STORIA- Pagina 36

“Valbum”, figurine per conoscere la storia valdese

Nell’anno del proprio quarantennale Radio RBE ha intrapreso molte iniziative con l’obiettivo di festeggiare questo importante anniversario – un traguardo certo non scontato per un’emittente comunitaria nata sull’onda lunga delle radio libere anni Settanta – tra queste segnalo la creazione del primo album di figurine dedicato agli 850 anni dalla nascita del movimento valdese: Valbum.

 

Radio RBE ha scelto di omaggiare così una storia con cui è legata a doppio filo; RBE, infatti, è acronimo di Radio Beckwith Evangelica e nasce nel 1984 come avventura pionieristica per creare un’emittente di impianto laico e aperto al mondo, ma con le radici affondate in un’identità evangelica e protestante, nel solco dell’impegno verso la cultura e la comunità tracciato da John Charles Beckwith nella prima metà dell’Ottocento.

VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.

Renato Rascel, l’attore che nacque “per caso” a Torino

STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   

Il 2 gennaio del 1991, moriva dopo una lunga malattia Renato Rascel, nome d’arte di Renato Ranucci

di Marco Travaglini

Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.

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La sigla della trasmissione tv I racconti di Padre Brown

Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.

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Il Corazziere del 1961

Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.

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Una vecchia locandina

Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.

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Le più belle canzoni

Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.

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Rascel nelle vesti del Corazziere

Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.

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Rascel cantante

Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.

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Renato Rascel nei panni di Padre Brown

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Un primo piano di Renato Rascel

Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.

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Rascel con Giacobetti, Chiusano e la Mannucci del Quartetto Cetra nel 1970

Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.

Armi ottomane al Castello di Racconigi. I doni del sultano al re d’Italia

Quando la grande Storia passò per la Provincia Granda. Quel giorno il treno si fermò alla stazione di Racconigi. A quel tempo, tra ‘800 e ‘900, Racconigi era una fermata importante.
Arrivavano zar, sovrani e principi da ogni parte del mondo, ospiti dei Savoia nel castello sabaudo. Il 21 agosto del 1904 dal treno scesero degli uomini col turbante, tra lo stupore dei racconigesi che cinque anni dopo, nel 1909, avrebbero affollato la stazione e le vie del paese per dare il benvenuto ad un altro grande sovrano della storia, nientemeno che lo zar Nicola II in visita a re Vittorio Emanuele III. Ma cosa ci facevano i turchi a Racconigi? Inviati del sultano di Costantinopoli o spie al soldo di un regime sempre più vicino al tramonto?
Dal convoglio si fece avanti una delegazione diplomatica di alto livello guidata dall’ambasciatore turco Ghalib Bey e dal comandante delle guardie del sultano ottomano Abdulhamid II. I servitori scaricarono dal convoglio decine di casse contenenti i doni del sultano dell’Impero per Vittorio Emanuele III, re d’Italia. La reggia, in cui meno di un mese dopo nacque Umberto II di Savoia, l’erede al trono, si arricchì da un giorno all’altro di una straordinaria collezione di decine di armi antiche disposte su pannelli in modo da formare dei trofei d’armi.
Ma il grosso della donazione era costituito da ben 22 quintali di oggetti esposti su scaffali foderati in velluto rosso, al primo piano, accanto alla sala del biliardo, in un spazio chiamato la Sala delle armi turche, che oggi è la Galleria di Eolo. Ci sono armi da fuoco, diverse lance da cavalleria con la bandiera dell’esercito ottomano, un tridente di manifattura islamica e un antico roncone italiano preso durante le battaglie tra europei e turchi nel Quattrocento, pochi anni prima della caduta di Costantinopoli e dell’Impero bizantino nel 1453. Le armi antiche provengono dal Palazzo Yildiz di Istanbul e sono il segno di un lungo rapporto di amicizia e collaborazione tra il re e Abdulhamid II. Vittorio Emanuele III e Umberto II, l’erede al trono, trascorrevano a Racconigi i mesi estivi, lontano da impegni di corte. Gli scambi di regali furono frequenti e cominciarono ancora prima che Vittorio Emanuele diventasse re. Nel 1901 due grandi dipinti e una collezione di armi italiane erano partiti dal Quirinale alla volta della capitale turca mentre il sultano spedì in Italia alcune opere antiche della raccolta imperiale. A ben vedere, l’armeria-deposito del castello di Racconigi è forse l’ambiente più misterioso e intrigante di tutto il castello. Sono custoditi ben 22 quintali di armi tra fucili, archibugi, artiglierie, spade, asce, lance, revolver, armature, corazze, maglie d’acciaio, elmi in metallo e in stoffa consegnate dagli inviati del sultano ottomano a Vittorio Emanuele III nell’agosto del 1904.
Ogni oggetto fu sistemato in apposite vetrine in una sala attigua a quella del biliardo del Castello di Racconigi. A questo punto non stupirebbe se attorno al castello sabaudo o all’interno dello splendido parco aperto al pubblico trovassimo qualche spia turca travestita da turista. Speriamo che il “sultano” Erdogan, nostalgico delle glorie ottomane ed eccitato dai personaggi dell’Impero della Mezzaluna non sappia nulla e non si faccia avanti con la consueta aggressività per reclamare il “tesoro ottomano” nascosto nel deposito-armeria del maniero. Alcuni di questi oggetti sono esposti nell’ambito della mostra permanente “Storie dal mondo in Castello. Meraviglie da quattro continenti a Racconigi”. I pezzi più belli e pregiati sono un raro migfer (elmo) giannizzero del Cinquecento in seta, cotone, lino e rame dorato e soprattutto un’antica spada risalente al 1272 con iscrizione in arabo sulla lama. Altri cento oggetti, tra armi e manufatti, completano la raccolta dei prodotti artigianali extraeuropei presenti nell’esposizione. Tutti doni diplomatici, regali di ospiti illustri o ricordi di viaggio legati alla vita di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Un patrimonio rimasto finora nascosto nei depositi del Castello ma di grande rilievo per la storia della residenza sabauda. In vetrina si possono ammirare anche beni africani come un cofanetto egiziano donato alla regina Elena del Montenegro, uno scudo da parata etiope in seta e cuoio e una zanna d’avorio regalata a Umberto II insieme ad tanti altri oggetti provenienti da India e Persia, Sud America ed Estremo Oriente. La mostra, è aperta mercoledì, giovedì e venerdì con visite accompagnate alle 12.00 e alle 17.00. Sabato, domenica e festivi visite libere dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Per informazioni: 0172 84005
Filippo Re
Nelle foto
il Castello di Racconigi, spada araba del 1272, elmi ottomani

“E se un angelo a Lisbona…”: Gabetto – Di Mauro, la leggenda del Grande Torino continua

Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona  …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.

Gabetto, come è nato questo libro ?

Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.

Che presenta una particolarità ….

Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.

Ma c’è un fondo di verità ?

Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.

In quanto tempo ha scritto il libro ?

Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.

Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?

Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.

Che accoglienza ha avuto il libro ?

Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.

Che rapporto ha con suo Padre ?

Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.

Cosa vuole dire essere Granata ?

E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.

Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.

MASSIMO IARETTI

Il mosaico medievale tra il mondo antico e la ruota della fortuna

Restauro e allestimento all’interno del Museo Diocesano

Una lunga storia accompagna ormai il grande mosaico che, realizzato tra il 1170 e il 1190 nella chiesa di San Salvatore – fondata alla fine del 300 d.C., ricostruita nei primi decenni dell’anno 1000, a tre navate con un tetto a capriate, per essere distrutta alla fine del Quattrocento e far posto all’attuale duomo voluto dal vescovo Domenico della Rovere e dovuto ad Amedeo da Settignano conosciuto meglio come Meo del Caprino -, venne alla luce, nel corso di lavori di manutenzione, nel 1909: scoperta documentata da testimonianze, descrizioni, fotografie. I frammenti, rimossi, furono in un primo momento ospitati presso l’antico Museo Civico per essere in seguito ricomposti a Palazzo Madama nell’allestimento inaugurato da Vittorio Viale nel 1934. Nel 1996, nuovi scavi nell’area portarono il mosaico a essere ricollocato sul fianco del duomo, in corrispondenza del presbiterio della basilica antica, in aperta visione grazie ad una piramide vetrata progettata dallo studio Gabetti e Isola. Con il presentarsi di problemi conservativi, dovuti in special modo a infiltrazioni d’acqua, il mosaico veniva ancora una volta rimosso. Oggi, dopo il restauro che ha avuto l’alta sorveglianza di Tiziana Sandri e che ha visto gli interventi contributivi della Consulta torinese e della Reale Mutua, il mosaico di San Salvatore ha trovato la propria definitiva sistemazione pavimentale, nell’allestimento di Massimo Venegoni (l’eccellente posizionamento centrale che ha dovuto fare i conti “con quanto preesistente nella sala”, nuove luci, la valorizzazione dei dettagli, il filmato che aiuta il visitatore a comprendere meglio storia e caratteristiche e tecniche), all’interno del Museo Diocesano di piazza San Giovanni.

L’arcivescovo Roberto Repole, durante la presentazione nei giorni scorsi dell’attuazione del progetto, ha sottolineato come “recuperare un patrimonio storico non sia soltanto un fatto che appartiene alla chiesa ma altresì alla città tutta”, senza dimenticare che il mosaico presbiteriale, dalle radici pagane, ha subito “un processo di inculturizzazione” da parte del cristianesimo, laddove le antiche narrazioni volgevano ad “un più alto valore simbolico, finalizzato a istruire e ad ammonire i fedeli.” Mario Turetta, Segretario generale del Ministero della Cultura e Direttore avocante dei Musei Reali di Torino, ribadisce che “la sua esposizione nel percorso di visita del Museo Diocesano, visibile anche dall’area archeologica della Basilica paleocristiana dalla quale proviene, va ad arricchire l’offerta culturale avviata due mesi fa in occasione del trecentesimo anniversario del Museo di Antichità, con l’apertura al pubblico dell’area archeologica annessa al Teatro Romano, parte integrante dei Musei Reali.”

All’insegna del proprio disegno in bianco e nero, il mosaico di San Salvatore si pone come non ultimo esempio di quella ricca serie di pavimenti musivi romanici che caratterizza l’Italia padana e il Piemonte in particolare, ricordando Acqui, Aosta, Asti, Casale Monferrato, Ivrea, Novara e Vercelli, pavimenti che riprendono tecniche di età romana e spesso l’utilizzo di materiali di quella stessa età. Qui abbiamo l’unione di due racconti che facevano parte dell’immaginario medievale, la mappa del mondo e la ruota della fortuna, una geografia del tempo ricavata ad esempio dai trattati enciclopedici di Isidoro di Siviglia e una morale che stigmatizzava la vanità delle glorie terrene. Nello splendore di quanto oggi si può ammirare, nonostante le tante parti ormai inesistenti, ecco il mondo allora conosciuto – Europa, Africa, Asia – circondato dal grande cerchio dell’Oceano con le sue acque e le sue onde, ai quattro angoli la collocazione dei dodici venti (questi in gran parte perduti) e all’interno animali (i leoni a significare l’Etiopia, l’elefante l’India, il bufalo con il giogo l’Europa, e ancora grifoni e due gru dalle lunghe gambe) e creature fantastiche, una sirena a doppia coda, ad alludere alle varie regioni della terra. Ecco al centro l’immagine della Fortuna, “una figura femminile avvolta in un manto che afferra i raggi della ruota e la fa girare, determinando il successo e la disgrazia degli uomini, rappresentati da un personaggio che sale, raggiunge il culmine della gloria e infine precipita, colpito dalla sventura. Un’iscrizione, parzialmente conservata, fungeva da introduzione e da monito a coloro che si accostavano alle figurazioni del pavimento, salendo dalla navata centrale della chiesa verso l’altare.”

Ancora una volta una testimonianza preziosa, una tappa di un percorso che dovrebbe aprirsi senza interruzioni – al riparo della sicurezza e crediamo soprattutto degli intoppi burocratici – all’interno della intera area archeologica, e che percorra le tre chiese – non soltanto San Salvatore ma le consorelle Santa Maria di Domno e San Giovanni Battista, riportate alla luce -, i resti di abitazioni romane e dell’antico palazzo vescovile, le arcate di un chiostro e il decumano che si vede alle spalle del teatro. Altresì un allestimento che è una traccia importante per un passato medievale relativamente avaro e “un occasione per pensare anche oggi, sulla scorta dei padri antichi, alla natura del destino che, come scrive Bernardo di Cluny nel 1150, ‘gira come una ruota… mutevole, variabile e sempre instabile’.”

Elio Rabbione

La storia dei Cavalieri Templari

Templari, ancora Templari. La mole di libri sui Cavalieri medioevali cresce sempre di più perché il fascino della ricerca templare consiste proprio nel non avere mai fine.

Ma di loro sappiamo proprio tutto? Faceva freddo quel mattino, lunedì 18 marzo 1314. Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari e Geoffrey de Charnay, precettore di Normandia, vengono condotti sul rogo e arsi vivi. Sulla Senna a Parigi, di fronte alla Cattedrale di Notre Dame, si spegne per sempre il sogno dei Templari. In realtà la loro rovina era già iniziata con una grande sconfitta militare a San Giovanni d’Acri nel 1291. I Mamelucchi, i nuovi padroni della Terra Santa, gettarono in mare gli ultimi crociati e uccisero i prigionieri feriti o troppo vecchi e le giovani donne furono violentate davanti a tutti. Era la fine dei cristiani in Palestina e di quel che restava del regno crociato. Ha un ritmo incalzante la saga dei Templari raccontata da Marco Salvador e Matteo Salvador nel libro “Storia dei Cavalieri Templari”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine. Entrambi con la passione della ricerca storica ed esperti di strutture difensive, dai castelli medioevali alle fortificazioni degli ultimi conflitti mondiali, narrano le gesta dei Cavalieri tra vittorie sul campo e sconfitte, dai primi vagiti dell’Ordine del Tempio alla conquista musulmana di Acri passando per la disfatta di Hattin nel 1187, la perdita di Gerusalemme e la presenza di Federico II in Terra Santa. Ma il libro comincia dalla fine, dalla morte sul rogo degli ultimi templari. Gli ultimi giorni, le ultime ore di vita dei cavalieri del Tempio in forma di cronaca. “Fin dall’alba era stata proclamata a Parigi la sentenza di morte e l’ora dell’esecuzione. Una folla si era radunata sulla riva della Senna, la pira era pronta e il cancelliere iniziò a leggere ad alta voce la lunga lista delle accuse di eresia, di sodomia e di adorazione ma il popolo non pareva ascoltarlo e gridava qua e là “sono innocenti”. Finita la lettura, il cardinale si mise davanti al Gran Maestro dei Templari e chiese: “avete qualcosa da dire in vostra difesa?”. Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro, non gli rispose ma si rivolse alla folla proclamando l’innocenza sua e di tutto l’Ordine. Li legarono al palo, il Gran Maestro chiese di recitare le preghiere e poi gridò: “ecco, ora sarò giustiziato e Dio sa quanto ingiustamente”. Dopo quelle parole si appiccò il fuoco alle fascine che avvolsero subito i due corpi.
Colpi di tosse e urla, poi nulla più”. Durante l’epoca delle Crociate l’Ordine del Tempio, nato nel 1118-1119 sulla spianata del Tempio a Gerusalemme, divenne l’organizzazione religiosa- militare più potente della Cristianità. Guerrieri e religiosi al tempo stesso, i Templari nacquero con il compito di difendere i pellegrini che si recavano ai luoghi santi dagli assalti dei predoni musulmani. Poi parteciparono come soldati a tutte le Crociate e a decine di battaglie in Terra Santa e in tutta l’area mediterranea. Un’ordine di monaci-guerrieri famoso non solo per il coraggio dei suoi Cavalieri in difesa della Terra Santa ma anche per le sue ricchezze. Il Tempio divenne infatti il principale potere finanziario della Cristianità e più di un terzo delle entrate venivano reinvestite nella difesa della Terra Santa. Dopo la perdita di Gerusalemme nel 1187 i cavalieri si spostarono a San Giovanni d’Acri dove si svolse l’estrema difesa contro i musulmani. Sconfitti dai Mamelucchi d’Egitto nel 1291 i Templari furono costretti ad abbandonare la Palestina e a insediarsi a Cipro. Sull’isola e nel resto dell’Europa diventeranno una potenza economica e politica. All’inizio del Trecento la storia cambiò radicalmente. Sofferente per la grave crisi economica in cui versava la sua nazione, Filippo IV il Bello, re di Francia, se la prese con i Templari per impossessarsi delle loro ricchezze e dei loro beni e li accusò di eresia. Nel 1307 furono arrestati e portati davanti ai giudici. Il sovrano li accusò impietosamente mentre Papa Clemente V cercò di salvarli ma fu poi costretto a sospendere l’Ordine nel Concilio di Vienne nel 1312. Due anni più tardi, nel 1314, l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay fu arso vivo sul rogo. Quella dei Templari fu una storia gloriosa con una fine tragica. Il ruolo di papa Clemente V nella fine dell’Ordine è stato finalmente chiarito dalla storica Barbara Frale che nel 2001 ha scoperto la pergamena di Chinon. Si tratta dell’atto originale dell’inchiesta avvenuta a porte chiuse nelle celle del castello di Chinon, dove erano reclusi i Templari, rinvenuto dalla studiosa dopo settecento anni di oblio nell’Archivio Segreto Vaticano. L’inchiesta di Chinon si concluse con l’assoluzione dei capi templari dall’accusa di eresia e il loro reintegro nella chiesa cattolica. Completa il libro di Marco e Matteo Salvador un suggestivo “viaggio pittorico” con decine di acquerelli e disegni realizzati dal pittore inglese David Roberts a metà Ottocento che ci consentono di vedere alcuni dei luoghi dove i Templari agirono, da Gerusalemme a Giaffa, da Gerico a Hebron, da Ascalona a San Giovanni d’Acri, da Tiro a Sidone.                  Filippo Re

C’era una volta Marianini il colto re dei flaneur

Lo vidi una sera attraversare trafelato e furtivo tra Corso Duca degli Abruzzi e Corso Luigi Einaudi Gianluigi Marianini e come in un confronto all’ americana, tra la mia memoria semantica televisiva e    l’osservazione    diretta, lo riconobbi con certezza probatoria, dal suo vestire    eccentrico fuori stagione abbinato alla fisionomia occhialuta e    vagamente cavouriana.

Una volta interpellato dal Mike nazionale a    ‘Lascia o Raddoppia’ (1956) di delucidarlo sui suoi studi teologici    ed    esoterici, affermò sfoderando tutta la sua icastica ironia, che avrebbe    voluto prendere i voti ma vi rinunciò ‘ad limina’ perché la sua incurabile astemia, gli avrebbe impedito l’uso del calice durante    l’offertorio. Al suo dotto inquisitore ( così appellava Mike Bongiorno)    che gli faceva notare l’uso dei guanti in trasmissione, Marianini lo    corresse definendoli aulicamente chiroteche e così rafforzando la    ”leggenda metropolitana” che lo voleva appartenente alla    massoneria.    Flaneur e perdigiorno non svolse mai una professione ufficiale e stabile nonostante fosse trilaureato in filosofia, giurisprudenza e diritto    canonico. Fu professore di filosofia dell’inventore del telequiz    all’Istituto Rosmini, dove osava apparire dietro la cattedra vestito di    una finta talare, quando Bongiorno soggiornò con sua madre a Torino    durante gli ultimi anni della guerra. Fu membro dell’ Ordine dei    Templari, esperto di occultismo, spiritismo e demonologia divenendo    consulente di Paolo VI sul fenomeno delle sette sataniche anche nell’area    torinese. Disse una volta di potersi permettere di ”vivere libero    e    alla giornata seguendo interessi puramente ideali”. Era una buona    forchetta e divenne gastronomo ”col pretesto di poter mangiare a  scrocco”. Estroso, poliedrico, geniale scrisse anche una serie di   poesie che raccolse nel volume che ha per titolo Apophàntica (1941,    editrice Le Collane) dove compare il componimento    assertivo ”Dichiarazione a Torino” sua città prediletta e    musa    ispiratrice. Partecipò anche al Laureato di Piero Chiambretti su Rai    Tre. E’ mancato nel 2009 a 91 anni a Vicoforte nel cuneese e riposa a    Mondovì accanto al sua amata moglie Ornella.  Anima fluttuante della  Magica Torino.
Aldo Colonna

I templari e i vampiri dei Balcani nel castello della Rotta

Non solo templari e fantasmi di cavalieri morti in battaglia, leggende e suggestioni, ma molto di più.

Il castello medievale della Rotta a Moncalieri non finisce di stupire, più passa il tempo e più si infittiscono i misteri che lo circondano. Nuovi studi rilanciano la storia di questo maniero che ci porta anche molto lontano, nelle fredde terre ungheresi e in quelle dei principi di Valacchia e di Transilvania, i famosi Vlad Dracul. Da Moncalieri alla Romania. Abbiamo già scritto su questo castello ricordando storie e favole che volteggiano sullo stato fatiscente dell’edificio nei pressi di Moncalieri che rimanda alla storia dei Templari e poi a quella dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. D’altronde, tra le ipotesi che circolano sull’origine del nome stesso di Moncalieri c’è proprio quella che ritiene che derivi da Monte dei Cavalieri, perché l’antico ponte sul Po fu prima dei Templari e poi dei cavalieri di San Giovanni. Ma ora le vicende della Rotta si arricchiscono di nuovi capitoli grazie alle ricerche di Francesco Lorusso Léon, studioso di storia, archeologia ed esoterismo. Dopo aver scoperto un cunicolo nei pressi del castello, nascosto dalla vegetazione, che potrebbe risalire al medioevo templare, lo storico e artista sostiene che nel maniero sono passati i Cavalieri dell’Ordine del Drago e forse perfino Leonardo da Vinci. L’attenzione dello studioso si è concentrata sul proprietario del castello, Giorgio di Valperga, Gran Priore gerosolimitano, conte di Mazzè, nato nel 1371. Dopo anni di ricerche Lorusso Léon afferma con certezza che Giorgio di Valperga faceva parte dell’Ordine del Drago perché lavorava per Sigismondo di Lussemburgo, fondatore dell’Ordine del Drago, nato per contrastare l’avanzata del sultano ottomano nei Balcani. Era quindi al servizio di Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria e imperatore del Sacro Romano Impero, sconfitto in modo disastroso dai Turchi nella battaglia di Nicopoli nel 1396. Per ordine del sovrano il Valperga svolse vari incarichi tra cui quello di presidiare la frontiera con la Valacchia. Forse combatté gli Ottomani a fianco dei principi “vampiri” di Valacchia e Transilvania, i Vlad Dracul, che difendevano l’Europa dall’invasione ottomana, e che avrebbe poi ospitato proprio al castello. Morì sul campo di battaglia contro i turchi nel 1429. Ma la storia della Rotta continua. Dopo la morte del conte di Valperga i suoi successori ingrandirono il castello e alla fine del Quattrocento arrivò Ludovico il Moro, reggente del Ducato di Milano, e le gallerie sotto la residenza, sempre secondo le ricerche di Lorusso, sarebbero state probabilmente progettate da Leonardo da Vinci che in quegli anni lavorava per il suo signore, Ludovico il Moro.
Filippo Re
Nelle foto, Castello della Rotta, Francesco Lorusso Léon, archeologo e storico, conte Giorgio di Valperga

Nobili parentele monferrine

 

L’antica e nobile famiglia dei Sordi, oriunda di Cremona risalente al secolo XI° di origine greca dal generico significato nominativo attribuibile a differenti individui senza precisa identità e origine, era presente a Piacenza nel XVI° secolo, ramo estinto con Orsola Sordi e Bernardo Anguissola, membro della aristocratica famiglia piacentina di origine bizantina aggregata al patriziato veneziano da cui aveva avuto origine Sofonisba Anguissola, importante pittrice vissuta tra il ‘500 e ‘600. Nei secoli, la famiglia Anguissola si imparentò con illustri famiglie lombarde come i Gonzaga del principe Maurizio Ferrante (*1938), figlio di Luisa Anguissola-Scotti. I Sordi erano già presenti nel XIII° secolo a Milano, Crescentino, nell’abbazia di Lucedio con don Pietro Sordi e in Monferrato.
A Casale risiedeva Giovanni Pietro Sordi primo consignore infeudato di Coniolo nel 1589, presidente del Senato sia di Casale che di Mantova, ambasciatore del duca Vincenzo Gonzaga presso papa Clemente VIII° e autore di opere legali stampate a Lione, Francoforte e Venezia. Il figlio Guglielmo I° Sordi fu il primo conte infeudato di Torcello nel 1623, contea acquistata dal nonno materno Camillo Becchio di Occimiano da Francesco Fassati di Balzola nel 1576. I Fassati (o Fassato) discendevano dai Sordi, nominati promiscuamente conti di Torcello e Coniolo che nel 1530 acquistarono il primo cascinale di Balzola con Giovanni Francesco, marito di Isodina Sannazzaro dei conti di Giarole.
Illustre parentela fu generata dalla marchesa Fulvia Maria Fassati, figlia del governatore di Casale Evasio Ottaviano marchese di Coniolo e Balzola e di Cecilia Natta (figlia del conte Vincenzo di Fubine) con il primo marchese di San Giorgio Fabrizio Gozzani, nonno di Giovanni Battista che edificò il palazzo casalese San Giorgio, attuale sede
comunale. Nel 1705, in occasione del matrimonio, Fulvia ebbe in dote dal padre la Communa di Altavilla, proprietà redatta dall’agrimensore Pietro Francesco De Giovanni di Torcello con atto rogato dal notaio Evasio Bellati nello stesso anno.
Luigi Guglielmo III° Sordi conte di Torcello, signore di Coniolo e Rosignano, sindaco di Casale nel 1832 e gentiluomo da camera di sua maestà Carlo Alberto, generò una importante parentela con i Gozzani casalesi sposando Clara Maria Teresa, figlia del marchese di Treville Luigi Gaetano e di Carlotta Tarsilla, figlia del marchese Faussone Scaravelli di Montaldo (Mondovì), sepolta nel sepolcreto di San Germano.

Di rilievo il matrimonio del conte di Conzano Pio Gerolamo Vidua con Marianna Gambera, figlia dei conti Fabrizio Bernardino e Paola Gaspardone (figlia del conte Onofrio Del Carretto) cugina del marchese Giovanni Gozzani di Treville marito di Lucrezia Gambera, edificatore all’inizio del ‘700 dello splendido palazzo Treville di Casale progettato da Giovanni Battista Scapitta, nonno di Vincenzo Scapitta agrimensore delle proprietà Gozzani.
Il conte di Conzano Carlo Domenico Giuseppe Maria Vidua, figlio di Pio cresciuto dai nonni materni Gambera dopo la prematura scomparsa della madre Marianna, fu collezionista ed esploratore (unitamente ad un cugino Gozzani) e la città di Torino, a cui sono state donate collezioni e raccolte, gli ha intitolato una via nella zona San Donato. Leggende monferrine narrano di indagini commissionate dal re Vittorio Emanuele I° sul simbolismo dei Gozzani di Casale, effettuate da Guglielmo Sordi e Pio Gerolamo Vidua, le cui conclusioni sono opposte allo studio eseguito dall’autore sugli ipotetici blasonatori di Corte.
Armano Luigi Gozzano

Torino città del cioccolato: apre il museo Choco Story. Storia e segreti di una delizia

 

Dalla domanda su quale città italiana poteva essere la principale candidata a ospitare il Museo del Cioccolato, se non Torino, a cui è tradizionalmente legata da secoli, nasce Choco Story Torino.

Inaugurato ieri, alla presenza del sindaco Stefano Lo Russo e degli assessori al commercio Paolo Chiavarino e al turismo Domenico Carretta, il Museo del Cioccolato e del Gianduja apre così le sue porte per svelare e raccontare al pubblico l’affascinante quanto gustoso mondo del cioccolato.

Come viene coltivato il cacao? Come si passa dalla pianta al cioccolato fondente? Sono domande che trovano risposta lungo il percorso museale studiato e realizzato nei locali che un tempo erano i grandi laboratori sotterranei della storica pasticceria Pfatisch di via Sacchi 38.

Qui i visitatori potranno fare un “viaggio” appassionante e coinvolgente, ideato per intrattenere un pubblico di ogni età, che consente di esplorare le origini della coltivazione del cacao, le prime ricette dei Maya e degli Aztechi, l’importazione in Europa e naturalmente la nascita della grande tradizione artigianale di Torino e del Piemonte.

L’esposizione diventa così un racconto articolato sul legame tra Torino e il cioccolato, composto da numerose attività interattive e da oltre 700 oggetti, tra antichi strumenti per le lavorazioni di cioccolato e zucchero, tazze, cioccolatiere e confezioni delle grandi cioccolaterie piemontesi, oltre che da alcune sale che approfondiscono i diversi aspetti storici legati al consumo e alla produzione dell’alimento; ne sono esempi la stanza in cui si rievocano i tempi in cui i Savoia ebbero per primi il privilegio di gustare il cioccolato in forma di bevanda, come quella interamente dedicata alle nocciole del Piemonte, nella quale fanno bella mostra un macchinario di fine ‘800 per la sgusciatura dei frutti e un originale costume di Gianduja, simbolo del Carnevale Torinese messo a disposizione dalla Famija Turineisa, o ancora gli spazi dedicati alla mera produzione, allestiti con originali macchine in uso ad inizio ‘900 e ancora oggi perfettamente funzionanti.

I visitatori troveranno quindi un percorso ricco, pieno di attività interattive, che trova la sua conclusione su alcune vetrate direttamente affacciate sui laboratori artigiani che permettono di osservare il lavoro di veri maestri cioccolatieri, dei quali è poi anche possibile assaggiarne la produzione.

Insomma Choco Story Torino si candida come tappa consigliata, tanto per i torinesi quanto per i turisti con la passione del cioccolato o semplicemente curiosi.

«Come amministrazione – ha detto il sindaco di Torino Stefano Lo Russo – non possiamo che essere attenti verso la tutela e la valorizzazione di un prodotto così rappresentativo per Torino. La tradizione del cioccolato è parte integrante della storia e della cultura di questa città e una delle eccellenze che la rendono nota nel mondo. Per questa ragione non possiamo che essere lieti di questa nuova apertura: un museo che celebri la storia del cioccolato torinese e l’importante tradizione dei maestri cioccolatieri sarà un ulteriore elemento di attrattività per Torino e meta da non perdere per torinesi e turisti.»

“Torino è la vera capitale italiana del cioccolato – ha affermato l’assessore al Commercio Paolo Chiavarino – e questo museo celebra il ruolo importantissimo che il cioccolato gioca nella storia della nostra città e dell’Italia intera. Sono convinto che la ricaduta economica del cioccolato sulla città non vada sottovalutata bensì incoraggiata. Questa inaugurazione è un riconoscimento  che sottolinea una volta di più la straordinarietà di Torino e della nostra Regione”

“Sono certo – ha detto l’assessore al Turismo Domenico Carretta – che l’apertura del Museo del Cioccolato e del Gianduia contribuirà a far conoscere l’importante ruolo che Torino ha avuto nella creazione e diffusione del cioccolato. È di fondamentale importanza dare valore alla storia e ai luoghi storici della nostra città, come i grandi laboratori sotterranei di Pfatisch, che hanno contribuito in modo significativo alla produzione e alla tradizione del cioccolato. Invito tutti i torinesi e i turisti a visitare il museo per immergersi nella ricca storia e tradizione di questo prodotto, con l’augurio che possa diventare una destinazione imperdibile per tutti gli amanti del cioccolato e della storia di Torino”.

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