“Empire of Light”, fuori concorso al 40° TFF
È un film letterario, con le citazioni di Tennyson e di Auden, è un film musicale, con i tocchi al pianoforte estenuanti e precisi e con le note e le voci dei gruppi di quegli anni. È soprattutto un omaggio al cinema, quello di sapore ormai antico, quello con il luminoso pulviscolo che volteggia nel fascio di luce che fuoriesce dal proiettore, che gioca dentro quella cabina di proiezione con le immagini disordinate della Masina e di Brando e di tutto un universo in bianco e nero (un allontanarsi dal mondo, una sorta di “Nuovo cinema Paradiso” inglese, un mestiere trasmesso ad altri), che getta un ponte verso la felicità nella nostra personale esistenza. “La pellicola sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio. Il nostro nervo ottico ha un piccolo difetto e se riproduco la pellicola 24 fotogrammi al secondo si crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita, non percepiamo il buio. Il mondo vede solo un raggio di luce e nulla avviene senza luce”, dice il vecchio proiezionista Norman (Toby Jones), che dopo anni sogna ancora a occhi aperti la propria maestria a collegare bobine e il suo mestiere fatto di movimenti perfetti.

“Empire of Light”, visto al 40° TFF fuori concorso, uno dei titoli più attesi della rassegna, è scritto e diretto da Sam Mendes (il regista che esordì con “American Beauty”, che ci ha dato due capitoli di 007 e che ha affrontato le trincee del primo conflitto mondiale con “1917”). Lo ha scritto in tempo di lockdown, uno di quei periodi oscuri che sembra al contrario essere stato fatto apposta per certi autori cinematografici (leggi anche Spielberg, Natale si porta appresso il suo autobiografico “The Fabelmans”) a raccogliere i ricordi della giovinezza, a costruire storie in cui la loro passione per l’immagine in movimento la potesse fare da padrone e reinventare. Reinventare il tempo, i colori, le atmosfere, i gusti, le macchie oscure. È il suo documento d’amore al cinema, come medicina, come supporto salvifico, la sua affermazione di “grande magia”. È il finire del 1980, i fuochi artificiali visti dalla terrazza dell’Empire – curvilinea sala art déco posata sul litorale di una piccola città della costa del sud britannico, con i suoi tappeti colorati e un po’ démodé, la grande vasca dei popcorn e le confezioni colorate di caramelle, le scale che salgono sinuose e gli ottoni ben lucidati, velluti rossi, i clienti che pretendono di portarsi dell’unto cibo in sala – annunceranno il nuovo anno. Si proietta “All that jazz” e “Gregory’s girl” e l’annuncio di una grande première con “Momenti di gloria”, con tanto di sindaco e autorità varie, sottratta alla catena di cinema Odeon, sul suo grande schermo mostra tutto l’orgoglio del proprietario Mr. Ellis, che ha l’occhio sinistro e arraffatore di Colin Firth. È la storia di Hilary (un ruolo di responsabile di sala ideato per Olivia Colman, premio Oscar e un paio di altre candidature: forse anche quest’anno tra le candidate?), bravissima, perfetta nel rendere appieno la solitudine, la voglia di rivolta, le frustrazioni, i sentimenti anche rabbiosi e sfatti, una donna di mezz’età che ha trovato tra i colleghi quella famiglia che non ha mai costruito, che tenta di buttarsi alle spalle un passato ferito da una condizione di malattia mentale, che sottostà ad una squallida relazione con Mr. Ellis, con tanto di masturbazioni in ufficio. Troverà in Stephen (l’emergente Michael Ward), origini caraibiche, giovanissimo ragazzo nero, ultimo arrivato nel gruppo, con sogni universitari e una carriera di architetto buttata verso il futuro, quegli affetti che sinora le sono stati negati, quella grande sala polverosa all’ultimo piano, chiusa da tempo (“una volta erano quattro sale”), è il loro rifugio e quel colombo che ha un’ala spezzata e che il ragazzo prende a curare è il simbolo, forse un po’ scontato ma altrettanto delicato, dell’amore che si fa dedizione completa.

È anche l’Inghilterra con la politica di quel periodo, i riferimenti al razzismo di Enoch Powell, sono le intimidazioni e le immagini degli skinheads che scorrazzano in moto davanti all’ingresso del cinema e, una volta entrati, s’avventano su Stephen.
Forse è cosa facile il versante razzista, forse è cosa più che facile l’unione tra lo sconquassato animo femminile e la gioia verso la vita del giovane ragazzo di colore: ma quegli attimi in cui Hilary, sempre vissuta al di fuori della sala, vi entra per la prima volta, tutta sola, a godersi “Oltre il giardino” di Ashby con il superbo Peter Sellers (“La vita è uno stato mentale” dice il giardiniere Chance, mentre immerge i piedi nell’acqua del laghetto), ecco che allora s’azzerano quelle piccole pecche che stanno nel tessuto cinematografico di Mendes. Altro capolavoro di interni (certi luci tiepide, certi chiaroscuri) e di esterni (il lungomare, la spiaggia, la luce della costa) per Roger Deakins (Oscar 2017 per “Blade Runner 2049” e nel 2019 per “1917”), un maestro geniale. Il film sarà sui nostri schermi il 23 febbraio 2023: e ne riparleremo, perché lo merita. Per intanto attendiamo i premi del 40° TFF.
Elio Rabbione
Le pare di toccare il cielo con un dito quando casualmente incontra Tom, ragazzo dal viso indecifrabile, muscoli al punto giusto, che di anni ne ha trentaquattro: il doppio, esatto esatto. Lea non vede la differenza d’età, vede a poco a poco la fiducia che quel ragazzo le offre, i tramonti che le mostra, il suo atteggiamento protettivo, le tenerezze e i piccoli gesti con cui la conquista giorno dopo giorno, i semplici cibi con cui si prende cura di lei: e Lea – come noi spettatori -, con l’avanzare del tempo, guarda con affetto e poi con passione a questa inaspettata risorsa della propria vita, fino a quel punto in fondo banale. Qualche parola con una cameriera all’interno di una caffetteria, qualche telefonata di Tom tenuta appartata, piccoli segnali di cauta attenzione che Lea non teme mentre al contrario dovrebbero aprirle gli occhi – anche noi spettatori lo abbiamo fatto, ma da non troppo tempo -, farle scorgere l’autentica realtà del ragazzo premuroso. Che un giorno le dice di un suo amico che vorrebbe conoscerla, lei dovrebbe accettare ed essere carina con lui. La dolcezza di Lea si fa cupa, ma a suggerirci quanto la mente e i sentimenti umani possano essere quanto di più inspiegabili esista, la ragazza non può fare a meno del suo Tom.

Staticità nipponica, immobilità cinematografica del Sol Levante: un prendere o lasciare, non c’è via di mezzo, per il pubblico di casa nostra. Un cinema chiuso, a tratti indecifrabile, fatto di sovrapposizioni, di un tempo che sfugge e si mostra confuso, di personaggi immateriali, di un mondo onirico che si rivela reale e viceversa; di riprese soprattutto che s’affidano totalmente alla camera fissa, estenuanti, lunghi corridoi notturni e no per portarci a due passi da una tragedia, insistiti, privi di uno sviluppo ma chiusi nel loro scorrere, l’attore posto non sai se più per vezzo o per abitudine di spalle a mostrare la nuca per manciate e manciate di secondi, o l’inquadratura di questo o quell’oggetto mentre l’unica presenza sono certi suoni o un pianto indecifrato o un intervento anonimo, frasi a brandelli, sesso giovanile meccanico e affatto risolto. “Nagisa” (in concorso) è diretto da Takeshi Kogahara, è la storia di un ragazzo, Fuminao, e di sua sorella Nagisa che da poco tempo hanno perduto la madre. La ragazza ha un incidente alle porte di Tokio, sull’autobus su cui viaggia per andare a trovare Fuminao, universitario nella capitale. Nagisa non lo abbandonerà del tutto, dopo pochi anni rivisitando più e più volte il tunnel che è stato il luogo della tragedia, il ragazzo sarà certo di rivederne il fantasma. Materia “surreale”, trattata attraverso cenni fine a se stessi, decine di episodi minimi, brevissimi, flashes aperti e presto chiusi, dove i contenuti non hanno assolutamente il tempo e la possibilità di irrobustirsi, di amalgamarsi, di legarsi l’uno all’altro: la materia, già impalpabile, si perde anche negli ultimi attimi, nelle immagini conclusive, quando un clima di normale allegria e affettività sembrerebbe spazzar via quanto di infelicemente sospeso abbiamo visto sinora.
Di area spagnola (coprodotto con l’Argentina da Alex de la Iglesia) “La pietad” del trentenne Eduardo Casanova, ormai osannato in patria, una delle promesse del cinema europeo, autore nel 2017 di “Pelle”, passato su Netflix, chiacchierato affresco di persone che, a causa delle loro deformità fisiche, sono costrette a nascondersi e a isolarsi dal resto del mondo. Anche con “La pietà” non si scherza. Libertad, nomen omen, detta Lili, donna non ancora cinquantenne (Angela Molina) e Mateo (Manuel Llunell) sono madre e figlio, vivono insieme in un vasto ed elegante appartamento dove il color rosa predomina e l’ordine regna. Il loro affetto è forte, sconfina nella passione, senza limiti la dipendenza dell’uno nell’altra, il mondo tagliato fuori, un padre e un marito che s’è rifatto una vita con un’altra donna. Lili pensa per il figlio, parla per lui, agisce al posto suo, riempie ogni sua necessità. Qualche più o meno piccola ribellione è cancellata sul nascere: il cancro, il tentativo di un’operazione, gli ultimi istanti di un padre che ha voluto porre fine alla propria esistenza, li uniranno più di prima. L’eleganza, la malattia, la morte, la dedizione reciproca, l’amore incondizionato di una madre per chi ha generato e cresciuto, spingono il regista a spiccare un volo che nessuno spettatore s’aspetterebbe mai: sta più o meno a due passi la Corea del Nord, con il proprio dittatore Kim Jong-un, padre di un popolo osannante e prono, pronto a versare fiumi di lacrime quando sarà il tempo della sua dipartita… perché non creare un bel dualismo, un serioso (quanto eccentrico!) paragone con questa madre-dittatora amabilmente in rosa? Ossessione, dipendenza, maternità, controllo, terrore e potere in un’orgia di melodramma, in scenografie raffinate, in un profumo d’Almodovar datato e scimmiottato che ti dà alla testa. Non è l’estrema rifinitura a disturbare, è quella morbosità insistita e bisturizzata e gelida a guastare in fondo l’embrione di una intera vicenda.
vecchia professione di illustratore a “El mundo” o di ri-creatore della serie nipponica “Dragon Ball” se anche al suo protagonista Julian (un intenso Nacho Sànchez), ragazzo chiuso e senza legami affettivi, affida le immagini e le costruzioni al computer abituali della medesima professione. Quei video game di successo che porta avanti con l’editore partoriscono mostri, animali stranissimi, paesaggi e vicende inimmaginabili. All’inizio del film un incendio lo mette di fronte ad un bambino e al suo salvataggio, nel corso della storia con l’apparizione della giovane Diana (Zoe Stein, il viso bellissimo, una sorta di Demi Moore in “Ghost”) inizierà a vedere una finestra aperta sulla felicità. Ma i mostri non sono soltanto delle immagini, abitano dentro di noi, costantemente, quando pensi di averli cacciati, mostri che vivono nei nostri rapporti e nei nostri sentimenti, che puoi incontrare in ogni angolo: ma “Mantìcore” è anche la lotta per liberarci di essi, è la manifestazione delle nostre richieste d’amore, del bisogno che ne abbiamo, di amare e di essere amati, la lotta contro il buio e i silenzi che stiamo attraversando. Un film sincero, intimo, capace di rendere una felice scrittura dei personaggi, ben calibrato, che trova posto nel fuori concorso e che qualche distributore italiano dovrebbe con un minimo di coraggio proporre nei mesi prossimi.
promettente, che va dentro alle vicende e ai personaggi, ai luoghi degradati, che è un esempio di conduzione d’attori, che mette in campo appieno la naturalezza di adulti e ragazzini, che non nasconde i lati oscuri e duri di quanti portano avanti un’esistenza nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota; è la prima volta dietro la macchina da presa dell’attrice e modella Riley Keough (è anche nipote di Elvis Presley) che lo ha codiretto con Gina Gammell (anche produttrice). Una storia ottimamente trattata, che a tratti ha l’ambizione di accostarsi alla materia con sguardo documentaristico, l’affresco di una quotidianità fatta di problemi e di modalità di risoluzione non sempre legittimi, di funerea sopravvivenza, di abitazioni squallide e di disoccupazione, dell’arrancare di ogni giorno, del consumo di droga e di alcol, dell’infanzia già troppo adulta, della separazione dal resto della nazione e del rintanamento imposto, come di una componente antica e religiosamente ricordata, con le preghiere e i riti e l’immagine dell’immenso bisonte che è un po’ il dio protettore dell’intera comunità. Basterebbe pensare a Matho, di dodici anni, qualche volta frequenta la scuola, più spesso scorribanda con altri ragazzini, cresce in fretta con un padre che è tossico e spacciatore: a cui ruba la droga, per essere cacciato di casa e trovare rifugio da una nonna che tiene tra le sue quattro pareti una centrale di spaccio. O al Bill ventitreenne (le due storie sono obbligate a incrociarsi), padre di due pargoli da due donne diverse, che cerca di tirar su un po’ di soldi con l’allevamento di cuccioli. S’accontenta di lavoretti al limite del legale e se il padrone bianco accampa scuse per non dargli il promesso, ecco che violenza ancora una volta si aggiunge a violenza. E la rabbia è destinata a continuare.
