Spagna, Giappone e Stati Uniti in concorso al 40° TFF
Staticità nipponica, immobilità cinematografica del Sol Levante: un prendere o lasciare, non c’è via di mezzo, per il pubblico di casa nostra. Un cinema chiuso, a tratti indecifrabile, fatto di sovrapposizioni, di un tempo che sfugge e si mostra confuso, di personaggi immateriali, di un mondo onirico che si rivela reale e viceversa; di riprese soprattutto che s’affidano totalmente alla camera fissa, estenuanti, lunghi corridoi notturni e no per portarci a due passi da una tragedia, insistiti, privi di uno sviluppo ma chiusi nel loro scorrere, l’attore posto non sai se più per vezzo o per abitudine di spalle a mostrare la nuca per manciate e manciate di secondi, o l’inquadratura di questo o quell’oggetto mentre l’unica presenza sono certi suoni o un pianto indecifrato o un intervento anonimo, frasi a brandelli, sesso giovanile meccanico e affatto risolto. “Nagisa” (in concorso) è diretto da Takeshi Kogahara, è la storia di un ragazzo, Fuminao, e di sua sorella Nagisa che da poco tempo hanno perduto la madre. La ragazza ha un incidente alle porte di Tokio, sull’autobus su cui viaggia per andare a trovare Fuminao, universitario nella capitale. Nagisa non lo abbandonerà del tutto, dopo pochi anni rivisitando più e più volte il tunnel che è stato il luogo della tragedia, il ragazzo sarà certo di rivederne il fantasma. Materia “surreale”, trattata attraverso cenni fine a se stessi, decine di episodi minimi, brevissimi, flashes aperti e presto chiusi, dove i contenuti non hanno assolutamente il tempo e la possibilità di irrobustirsi, di amalgamarsi, di legarsi l’uno all’altro: la materia, già impalpabile, si perde anche negli ultimi attimi, nelle immagini conclusive, quando un clima di normale allegria e affettività sembrerebbe spazzar via quanto di infelicemente sospeso abbiamo visto sinora.
Di area spagnola (coprodotto con l’Argentina da Alex de la Iglesia) “La pietad” del trentenne Eduardo Casanova, ormai osannato in patria, una delle promesse del cinema europeo, autore nel 2017 di “Pelle”, passato su Netflix, chiacchierato affresco di persone che, a causa delle loro deformità fisiche, sono costrette a nascondersi e a isolarsi dal resto del mondo. Anche con “La pietà” non si scherza. Libertad, nomen omen, detta Lili, donna non ancora cinquantenne (Angela Molina) e Mateo (Manuel Llunell) sono madre e figlio, vivono insieme in un vasto ed elegante appartamento dove il color rosa predomina e l’ordine regna. Il loro affetto è forte, sconfina nella passione, senza limiti la dipendenza dell’uno nell’altra, il mondo tagliato fuori, un padre e un marito che s’è rifatto una vita con un’altra donna. Lili pensa per il figlio, parla per lui, agisce al posto suo, riempie ogni sua necessità. Qualche più o meno piccola ribellione è cancellata sul nascere: il cancro, il tentativo di un’operazione, gli ultimi istanti di un padre che ha voluto porre fine alla propria esistenza, li uniranno più di prima. L’eleganza, la malattia, la morte, la dedizione reciproca, l’amore incondizionato di una madre per chi ha generato e cresciuto, spingono il regista a spiccare un volo che nessuno spettatore s’aspetterebbe mai: sta più o meno a due passi la Corea del Nord, con il proprio dittatore Kim Jong-un, padre di un popolo osannante e prono, pronto a versare fiumi di lacrime quando sarà il tempo della sua dipartita… perché non creare un bel dualismo, un serioso (quanto eccentrico!) paragone con questa madre-dittatora amabilmente in rosa? Ossessione, dipendenza, maternità, controllo, terrore e potere in un’orgia di melodramma, in scenografie raffinate, in un profumo d’Almodovar datato e scimmiottato che ti dà alla testa. Non è l’estrema rifinitura a disturbare, è quella morbosità insistita e bisturizzata e gelida a guastare in fondo l’embrione di una intera vicenda.
Ancora bandiera spagnola per il convincente “Mantìcore”, scritto e diretto da Carlos Vermut, a cui il festival sta dedicando una sezione speciale composta di quattro lungometraggi. Ha da poco superato i quaranta ma il suo nome non è tra i più frequentati dal nostro pubblico. Deve aver preso a prestito ben più di un’idea dalla sua
vecchia professione di illustratore a “El mundo” o di ri-creatore della serie nipponica “Dragon Ball” se anche al suo protagonista Julian (un intenso Nacho Sànchez), ragazzo chiuso e senza legami affettivi, affida le immagini e le costruzioni al computer abituali della medesima professione. Quei video game di successo che porta avanti con l’editore partoriscono mostri, animali stranissimi, paesaggi e vicende inimmaginabili. All’inizio del film un incendio lo mette di fronte ad un bambino e al suo salvataggio, nel corso della storia con l’apparizione della giovane Diana (Zoe Stein, il viso bellissimo, una sorta di Demi Moore in “Ghost”) inizierà a vedere una finestra aperta sulla felicità. Ma i mostri non sono soltanto delle immagini, abitano dentro di noi, costantemente, quando pensi di averli cacciati, mostri che vivono nei nostri rapporti e nei nostri sentimenti, che puoi incontrare in ogni angolo: ma “Mantìcore” è anche la lotta per liberarci di essi, è la manifestazione delle nostre richieste d’amore, del bisogno che ne abbiamo, di amare e di essere amati, la lotta contro il buio e i silenzi che stiamo attraversando. Un film sincero, intimo, capace di rendere una felice scrittura dei personaggi, ben calibrato, che trova posto nel fuori concorso e che qualche distributore italiano dovrebbe con un minimo di coraggio proporre nei mesi prossimi.
In finale di carrellata, “War Pony” che nel maggio scorso, presentato a Cannes nella selezione ufficiale di “Un certain regard”, ha vinto la Caméra d’Or, il premio per la miglior opera prima, trasversale a tutta la selezione del 75° Festival. Potrebbe aver tutta l’aria di essere uno dei premiati anche al festival torinese. È un esordio
promettente, che va dentro alle vicende e ai personaggi, ai luoghi degradati, che è un esempio di conduzione d’attori, che mette in campo appieno la naturalezza di adulti e ragazzini, che non nasconde i lati oscuri e duri di quanti portano avanti un’esistenza nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota; è la prima volta dietro la macchina da presa dell’attrice e modella Riley Keough (è anche nipote di Elvis Presley) che lo ha codiretto con Gina Gammell (anche produttrice). Una storia ottimamente trattata, che a tratti ha l’ambizione di accostarsi alla materia con sguardo documentaristico, l’affresco di una quotidianità fatta di problemi e di modalità di risoluzione non sempre legittimi, di funerea sopravvivenza, di abitazioni squallide e di disoccupazione, dell’arrancare di ogni giorno, del consumo di droga e di alcol, dell’infanzia già troppo adulta, della separazione dal resto della nazione e del rintanamento imposto, come di una componente antica e religiosamente ricordata, con le preghiere e i riti e l’immagine dell’immenso bisonte che è un po’ il dio protettore dell’intera comunità. Basterebbe pensare a Matho, di dodici anni, qualche volta frequenta la scuola, più spesso scorribanda con altri ragazzini, cresce in fretta con un padre che è tossico e spacciatore: a cui ruba la droga, per essere cacciato di casa e trovare rifugio da una nonna che tiene tra le sue quattro pareti una centrale di spaccio. O al Bill ventitreenne (le due storie sono obbligate a incrociarsi), padre di due pargoli da due donne diverse, che cerca di tirar su un po’ di soldi con l’allevamento di cuccioli. S’accontenta di lavoretti al limite del legale e se il padrone bianco accampa scuse per non dargli il promesso, ecco che violenza ancora una volta si aggiunge a violenza. E la rabbia è destinata a continuare.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene tratte da “Nagisa” del giapponese Takeshi Kogahara, da “La Pietad” con Angela Molina, dallo spagnolo “Manìcore” e dallo statunitense “War Pony” diretto dalla coppia femminile Riley Keough/Gina Gammell.

In un momento in cui le nuove generazioni hanno subito un grave impoverimento formativo e culturale a causa della pandemia, nel 2021






Le prime immagini del 40° Torino Film Festival arrivano dal Nicaragua (ampia coproduzione supportata da Messico/Olanda/Germania/Francia/Norvegia/Spagna) con “La hija de todas las rabias” della quarantenne regista Laura Baumeister: immagini di povertà, di violenza sociale, di una fanciullezza negata, terribili angosciose. La vita è terribile, uno spiraglio di folle speranza va cercata in un mondo altro, di protezione, di sogno che è soltanto della piccola protagonista. Maria, ragazzina di 11 anni, vive con la madre Lilibeth e passa gran parte delle sue giornate in cima a quelle montagne di rifiuti che sorgono a due passi dalla capitale e che danno un lavoro e a tratti anche un minimo di sostentamento a tanta gente. Un giorno Lilibeth sparisce su un camion per andare in città e Maria si ritrova in mezzo ad una piccola comunità di bambini schiavizzati a ripulire faticosamente i tanti oggetti che quelle discariche possono restituire e che possono essere riciclati. L’aiuta e quasi si prende cura di lei il giovane Tadeo, per restituirla a una madre che Maria al contrario ha perso per sempre. Le resta il sogno e in questo un abbraccio protettivo. La regista imprime dolcezza e rabbia e sacrosanti momenti di ribellione alla giovanissima protagonista, offre soprattutto un panorama d’angoscia di questo angolo di mondo che noi guardiamo con occhio incredulo dall’altra parte del mondo.
Al contrario apprezzabilissimo “Il nostro generale” (dal 9 gennaio su Rai 1) con cui Lucio Pellegrini e Andrea Jublin ci riconsegnano la figura solida, paterna, combattiva di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Grazie anche all’apporto dell’Arma dei Carabinieri e con il sostegno della famiglia, rendendo onore al servitore dello Stato come all’uomo colto nel privato, con materiali di repertorio (grazie alle teche Rai) ed esatte ricostruzioni, ci ritroviamo al centro degli anni Settanta, ad iniziare esattamente dal quel 1973, quando Dalla Chiesa viene trasferito da Palermo dove è impegnato nella lotta alla mafia per operare a Torino, la presenza combattiva e affettuosa dei componenti del “Nucleo speciale antiterrorismo”, gli intenti a muoversi come un vero e proprio gruppo operativo di combattimento guardando agli altri come a degli avversari da combattere sul loro stesso terreno. Sono gli anni di Curcio, del primo processo alle BR, che al nord hanno steso una rete di uccisioni e di ferimenti di industriali e di giornalisti, di attentati, come quello a Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati di Torino, dell’amicizia con Caselli, dei giorni di paura (la figlia costretta a sposarsi in un garage, protetta a vista), della pretesa affiliazione alla P2, accettata nel disordine del tempo e immediatamente rifiutata, del sequestro Vallarino Gancia e della morte di Mara Cagol durante la liberazione del re dello spumante nella cascina sperduta sulle colline dell’Astigiano. Anni, quelli “piemontesi” del generale, fatti anche di amarezza e d’isolamento (rintanato in un piccolo ufficio, in attesa di “mi hanno dato un incarico”), man mano che la sua lotta ai brigatisti diveniva sempre più serrata Dalla Chiesa si ritrovava sempre più solo, conteggiando un buon numero di nemici anche all’interno delle istituzioni e dell’Arma stessa. È un’opera, quella firmata da Pellegrini e Jublin, decisamente robusta, accorata, anche capace di mostrare di un uomo combattivo i momenti forse più deboli, di ridare alla società di oggi la dichiarata integrità e la grandezza nell’obbedienza. Sergio Castellitto è autenticamente presente, in ogni momento, con a fianco una Teresa Saponangelo esempio di remissiva dolcezza, con tutta la squadra dei giovani attori che sono i suoi collaboratori, Antonio Folletto in testa, voce narrante di tutti quegli anni. Gli angoli torinesi aggiungono un che di verità in più alla forza e alla bellezza della vicenda.