“Il Sancarlone” di Arona e l’irriverente Piero Chiara di “Sotto la sua mano”

Per costruire la statua – alta poco più di 23 metri , appoggiata su di un piedistallo di granito dell’altezza di quasi dodici metri, seconda per altezza solo alla Statua della Libertà – furono  richiesti 84 anni di lavoro

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Il 19 maggio del 1698 il cardinale Federico Caccia, arcivescovo di Milano, diede la solenne benedizione al Colosso di San Carlo Borromeo ( conosciuto anche come il Sancarlone o, nel dialetto locale al Sancarlòn), sulla collina del Sacro Monte San Carlo, ad Arona, sul lago Maggiore. Per costruire la statua – alta poco più di 23 metri , appoggiata su di un piedistallo di granito dell’altezza di quasi dodici metri, seconda per altezza solo alla Statua della Libertà – furono  richiesti 84 anni di lavoro. Un’impresa che mise alla prova il talento e la pazienza degli scultori Siro Zanella di Pavia e Bernardo Falconi di Bissone che operarono, con tutti gli aiutanti, sul disegno di Giovanni Battista Crespi, detto “il Cerano”. Un’opera mastodontica, realizzata su un’anima in muratura con lastre di rame battute a martello e riunite utilizzando chiodi e tiranti in ferro, eretta in memoria di San Carlo Borromeo che era nato nel 1538 proprio lì vicino, alla Rocca di Arona.  Quello che da molti viene sancarlone 3considerato tra i massimi riformatori della chiesa cattolica nel XVI secolo,  assieme a Sant’Ignazio di Loyola ed a San Filippo Neri, diventato vescovo e cardinale a ventidue anni, fu eletto cinque anni dopo, giovanissimo, arcivescovo di Milano e si prodigò nell’assistenza materiale e spirituale soprattutto in occasione di flagelli quali carestia e peste. Morì a quarantasei anni, il 3 novembre 1584 (secondo l’uso del tempo, essendo spirato dopo il tramonto, si considera il giorno quattro), fu beatificato nel 1602 e canonizzato nel 1610, a soli 26 anni dalla morte. Il cugino Federico Borromeo, anch’esso arcivescovo dell’arcidiocesi meneghina, più volte citato dal Manzoni ne “I promessi sposi” ( “Fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio”) , insieme a Marco Aurelio Grattarola, supervisore dei lavori del Sacro Monte, vollero che l’enorme statua fosse ben visibile dal lago Maggiore. Con il braccio destrosancarlone leggermente teso, benedicente.  E così fu. L’opera era, per altezza, tecnica e materiali utilizzati, in qualche modo simile al mitico Colosso di Rodi, enorme statua del dio Helios, situata nel porto della città greca, considerata – da romani ed ellenici, a quell’epoca-  una delle “sette meraviglie del mondo”. Anche quellastatua era alta circa 32 metri e, secondo l’opinione di alcuni storici, la struttura era costituita da colonne di pietra con delle putrelle di ferro inserite al suo interno, a cui venivano agganciate le piastre di bronzo del rivestimento esterno. Il “colosso di Rodi” restò in piedi per quasi settant’anni, fino a che l’isola greca fu colpita da un terribile terremoto  – nel 226 a.C. – che la fececolosso sancarlone crollare. La sua mole , sdraiata e “ferita”,  fu visibile per diversi secoli, come testimoniò Plinio il Vecchio affermando che “anche a terra la statua costituisce ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte statue tutte intere”. Smembrata a più riprese e rifusa a pezzi, fu in qualche modo riciclata con varie destinazioni in diversi punti del sancarlone chiaraMediterraneo. Secondo una leggenda, tra queste, figura anche il lago Maggiore, e più precisamente, la cittadina di Arona che, in epoca romana fu luogo di passaggio verso il passo del Sempione. Il Sancarlone, partendo proprio da questa leggenda,  è diventato – suo malgrado – protagonista di un racconto di Piero Chiara. Lo scrittore luinese, in “Sotto la sua mano” , con una fantasiosa narrazione venata di quell’umorismo anticlericale che spesso lo contraddistinse, immaginò che una parte della materia usata per costruire la testa e la mano della statua derivasse dalla fusione del membro virile del Colosso di Rodi, originariamente destinato ad abbellire il giardino di una casa aristocratica in età romana. Chiara, nel racconto, ricostruisce le peripezie della “parte”, che, finita da una grotta di Akka nelle mani chiara2di un antiquario e poi nella residenza sull’Aventino di un procuratore romano, affondò in un prato durante il trasloco a Pallanza, per riaffiorare nel 1692 e completare così – previa fusione che ne cancellò l’imbarazzante e irriguardosa origine – la statua del Santo.  Come da prassi,  il narratore, consapevole di dover maneggiare la storia con cautela, comprensione e una punta d’ironia, avvolse il tutto in una  dimensione d’incertezza, ricorrendo alle  formule prudenziali del “si dice, correva voce, venne riferito”. L’unica cosa certa è che “il Sancarlone” sta lì, sulla collina, da più di trecento anni e c’è sempre parecchia gente che lo visita, salendo le ripide e strette scale attraverso le quali è possibile raggiungere la testa. Gli occhi, le orecchie del gigante e alcune finestrelle che si aprono sulla veste, permettono di ammirare uno stupendo panorama tra le due riviere, quella piemontese fino a Solcio e quella lombarda, da Santa Caterina del Sasso ad Angera.

 Marco Travaglini

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