SPETTACOLI- Pagina 8

Per la stagione di Fertili Terreni Teatro è di scena Tiger Dad

Per la stagione Iperspazi 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro, in  San Pietro in Vincoli andrà in scena da giovedì 23 a sabato 25 ottobre prossimi, alle 21, la pièce teatrale ‘Tiger Dad’, produzione A.M.A. Factory  e Cattivi Maestri Teatro, con il contributo del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale e Europeo, interpreti Salvatore Nocera su testo e regia di Rosario Palazzolo.

Come un moderno Giano bifronte, Tiger Dad rappresenta una creatura a due facce segnata da tratti lievemente ossessivi e da una pacatezza fuori del comune, un poco sorniona e un poco angustiata, simbolo vivente di una contraddizions atavica. Padre Tigre è  una sintesi perfetta in un solo individuo di una duplice natura dell’anima umana incarnata da altrettante icone pop, la trascendenza di San Pio di Pietralcina e l’irruenza dell’uomo Tigre. E se il primo è da considerarsi immagine concreta ed immodificabile, intangibile solo per chi non ci crede, il secondo incarna alla perfezione il combattente rivoluzionario, icona vivente della lotta contro ogni forma di ingiustizia. Sono fronte e retro di una stessa medaglia. Le opposte anime rivivono in uno spettacolo dai tratti ora crudi e feroci, ora più lievi e leggeri, sempre indirizzato verso un ideale di bontà.  Poco importa se alla fine Padre Tigre, o meglio Tiger Dad, come lo ha trasfigurato il popolo della rete, si troverà  a combattere una guerra destinata a vederlo soccombere.
La battaglia quotidiana contro il qualunquismo dei social, contro l’idiozia dell’intelligenza artificiale  e contro il successo ricercato a tutti i costi potrà soltanto prendere forma in un luogo immaginato per la disfatta, epilogo su cui aleggiano i fantasmi di una morte, che costituirà l’approdo finale del protagonista.
La pièce risulta impreziosita da una lingua ricca di musicalità e di vita, che diventa una vera e propria seconda pelle per l’interprete, lontana dai canoni ordinari e della quotidianità, segnata da sgrammaticate acrobazie di senso. Siamo di fronte a una ricchezza di mezzi espressivi pronta a risolversi in improvvisi non sense, all’interno di un originale, quanto inaspettato gramelot.

Il costo intero del biglietto è di 13 euro, per il biglietto ridotto 11 euro se acquistato online, 13 euro la sera dell’evento.
Resta la possibilità di lasciare il biglietto sospeso tramite donazione online o con satispay e di entrare gratuitamente per alcuni under 35, grazie ai biglietti messi a disposizione attraverso la collaborazione con Torino Giovani.

Mara Martellotta

Ludovico Bellucci in concerto sonorizza i capolavori del cinema muto

La stagione concertistica di Santa Pelagia prosegue all’insegna del dialogo tra la musica e gli altri linguaggi artistici, confrontandosi in questa occasione con la Settima arte.

La rassegna Intrecci musicali presenta, il 22 ottobre, alle ore 21, la “Musica del Mito”, un evento in cui le prime pellicole dell’epoca mitica del cinema muto si incontrano con le partiture sonore di periodi musicali altrettanto leggendari, grazie al pianoforte del giovane compositore torinese Ludovico Bellucci, da tempo impegnato in una rilettura in chiave moderna delle opere del passato.
Film muti d’epoca musicati dal vivo daranno vita ad un vero e proprio reenactment delle pratiche di proiezione e sonorizzazione originali, un cinema concerto che immerge il pubblico nel contesto storico e sociale degli anni Dieci, offrendo la proiezione integrale del film accompagnata da musiche inedite, eseguite dal vivo e concepite per valorizzarne lo sviluppo narrativo, i vissuti interiori dei protagonisti, gli eventi e il carattere storico delle vicende rappresentate.
Sul grande schermo scorrono le immagini di due capolavori del cinema muto italiano: “ Didone abbandonata” di Luigi Maggi del 1910, ispirato al celebre mito virgiliano, racconta con sorprendente sensibilità visiva il dramma amoroso della regina di Cartagine, restituendo in pochi minuti tutta la forza tragica dell’epopea classica. Le musiche, eseguite in prima assoluta, dialogano con le immagini per amplificare il pathos e la tensione emotiva del racconto.
Il secondo capolavoro è rappresentato da ”La caduta di Troia” di Giovanni Pastrone, che risale al 1911 ed è considerata una delle prime grandi produzioni del cinema muto italiano  e mette in scena con ambizione epica la guerra e la distruzione della città omerica, anticipando lo stile spettacolare che renderà celebre il regista di Cabiria.
La serata è realizzata in collaborazione  con il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino e la Cineteca Nazionale del Museo del Cinema.
“La Musica del Mito” è un’occasione unica per riscoprire il fascino originario del cinema muto nella suggestiva cornice settecentesca del Coro di Santa Pelagia, dove farsi trasportare all’interno di un  viaggio tra mito, immagini e suono, in cui la musica restituisce vita e voce alla memoria visiva del passato.
L’ingresso è libero su prenotazione. L’introduzione è affidata a Maria Adorno.

Ludovico Bellucci, 20 anni,  è pianista e compositore di colonne sonore. Studia composizione con Aldo Sardo presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino,  città in cui vive e lavora. La sua carriera artistica è iniziata nel 2015 con la partecipazione alla Festa della Musica di Torino, dove si è esibito per quattro edizioni consecutive con brani originali. Nel 2019 ha vinto il primo premio al concorso Pianofortissimo di Rivoli con un proprio inedito. Dal 2022, anno in cui realizza la musica per il cortometraggio “Dura Lex Sed Lex”, vincitore al Believe Film Festival di Verona, si dedica alla musica per il cinema muto.

Coro di Santa Pelagia, via San Massimo 21, mercoledi 22 ottobre ore 21

Mara Martellotta

Guadagnino e una grande Roberts non raggiungono la verità

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Sugli schermi “After the Hunt. Dopo la caccia”, presentato fuori concorso a Venezia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un tempo, a metà degli anni Sessanta, il mondo universitario, tra le pagine di “Chi ha paura di Virginia Woolf” di Albee, era scarnificato all’unisono con quello della coppia, oggi, con “After the Hunt. Dopo la caccia” Luca Guadagnino – bulimico cinematografico, sia detto per inciso, visti tutti i progetti, quelli bene informati dicono 6/8, che gli rimbalzano tra le mani, primo forse in scadenza, “Artificial” sul licenziamento e il reintegro del CEO di OpenAI, Sam Altman, quello che ha al proprio interno alcune scene girate qui a Torino negli scorsi mesi estivi, alla torre Intesa San Paolo -, dopo aver percorso le ultime tappe tra il tennistico “Challengers” e i dolori e le sfrenatezze di William Burroughs con “Queer”, allarga gli orizzonti all’insegnamento e agli insegnanti che hanno allontanato per sempre la cattedra e siedono intorno a un tavolo con i loro allievi, quelli che alimentano un efficace carisma e che entrando in classe iniziano senza preamboli la lezione, gli studenti attenti come pargoli agli occhi di una mamma; alle rivalse e alle demagogie, agli incontri tra pranzi e confidenze, tra ambiguità e motti di spirito che tendono a colpire, tra cattedre inseguite da una vita con tanto di studi incorporati e colleghi amici/nemici che, dopo tanti allegri chiacchiericci al pub, non vedono l’ora di metterti il classico bastone tra le ruote. E con questi, è da aggiungersi di questi tempi il me too, che come niente ha raggiunto – o invaso? – le aule, nel caso, di Yale. A intervallare l’intreccio – alla cui base è una sceneggiatura, facilmente oscarizzabile, firmata da Nora Garrett (tratta, pare, da una storia vera), piena zeppa di riferimenti, Jung e Freud e Aristotele, e poi Kierkegaard e Schopenhauer e Nietzsche, scritta in dialoghi felicissimi e fitti fitti in punta di penna, parole circostanze luoghi personaggi che non fanno una grinza, ardua difficile tutta calibrata passo dopo passo, a tratti scogliosa per lo spettatore ma estremamente stimolante, vero riferimento per certi scrittori di/per il cinema, parecchi di casa nostra, capaci di partorire tremende insensatezze e ovvietà dal fiato corto – il ticchettio ossessivo di un metronomo, tic tac tic tac tic tac, qua e là, sin dalle prime immagini, via via sdoppiato nelle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, padroni d’assorbire altresì ad un vastissimo repertorio, ogni nota improvvisa e disturbante (anche il padrone di casa invade gli ambienti di una musica altissima).

La docente di filosofia Alma Olsson (Julia Roberts, una delle sue più belle interpretazioni, tesissima in ogni attimo) ha chiamato a casa sua, complice l’affettuoso (la sveglia di ogni mattino ha la sua pillolina d’obbligo sul momodino) consorte Frederick, Michael Stuhlbarg, eccellente, comico disturbatore nel confessionale di turno (già con Guadagnino come padre del giovane protagonista in “Chiamami col mio nome”), per una cena colleghi e allievi e medici, per il cibo, il bicchiere di vino, la chiacchiera, la risata. Per discutere, se c’è ancora spazio, del fatto che ogni candidato maschio bianco etero e cisgender di questi tempi parte sfavorito. Con le dispute e le ambiguità di cui sopra, si arriva alla fine, il contendente Hank belloccio e narcisista e l’allieva brillante Maggie, afroamericana, gay, figlia di papà che sovvenziona con soldoni l’istituto, se ne vanno per ultimi, guardandoli Alma dallo spioncino della porta d’ingresso mentre s’allontanano sul pianerottolo, prima di pigiare il tasto dell’ascensore: salvo il giorno dopo Maggie (che, tenete a mente, durante una corsa nel bagno di casa, “si è messa” al corrente di un piccolo segreto che da sempre rimane sepolto nel cuore di Alma) rifarsi viva per narrarle delle molestie subite dall’uomo, la sera precedente durante l’ultimo bicchiere in casa di lei: rifacendosi ad Alma paladina dei diritti femminili e al clima d’empatia sorto tra due esseri umani.

Ha inizio il thriller ma non certo la ricerca di un colpevole da parte di Guadagnino, pronto anzi ad allontanare il calice amaro del finale (a dire il vero un po’ insipido, visto il fervorino che è l’inciampo dell’intero affresco, con quel biglietto da venti dollari posato sul tavolo del bar che ci ricorda quanto di “mercanteggio etico” ci sia nella storia) pur di rimescolare le carte, a dire e a negare, ad analizzare e a ritornare su quelle che sembravano conclusioni, in dialoghi a due ben congegnati dando ampio spazio alle ragioni dell’uno e poco dopo a quelle altrettanto meritevoli dell’altro, ascoltando le ragioni della pretesa innocenza e quelle forse legittime dell’accusa, guardando all’opportunismo della ragazza e agli scatti di machismo del collega, superuomo incallito, senza freni nella casa/rifugio di Alma, lasciando sempre lo spettatore sull’orlo di un enigmatico precipizio. Mentre Alma prende ad accusare dolori al ventre che crescono a denunciare tre ulcere alla fine perforate e un incidente nei confronti della università e di conseguenza della commissione che avrebbe dovuto dare il proprio placet per la agognata cattedra. In una durata di circa due ore e mezzo che si sarebbe dovuto un tantino sforbiciare. Verità nascoste e verità personalissime che Guadagnino ti schiaffa in faccia all’improvviso, con una costruzione perfetta d’ambienti (le scene sono di Stefano Baisi), con gli attori spinti a guardare in macchina (la fotografia fatta di paesaggi innevati, delle luci calde della signorilità e di quelle bianche e gelide che sono nel rifugio di Alma) ad una distanza ravvicinata oppure con questa che li tallona senza mezze misure.

Coraggioso è Guadagnino a scavare nel grande tema della verità e di conseguenza in quel mondo universitario che potrebbe ancora avere parecchi scheletri nell’armadio, argomenti modernissimi e votati alla scomodità, dove i sentimenti sono azzerati (i social aiutando parecchio) e i dubbi al di qua dello schermo permangono. Siamo nel terreno tremulo e pericoloso delle acque melmose e il regista rifiuta di darci risposte: e lo spettatore, se lo vorrà, potrà fare le proprie scelte. “Ed ecco, signori, come parla la Verità”, avrebbe detto nel finale del testo pirandelliano la velata signora Ponza. Ieri, come ogi, si calava il sipario.

Luciano Berio, compositore, nel Centenario della nascita 

Nel corso dei secoli la musica ha subito naturali trasformazioni, dal periodo rinascimentale al serialismo integrale del suono nato nel secolo scorso. Felix Mendelssohn, compositore del periodo romantico tedesco, dopo quasi un secolo ha ripescato le grandi opere dimenticate di Johann Sebastian Bach, generando il repertorio musicale. Lo stile contrappuntistico di Bach fu in parte conservato da Carl Philipp Emanuel, il figlio più famoso definito il Bach di Amburgo, ricco di idee e molto ammirato da Haydn. Il genio paterno invece non era affine al figlio più giovane Johann Christian che aveva privilegiato l’elemento armonico e lo stile galante, precursore del classicismo e molto influente su Mozart.

Dopo tanti anni di attesa non si è ripetuto il fenomeno musicale del ’68, lo sciame sismico giunto dall’Inghilterra ormai esaurito ed immerso nel sonno spettrale degli ultimi decenni, splendido miraggio assopito in una società liquida senza valori dove il culto dell’immagine scorre velocemente riducendo l’ascoltatore a semplice pubblico ipnotizzato da false illusioni. L’argomento principale mancante di questo vuoto è stato riempito sapientemente nel 1972 da Luciano Berio (*Oneglia 24-10-1925 +Roma 2003), compositore e pioniere dell’avanguardia europea. La sera del 22 febbraio, una settimana dopo la chiusura del Festival di Sanremo in piena crisi con riduzione della doppia interpretazione introdotta nel 1957, richiesta di sciopero e l’amara prospettiva di sospensione del programma, sul secondo canale Rai andava in onda la prima delle dodici puntate di “C’è musica & musica”.

La coraggiosa serie ideata da Berio proponeva al pubblico televisivo l’alternativa di una nuova estetica, utilizzando nuove forme sperimentali di comunicazione musicale e sapere umanistico. Le varie problematiche sulla scrittura e sul pensiero musicale furono esposte tramite oggetti sonori dal barocco di Monteverdi ai contemporanei Beatles, commentati da importanti personaggi internazionali quali Bernstein, Cage, Boulez, Messiaen, Stockhausen, Sanguineti, Donatoni e Dallapiccola. Le puntate furono replicate sulla stessa rete da marzo a giugno e pubblicate da Feltrinelli nel 2013 con commenti di Michele Dall’Ongaro, direttore musicale di Rai Radio Tre. Nel primo Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, Berio aveva approfondito con Bruno Maderna la ricerca sonora delle interazioni acustiche tra strumenti, suoni elettronici e parola, affermandosi come autorevole esponente di musica sperimentale.
In “Omaggio a Joyce”, le risorse espressive della mezzosoprano americana e prima moglie Cathy Berberian unite alla rielaborazione elettroacustica crearono una dialettica e un nuovo linguaggio parlato onomatopeico. Tra i vari premi ottenuti da Berio ricordiamo il “Leone d’oro alla carriera” alla Biennale di Venezia, diversi ” Honoris Causa” e il “Premium Imperiale” giapponese. Promotore di musica contemporanea, insegnò nelle prestigiose accademie di Europa e Stati Uniti e a Firenze fondò l’istituto “Tempo Reale”, utilizzando nuove tecnologie e applicazioni elettroniche. Tra i suoi allievi figura Giulio Castagnoli, docente del Conservatorio Verdi di Torino aperto ai diversi contesti artistici con la passione per la fisica acustica, autore di saggi sui suoi mentori Berio, Donatoni e Ferneyhough. Compositore di musica espressiva formata da suoni materici, parafrasa i pensieri musicali del passato con la tipica complessità, per certi aspetti, di Olivier Messiaen.

L’interesse di Berio verso la musica di Castagnoli si era concretizzato dopo il loro incontro a Bonn, dirigendo egli stesso nel 1992 al Comunale di Bologna i “Madrigali per Orchestra” di Castagnoli e nel 2002 commissionandogli per l’Accademia di Santa Cecilia il “Concerto per violoncello e doppia orchestra”. Per il centenario della nascita di Berio, Castagnoli e Andrea Basevi del Conservatorio Paganini di Genova sono stati ospiti della terza sessione del Convegno di Rimini del 19 ottobre 2025, una tavola rotonda dal titolo “Abitare la melodia, due compositori tra le architetture di Luciano Berio”, dedicata alla tecnica sapiente e alla vena creativa del maestro. Con i due compositori, Berio aveva completato e orchestrato l’opera di Sergio Liberovici “Maelzel o delle macchinazioni”, pubblicata nel 1995 da Casa Ricordi. In questo inizio di secolo la musica contemporanea è in fase di cambiamento, percorsi sempre più individuali e scritture meditate non condivise, confusione in atto anche nelle arti figurative.
Armano Luigi Gozzano

Il Premio “Ivo Chiesa” a Filippo Fonsatti

DIRETTORE GENERALE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

Il Teatro Stabile di Torino arricchisce il suo palmarès con il Premio Ivo Chiesa. Una vita per il teatro – VI edizione 2025 che è stato assegnato al suo Direttore generale Filippo Fonsatti durante la cerimonia organizzata lunedì 20 ottobre alle ore 18.30, nel foyer del teatro Ivo ChiesaIl premio, istituito dal Teatro Nazionale di Genova nel 2020, in occasione del centenario della nascita di Ivo Chiesa e su impulso del direttore Davide Livermore, vede fra i premiati di questa edizione anche l’attrice teatrale e cinematografica Anna Bonaiuto e Maria De Barbieri, anima storica – insieme al compagno di vita Tonino Conte – del Teatro della Tosse, che quest’anno compie 50 anni.
«Filippo Fonsatti – si legge nella motivazione del premio – incarna, un modello di managerialità teatrale estremamente coerente e di alto livello, nutrito dallo studio, dalla ricerca, dal dialogo con gli artisti. Un modo di gestire il teatro pubblico che certo sarebbe piaciuto ad un maestro come Ivo Chiesa».

Nella stessa serata sono stati consegnati i Premi della Critica ANCT 2025 all’attrice Valentina Picello e alla traduttrice Monica Capuani, con le quali lo Stabile di Torino ha collaborato in numerose occasioni. Valentina Picello è stata la protagonista de La gatta sul tetto che scotta, produzione del Teatro Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi che è stata accolta con successo nella scorsa stagione e che sarà replicata in molte città italiane tra il 2025 e il 2026. Monica Capuani, traduttrice di testi teatrali e letterari, lavora con lo Stabile torinese da molto tempo: fra le collaborazioni più recenti, ricordiamo la sua traduzione de La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams, quella di Agosto a Osage County di Tracy Letts e quella di Circle, Mirror, Transformation di Annie Baker, che sarà il prossimo spettacolo diretto da Valerio Binasco per il Teatro Stabile di Torino.

Iperspazio, Fertili Terreni Teatro: di scena la pièce teatrale ‘Molly’

Per Iperspazi, la stagione 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro, andrà  in scena lunedì 20 ottobre alle ore 19 e da martedì 21 a giovedì 23 ottobre, alle 21, presso OFF Topic, la pièce teatrale ‘Molly’, un progetto di Cubo, scritto e diretto da Girolamo Lucania con Letizia Alaide Russo, in collaborazione con il Teatro della Caduta, Giallo Mare Minimal Teatro, Catalyst  ETS.

Lo spettacolo presenta luci stroboscopiche, non adatte ad un pubblico fotosensibile.

Per Cubo il viaggio nell’adolescenza e nelle sue contraddizioni ha dapprima avuto inizio con ‘Sid- fin qui tutto bene’, protagonista un ragazzo di periferia di seconda generazione, è poi proseguito  con ‘HyperGaia’, giovane raver che combatte l’estinzione e ora scrive il suo terzo capitolo teatrale nel racconto di ‘Molly’, ovvero la narcosi del narcisismo e le conseguenze depressive del nostro mondo edonico. Si tratta di un itinerario articolato per sondare radici e prospettive delle nuove generazioni, uomini e donne cui in un domani molto prossimo sarà affidato il futuro della specie.

Liberamente ispirato a un fatto di cronaca, nel 2017 la quattordicenne britannica Molly Rose Russell venne trovata senza vita nella sua camera in circostanze appaarentemente misteriose, poi archiviate dal medico legale con la formula “deceduta per autolesionismo mentre soffriva di depressione e degli effetti negativi dei contenuti online”. Il racconto di Molly è la storia d’amore di una ragazza mai uscita dalla propria stanza, una scelta di isolamento estremo cui si deve aggiungere la prospettiva di un amore con un’altra ragazza, identica  a lei, ogni giorno rinsaldato dal tempo trascorso insieme. Una passione totalizzante che unisce le due adolescenti e fa loro costruire un legame sempre più forte, ai limiti della reciproca dipendenza, destinato ad assorbire ed annullare le reciproche personalità fino a quando, un giorno, una delle due non si presenta. Solo a questo punto l’altra giovane deciderà di rompere gli schemi dell’autoesilio che, nel tempo, si era imposta, uscendo a cercarla, salvo poi presto scoprire la terribile e atroce verità.

Se la giovane adolescente inglese sui suoi canali social voleva informare e condividere le riflessioni su di una depressione compagna di vita al pari che nell’esistenza di molte sue coetanee e coetanei, nella realtà proprio le invisibili potenzialità dei social e degli algoritmi sottostanti, avevano iniziato a minarne i già fragili equilibri, rivelandosi con il passare dei giorni trappole pericolose cui sarebbe stato impossibile sottrarsi. E così un fatto di cronaca passato in secondo piano, dolorosa pagina archiviata come dramma familiare come tanti altri, diventa cartina di tornasole per far emergere ombre e fantasmi dalla valenza universale. Il rapporto con i social network e le intelligenze artificiali, le responsabilità legali e la coscienza collettiva, tutti elementi messi a fuoco in un progetto drammaturgico, che risulta l’esito finale di un articolato piano di incontri con ragazze e ragazzi degli istituti superiori, studentesse e studenti impegnati in un laboratorio di scrittura creativa immaginato per affrontare i temi cardine dello spettacolo,  su tutti la dipendenza dai social,  le patologie depressive  e il funzionamento degli algoritmi.
Dalla scrittura alla scena il passaggio si è  concretizzato all’insegna di quella multidisciplinarietà che ha interessato ogni componente del processo creativo, spaziando dalla composizione musicale e visuale alla drammaturgia, per dare forma ad un unicum coerente sinfonico, visivo e drammaturgico. Dal pubblico vista solo di profilo, con lo sguardo fisso in una videocamera che ne proietta l’immagine verso la platea, Molly diventa un oggetto di video/arte, una proiezione cinematografica creata e fatta vivere in diretta.

“Molly – spiega il regista Girolamo Lucania – è una storia di specchi e trucchi, quelli cui siamo ormai costretti a vivere ogni giorno. Diverse versioni di noi, maschere dietro i nostri avatar. E poi ci sono i nostri profili, che ci osservano e ci emulano ogni giorno, ci spingono verso desideri che non credevamo di avere. Miriadi e miriadi di versioni emulate della stessa creatura. Un corso storico che ci sta scivolando sotto i nostri occhi, in cui si intrecciano rapporti umani, il senso della vita di giovani ragazzi e ragazze, declinato attraverso il rapporto con una  nuova generazione di creature aliene, gli algoritmi generati e creati al solo scopo di produrre profitto”.

Mara Martellotta

Al Teatro Gobetti debutta “Figli d’anima” Scritto e diretto da Simone Schinocca

Debutta in prima nazionale, martedì 21 ottobre prossimo, alle 19.30, per la stagione del Teatro Stabile di Torino, al Teatro Gobetti, “Figli d’anima”, scritto e diretto da Simone Schinocca. Lo spettacolo, il cui titolo è ispirato al modo in cui la scrittrice Michela Murgia parlava del suo nucleo famigliare scelto, pone al centro il tema dell’affido esplorando la genitorialità e il legame profondo della filiazione. Il testo propone un viaggio fra famiglia naturale e famiglia scelta, nate da incontri che cambiano la vita. In scena Antonella Delli Gatti, Costanza Maria Frola, Marco Musarella e Michela Paleologo. Luci e scene sono di Florinda Lombardi, i costumi di Agostino Maria Porchietto. Lo spettacolo, prodotto da Tedacà, in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Fertili Terreni Teatro, con il sostegno di Casa Affido della Città di Torino, sarà in scena al teatro Gobetti fino al 26 ottobre prossimo.

Grazie alla collaborazione di Casa Affido della Città di Torino, Simone Schinocca ha realizzato un lavoro di ricerca e scrittura che prende il via da una serie di interviste condotte con persone che hanno scelto di aprire la propria casa e con ragazzi e ragazze che, arrivando da esperienze di trascuratezza e abbandono, hanno avuto la possibilità di riscrivere e riscoprire il loro concetto di famiglia. Lo spettacolo prende forma partendo da due riflessioni: “figli dell’anima” e “shamandura”. “Figli dell’anima” si riferisce a una pratica diffusa in passato, in Sardegna, che consisteva di affidare il proprio figlio biologico ad altri adulti, generalmente senza figli, appartenenti alla propria comunità, ma non necessariamente alla propria rete famigliare. Questa forma di sostegno comunitario non era regolamentata da carte formali, se ne trova traccia solo nelle testimonianze di chi ha vissuto tale esperienza o negli atti testamentari in cui, i figli dell’anima venivano nominati eredi da chi li aveva accolti come figli propri.
“Shamandura” è un termine arabo che significa “ormeggio”, e indica l’attracco a cui l’imbarcazione deve legarsi quando si trova nel mezzo della barriera corallina, al fine di non rovinarla. Un ancoraggio che offre la possibilità di fermarsi, riposare, passare la notte in un luogo riparato da correnti e mareggiate, ma senza danneggiare nulla di ciò che sta intorno. “Shamandura”, per alcuni pescatori sardi e siciliani, è anche il luogo dove le onde del mare in tempesta si infrangono sulla scogliera e, tornando indietro, si scontrano con le onde in arrivo, creando una superficie marina più calma.

“Figli d’anima e shamandura, a questi due termini dal significato evocativo – racconta la compagnia – si ispira la nostra idea di spettacolo, che avrà àl centro il tema della genitorialità e dell’intima natura del legame di filiazione, legame che può andare ‘oltre’ quello di base. L’idea di base non è contrapporre i due concetti, ma ricercare e raccontare l’anello di congiunzione tra famiglia scelta e quella naturale. Ci sono le famiglie naturali alle quali si affiancano persone che, nel tempo, possono diventare famiglie scelte. La conciliazione di queste due si può trovare in molte esperienze di affidamento famigliare, e rappresentano una vera e propria ‘shamandura’ nella vita di tanti ragazzi e ragazze.
Grazie al potere della narrazione, riusciamo a comprendere la grandezza delle piccole cose e la preziosità dei dettagli. Di rado li afferriamo immediatamente mentre siamo immersi nella vita, mentre spesso riusciamo a coglierli in quella fase dell’esperienza determinata dal ricordo, quando ripensiamo al vissuto, interpretiamo i fatti accaduti e li raccontiamo a qualcuno. Con il tempo riusciamo a dare un senso alle cose, pur sapendo che possono esserci tante narrazioni di un vissuto e molteplici punti di vista da cui osservarlo. Se questo è quasi sempre vero, vale ancora di più ciò che riguarda le storie familiari. Racconteremo storie per dare senso, trovare un senso, costruire memoria, regalare stupore, dare spazio all’immaginario e alla creatività. Per educarci alla strordinarietà dell’ordinario e porci alcune domande come: con quali occhi guardo la realtà ? Con quali orecchie ascolto ciò che avviene ? Con che tipo di consapevolezza e partecipazione vivo la mia quotidianità ? Con che desiderio di genitorialità ? Cosa significa essere figli ? Di chi ci sentiamo figli ? Di chi ci sentiamo madri e padri ? Le storie hanno capacità trasformativa nel tempo e nelle nostre vite”.

Teatro Gobetti – via Rossini 8, Torino

Orario: martedì, giovedì e sabato ore 19.30 / mercoledì e venerdì ore 20.45 / domenica ore 16

Biglietteria Teatro Carignano – piazza Carignano 6, Torino – 0115169555 – biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta

Battistoni guida il Regio tra inferni, purgatori e un Paradiso un po’ kitsch

Di Renato Verga

Dal buio dell’Inferno alla luce del Paradiso: così si apre la nuova serie di concerti del Teatro Regio di Torino, significativamente intitolata “Abissi”. A guidarci nel viaggio è Andrea Battistoni, che dopo aver inaugurato la stagione lirica con la Francesca da Rimini di Zandonai, torna ora sulla stessa figura dantesca nella “fantasia sinfonica” che Čajkovskij le dedicò nel 1876. Il compositore russo, suggestionato dal turbine di passioni e condanne del V canto, traduce in musica la tempesta che travolge i lussuriosi con un’orchestra che sibila e geme, mentre un clarinetto solitario — l’ottimo Antonio Capolupo — dà voce alla dolente Francesca. Poi l’amore si accende, cresce, divampa: il tema lirico dei legni e degli archi si trasforma in un vortice sinfonico di potenza quasi operistica. Dopo l’esplosione drammatica, il silenzio pietoso. Battistoni, che dirige a memoria con gesto ampio e teatrale, restituisce con entusiasmo la tensione emotiva di una delle pagine più travolgenti del sinfonismo romantico.

Dopo l’Inferno, il Purgatorio: Schicksalslied (il Canto del destino) di Brahms, composto nel 1871 su versi di Hölderlin. È la parte più raccolta, ma anche il cuore poetico del concerto. Brahms oppone due mondi — quello perfetto e luminoso degli dèi e quello fragile e dolente degli uomini — in un equilibrio miracoloso tra forma classica e emozione romantica. L’inizio è tutto purezza e sospensione: archi e fiati fluttuano in un’atmosfera quasi celeste, interrotta solo dai battiti lontani dei timpani. Poi irrompe la tempesta: la musica precipita, come la condizione umana, “da roccia a roccia”, e la coralità si fa drammatica, disperata. Ma il finale, un ritorno trasfigurato al tema iniziale, apre uno spiraglio di pace. Brahms, più ottimista del poeta, sembra dire che l’arte può salvare ciò che la vita spezza. Battistoni ne sottolinea i contrasti con una direzione piena di calore, che passa dal misticismo al furore con fluida naturalezza.

E infine, il Paradiso. È il “Prologo in cielo” dal Mefistofele di Arrigo Boito, quella folgorante pagina in cui Dio e il Diavolo si sfidano sul destino di Faust. Boito, librettista geniale e musicista diseguale, qui si supera: costruisce un affresco sonoro grandioso e megalomane, sospeso tra il sublime e il kitsch. Con un’orchestra in assetto da battaglia — quattro percussionisti, due arpe, organo, nove ottoni in scena e altrettanti fuori scena — il Regio risuona come una cattedrale.

Peccato che nella lettura di Battistoni, pur precisa e compatta, manchi quella punta di ironia che renderebbe giustizia alla visionarietà un po’ folle di Boito. Anche Erwin Schrott, Mefistofele di lusso, preferisce il canto alla caricatura: voce sontuosa, ma poco zolfo.

Il coro del Regio, guidato con consueta maestria da Ulisse Trabacchin, e quello di voci bianche preparato da Claudio Fenoglio (quasi tutto al femminile: cinque maschietti su trentaquattro) contribuiscono all’impatto spettacolare del finale, accolto da applausi entusiasti e meritati.

Così, tra i venti infernali di Čajkovskij, la struggente meditazione di Brahms e l’apoteosi celeste di Boito, il concerto si fa moderno viaggio dantesco. Non promette la salvezza, ma una consapevolezza più lucida: che gli “abissi” dell’anima, se attraversati con la musica, possono condurre almeno a un frammento di verità. O, per dirla con Dante, “a riveder le stelle”.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Carmen Consoli e Marc Ribot

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Martedì. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce Max Altieri & Friends.

Mercoledì. Al Teatro Colosseo per 2 sere consecutive è di scena Carmen Consoli.

Giovedì. Allo Ziggy si esibisce Bunuel +Guest. Al Folk Club suona il quartetto di Olivia Trummer. Allo Spazio 211 è di scena Adele Altro.

Venerdì. Al Circolino suona Giorgio Diaferia Ensemble. Al Cap 10100 si esibiscono I Legno. Al Circolo Sud sono di scena i Zagara. Alla Piazza dei Mestieri suona il quartetto Ionata-Tarenzi-Piccirillo-Fiore. Al Folk Club si esibisce Sam Outlaw & Band preceduto da Hannah Aldrige. Al Teatro Colosseo arriva Angelo Branduardi. Al Magazzino sul PO suona Vinnie Marakas + Androgynus. Allo Spazio 211  si esibisce Christian Coccia. Allo Ziggy sono di scena Di Notte+ Plastic Palms + Smart Pop.

Sabato. Al Folk Club suona il chitarrista americano Marc Ribot. Al Cap 10100 si esibiscono i Demons Bats. Al Magazzino di Gilgamesh è di scena la Travelin’ Band. Al Peocio di Trofarello suona Greg Koch e Koch Marshall Trio. Al Blah Blah si esibiscono i Retarded + Antares. Allo Ziggy per l’Electronational Festival suonano : I Nachtmahr +Stars Crusaders+Paolo Virdis After Show Party: Dj Lesley.

Domenica. Al Cap 10100 si esibisce il Shoshin Duo. Al Blah Blah suonano i Road Syndicate+ The Gentlemen.

Pier Luigi Fuggetta