’amore per la cucina e la capacità di mediazione di Camillo Benso nasce uno stellato dove l’eleganza sabauda è accessibile e intima.
Così intima che tutto induce ad allungare un tacco dodici sotto il tavolo.
Freno subito la fervida fantasia dei lettori: Fossi matta.
Ci accomodiamo accanto al caminetto sotto il dipinto di Vittorio Emanuele II, il quale ispira Franco a favellare su D’Annunzio, unità d’Italia e successioni reali.
Tipici discorsi da primo appuntamento.
La proposta gastronomica coordinata dallo chef stellato Davide Scabin veste di concretezza e di sapori conosciuti stupendoci tuttavia con paradossi fra gli elementi come solo un’ artista sa fare. Un lavoro di meticolosa sottrazione che conduce alla frase: “La semplicità è un punto di arrivo non di partenza”.
Franco e i suoi ridondanti gingilli d’oro sembrano non aver appreso nulla dalle parole sopra citate.
Si presentano una serie di piccoli entrèe accompagnati da due calici di Franciacorta e Franco ordina un nebbiolo 2020 di Giacomo Fenocchio, vino che preannuncia in modo eccelso le portate che seguono.
Il vitello tonnato “pop art” con salsa tonnata e capperi, la zucca al castelmagno e tartufo nero, rivelano una scelta di materie prime di qualità, ma è la Faraona alla Marengo cotta a bassa temperatura a dare il vero twist al mio palato.
Accompagnata da funghi porcini e tuorlo d’uovo gioca sulle consistenze e sui colori caldi della stagione, rendendo i discorsi lenti e leziosi del mio commensale più sopportabili.
Terminato il suo caponet di trota salmonata e aceto rosso, Franco cerca nel mio sguardo una sorta di grafico dati sull’andamento della cena. Limito il feedback ad un sorriso circostanziale generando un’ involontaria speranza.
Franco Gray avanza così, all’atto finale.
“Sali su in hotel per un drink?”
Meidei Meidei.
Si può dire del ristorante miei cari lettori, che questomeriti la fama che ha.
Una coccola, un piacere, un’ esperienza dai sapori piemontesi immersi in quello che è stato alloggio di famosi artisti, scrittori e musicisti del passato.
Ma che di certo, non sarà il mio per questa notte.
Addio mio caro, noioso, ritratto di Franco Gray.
In fondo era storia già scritta, finale già visto.
Soltanto io non avevo
un pugnale
nascosto nei collant.
Elena Varaldo
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