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La lingua italiana, lo sappiamo, è una delle più articolate, in grado di esprimere infinite sfumature di significati attraverso l’utilizzo di infiniti vocaboli, forme verbali complesse e, in generale, una grammatica che consente di costruire il periodo più adatto ad ogni contesto.
Anche nelle forme colloquiali, nei saluti, nelle richieste ufficiali vi sono standard ai quali attenersi dettati, a seconda dei casi, da ufficialità, confidenza, prassi, ecc.
Tralasciando il “voi” apologetico, tuttora in uso nel sud Italia nei confronti degli anziani (il film “Benvenuti al sud” di Luca Miniero lo narra molto bene) il “lei” è la forma con la quale approcciarsi con uno sconosciuto o quando vi sia da rispettare una gerarchia.
Ricordo ancora, avevo 5 anni, quando mi rivolsi ad una signora che abitava nel palazzo accanto al mio dandole del tu: lei mi apostrofò dicendo “Chi ti ha dato tutta questa confidenza?”; per fortuna i tempi si evolvono e, talvolta, anche le persone.
Il “tu”, un tempo riservato ai rapporti camerateschi, alle amicizie di lunga data anche se riprese dopo tanti anni ed ai rapporti di lavoro, è oggi diventato il pronome col quale rivolgersi anche alle persone con le quali si ha meno confidenza, oserei dire anche agli estranei.
A me capita spessissimo di essere salutato o congedato con un “ciao” o dandomi del “tu” alla cassa degli autogrill, nei bar cittadini, al mercato o negli uffici: personalmente non credo che il “tu” istighi alla mancanza di rispetto, come sono sicuro che il “lei” non implichi ipso facto maggior rispetto; purtroppo, il “lei” quale pronome allocutivo, nella lingua italiana, si presta ad essere confuso con il pronome personale (a Lei o a lei?).
Nel film “Il presidente, una storia d’amore”, il Presidente (Michael Douglas) invita ancora una volta il suo assistente (Martin Sheen) a dargli del tu, visto che oltretutto è stato suo testimone di nozze: Sheen risponde che non riesce perché lui è il presidente.
Quante volte, da interlocutori appena incontrarti, si viene salutati con “Ciao” e ci si rivolge a noi con il “tu”? Penso che la confidenza, cioè trattare qualcuno senza formalità, non sia deprecabile a priori; è sicuramente peggio se, pur dandosi del “lei” si entra nello spazio intimo di una persona, prendendosi libertà non gradite o cercando di “farsi gli affari altrui” (nel mondo dello spettacolo il “tu” è la norma).
Ai miei studenti, anche se molti di loro ora sono più giovani di me, propongo subito di darci del tu; nell’andragogia, infatti, non contano tanto le nozioni possedute, insegnate dall’alto, quanto l’esperienza maturata, trasmessa alla pari, in uno scambio vicendevole di suggerimenti, prove, tentativi e riuscite: un trasferimento di nozioni anziché un’infusione.
Spesso ci si arrocca su posizioni distanti, volutamente rigide, per vantarsi della propria posizione, del proprio ruolo, confondendo autorevolezza con autoritarismo: si può essere autorevoli pur entrando in amicizia (con quasi tutti i miei allievi è nata e rimane un’amicizia) come pure si può essere privi di credito pur nella autorità della quale si è investiti.
Un tempo nei luoghi di lavoro vigeva il “lei” perché non era considerato corretto entrare in confidenza con gli umili sottoposti (citazione di fantozziana memoria); ora nella stragrande maggioranza delle aziende il “tu” non solo è consentito ma incentivato, considerando il manager come un direttore d’orchestra e non un cocchiere che frusta i cavalli; il lavoro in team, inoltre, viene ostacolato da una fittizia forma di rispetto, specie se il “lei” può, come detto prima, nell’assegnazione dei compiti può creare confusione tra il lei, riferito alla collega del team oppure a me, ma detto con ossequio.
In altre parole, badando ai contenuti ed ai risultati anziché ad una vetero forma di linguaggio, nulla contro l’utilizzo del tu anche in ambito professionale o associativo o accademico, purché vi sia sempre il rispetto altrui; rispetto che spesso manca quando ci si rivolge ad altri con la finta rispettosa forma del “lei” di cortesia.
Sergio Motta
È accompagnata da un programma artistico ed educativo, da studio visit, visite laboratorio ed è documentata da una pubblicazione. Si propone dunque come una piattaforma, pensata per promuovere azioni volte a offrire occasioni di visibilità, promozione e approfondimento delle ricerche degli artisti e delle artiste, favorendo il coinvolgimento del pubblico torinese e delle comunità di riferimento in città.
“Con questa iniziativa ci poniamo l’obiettivo di ampliare e consolidare l’impegno del Comitato nella promozione e nella tutela dei diritti umani e civili – ha spiegato il presidente del Consiglio regionale e del Comitato, Stefano Allasia – in particolar modo anche in considerazione dell’attuale periodo storico e dei cambiamenti nel quadro geopolitico internazionale, in cui è sempre più sentita la necessità di far conoscere, rendere effettivi e garantire con maggior forza tali diritti sia in tempo di pace che in tempo di guerra”.
“Da cinque anni il Comitato coinvolge numerosi attori del territorio e ha promosso iniziative con al centro il tema dei diritti negati da regimi illiberali o coinvolti in conflitti e dell’oppressione della condizione femminile. Abbiamo inoltre valorizzato artisti che riscontrano difficoltà a esercitare nei loro paesi d’origine, in cui i diritti umani, il mondo dell’arte e della cultura sono fortemente compromessi”, hanno aggiunto i vicepresidenti del Comitato Sara Zambaia e Giampiero Leo.
La mostra è concepita come uno spazio polifonico, nel quale riflettere sui meccanismi di conservazione e di trasmissione della memoria. Attraverso la pittura e la fotografia, le opere esposte offrono alla sguardo stratificazioni di tempi, luoghi ed esperienze e fanno luce sulla natura del ricordare e sulle sue implicazioni nella vita di tutti i giorni. Tema che accomuna le pratiche artistiche di Arvin Golrokh, Bahar Heidarzade e Ahmad Nejad, è la memoria dei ricordi del paese d’origine, specchio del passato e patrimonio inalienabile di immagini che contribuiscono a connotare l’identità di ciascun artista.
Durante il processo di estrazione del ricordo, le immagini esposte risalgono in superficie e diventano frame nei quali il passato si innesta all’esperienza soggettiva del presente per costruire nuove narrazioni.
Coinvolti in vari di processi elaborazione, manipolazione, sovrapposizione e cesura, i ricordi sono rimodellati alla luce del presente. La nuova città, Torino, diventa un terreno d’incontro tra esperienze quotidiane e passate; ed è proprio in questo scambio che emergono opere che racchiudono vissuto, realtà e nuovi immaginari che raccontano storie intime e al tempo stesso condivisibili da tuttə.
Nel ricucire i passaggi della propria storia, ciascun artista declina quest’intreccio tra memoria e vita quotidiana secondo logiche diverse. Ahmad Nejad predilige un approccio processuale e astratto. Attraverso il suo lavoro rielabora storie, leggende e tradizioni della cultura del suo Paese, trasmettendo emozioni e atmosfere senza rivelare esplicitamente la fonte. Alcune opere di Nejad, come la serie Prime tracce (2023-2024), svelano la lenta preparazione del supporto pittorico con la stratificazione del colore come metafora del processo di emersione mnemonica. In altri lavori, come Una porta sull’Altrove (2023), una trama intricata di forme, materiali e colori ha il potere di richiamare ricordi e visioni oniriche.
Bahar Heidarzade alterna la dimensione pittorica astratta all’intervento su materiale fotografico. Le tele della serie Dieci Anni (2019-2021), realizzate con acrilici e smalti, ripercorrono emozioni associate a traumi ed eventi taciuti, depositate negli strati più profondi della memoria e resi secondo un codice cromatico. Nella serie Memoria (2018- in corso), sviluppata a partire da fotografie di persone sconosciute reperite in vari angoli della città, l’artista rinviene tracce della propria infanzia all’interno di immagini di altre persone. Le fotografie sono così in grado di risvegliare nell’artista sensazioni assopite e di ricostruire un passato nostalgico.
Arvin Golrokh produce immagini ancorate alla memoria sociale dell’Iran. Evitando rappresentazioni dirette e didascaliche, le sue tele di grande formato Gli arroganti (2023) e Profeti Svergognati (2023) scompongono e frammentano le forme in immagini vivide e non immediatamente riconoscibili. Così elaborata, la figurazione appare svincolata da specifici contesti politico-sociali che tuttavia rappresentano la fonte di ispirazione dei lavori.
In dialogo tra passato e presente, Ri-connessioni si presenta come un’occasione per avviare una riflessione critica. I lavori esposti sono punti di snodo tra memoria individuale e memoria pubblica, e invitano chi guarda a esplorare e riconsiderare il proprio rapporto con il passato e con le narrazioni storiche.
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo / Bookshop via Modane 16, Torino www.fsrr.org Ingresso gratuito Giovedì: 20-23, da venerdì a domenica 12-19
Sabato 30 marzo andrà in scena a Torino Dal seno al “ventre” per amarsi di più, spettacolo di danza del ventre, a supporto dell’Associazione GADOS – Gruppo Assistenza Donne Operate al Seno.
«La danza del ventre può aiutare le donne ad amare il proprio corpo anche quando non è perfetto. Supportare le donne nel raggiungimento di questo obiettivo è anche ciò che vuole fare l’Associazione GADOS, affiancando le pazienti operate alla mammella e sostenendo il loro reinserimento familiare e sociale in un momento in cui, molto probabilmente, non amano più il loro corpo», dice Maddalena Bellissimo, insegnante di danze orientali alla Silvan School Dance di Nichelino.
Il ricavato è destinato al “Fondo Aiuta Donne”, un progetto di GADOS che sostiene le donne in difficoltà economica che devono affrontare una serie di spese richieste dalle terapie oncologiche. Non è scontato che chiunque possa permettersi l’acquisto di un reggiseno post intervento, una parrucca, un turbante, interventi di estetica oncologica, tatuaggi al capezzolo o creme adatte a radioterapia e cicatrizzazione; eppure, sono ausili necessari. GADOS con questo progetto si impegna a renderli più accessibili.
Qualche anticipazione sulla serata? «Con questo spettacolo si potranno percorrere le strade dell’Egitto, passando attraverso le sue regioni e conoscendo i vari stili che le caratterizzano, dal folklore alla danza orientale più classica. Sul palco ci saranno ballerine giovanissime (bambine delle elementari, adolescenti e teen), mamme giovani che balleranno con le loro bambine e danzatrici adulte, che grazie alla danza del ventre hanno riscoperto il loro corpo in età matura e si sono innamorate del palco», racconta Maddalena Bellissimo.
«È un luogo comune che la danza del ventre sia per donne belle, vestite in modo succinto che ancheggiano; questa idea è tipica di coloro che non la conoscono e, purtroppo, rischia di allontanare da questo stile di danza le donne che hanno poca autostima», spiega ancora l’insegnante.
La danza del ventre può diventare uno strumento importante per tutte le donne, perché aiuta a riscoprire e “sentire” la propria femminilità, condizione fondamentale per il benessere emotivo di chi affronta un’operazione al seno.
«Questo tipo di danza offre alle donne uno spazio per esprimersi, connettersi sia fisicamente che emotivamente e riscoprirsi. Può essere utilizzata come una forma di terapia ed essere un completamento prezioso alle terapie tradizionali per migliorare il benessere psico-fisico delle donne, come forma di rilassamento e conseguente benessere generale, tonificazione e flessibilità, espressione emotiva e senso di comunità. Ecco perché questa forma di danzaterapia e la lotta contro il tumore al seno possono congiungersi in modo significativo per offrire supporto alle donne che affrontano questa sfida», dice Rossella Noto, Presidente dell’Associazione GADOS.
La serata permetterà di supportare la causa di GADOS e riscoprire una cultura intrisa di significati, messaggi e valori che decostruiscono i pregiudizi su una forma d’arte che non è unicamente bellezza e apparenza.
• Dove: Teatro Provvidenza – Via Vittorio Asinari di Bernezzo, 34/A, 10146 Torino TO
• Quando: sabato 30 marzo, ore 21
• Biglietti: costo a partire da 18 euro. È possibile acquistare i biglietti con bonifico bancario oppure direttamente a teatro presso la biglietteria.
• Per informazioni e prenotazioni: maddy1988@gmail.com / 340 – 8403264
GADOS è un’associazione no profit che opera dal 1984 presso l’ospedale Sant’Anna e da due anni anche presso il Presidio del Mauriziano. Fino ad oggi ha aiutato 25.000 donne e le loro famiglie prima, durante e dopo le terapie oncologiche. Lavora per portare un’informazione chiara e semplice sulla malattia, grazie agli interventi di personale medico e non. Sostiene la donna operata al seno o in attesa di un intervento chirurgico, supporta le pazienti nel decorso della malattia e sensibilizza gli operatori socio-sanitari, le autorità e l’opinione pubblica. Promuove un sano stile di vita e il valore della prevenzione. GADOS è associata a Europa Donna Italia e ha contribuito alla recente formazione della Delegazione Europa Donna Piemonte.
La Asd New Silvan School Dance è un’associazione di ballo e danza nata con una marcata impronta verso i Balli Caraibici; oggi è un centro per la danza a 360°. Insegna dall’Hip Hop alla Danza Classica, dalla Danza Moderna alla Danza del Ventre per passare da Reggaeton, Caraibico e finire al Liscio Tradizionale e Balli da Sala, questa scuola è tra le più conosciute e rinomate del Piemonte per professionalità, eventi e divertimento. Iscritta al CONI, l’ASD New Silvan School Dance appartiene alla Federazione Italiana Danza Sportiva (FIDS).
Sono partiti ufficialmente i lavori che cambieranno nel profondo il parco del Valentino, uno dei luoghi più iconici della città, che verrà realizzato con un investimento di 13 milioni di euro di fondi Pnrr.
“Oggi diamo ufficialmente il via ad un progetto a cui teniamo moltissimo – ha commentato il sindaco Stefano Lo Russo inaugurando il cantiere – che si compone di tanti tasselli differenti che hanno un’unica visione strategica di città. Quella di puntare a costruire, lungo il Po, un polo culturale importante, che mette insieme la nuova biblioteca civica di Torino Esposizioni, la riqualificazione del Teatro Nuovo e del Borgo Medievale, il ripristino della navigazione sul Po e la riqualificazione in chiave ambientale del parco del Valentino”.
Il progetto prevede la pedonalizzazione dei viali principali del parco, con la rimozione dell’asfalto e la deimpermeabilizzazione del suolo, su una superficie pari a 65mila metri quadrati, per mitigare gli effetti degli eventi meteorologici estremi. Un parco ancora più verde, con circa 20 mila metri quadrati di nuova superficie a prato, 555 nuovi alberi messi a dimora, e con un nuovo roseto “verticale” che sarà realizzato nel giardino roccioso.
“Siamo di fronte a una grande occasione” – ha commentato l’assessore al Verde pubblico Francesco Tresso – “quella di ripensare questo grande parco urbano integrando tra loro tutte le realtà presenti e le sue funzioni: ci sarà un grande campus nel verde, la nuova biblioteca civica che avrà un affaccio naturale sul Valentino, il nuovo sistema di navigazione ecologica sul fiume. Abbiamo fatto scelte progettuali importanti, all’insegna della sostenibilità, con più superfici permeabili e più verde, per un parco più moderno ma anche profondamente attento alla sua storia”.
Il restyling interesserà anche piazza Rita Levi Montalcini, che sarà pedonalizzata e ridisegnata, mentre davanti alla Fontana dei 12 mesi nascerà una nuova piazza pedonale. Il Padiglione 5 di Torino Esposizioni ospiterà inoltre 600 nuovi posti auto, e sulla sua superficie sarà realizzata una nuova copertura che riprende le linee curve del disegno originario del parco all’inglese.
“È una fortuna poter tornare in una città che ha fatto della trasformazione il suo essere” – ha commentato l’architetto di Land, Andreas Kipar, uno dei responsabili del progetto di riqualificazione – “Questo parco sarà principalmente un luogo del sapere, dello studio e dello stare; dopotutto, il benessere della città passa attraverso i luoghi che invitano a sostare. È una funzione fondamentale per un parco moderno e soddisfa la nostra esigenza di natura”.
TORINO CLICK
E’ “LastanzadiGreta”, impegnata band torinese, a vincere il Concorso Arci Torino “Risuona la Resistenza”
Domenica 24 marzo la premiazione
Carmagnola (Torino)
“Riparare, ricucire, ricomporre – per salvare e ricordare. Il giorno dopo della guerra, in una Torino liberata dai partigiani che da piazza Statuto percorrono via Garibaldi verso il centro della città proprio questo si tratta di fare, non appena finita la festa. Di rimettere insieme, con cura e dedizione, i pezzi: delle bambole e dei giocattoli rotti come delle vite, dei ricordi come della verità storica. ‘Riparare bambole’ è un breve viaggio visionario in 4 minuti, con l’auspicio che dai frammenti della violenza passata si salvi la memoria del bene che è stato fatto”.
Questo il messaggio forte che ci lasciano, con parole ricche di speranza e sincerità, i componenti, tutti baffuti e barbuti, della band torinese (nata nel 2009) “LastanzadiGreta” (tutto attaccato) vincitrice della prima edizione del Concorso “Risuona la Resistenza” finanziato dalla “Regione Piemonte” e promosso da “Arci Torino” in collaborazione con le associazioni “Arci Gamma Music Institute”, “Circolo Margot e Dewrec” e la “Fondazione Istituto Piemontese Gramsci”. Il contest musicale, rivolto a musicisti under 40, era nato per celebrare con nuove canzoni e musiche il Sessantennale del “Concerto per la Resistenza” che si svolse al “Teatro Gobetti” di Torino il 14 novembre del 1964: “Risuona la Resistenza” chiedeva proprio ai musicisti di “comporre una canzone che riflettesse i valori della Resistenza e dell’antifascismo”, utilizzando almeno uno o più campioni musicali originali di quel celebre concerto disponibili sulla piattaforma risuonalaresistenza.it.
Titolo emblematico (e il perché ce l’hanno spiegato, più sopra, gli stessi musicisti) del brano vincitore “Riparare bambole”, realizzato ed eseguito da “LastanzadiGreta”, (già vincitrice nel 2017, con “Creature selvagge”, della “Targa Tenco” per la “Miglior Opera Prima”), a cui andrà il Premio di 500 Euro. Secondo – per pochi centesimi di voto – Galante con “Ho sognato, ho creduto, ho tanto amato”, terzo DaGo con “Ora e sempre”.
La giuria – composta da Elisa Salvalaggio, presidente, Giorgio Mirto, Andrea Maggiora, Edoardo Dadone, Francesco Salinas e Max Borella, nel valutare i brani, ha preso in considerazione la qualità dell’elaborazione dei campioni utilizzati, l’aderenza ai temi dell’antifascismo e della Resistenza e la qualità generale degli elaborati. “Graduatoria o meno, tutti e 15 i brani in concorso sono stati di grandissima qualità – spiegano i giurati – e molto vari nelle interpretazioni di quelle che erano le richieste del concorso; si va infatti dalla musica elettronica al folk, passando dal post rock al ‘rp’, fino al cantato pop”.
Molti i concorrenti piemontesi e di Torino, con altri arrivati da Roma, Pesaro-Urbino e Como.
Domenica 24 marzo, alle 19,30, al “Circolo Margot” di Carmagnola, in via Donizetti 23, ci sarà la premiazione: in programma, un talk di Elisa Salvalaggio, etnomusicologa e presidente di giuria, e Max Borella (Arci Torino), con aperitivo. Durante la serata verranno proposti i brani e si parlerà di “musica e Resistenza”.
g.m.
Nelle foto:
– La Band vincitrice “LastanzadiGreta”
– “Riparare bambole”
Ho avuto modo anche su queste colonne, ma soprattutto nei miei libri e nelle mie conferenze, di parlare di dipendenza: da sostanze, da comportamenti (es. la ludopatia) ma c’è un’altra forma di dipendenza molto più subdola.
Parlo della dipendenza dall’opinione altrui: è una forma di dipendenza psicologica, che però sortisce effetti anche fisici, che ha origini remote e che non conosce latitudini o epoche.
Dipendere dagli altri è doveroso almeno nei primi anni di vita, proprio perché non avendo ancora gli strumenti culturali per agire autonomamente, il bambino fino all’età della ragione necessita della supervisione degli adulti (solitamente genitori, nonni o fratelli maggiori, talvolta la babysitter) ma, raggiunta l’adolescenza, deve formarsi un carattere autonomo, indipendente che gli consenta di vivere secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni, facendo tesoro degli errori e progettando una vita di proprio gradimento.
Spesso, tuttavia, un po’ per colpa del carattere debole o, anche in aggiunta, quello dominante di uno o entrambi i genitori che non ammettono repliche, un po’ per comodità si corre il rischio di non formarsi un carattere definito, indipendente e di viaggiare, di conseguenza, al traino degli altri.
Nelle metropoli, come pure nelle città di medie dimensioni, è più facile inserirsi nel tessuto sociale per ciò che si è, indipendentemente dalle origini, dal ceto sociale, dal titolo di studio o dalla professione. Si viene accolti ed accettati per come ci si presenta, per ciò che si dice o si fa, e non importa se scendiamo in ciabatte a prendere la posta o se indossiamo il frac quando usciamo la sera.
Non tutte le persone, però, riescono ad integrarsi nella società in cui vivono per ciò che sono, facendo cosa, e soprattutto come, vogliono; molte, troppe (e pare il loro numero cresca in continuazione) dipendono in modo patologico dal giudizio altrui, da come gli altri le fanno sentire, da quanto si sentono a loro agio frequentando il prossimo, se vengano scherniti o applauditi.
Se da un lato è corretto che una società adotti delle regole di civile convivenza, di buon vicinato è altrettanto vero che ogni deviazione debba essere stigmatizzata solo se reca nocumento ai membri di quella stessa società. Faccio un esempio. L’omicidio,come il furto o la violenza privata, sono banditi da ogni società civile, prima che dai “dieci comandamenti” perché recherebbero un danno alle vittime; gli ordinamenti legislativi delle società hanno poi formalizzato tali divieti sanzionando ogni infrazione. Alcuni regolamenti, invece, sono frutto di tradizioni, di consuetudini che regolano l’aspetto esteriore anziché la sostanza, che codificano ciò che è gradito da ciò che non lo è, ciò che è lecito da ciò che è da evitare.
Pensiamo, ad esempio, all’abbigliamento per il matrimonio o al radersi la barba per recarsi ad una cerimonia: tanto un relatore quanto un ascoltatore possono essere validi e meritevoli anche con la barba incolta di tre giorni, ma la gente intorno classificherebbe subito entrambi come “poco seri”, “poco credibili”.
Una prova di quanto sostengo sta nel soprannome, tuttora assegnato nelle comunità minori, a vari abitanti del loro territorio che non vengono, quindi, conosciute per il nome o la famiglia di origine, ma per la professione, per un difetto fisico, per un’abitudine nel comportamento.
Tutto ciò premesso, è necessario però scrollarsi di dosso questa paura, questa soggezione nei confronti degli altri se si vuole essere davvero sé stessi, se si vogliono realizzare i propri progetti, le proprie aspirazioni.
Partite dalla considerazione che nessuno è privo di difetti, e con i moderni mezzi di informazione ci vuole davvero pochissimo a scoprire quelli altrui: davvero pensate di valere meno perché una volta vi hanno visto ubriachi a barcollare come una scimmia? Oppure siete usciti con i calzini spaiati o senza pettinarvi? A me succede un giorno si e l’altro pure di dimenticare qualcosa o di compiere un qualcosa per cui mi verrebbe da nascondermi, salvo poi prendermi in giro da solo. E’ peggio andare in riunione con la giacca macchiata di caffè o disertarla per non mostrarsi in tali condizioni? Io opterei per la seconda.
Ricordate che uno dei segnali di intelligenza è l’autoironia: cominciate a ridere dei vostri difetti, non ascoltate chi parla alle spalle perché significa che non vuole correggervi o segnalarvi un problema ma solo sminuirvi agli occhi degli altri, ed è degno solo di parlare col vostro deretano. E’, ovviamente, importante che non assumiate comportamenti che realmente possano nuocere agli altri: se in piena notte suonate i citofoni in casa d’altri non verrete considerati creativi che stanno componendo un’opera per campanello solista, ma maleducati che non hanno rispetto per gli altri. Allo stesso modo se terrete l’auto accesa sotto le finestre di un appartamento al piano terra sarete quanto meno insultati da chi vi abita.
Ma, e lo ripeto, se il vostro modo di pensare, di vestire, di mangiare si discostano da quello della maggioranza delle persone siete solamente originali, alternativi, insoliti o quale altro aggettivo volete trovare.
Adoro la compianta Alda Merini, ed il film trasmesso di recente in TV ha aumentato ulteriormente la stima che ho in lei; considerata pazza ai tempi in cui Basaglia non aveva ancora portato alla chiusura dei manicomi (le venne attribuito un disturbo bipolare), in realtà era stimatissima da molti personaggi della cultura e dello spettacolo tant’è che la sua casa di Ripa di Porta Ticinese era un via vai continuo di personaggi.
Ora è stata ampiamente rivalutata e le sue opere riconosciute di livello elevato; se vi prendono per pazzi perché non seguite il gregge, dunque, siete probabilmente solo in anticipo sui tempi.
Sergio Motta
Cosa rende felice una città? Quali sono gli elementi urbani ma anche abitativi che rendono piacevole un luogo? Come si fa a rendere fruibili luoghi dismessi? A queste domande cercheranno di rispondere architetti, attivisti, artisti coordinati dalla Fondazione per l’Architettura di Torino che, con un programma fitto di eventi, vuole comprendere come migliorare i luoghi che viviamo.
Il progetto si chiama Building Happiness, è molto ambizioso e si prefigge di redigere un vero e proprio manuale con linee guida pubblicare e divulgare. L’argomento non è certo nuovo. La relazione tra Architettura e Felicità è già stata indagata in passato, soprattutto attraverso lo sguardo di filosofi e scrittori (come Alain De Botton, “Architettura e Felicità, 2006”) e da antropologi (come Mar Augè, “La felicità ha un luogo? 2011”). La Fondazione inoltre riconosce il recente emergere di un approccio quantitativo da parte degli architetti nello sviluppo di “edifici felici”, tutto ciò è stato di stimolo per proporre ed enfatizzare l’aspetto culturale della nuova indagine, che vuole sottolineare le dirette conseguenze dell’architettura sulla qualità della vita delle persone e sulla responsabilità sociale degli architetti.
“Mi preme sottolineare – afferma Gabriella Gedda, Presidente della Fondazione per l’Architettura di Torino – tutto l’orgoglio e l’impegno che la Fondazione ha profuso nei confronti del progetto Building Happiness, che vede nell’architettura un valore sociale al servizio della comunità, anche attraverso la promozione del benessere dei cittadini. Crediamo infatti fermamente che la felicità sia un indicatore fondamentale per misurare la salute psico – fisica delle persone e anche per conferire vigore all’attrattività territoriale. Con il progetto Building Happiness vogliamo sensibilizzare la comunità degli architetti e di tutti i professionisti del settore, al fine di contribuire in modo tangibile alla realizzazione di un ambiente urbano che, oltre a soddisfare le necessità pratiche e funzionali, alimenti il benessere emotivo e spirituale dei suoi abitanti”
Il percorso di Building Happiness si articolerà in una ventina di appuntamenti, il calendario completo lo trovate qui. Comprende incontri “Face to Face” con architetti, tour di luoghi felici, talk culturali con ospiti illustri, tra i quali uno in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, un Book Lab in collaborazione con il Circolo dei lettori di Torino e la realizzazione di una mostra fotografica in collaborazione con CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia.
Imperdibile, Sabato 23 Marzo, la Maratona Stand up for Architecture! Dalle ore 17.00 alle ore 23.00 al Capodoglio, Murazzi del Po Gipo Farassino 37. Qui sarà possibile dialogare con architetti, designer, attivisti e artisti. L’evento multidisciplinare e corale, una vera e propria maratona di sei ore, coinvolgerà attivisti, designer, architetti e artisti. Qui il programma completo.
“Vorrei sottolineare – conclude Eleonora Gerbotto – il nostro impegno nel rendere protagonisti i giovani. Attraverso la Maratona, uno dei momenti salienti della programmazione, i giovani (architetti ma non solo) sono stati coinvolti attivamente perché abbiano l’opportunità di esprimersi su un tema così rilevante come la felicità. Ritengo infatti importante mettersi in loro ascolto, ma ancor di più coinvolgerli, perché i giovani sono a tutti gli effetti il motore creativo per il futuro della nostra città”.
E i torinesi? La Fondazione per l’Architettura di Torino ha bisogno anche dell’aiuto dei suoi concittadini e lo fa chiedendo di rispondere al questionario di Building Happiness. Alla costruzione della felicità nessuno resta solo spettatore.
Lori Barozzino
La storia di Elda Pucci, prima e unica donna sindaco di Palermo, con Ottavia Piccolo e i solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo
TSN – Teatro Superga Nichelino (TO)
Venerdì 22 marzo, ore 21
Un’attrice, un ensemble di voci, il palcoscenico: la storia di una donna, di una città, di un anno. A volte, per spiegare le cose, servirebbe solo cercare le parole. Trovarle. Infine, dirle ad alta voce. La cosa più semplice. Raccontare di come a Palermo, il 19 aprile 1983, per la prima volta nella storia della città, una donna, Elda Pucci, la Dottoressa, è stata eletta Sindaco. Raccontare poi di come sempre nel mese di aprile di un anno dopo, il giorno 13, Elda Pucci, la Dottoressa, è stata sfiduciata. Raccontare infine di come a distanza di ancora un anno, il 20 aprile 1985, la casa di Elda Pucci è saltata in aria spinta da due cariche di esplosivo. Nel prima, nel mezzo, nel dopo, lì dove tutto si impasta come la calce, come la colla, i miliardi dell’eroina, gli assassini del Generale Dalla Chiesa, di Michele Reina, di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, dello scrittore Pippo Fava, il cemento di Vito Ciancimino, gli Inzerillo, i Badalamenti, i Buscetta, l’avvento di Totò Riina.
Ottavia Piccolo e i Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo tornano a confrontarsi in scena con le parole di Stefano Massini, a dare forma e struttura a un teatro necessario, civile, in cui il racconto dell’etica passa attraverso le parole, i timbri e le azioni di coloro che spesso non hanno voce.
Venerdì 22 marzo, ore 21
Cosa Nostra spiegata ai bambini
Di Stefano Massini
Regia Sandra Mangini
Con Ottavia Piccolo e i solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo
Produzione Officine della Cultura – Argot Produzioni, in collaborazione con Infinito Teatro
Biglietti: 22 euro galleria, 27 euro platea