Novembre 2018- Pagina 6

LUPO UCCISO A LANZO: LAV OFFRE RICOMPENSA PER INDIVIDUARE IL RESPONSABILE

Il 13 novembre lungo la strada provinciale 1, tra Lanzo e Germagnano in provincia di Torino, i Carabinieri hanno ritrovato una testa di lupo mozzata, appesa a un cartello della segnaletica stradale. Un inequivocabile segnale, un avvertimento in stile mafioso per far capire che da quelle parti i lupi sono destinati a essere uccisi da mani vigliacche, in piena violazione delle norme nazionali e europee.“Un atto aberrante, di una crudeltà inaudita che non può essere tollerato – commenta Massimo Vitturi, responsabile LAV, Animali Selvatici – sappiamo bene quanto sia difficile individuare i responsabili in casi del genere, proprio per questo riteniamo che si debba mettere in campo ogni tentativo per smascherarli. “La LAV ha così lanciato una campagna rivolta proprio ai cittadini di Lanzo e Germagnano, con la quale l’associazione animalista di impegna a pagare 7.000€ a chiunque fornisca informazioni utili alla condanna del responsabile dell’uccisione del lupo.“Da oggi negli esercizi commerciali dei due comuni  della città Metropolitana di Torino, saranno reperibili i nostri volantini, naturalmente ogni segnalazione ricevuta sarà da noi inoltrata ai Carabinieri che svolgeranno le dovute indagini – conclude Vitturi – questo animalicidio non deve restare impunito!” 

Salone dell’auto, a Torino dal 19 al 23 giugno

Per la sua quinta edizione, il Salone dell’Auto Parco Valentino si sposta di due settimane (dal 19 al 23 giugno 2019) per avere ancora più pubblico. Lo ha annunciato il presidente del Comitato organizzatore, Andrea Levy, presentando la manifestazione in una seduta congiunta delle Commissioni Sesta, Terza e Quinta, presieduta da Federico Mensio, alla presenza dell’assessore al Commercio Alberto Sacco.Posticipare la kermesse, sempre a ingresso gratuito, rimandandone lo svolgimento a quando le scuole saranno chiuse, permetterà di aumentare il pubblico del 20%, secondo Levy (nel 2018 si sono registrati 700mila visitatori, da tutte le 102 province italiane e da 81 Paesi stranieri, con una ricaduta sul territorio di 4,2 milioni di euro).L’altra novità sarà il tema dell’edizione 2019: il design.Verranno assegnati il Premio “Car Design Award” (dal 2015, stabilito da una giuria di 14 giornalisti internazionali) e il nuovo “Parco Valentino Collector’s Award”, con collezionisti di automobili che arriveranno da tutto il mondo. Ci saranno poi numerosi eventi a tema design (non solo nel settore dell’auto) e le “piazze del design”, con l’esposizione delle collezioni dei più grandi car designer, come Pininfarina, Giugiaro, Fioravanti, Spada, Stola, Zagato, Bertone.

(foto Claudio Benedetto www.fotoegrafico.net)

NUOTO: Mondiali, gli ultimi risultati degli azzurri

Si sono conclusi domenica i Mondiali di nuoto per salvamento Assoluti e Youth e l’Italia ha concluso l’evento iridato di Adelaide con 14 medaglie, 5 d’oro, 5 d’argento e 4 di bronzo. L’ultimo titolo porta la firma di Lucrezia Fabretti (In Sport Rane Rosse), prima nei 100 manichino pinne Youth dopo il terzo posto ottenuto ieri nei 100 percorso misto. Nelle gare giovanili in vasca ha raggiunto finali e buoni piazzamenti anche Francesca Pasquino (Nuotatori Canavesani), oggi sesta nei 200 super lifesaver in 2’35”19 e nei 50 manichino in 38”21. Ieri la giovane nuotatrice piemontese allenata da Gianni Anselmetti – anch’egli in Australia in quanto tecnico responsabile della nazionale giovanile – si era piazzata quarta nei 200 ostacoli e sesta nei 100 manichino pinne e torpedo. L’Italia ha chiuso al quinto posto nella classifica per nazioni e al terzo in quella relativa alle gare in piscina. Ad Adelaide è però in programma ancora tanto nuoto per salvamento; scattano domani i Mondiali interclub, cui partecipa anche la Sa-Fa 2000 Torino con un folto gruppo di atleti volati in Australia nei giorni scorsi.

Salone del Libro e non solo. Torino si sveglia?

di Ibis

Dopo il Sì tav , Sì al salone del libro. C’è qualcosa d nuovo, o forse d’antico a Torino, ma non sono tornate a fiorir le viole, bensì la società civile, quella vera. E’ un sogno? Forse. Certo è presto per dire se è realtà. Le 7 donne che hanno promosso il movimento ” Sì, Torino va avanti” hanno un grande merito: di aver risvegliato l’opinione pubblica di una città rassegnata al suo declino , una città dove (pur con lodevoli eccezioni che poi dirò, ma di cui dirò anche i limiti) piccole élite di “rentier” vivono di rendite economiche o politiche che difendono cercando ,come ogni classe che vive di rendite, di evitare troppi sussulti e cambiamenti. Un atteggiamento non volto a promuovere la rinascita, ma soltanto a rallentare il declino. E’ una bella cosa che i torinesi siano tornati così numerosi in piazza e non per dire dei no. La città ha visto, sì , gruppi scendere in piazza ,ma sempre per dire no : alla Tav, con contorno di facinorosi giunti da tutta Italia e poi , come sempre a ogni tentativo di riforma, studenti e qualche professore contro le annunciate periodiche riforme, per dire no a qualche inceneritore o discarica e così via. Ma quali sono gli sviluppi di questa cosa straordinaria che è avvenuta il 10 novembre ? Uno sicuramente positivo: dopo il sì alla Tav si è creato un altro movimento per tenere il Salone del libro a Torino, che è figlio del primo, nel senso che è stato promosso da chi aveva firmato il primo appello ed era sceso in piazza. No so se il tentativo di una sottoscrizione popolare per comprare il marchio andrà a buon fine. E’ comunque un fatto positivo in una città che non ha battuto ciglio ( tranne qualche giornalista isolato) di fronte alla perdita di cose di straordinaria importanza , la cui sparizione è una delle principali cause del della mancata ripresa dopo la grande crisi del 2008. Ne cito 3 , e le chiamo con nome e cognome : sono 2 banche , la Cassa di Risparmio di Torino, che era la seconda cassa di Risparmio italiana, svaporata in Unicredit (a Milano) e il colosso San Paolo , incorporato in Intesa, che ha visto emigrare a Milano il 70% delle sue posizioni dirigenziali; la terza cosa è il Salone dell’auto, che nell’ultima edizione torinese (10-18 giugno 2000) , già penalizzata da chi ne aveva ottenuto il marchio e voleva unificarlo al motor show di Bologna ( Cazzola) , aveva avuto il doppio del pubblico di un Salone del libro o del gusto. Si approfittò allora della grave crisi Fiat, e della scarsa lungimiranza degli enti locali ( Regione , giunta Ghigo, comune, giunta Castellani, Provincia giunta Bresso) che non vollero né investire né trovare partner per continuare la manifestazione e la cedettero gratuitamente al suo principale concorrente , quel Cazzola che organizzava a Bologna il Motor show: fra spinte e complicità politiche e miopia totale.

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Il Salone dell’auto muoveva investimenti diretti e un indotto molte volte superiore a tutte le manifestazioni fieristiche torinesi di successo: si pensi che la sola Mercedes spendeva 10 miliardi di lire per il suo stand. La scusa più cretina fu che ” non si fanno i Saloni dell’auto nella città sede di una casa automobilistica”, peccato che quello Usa si tenga a Detroit. Per concludere, ho detto che ci sono ancora alcune eccellenze, ma con limiti che non provocano quella rinascita complessiva della città. Penso alla Lavazza ( che ha investito nella sua nuova sede) , alla Reale, alla Ersel ( finanza) dei Giubergia, a qualche grande studio professionale di livello internazionale. Ma nessuno si impegna veramente per la città ( anche se il loro successo è un bene per Torino) e non porta in Torino asset strategici differenziati come fece Berlusconi a Milano che passò dall’edilizia alla Tv , all’editoria alla finanza. Infine il grande assente è Exxor la finanziaria della famiglia Elkann-Agnelli. Non credo che basterà il turismo o il food per fermare il declino di un’area di un milione e mezzo di abitanti, né l’Università o il Politecnico. I Torinesi, quella borghesia apatica che ora si accorge dei delitti commessi contro la sua città dalle classi dirigenti, scendono in piazza. Come sempre è la prima volta in Italia che succede una cosa simile.

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I promotori del comitato “Pazzi per Torino – Salviamo il Salone del Libro” sono Roberto Tricarico, Franco Maria Botta, Irma Ciaramella, Pierluigi Balducci, Massimo Di Braccio.

TORINO, DONATI CENTINAIA DI PANETTONI ALLA ‘MENSA DEI POVERI’

Il mecenate e imprenditore Cristiano Bilucaglia prosegue la collaborazione con Don Adriano Gennari, sacerdote di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, sempre in prima linea nella carità a indigenti e malati

 

Natale, tempo di doni, con uno sguardo attento rivolto alle realtà più bisognose e in difficoltà che necessitano di aiuto costante e generoso. Martedì 27 Novembre, alle ore 15.00, la ‘Mensa dei Poveri’ del sacerdote cottolenghino Don Adriano Gennari a Torino in Via Belfiore 12 (che sfama in tutto circa 6.000 indigenti al mese, tra pasti preserali, domenicali e distribuzione settimanale di pacchi-famiglia), ha ricevuto un gradito regalo: “Dopo la pasta donata nel giorno di San Giovanni Bosco, per Natale una fornitura di 1.000 porzioni di panettone artigianale di prima qualità, prodotte con il denaro fatto risparmiare agli italiani con le bollette di luce e gas azzerate“, spiega l’imprenditore e ingegnere biomedico e informatico Cristiano Bilucaglia (fra i padri nobili della moderna sharing economy) il primo al mondo ad aver ideato a Pianezza ‘ZERO’, il ‘social utility network’ che azzera le bollette di luce e gas, accise e Canone Rai inclusi. Un sogno divenuto realtà per oltre 20mila italiani dal 2015 a oggi. Bilucaglia, torinese, non è nuovo ad atti di mecenatismo: nel 2013 finanziò il busto del Monumento Nazionale al Generale dalla Chiesa al Comune di Collegno. Nel giugno del 2018, insieme al giornalista Maurizio Scandurra, ha donato il candelabro artistico liturgico per il presbiterio di Maria Ausiliatrice, la Basilica di Don Bosco nel 150° dalla fondazione. In un contesto sociale in cui le persone sono assillate da stimoli esterni continui e per lo più perdono la giusta rotta, allontanandosi dalla vita vera, Don Adriano Gennari è un faro acceso sul presente contingente che guida le anime al risveglio e al recupero dei valori cristiani”, dichiara soddisfatto Cristiano Bilucaglia, da sempre uomo e professionista sensibile alle esigenze del territorio piemontese.

 

 

Dopo 31 anni confessa di avere ucciso la persona sbagliata

Dopo 31 anni c’è un colpevole per l’omicidio di Roberto Rizzi, che fu  ucciso per uno scambio di persona nel 1987 a Torino, nel bar “I tre moschettieri” in via Pollenzo. Un ex collaboratore di giustizia  ha confessato il delitto alla polizia di Torino. Gli era stato commissionato da persone legate al clan Belfiore, ma la vittima doveva essere Francesco Di Gennaro. Però il sicario sbagliò persona. Di Gennaro fu poi assassinato nello stesso bar, il 24 agosto 1988, da alcuni killer della famiglia Belfiore. Potrebbero esserci altri collegamenti con i numerosi omicidi di quel periodo, la polizia indaga.

Nuove vittime sulle strade: un morto e tre feriti

DALLA PUGLIA 

Un uomo è morto e tre persone  ferite, di cui una in modo grave. E’ il bilancio dell’incidente stradale avvenuto  sulla statale 17  Foggia – Lucera. La vittima è Mario Franciolini, di 45 anni, di Tricarico. I feriti sono due anziani, la mamma della vittima, di  73 anni e lo zio di 74, che viaggiavano a bordo di un’Alfa 147. Secondo la ricostruzione la vittima era alla guida della vettura quando, per cause in corso di accertamento, ha tamponato un furgone Fiat Ducato, il cui conducente è rimasto ferito.

“AperIndiamo”, serata di beneficenza al museo Fico

Al MEF a favore di “Care&Share Italia”

L’invito arriva dal MEF-Museo Ettore Fico di via Cigna 114, a Torino, che mercoledì 28 novembre, ospiterà, dalle 18 alle 21, una serata di presentazione delle attività di Care&Share Italia onlus, una ONG che, da oltre 25 anni opera in India a sostegno dell’infanzia vulnerabile, attraverso la realizzazione di progetti di cooperazione internazionale e di sostegno a distanza. La serata verrà aperta da Andrea Busto, presidente e direttore del MEF; seguiranno interventi di Kalamani Arumugam, direttore generale di Care&Share in India, e di Antonio Benci, direttore di Care&Share Italia. Al termine, cocktail e visita alle mostre in corso. L’ingresso è al costo di 10 Euro; parte del ricavato verrà devoluto a Care&Share. Per info: MEF-Museo Ettore Fico, via Cigna 114, Torino; tel. 011/852510 o www.museofico.it

g. m.

 

Assolti Bettega, Giraudo e Moggi

La Corte di Appello a Torino ha confermato  l’assoluzione dei tre ex dirigenti della Juventus nel processo sulle presunte plusvalenze realizzate sulla compravendita di giocatori. Erano coinvolti Antonio Giraudo, Luciano Moggi e Roberto Bettega, che dovevano rispondere di reati societari e fiscali. La sentenza di assoluzione di primo grado risaliva  2009. Le vicende sono cadute in prescrizione e la Corte ha  ha dichiarato la decadenza dell’appello della procura. Gli episodi all’esame dei giudici riguardavano il periodo  tra il 2001 e il 2006

Terra di frontiera: nei Balcani il destino del “secolo breve” (Seconda parte)

BOSNIA BANDIERAREPORTAGE di Marco Travaglini – La Bosnia-Erzegovina è un crocevia, tra le Alpi Dinariche, la Croazia e la Serbia. E’ nel proprio nome che questi luoghi svelano il proprio destino. Bosnia deriva dal fiume Bosna che nasce nei dintorni di Sarajevo. In illirico “boghi-na” significa “scorrente” mentre Erzegovina sta per “Ducato”, quale fu l’intera zona dei Balcani occidentali dalla metà del 1400. E’ un po’ ardito tradurre il tutto in “Ducato scorrente” ma aiuta a  cogliere l’essenza di una terra che ha visto scorrere la storia, passare regni e popoli, culture e religioni. Terra di frontiera, “limes” che riassume tanti destini nella porta d’accesso e transito tra Oriente e Occidente

SECONDA PARTE

Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani

Dopo un viaggio di alcune ore, appena varcata la frontiera con la Croazia, arriviamo a Jasenovac.  Quando si pensa ai campi di concentramento tornano alla memoria i lager in Germania,Austria, Polonia o in Repubblica Ceca. Ma c’è anche “l’Auschwitz dei Balcani”, questo terribile campo di Jasenovac, in Croazia, creato dalle forze ustascia di Ante Pavelic,con la collaborazione dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani. Il campo di concentramento si trova ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria e  venne costruito tra l’agosto del 1941 e il febbraio del 1942 proprio sulle rive del fiume Sava, che segnano il confine naturale tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. All’entrata c’era scritto: “Red, Rad, Stega”, cioè “Ordine, Lavoro, Disciplina. In seguito all’alleanza dei croati ustascia con le potenze dell’Asse e con la conseguente adozione da parte di Zagabria dell’ideologia razzista, il campo di Jasenovac doveva essere destinato, per i nazisti –  principalmente a ebrei, oppositori politici e zingari. I croati, invece, aggiunsero un elemento in più, considerandolo il luogo adatto in cui internare e distruggere la popolazione serba. Cosìil maggior numero di vittime del campo furono per lo più serbi (il 56 per cento degli internati), oltre agli ebrei, zingari (quasi sempre uccisi non appena mettevano piede a Jasenovac), bosgnacchi (bosniaci musulmani), dissidenti croati e in generale tutti i membri della resistenza, compresi i partigiani e i loro simpatizzanti, etichettati dagli ustascia come “comunisti”. Le condizioni di vita erano simili a quelle degli altri campi di concentramento sparsi per l’Europa: cibo scarso, alloggi con pessime condizioni igieniche, undici, dodici ore di BOSNIA JASENOVAKduro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua del fiume Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, aveva un trattamento un po’ più umano. Per tutti gli altri toccava subire le angherie degli ustascia. Nell’agosto del ’42 nacque una scommessa tra le guardie su chi avesse massacrato il maggior numero dei prigionieri, che venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. Ad Jasenovac vennero utilizzati i forni della fabbrica di mattoni come  crematori, per un breve tempo e lì trovarono la morte donne e soprattutto bambini (almeno 20mila tra zingari, serbi ed ebrei). L’inferno finì nella primavera del 1945.Il 22 aprile circa 600 prigionieri si ribellarono, ma le guardie ne uccisero la stragrande maggioranza e solo in 80 riuscirono a fuggire. Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli ustascia uccisero i restanti detenuti e diedero fuoco agli edifici, alle fornaci, alle camere di tortura e a tutto ciò che potesse testimoniare le atrocità commesse. Oggi, quello che rimane è un memoriale in ricordo delle vittime e un enorme dibattito nato tra i serbi e i croati sul numero dei morti, laddove i primi parlano di circa mezzo milione e i secondi cercano di impostare le cifre al ribasso. Secondo le fonti più accreditate, a Jasenovac persero la vita circa 100mila persone, di cui 45-52mila serbi, 15-20mila zingari (questo però è il dato più controverso e di difficile verificabilità), tra i 12 e i 20mila ebrei, e tra i 5 e i 12mila croati e bosgnacchi. E anche, leggendo l’elenco, diciotto italiani dei quali una donna. Fuori dal mausoleo, nell’aperta campagna che ospitò le baracche e le strutture del campo, sorge il “Fiore di Jasenovac”, il monumento-simbolo progettato dall’architetto e artista serbo Bogdan Bogdanovic. Tutt’attorno, nel terreno reso paludoso dalla pioggia e dalle frequenti esondazioni della Sava, s’intravedono i tumuli che fanno parte dell’assetto paesaggistico del memoriale. Piccole alture erbose che si ergono dove c’erano le baracche e dove i detenuti conobbero atrocità, sofferenze ed esecuzioni. Il tutto in un paesaggio silenzioso, in un luogo – come Bogdanovic stesso volle indicare – “angoscioso, profanato dal crimine”.

 

Zagabria

ZAGABRIABella, elegante Zagabria, dal profilo austro-ungarico,ci accoglie senza la pioggia fastidiosa che ci ha accompagnati per il resto del viaggio. La capitale della Croazia, adagiata tra le pendici meridionali del monte Medvednica e la sponda nord della Sava, è da sempre un centro importantissimo per gli scambi e per i traffici tra l’Europa centrale e l’Adriatico. Una città che offre una forte immagine di sé, coesa, unita. Pensare che durante il XIV secolo e quello successivo, era divisa in due centri – Gradec e Kaptol – che cercarono costantemente di danneggiarsi a vicenda. Al tempo di quelle lunghe dispute, la città vescovile poteva scomunicare Gradec, che rispondeva con i fatti, incendiando la rivale. I due centri collaboravano solo per motivi commerciali, come le tre grandi fiere, della durata di due settimane, che si svolgevano nel corso dell’anno. Solo all’inizio del XVII secolo, Gradec e Kaptol divennero un’unica città, Zagabria. Durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945, Zagabria fu la capitale dello Stato Indipendente di Croazia retto da Ante Pavelić, leader degli Ustascia, i croati ultra-nazionalisti che promossero la pulizia etnica dello stato contro i serbi, gli ebrei e i rom. Al termine del conflitto la città divenne capitale della Repubblica Socialista di Croazia. Quarantasei anni dopo la liberazione, nel 1991,l’allora presidente Franjo Tuđman dichiarò l’indipendenza della Croazia, scatenando la reazione bellica della Serbia.

 

Lubiana

LUBIANAAnche Lubiana, capitale della Repubblica Slovena è un gioiello d’arte e architettura, con il suo centro storico in stile barocco e Art Nouveau. Ciascun quartiere conserva la sua impronta storica: medioevale, barocca o liberty anche se, tutta la città porta il segno  delle incredibili opere dell’ architetto urbanista Jože Plečnik a cui, dagli Anni Venti fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne affidato il compito di ridisegnare la città adattandola secondo i suoi gusti. Ovviamente l’intera città risente molto dell’influenza della vicina Austria. Sulla collina, di Grajska Planota la severa moledel castello domina dall’alto la città adagiata sul fiume Ljubljanica  e il centro storico dove si trovano   i maggiori monumenti. Anche Lubiana è un crocevia della storia balcanica e ,durante il secondo conflitto mondiale, nel 1941, fu occupata e annessa dall’Italia. L’intera città e il territorio circostante (la Bassa Carniola) divennero così una provincia italiana della regione Venezia Giulia, di cui Lubiana fu capoluogo con sigla automobilistica LB. Per contrastare la rivolta della popolazione locale, nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 1942, le autorità militari italiane cinsero con filo spinato e reticolati l’intero perimetro di Lubiana,disponendo un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite. Il recinto era lungo ben 41 chilometri e furono arrestati circa 19 mila uomini, dei quali poco meno di un migliaio  furono deportati nei campi di concentramento. Le violenze non terminarono lì e, fino all’8 settembre 1943, le autorità militari italiane fucilarono, per rappresaglia, oltre 100 ostaggi presso la cava abbandonata Gramozna jama, nella periferia di Lubiana. Dopo l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico nel maggio 1945, esercito del Reich e milizie nazionaliste slovene si arresero all’armata partigiana  di Tito. Così,fino all’indipendenza del 1991, la città divenne capitale della Repubblica socialista di Slovenia.Dopo una breve tappa a Capodistria, il nostro viaggio prosegue verso Trieste.

 

Risiera di San Sabba (Trieste)

La visita alla Risiera di San Sabba è d’obbligo. Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 ( lo Stalag 339). Poim verso la fine di ottobre di quell’anno, venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

Nel primo stanzone posto alla sinistra di chi entra c’era la “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in SAN SABBAciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri, Queste celle erano riservate ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal “Civico Museo di guerra per la pace” a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato trafugato nel 1981). Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo. Quante sono state le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio.

 

Trieste, molo Audace

Il cerchio sta per chiudersi e seppure il nostro viaggio finirà a Torino, dove è iniziato, l’ultima tappa a Trieste – lasciata la Risiera – è qui: al molo Audace, in pieno centro città, a pochi passi da Piazza Unità d’Italia, sul molo che  separa il bacino di San Giorgio dal bacino di San Giusto del Porto Vecchio. Esattamente lì dove, cent’anni fa (al tempo in cui era ancora chiamato Molo San Carlo) ,gettò l’ancora la corazzata austriaca Viribus Unitis, sbarcando le salme dell’Arciduca  Francesco Ferdinando e della moglie Sofia,morti in quell’attentato di Sarajevo che cambiò la storia del Novecento. Lì, dove il  3 novembre del 1918, alla fine della prima guerra mondiale, la prima nave della Marina Italiana ad entrare nel porto di Trieste e ad attraccare al molo San Carlo fu il cacciatorpediniere Audace, la cui ancora è ora esposta alla base del faro della Vittoria. E’ un luogo simbolico, degli arrivi e degli incontri, nella città stretta tra il Carso e il mare. TRIESTERiassume un po’ l’intero confine orientale che è stato spazzato di continuo dai venti della Grande Storia. Un mosaico di mare, rilievi ed altopiani che è stato teatro di incontri e di scontri.Le battaglie maledette della Prima Guerra Mondiale, il pugno duro del fascismo di frontiera, le crudeltà della seconda Guerra Mondiale, con l’occupazione nazista, il ruolo del fascismo di Salò, la dura lotta partigiana jugoslava, l’orrore delle foibe, l’esodo imposto agli Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e l’imposizione di confini di Stato nel 1947 hanno soffocato queste  terre tra violenze e fili spinati, sfregiando e prosciugando un’antica e variopinta comunità di genti. Sul confine orientale le linee di confine hanno diviso come mannaie il territorio, prima tra Italia e Jugoslavia, e poi – nel 1991 – fra Italia, Slovenia e Croazia, spezzando tragicamente comunità, famiglie,esistenze individuali, abitudini quotidiane e commerci di lungo corso, segnando per decenni la vita pubblica di quelle terre. E più in giù, in terra erzegovese e bosniaca, dove i ponti che univano furono abbattuti e il “secolo breve”, il Novecento, iniziò cent’anni fa a Sarajevo, per finire poi, nel sangue dei conflitti e degli assedi con le guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90.

 

 Marco Travaglini

Fine

(La prima parte è stata pubblicata ieri nella sezione DALL’ITALIA E DAL MONDO)