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“Ora via libera agli sport in montagna”

“La possibilità di raggiungere le ‘seconde case’, tutte le abitazioni, anche fuori dalla propria regione, è un segnale di apertura positivo nell’ultimo DPCM con le misure in vigore da domenica.

Ma ora occorre sancire in modo definitivo che le attività sportive amatoriali sulla neve, in particolare ciaspole e scialpinismo, passeggiate e gite, si possono svolgere raggiungendo tutte le località montane. Deve essere possibile fare un’escursione piuttosto che una gita sugli sci, distanziati. Il DPCM, come i precedenti, prevede che ci si possa spostare per ‘svolgere attività o usufruire di servizi non disponibili nel proprio Comune’. Le attività sportive sono tra queste attività ma occorre un chiarimento urgente e preciso, che agevoli tutti, comprese le forze dell’ordine. Consentire di raggiungere località montane per svolgere attività sportiva amatoriale individuale non alimenta il contagio. Spostarsi verso il Terminillo o la Val Brembana, verso la Carnia o nei Monti Lattari deve essere consentito. Ciaspolate e sci alpinismo non si possono certo fare in centro a Napoli o a Bergamo. Dunque le attività sportive devono essere permesse fuori dal proprio Comune e il Governo deve fare chiarezza nelle FAQ sul sito, come anche auspicato dal CAI”.

Lo affermano Roberto Colombero, Presidente Uncem Piemonte, e Marco Bussone, Presidente nazionale Uncem.

Madonna del Sasso e il “sapere che resta”

Madonna del Sasso,  meno di quattrocento abitanti sparsi in quattro frazioni sulle alture che sovrastano la sponda occidentale del lago d’Orta e confinano con la Valsesia.

Costituitosi nel 1928 per Regio decreto che unificava le municipalità di Artò e Boleto, prese il nome dal Santuario della Madonna del Sasso che sorge su uno sperone di granito bianco che ricorda il durissimo lavoro degli scalpellini che scavarono e lavorarono questa roccia durissima dai primi decenni dell’ottocento alla seconda metà del secolo scorso, coinvolgendo le vicissitudini di numerose famiglie del posto.

L’omegnese Filippo Colombara, classe 1952, studioso di storia e cultura dei ceti popolari, ha indagato le vicende di questo “paese di mezzo” tra montagna, lago e collina con una interessante ricerca antropologica , mettendo in rilievo il patrimonio culturale che costituisce la coscienza del passato di una comunità che resiste alla perdita delle consuetudini, dell’oralità, delle tradizioni. Con “ Il sapere che resta. Memoria e comunità: Madonna del sasso tra Otto e Novecento”, edito dalla novarese Interlinea, Colombara –  che è membro della Giunta esecutiva dell’Istituto Ernesto de Martino e del Comitato scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara” – ha recuperato le memorie che resistono alla modernizzazione vertiginosa della società, fatte di conoscenze e buone pratiche, folklore, tradizioni e narrazioni. E’ la memoria degli uomini e delle donne dei borghi di Madonna del Sasso raccolta attraverso interviste orali e documentazione d’archivio, in una ricerca che rivela a un tempo presente inquieto “un capitale di saperi che è la sostanza di parte dell’identità locale trascorsa e il tramite interpretativo delle evoluzioni odierne”. Le vicende di contadini, migranti, scalpellini, streghe, partigiani si sommano a un bagaglio ricchissimo di tradizioni, leggende, filastrocche, inquietudini, speranze. In questa raccolta di testimonianze si incontrano storie di ” fisica” e stregoneria, di donne e uomini in grado di “segnare “ malattie o di preparare medicamenti naturali, dell’abilità nel taglio e nella lavorazione del granito, affrontando una vita dura, spesso di miseria ma che poteva riservare anche momenti di scoperta, stupore, meraviglia. Questo è il “sapere che resta”, un patrimonio culturale da non disperdere e da far conoscere. Filippo Colombara non è la prima volta che si cimenta con le storie di questa comunità cusiana, raccontata in passato nei libri “I paesi di Mezzo, storie e saperi popolari a Madonna del Sasso” (Istituto Ernesto de Martino) e “Pietre bianche: vita e lavoro nelle cave di granito del lago d’Orta” (Alberti, Verbania 2004) .  Oltre a questi lavori lo studioso di storia e cultura dei ceti popolari ha indagato con le sue numerose pubblicazioni la storia del movimento operaio e della Resistenza pubblicando, fra l’altro, “La terra delle tre lune. Classi popolari nella prima metà del Novecento in un paese dell’alto Piemonte. Prato Sesia: storia orale e comunità” (Vangelista, Milano 1989), “Pippo Coppo. Conversazioni sulla guerra partigiana”(Fogli Sensibili,1995), “ Uomini di ferriera. Esperienze operaie alla Cobianchi di Omegna”(Alberti,2006),“Vesti la giubba di battaglia: miti, riti e simboli della guerra partigiana” (DeriveApprodi, Roma 2009), “Giorni di resistenza e libertà. Colloqui sulla vita, la morte, la guerra con tre uomini della Beltrami” (Istituto Ernesto de Martino,2015),“Raccontare l’impero: una storia orale della conquista d’Etiopia (1935-1941)” (Mimesis, Udine-Milano 2019).

Marco Travaglini

Vaccini Covid, siglato l’accordo con i medici di medicina generale

IL PRESIDENTE CIRIO: «PRONTI A PARTIRE». L’ASSESSORE ICARDI: «UNA SQUADRA VINCENTE»

Accordo raggiunto, in Piemonte, per il coinvolgimento dei medici di medicina generale nella campagna di vaccinazione contro il covid-19.

L’intesa tra la Sanità regionale e le rappresentanze sindacali dei medici di famiglia (Os Fimmg, Os Snami, Os Smi e Intesa sindacale) è stata siglata ieri pomeriggio nella sede dell’Assessorato regionale alla Sanità, alla presenza del presidente della Regione, Alberto Cirio, e dell’assessore regionale alla Sanità, Luigi Genesio Icardi.

«Il Piemonte è pronto alla vaccinazione di massa attraverso le sue oltre 3.200 “sentinelle” sul territorio, cioè i propri medici di famiglia – commenta il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio -. Sono grato a tutti perché il Piemonte è tra le prime regioni a siglare un accordo di questo tipo, che ci permetterà di raggiungere in modo capillare tutti i cittadini e in particolare le fasce più fragili. Siamo pronti a partire non appena arriveranno le dosi del vaccino Astra Zeneca, la cui validazione è attesa a fine gennaio con prima consegna alle regioni intorno al 10 febbraio. Il Piemonte ci crede e sta mettendo il suo massimo impegno, perché prima vaccineremo tutti e prima usciremo da questa grave crisi».

«Abbiamo sempre sostenuto che questa battaglia possiamo vincerla solo insieme ai medici di base, che per la vaccinazione antinfluenzale sono stati in grado in meno di due mesi di vaccinare in Piemonte un milione di persone – sottolinea l’assessore alla Sanità della Regione Piemonte Luigi Genesio Icardi -. Oggi abbiamo siglato questo accordo che copriamo con risorse regionali, ma ho già convocato domani la Commissione Salute della Conferenza delle Regioni, che coordino, alla quale parteciperà anche il ministro Speranza, dove chiederemo che questa importantissima attività sia finanziata, perché è forse la più importante che l’emergenza Covid abbia messo in evidenza. La squadra con i medici di famiglia, e fra poco anche con i farmacisti, sono certo che sarà una squadra vincente».

Operativamente, i medici entreranno in azione non appena sarà disponibile il vaccino Astra Zeneca, o altro con analoghe caratteristiche, che consente modalità di conservazione (normali frigoriferi) compatibili con la somministrazione anche a domicilio, oltre che in ambulatorio.

I medici di medicina generale potranno effettuare la somministrazione del vaccino direttamente nei propri studi, avvalendosi delle strutture messe a disposizione delle Aziende sanitarie (o dagli enti locali), oppure a domicilio degli assistiti, in caso di persone non deambulanti.

Il target degli assistiti da coinvolgere in una prima fase sarà rappresentato dalle persone in età avanzata, in primo luogo ultraottantenni, e dalle persone non deambulanti già seguite presso il proprio domicilio, che si sono già sottoposte a vaccinazione antinfluenzale. Un coinvolgimento che aumenta la protezione anche delle persone con fattori di rischio clinici, vista la prevalenza di comorbidità, mentre il rapporto di fiducia che lega gli anziani al medico di medicina generale consentirà di realizzare una maggiore copertura vaccinale.

Nelle fasi successive il target di popolazione da vaccinare seguirà le indicazioni nazionali e regionali.

Particolare attenzione sarà rivolta nei confronti dei soggetti “scettici” e non responder che saranno contattati e informati sull’importanza della somministrazione del vaccino, sulla sua sicurezza e sulle controindicazioni temporanee alla somministrazione.

I medici potranno vaccinare non solo gli assistiti in carico, ma anche altri assistiti comunque residenti nel territorio della Asl di riferimento. Sarà ammessa l’adesione dei medici di continuità assistenziale, su base volontaria, in orario diurno e feriale ai quali verrà corrisposta la medesima remunerazione, che è di 6,16 euro ad inoculo (più oneri), come da contratto nazionale.

Per la Regione Piemonte, si stima un impegno finanziario tra i 30 e i 40 milioni di euro, calcolando, secondo i parametri nazionali, una platea tra i 2 e i 3 milioni di persone a carico dei medici di famiglia e tenendo conto anche della seconda inoculazione, prevista per il richiamo.

«Oggi è una giornata storica – commenta Roberto Venesia, segretario della Fimmg Piemonte -. Siamo stati chiamati e la medicina generale risponde all’appello. Nessuno si salva da solo, ma tutti insieme potremo farcela per l’interesse e la salute dei nostri concittadini».

«Da un anno ormai, come i colleghi ospedalieri, noi medici di famiglia siamo impegnati nella lotta contro questa pandemia – sottolinea Antonio Barillà segretario Smi Piemonte -. Ora è arrivato il momento dell’ultimo importante sforzo, che è quello di vaccinare al più presto i nostri pazienti».

«Oggi è stato firmato un accordo importantissimo – aggiunge  Mauro Grosso Ciponte segretario Snami Piemonte – il primo passo per sconfiggere il male del secolo. I medici sono come sempre in prima fila e si sono resi disponibile a dare una mano al sistema per bloccare il virus Covid 19».

«E’ un buon accordo – concorda Marcello Ardizio di Intesa sindacale -, guardiamo con fiducia al futuro».

Crisi economica, arrivano i contributi a fondo perduto per piccole imprese e lavoratori autonomi

Da oggi riapre il bando per ottenere Contributi per sostenere le MPMI ed i lavoratori autonomi piemontesi nell’attivazione di operazioni finanziarie connesse ad esigenze di liquidità

 

A partire da martedì  19 gennaio, sarà nuovamente possibile presentare le domande di accesso per “Contributi a fondo perduto finalizzati a sostenere le MPMI ed i lavoratori autonomi piemontesi nell’attivazione di operazioni finanziarie connesse ad esigenze di liquidità”. “Il bando è stato riattivato – commenta l’assessore alle attività economiche e produttive Andrea Tronzano – modificandolo al fine di allinearlo ai cambiamenti intervenuti negli strumenti legislativi nazionali a sostegno dell’accesso al credito. I finanziamenti ammissibili devono essere di durata massima di 120 mesi; mentre per le sole imprese, l’importo massimo dei finanziamenti è elevato da 150.000 a 500.000 euro (fermo restando il limite massimo di € 100.000 previsto per i lavoratori autonomi) e soprattutto fatto salvo un importo massimo di contributo concedibile che non può in ogni caso superare i 7.500 euro”. La disponibilità finanziaria della misura – continua l’assessore Tronzano – è stata incrementata per ulteriori 10,9 milioni di euro rispetto alla dotazione iniziale”. Sarà quindi possibile presentare le domande di accesso all’agevolazione, a fronte dei finanziamenti bancari connessi ad esigenze di liquidità ottenuti nel periodo compreso tra il 17 marzo e il 31 dicembre 2020.

Le domande andranno presentate accedendo al link sotto indicato:

http://www.sistemapiemonte.it/cms/privati/attivita-economico-produttive/servizi/861-bandi-2014-2020- finanziamenti-domande

 

Covid, il bollettino di lunedì 18 gennaio

CORONAVIRUS PIEMONTE: IL BOLLETTINO DELLE ORE   16:30

LA SITUAZIONE DEI CONTAGI

Oggi l’Unità di Crisi della Regione Piemonte ha comunicato 435 nuovi casi di persone risultate positive al Covid-19 (di cui 66dopo test antigenico), pari al 4 % dei 10.817  tamponi eseguiti, di cui 6783 antigenici. Dei 435  nuovi casi gli asintomatici sono 191(43,9%).

I casi sono così ripartiti:123 screening, 210 contatti di caso, 102con indagine in corso; per ambito:  41 RSA/Strutture Socio-Assistenziali, 38 scolastico, 356 popolazione generale.  

Il totale dei casi positivi diventa quindi 217.223, così suddivisi su base provinciale: 19.361 Alessandria,  11.251 Asti, 7.533 Biella, 30.097 Cuneo, 17.008 Novara, 113.182 Torino, 8.220 Vercelli, 7.688 Verbano-Cusio-Ossola, oltre 1.116 a residenti fuori regione, ma in carico alle strutture sanitarie piemontesi. I restanti 1.767sono in fase di elaborazione e attribuzione territoriale.

I ricoverati in terapia intensiva sono 166 (+2 rispetto a ieri).

I ricoverati non in terapia intensiva sono 2470 (+10 rispetto a ieri).

Le persone in isolamento domiciliare sono 12136

I tamponi diagnostici finora processati sono 2.254.970 (+10817rispetto a ieri), di cui 978.243 risultati negativi.

I DECESSI DIVENTANO 8.419

Sono 19 i decessi di persone positive al test del Covid-19 comunicati dall’Unità di Crisi della Regione Piemonte, di cui 6verificatisi oggi (si ricorda che il dato di aggiornamento cumulativo comunicato giornalmente comprende anche decessi avvenuti nei giorni precedenti e solo successivamente accertati come decessi Covid).

Il totale è ora di 8.419 deceduti risultati positivi al virus, così suddivisi per provincia: 1.282 Alessandria, 543 Asti, 351 Biella, 961 Cuneo, 699 Novara, 3.848 Torino, 390 Vercelli, 266 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 79 residenti fuori regione, ma deceduti in Piemonte.

194.032 PAZIENTI GUARITI

I pazienti guariti sono complessivamente 194.032 (+ 627 rispetto a ieri) così suddivisi su base provinciale: 16.870 Alessandria,  9747 Asti, 6.701 Biella, 26.972 Cuneo, 15.161 Novara, 102.012Torino,  7.279Vercelli,  6.699 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 1.008extraregione e 1583 in fase di definizione.

Il commercio in Piemonte perde 1,2 miliardi nel primo trimestre 2021

Il 2021 per i consumi in Piemonte non parte bene

A causa del prolungamento delle restrizioni anti Covid si prevede nel primo trimestre un calo dei consumi di 1,2 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È la stima di Confesercenti Piemonte.

Nel 2020 la spesa dei piemontesi si era già ridotta di 8,4 miliardi. I negozi, mercati, bar, ristoranti e attività di somministrazione  turismo  sono state le attività più in sofferenza, con una diminuzione media del valore aggiunto del 16,5%, rispetto al -9,5% registrato dagli altri settori dell’economia regionale. La quota di Pil generata da questi comparti scende dal 6,4 al 4,3% del Pil per alberghi e pubblici esercizi; dal 4,1 al 3,3% per ricreazione e cultura; dal 3,8 al 2,9% per l’abbigliamento.

Il bollettino Covid di domenica 17 gennaio

CORONAVIRUS PIEMONTE: IL BOLLETTINO DELLE ORE 17

LA SITUAZIONE DEI CONTAGI

Oggi l’Unità di Crisi della Regione Piemonte ha comunicato 495 nuovi casi di persone risultate positive al Covid-19 (di cui 46 dopo test antigenico), pari al 5,7 % degli 8.643 tamponi eseguiti, di cui 3.771 antigenici. Dei 495 nuovi casi gli asintomatici sono 201 (40,6%).

I casi sono così ripartiti:94 screening, 281 contatti di caso, 120 con indagine in corso; per ambito: 15 RSA/Strutture Socio-Assistenziali, 46 scolastico, 434 popolazione generale.

Il totale dei casi positivi diventa quindi 216.788, così suddivisi su base provinciale: 19.311 Alessandria, 11.236 Asti, 7520 Biella, 30.050 Cuneo, 16.941 Novara, 112.961 Torino, 8206 Vercelli, 7676 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 1114 residenti fuori regione, ma in carico alle strutture sanitarie piemontesi. I restanti 1773 sono in fase di elaborazione e attribuzione territoriale.

I ricoverati in terapia intensiva sono 164 (+ 2 rispetto a ieri).

I ricoverati non in terapia intensiva sono 2460 (4 rispetto a ieri).

Le persone in isolamento domiciliare sono 12.359

I tamponi diagnostici finora processati sono 2.244153 (+ 8643 rispetto a ieri), di cui 976.308 risultati negativi.

I DECESSI DIVENTANO 8400

Sono 19 i decessi di persone positive al test del Covid-19 comunicati dall’Unità di Crisi della Regione Piemonte, di cui 2 verificatisi oggi (si ricorda che il dato di aggiornamento cumulativo comunicato giornalmente comprende anche decessi avvenuti nei giorni precedenti e solo successivamente accertati come decessi Covid).

Il totale è ora di 8400 deceduti risultati positivi al virus, così suddivisi per provincia:1275 Alessandria, 542 Asti, 349 Biella, 958 Cuneo, 698 Novara, 3843 Torino, 390 Vercelli, 266 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 79 residenti fuori regione, ma deceduti in Piemonte.

193.405 PAZIENTI GUARITI

I pazienti guariti sono complessivamente 193.405 (+ 590 rispetto a ieri) così suddivisi su base provinciale: 16.761 Alessandria, 9708 Asti,6668 Biella, 26.882 Cuneo, 15.078 Novara, 101.788 Torino, 7263 Vercelli, 6672 Verbano-Cusio-Ossola, oltre a 1007 extraregione e 1578 in fase di definizione

Il cattivo sapore dell’acqua 

Era sempre la stessa storia. Ogni volta che un gerarca veniva sul lago, in visita alle isole Borromee,  a Stresa o in un’altra località nelle vicinanze, Gino e Lucio finivano ammanettati nella rimessa delle barche, proprio  sotto la passeggiata del  lungolago di Baveno

Le disposizioni, del resto, erano chiare: tutti coloro sui quali si nutriva anche solo il sospetto d’essere dei  sovversivi andavano controllati e, se necessario, messi a tacere. I due, pur avendo schivato il confino non potevano evitare quella restrizione della loro libertà. E quindi, giù sotto, in riva al lago, al riparo da sguardi indiscreti.

Incatenati ai grandi anelli di ferro dove venivano assicurate le cime da ormeggio delle imbarcazioni, non erano in condizione di nuocere. “Anche se si lamentassero, là sotto, nessuno potrà udirli”, sentenziò il maresciallo Rustici. Fascista antemarcia, il graduato dei carabinieri evadeva così la spinosa “pratica” di “quelle due teste calde”. “Oh, Carmelo – disse, rivolgendosi al carabiniere scelto Esposito -; ma ti pare che dovevano proprio capitare tra i piedi a noi questi rompiballe?”. Carmelo, buono come un pezzo di pane, annuì per far piacere al suo superiore ma in cuor suo non li avrebbe costretti a star lì, quasi a mollo nel lago, in quell’antro umido e inospitale. Già l’ultima volta, per un  soffio, non c’era scappato il morto. I due –  ai quali era stato aggregato anche Olimpo Bronzelli – erano finiti ammanettati agli anelli d’ormeggio perché era stata annunciata la visita di un pezzo grosso all’hotel Beau Rivage. L’Hotel era proprio lì, dall’altra parte della strada che attraversava il paese. Olimpo, scalpellino nella cava di granito rosa, era finito ai ferri perché reo di aver canticchiato in un’osteria un motivetto che il Podestà aveva giudicato offensivo nei confronti del regime e del Regno. In realtà, il povero tagliapietre – un po’ brillo – aveva improvvisato un’innocua e vecchia tiritera che più o meno suonava così: “Viva il Re, viva la regina e viva la capra della Bettina”, animale reso famoso dall’eccellente e copiosa produzione di latte. Uno scioglilingua che però era stato mal interpretato e così, ai soliti due reprobi si aggiunse pure il terzo. Il problema derivò dal maltempo. Una forte perturbazione stava imperversando tra il lago e le alture del Mottarone e, in poco tempo, le onde s’ingrossarono trasformandosi in schiumosi cavalloni che s’infrangevano sulla massicciata ricavata dalla passeggiata del lungolago. Immaginarsi che inferno anche là sotto, per i tre prigionieri. A tratti le onde li sommergevano per poi ritirarsi, lasciandoli infreddoliti e in balia di altri, gelidi, schiaffi d’acqua. Tutti e tre furono costretti, loro malgrado, a bere quell’acqua dal cattivo sapore. Soprattutto Lucio che, una volta liberato, giurò di non toccar più una goccia di quel liquido tremendo, limitandosi – pur nelle restrizioni dell’epoca – a sorseggiare soltanto vino, compreso quello aspro e ruvido, che legava in bocca,spillato dalla botte dell’osteria della Miniera, su in  Tranquilla.

Il Mammut e la vetta del Mottarone

Ale era un bambino vivace. Tanto vivace che in casa lo chiamavano “argento vivo”. Con la sua famiglia abitava sulla collina del Parogno, proprio in cima alla salita della Verzella, in un punto dove – con lo sguardo – si dominava tutto il centro della sua città. Era uno spettacolo, soprattutto di notte, nelle giornate di vento: Omegna stava lì sotto, punteggiata da centinaia e centinaia di luci che parevano fiammelle tremolanti. Già da piccolo era capace di stare – proprio lui, così irrequieto – anche più di un’ora al giorno incollato alla finestra oppure appoggiato alla ringhiera del balcone per guardare, affascinato, la montagna che aveva davanti: il Mottarone.

 

Quella montagna, per Ale, aveva qualcosa di misterioso che stuzzicava la sua fantasia. E ne aveva, oh se ne aveva, di fantasia. Mentre i suoi amici giocavano, si rincorrevano, lui – che non si tirava certo indietro – a volte veniva come rapito da quel monte. Non passava giorno che , almeno per un po’, non lo scrutasse in lungo e in largo, passando in rassegna tutti i contorni delle vette, scendendo – con lo sguardo – tra gli alberi fin giù, alle prime case di Omegna tra le Brughiere, Verta, Vignale e Borca segnavano il perimetro più basso della montagna. Almeno così era per quello che poteva vedere con i suoi occhietti vispi dall’osservatorio di casa sua. Persino a scuola, dove frequentava la quarta elementare, non staccava gli occhi dal Mottarone.

Per sua fortuna e per disperazione  della maestra che, di tanto in tanto, doveva chiamarlo più volte per nome al fine di ottenerne l’attenzione al lavoro della classe, il suo banco era proprio di fianco alla finestra che dava, guarda caso, sulla montagna. Ale si metteva a guardare, appoggiando la testa bruna sulle braccia incrociate, la “sua” montagna. Già, poiché lui aveva una montagna tutta per se. O almeno era ciò che pensava, correndo con la fantasia. Un giorno gli sembrò persino che si fosse mossa, proprio lassù sulla vetta, tra la baita-rifugio del Club Alpino e le antenne paraboliche  della televisione ( in realtà erano dei ripetitori radiotelevisivi che, una volta ricevuto il segnale, lo ritrasmettevano nella zona, in tutte le case: ma per lui erano “le paraboliche”, perché gli ricordavano delle specie di astronavi lunghe e snelle che puntavano in alto, verso il cielo, quasi a volerlo toccare con le loro punte dritte). Dove eravamo rimasti? Ah, sì…che cosa strana. Era durata poco più di un attimo, di un battito di ciglia. Eppure non si era sbagliato. Anche gli alberi – castagni e faggi dalle chiome fitte – erano stati scossi da un fremito , come  se degli orsi si fossero grattati la schiena sui loro tronchi, come aveva visto fare in un documentario alla TV. Un’ondeggiamento, una scrollatina, niente di più. Un terremoto ? No, non poteva essere. La maestra un giorno aveva spiegato che quella non era una terra sismica, non era “ballerina” come altre parti d’Italia. Eppure non si era sbagliato. L’aveva vista. Non se le inventava le cose, lui…almeno quando si parlava del Mottarone. Eh, no ! Con la “sua” montagna non si poteva proprio scherzare o raccontare bugie. Un giorno, rovistando tra i libri della biblioteca di papà, ne trovò uno che parlava proprio del Mottarone. Ale si mise a sfogliarlo, lentamente, rimanendo a bocca aperta davanti a tutte quelle belle foto. I paesaggi invernali , con la neve s scintillante e quei ghiaccioli che scendevano giù dai rami degli alberi, come tante candeline rovesciate; la primavera, con i prati di mezza costa striati di varie tonalità di verde e punteggiati da margherite, primule e viole; l’autunno dai caldi colori pastello, che trasformano i boschi cedui in luoghi magici, abitati da vispi animaletti e da piccoli folletti alla ricerca di funghi e di bacche, alle prese con un tempo che si stempera dolcemente in una vena malinconica quando gli occhi scendono giù, dai versanti della montagna fino alle acque appena increspate del lago d’Orta. Ale guardava le foto sgranando gli occhi, pieno di meraviglia. Con una certa fatica ma anche tanta buona volontà, si mise a leggere:“…La cima del Mottarone ha la forma di una soda polenta montanara. Pare anche uno dei buoni panettoni di una volta, cotti senza la costrizione degli stampi costruiti perché si alzassero cilindricamente. Sembra una grossa pagnotta, fatta in casa e ben lievitata nel mezzo..”.

Gli era venuta una gran fame . Tutti quei paragoni con cose da mangiare gli stuzzicavano l’appetito, rammentandogli che era quasi mezzogiorno e che la mamma – guarda caso – stava proprio preparando la polenta. Ma un’altra frase lo colpì, stuzzicandogli questa volta non l’appetito ma la fantasia: “..La strada sale dolcemente verso la vetta, come se risalisse il dorso di un grosso pachiderma addormentato “. Un “pachiderma”? E che cos’è un pachiderma !? Non riusciva proprio a farsene un’idea. Forse si trattava di un animale ma papà gli aveva spiegato che sul Mottarone c’erano scoiattoli, cinghiali, tassi, volpi, ricci, capre, mucche al pascolo, qualche cavallo, tanti uccelli. Si ricordava di averlo sentito parlare di un uccello strano, il cuculo, che veniva – a primavera, dopo le rondini –  a” cantare maggio” e di altri animali – forse le talpe – che scavano buche e gallerie sotto terra. Ma quei “pachi-non-so-bene-come-si-chiamano” non li aveva proprio mai sentiti nominare. Però, che bello pensare alla vetta del Mottarone come alla schiena di un grosso animale, se poi di animale si trattava. Era come se un qualcosa o un qualcuno, pensava, fosse salito fin lassù e poi di fronte a quel panorama che , in giro completo d’orizzonte, spaziava dal Monte Rosa alle vette ossolane e valgrandine e giù, a rotta di collo, verso la Svizzera e la pianura lombarda segnata dall’azzurro dei laghi per vedere ad ovest la punta aguzza del Monviso e risalire verso il Rosa dai contrafforti valsesiani, avesse deciso di rimanere lì per sempre. Ale chiuse il libro a malincuore. La mamma lo stava chiamando per il pranzo. Papà, come spesso accadeva, era via per lavoro e lui decise che , all’indomani, avrebbe chiesto spiegazioni al nonno Enzo che abitava a Baveno, sul lago Maggiore, ma che da giovane era vissuto con i suoi in montagna, all’Alpe Scerea, un po’ sotto la Vidabbia che, come in terrazzo naturale , era a un soffio dal Mottarone. Lui sapeva tante storie della montagna. Forse conosceva anche questa storia del pachiderma. Non pensò più ad altro e , sedutosi a tavola, ordinò alle mandibole l’attacco in grande stile alla polenta. Quel sabato i suoi genitori erano andati a trovare una vecchia zia che abitava in Val d’ Ossola. Lui era stato accompagnato dal nonno a Baveno. Scoccata l’ora di pranzo, davanti al suo piatto preferito,un invitante risotto con i funghi porcini, chiese: “Nonno, tu lo sai cos’è un pachiderma ?”. “Un pachiderma? Mah, se ricordo vengono chiamati così gli elefanti. Lo sai, vero che cosa sono ? “ ,rispose il nonno, sorridendo. ”Certo che lo so “,rispose pronto. ”Sono quei bestioni grossi che vivono in Africa, con le orecchie, il naso e i denti enormi..”.  ”Si chiamano proboscide e zanne, non naso e denti..e comunque sono più o meno quelli che dici tu”, corresse, paziente il nonno. “Ma, levami una curiosità: perché ti interessano tanto i pachidermi, gli elefanti ?”. Il nipotino non stava più nella pelle e disse, tutto soddisfatto: ”Nonno, lo sai che il Mottarone assomiglia a un pachi…., a un elefante ? L’ho letto su di un libro che ho trovato a casa“. ” A un elefante, cosa? Il Mottarone? Il Mottarone che assomiglia a un elefante? Ale, bambino mio, lo so che  hai tanta fantasia ma come fai a vedere nel Mottarone un elefante ?”, sorrise il nonno, scuotendo il capo ed accendendosi la pipa con delle lunghe tirate. ”Ma tu ,nonno, che hai vissuto sulla montagna, non hai mai sentito una storia che raccontava di un elefante sul Mottarone ? “ ,chiese ancora. Il nonno ci pensò su un po’ e poi, per non deluderlo, inventò una storia lì per lì, su due piedi. ”Vedi, tanti, tantissimi anni fa…”. ”Quanti,nonno?” l’interruppe Ale.

”Tanti quanti le dita tue e di tutti i tuoi amici moltiplicate per mille e forse anche di più..Ti stavo dicendo? Ah,sì..Tanti anni fa, ai tempi della preistoria, la terra era selvaggia. L’uomo viveva nelle caverne e da poco tempo aveva fatto una eccezionale scoperta: il fuoco. L’unico modo che aveva per poter sopravvivere era quello di cacciare. Ma purtroppo per lui gli animali erano enormi. E il più grande di tutti era il Mammut, l’antenato degli elefanti. In quel mondo non c’era nessuno che riusciva a tenergli testa. La sua mole imponente teneva lontana la  feroce Tigre con i denti a sciabola e persino l’enorme e coraggioso Orso delle Caverne non aveva mai osato sfidarlo a viso aperto. Eh, il Mammut era proprio un gran bel tipo…e forse uno di questi bestioni, nel suo girovagare, è arrivato fin su in cima al Mottarone e, addormentatosi, è rimasto lì per sempre”. Ale non era tanto convinto. Ma era anche molto curioso. Il dubbio lo rodeva. Quella del nonno era una storia inventata per non deluderlo oppure c’era qualcosa di vero? I pensieri gli si leggevano negli occhi. E il nonno Enzo se ne accorse. ”Tu vorresti saperne di più, non è vero ? Forse…forse ho qualcosa che ti può essere utile. Aspetta,però..dove l’ho messo?.. Ah, ora ricordo. E’ nell’armadio in soffitta”. Qualche minuto dopo Ale si trovò tra le mani un libro, un po’ vecchiotto e impolverato.  “Era di tuo papà. E se non ricordo male parla proprio di quell’epoca“, disse il nonno. La sera stessa, nel suo letto, Ale iniziò a leggerlo. Il titolo già l’aveva affascinato: “La guerra del fuoco”. Incredibile. Aveva ragione il nonno, era proprio la storia dei Mammut! Il ragazzino, una dopo l’altra,  divorava le pagine.

 

Il Mammut dominava invincibile. L’uomo non avrebbe mai potuto lottare contro di lui. Era agile, rapido, instancabile, capace di superare i monti;dimostrava d’essere riflessivo e dotato di una memoria tenace. Afferrava, lavorava e misurava la materia con la sua proboscide, scavava la terra con le enormi zanne, conduceva con saggezza le sue spedizioni e conosceva la propria supremazia. Il suo corpo sembrava una collina, le zampe grossi alberi; aveva zanne lunghe, capaci di trapassare una quercia; la proboscide sembrava un lungo serpente nero; la testa, una roccia. Si muoveva dentro una pelle grossa e rugosa come la scorza dei vecchi olmi, coperta di lunghi peli ruvidi. Le sue orecchie parevano dei giganteschi pipistrelli e quando si muoveva con il suo branco sembravano, tutti assieme, una colonna di giganti color dell’argilla. Quando, assetati, si allineavano sulla riva di un lago, bevevano in maniera così formidabile che il livello dell’acqua si abbassava.”. Ale chiuse gli occhi e si addormentò, sognando il Gran Mammut.  “Il Gran Mammut, dopo aver sostenuto mille battaglie vincendole tutte, si era stancato. Prese la decisione di lasciare il branco, dov’era da tutti riconosciuto come il capo e si incamminò verso la montagna che aveva di fronte, lasciandosi alle spalle il lago e le colline. Il sentiero era impervio, pieno ci cespugli e rovi, ma il Gran Mammut non se ne curava. Continuava a salire, puntando dritto verso l’alto. La sua mole enorme, di tanto in tanto, spariva dentro le nubi basse che avvolgevano i fianchi del monte e, dopo tanto camminare, giunse alla vetta che era ormai buio. Nel cielo era stesa una coperta di stelle che brillavano come tante fiaccole nella notte. Il Mammut alzò la proboscide più in alto che poté, per cercare di stringerle. Ma era fatica inutile : le stelle, che parevano così vicine, quasi da poterle sfiorare, restavano sempre al loro posto. Il Gran Mammut lanciò un tremendo barrito che scosse l’aria come una frustata e scese giù per le valli con il rumore di un tuono e l’impeto di un uragano. Poi, con la stessa foga , risalì sulla vetta, stanco del lungo viaggio ma soddisfatto per la scelta di vita solitaria. Si addormentò, pesantemente, coprendo con la sua mole immensa tutta la vetta”.

Anche sul Mottarone qualcuno dormiva e sognava. Era il Mammut che, caduto ormai da tantissimi anni in una forma di letargo, aveva il corpo coperto di terra e d’erba al punto d’aver preso le sembianze di una collina. La pioggia bagnava generosamente quello strano dosso, rendendolo sempre più fertile tant’è che vi erano cresciuto persino degli alberi. Molti anni dopo, a causa dell’ egoismo speculativo di uomini con pochi scrupoli su quel poggio vennero costruite prima una, poi due, poi tante costruzioni di legno, mattoni e cemento. Il Mammut dormiva e non sentiva sulle sue spalle il peso delle costruzioni, la ragnatela degli impianti sciistici e il fremito provocato dallo scivolare di discesisti e slalomisti che proprio in vetta al monte si divertivano d’inverno a scendere e risalire lungo le piste innevate. E nemmeno sentiva, durante le calde giornate estive, le grida di tutti quelli che passavano in quei luoghi ameni i loro pomeriggi d’ozio, in cerca di un refolo di vento che desse loro almeno l’impressione di un alito fresco. Erano tanti, troppi e spesso si lasciavano alle spalle una indelebile traccia di ignoranza e maleducazione, visibile in quei cumuli di rifiuti di ogni natura e volume. Ma lui non sentiva niente e nulla pareva potesse disturbarne il sonno millenario, quando un bel giorno operai e tecnici delle telecomunicazioni decisero di installare sulla vetta un’altra, potente, antenna televisiva. Gli scavi, piuttosto profondi, si concentrarono proprio nel punto dove il Mammut aveva la sua proboscide. Il solletico fece prudere l’enorme naso finché starnutì. La terrà tremò tutta. Gli addetti agli scavi, terrorizzati, fuggirono a gambe levate. Nei giorni successivi l’intera aera del Mottarone e la sua vetta furono meta di decine di esperti, tecnici, ricercatori,illuminati professori delle più importanti Università del paese. Vennero eseguiti studi accurati con sofisticate apparecchiature per cercare di capire cosa aveva originato quel fremito, quella scossa. Dopo un lungo consulto, durante il quale spesso il confronto degenerò in rissa al punto che, più di una volta, dovettero intervenire le forze dell’ordine per dividere quegli uomini di scienza che si stavano accapigliando, tutti convennero su di un punto fermo e preciso: non era successo nulla. Gli operai avevano sentito la terra ballare sotto i piedi? Fantasie. Erano scappati via di corsa , temendo un terremoto? Si erano sbagliati o forse avevano inventato questa storia per farsi un po’ di pubblicità. Del resto la scienza è scienza, e se afferma che non è accaduto nulla che si possa spiegare, significava  semplicemente che nulla era capitato. O forse qualcuno nutriva il coraggio di contraddire professori e cattedratici ? Passata anche quella bufera, sulla vetta della montagna venne finalmente innalzata una nuova costruzione d’acciaio. Il traliccio, formato da una miriade di pezzi di metallo intrecciati tra di loro, saliva slanciato verso il cielo per quasi quaranta metri. La terra non era più tremata. Comunque, per non  incappare in altri guai, i tecnici avevano scelto una diversa disposizione dell’antenna, a più di mezzo chilometro da quella pensata in un primo momento. Ma ormai il sonno di millenni era stato  disturbato. Il vecchio, grande Mammut era ormai sveglio. Non che si fosse destato subito, perché ci vollero alcuni mesi prima di averne piena coscienza. Dopo aver sbadigliato a lungo, l’enorme bestione si sentiva in piena forma. Quel lungo riposo gli aveva giovato. Se il giorno in cui si era appisolato sentiva le sue ossa cigolare e la grande massa dei muscoli era intorpidita ora , dopo il “sonnellino” , si sentiva come ringiovanito. Provò ad aprire gli occhi ma non vide nulla. In quello scuro immaginò fosse ancora notte. Una notte senza luna, nera come la pece, dove non s’intravvedeva  nemmeno una stella. Gli parve persino di sentirselo addosso quel cielo nero e opprimente quasi a dover sostenere sulle possenti spalle portare l’intero peso di quella cappa buia. Gli venne il dubbio di sognare ancora ma un istante dopo decise di muoversi. Zolle di terra grosse come aiuole saltarono in cielo come per effetto di una esplosione. Grandi alberi misero a nudo le loro radici, crepitando. Dal Santuario di Luciago alla strada Borromea, dalla Vidabbia all’alpe Grandi fino ai boschi che salivano oltre il Mastrolino, sopra Omegna , l’intero Mottarone  fu scosso da un formidabile e inaspettato evento. Un gigantesco animale, grande come il culmine della vetta, coperto da un pelo fitto, stava lì fermo su quattro enormi zampe, con due lunghe zanne e una impressionante proboscide che sferzava l’aria. Sulla groppa aveva tracce evidenti di terriccio, piccoli arbusti, muschi e radici. Nel mezzo del muso due occhi , grandi come scodelle, si guardavano attorno. Uno sguardo incuriosito, non spaventato. Si sarebbe quasi potuto azzardare anche l’aggettivo intelligente.

Quel giorno Ale era andato, come faceva di solito, a passeggio nei primi boschi che salgono sulla “montagna dei milanesi”, alla ricerca di funghi e piccoli frutti del sottobosco. In una radura in mezzo al bosco, incontrò l’enorme animale che dalla vetta era sceso in basso cercando di evitare strade e sentieri. In silenzio, il vecchio e grande Mammut e il ragazzino dalla testa bruna, si guardarono negli occhi. Era difficile stabilire chi dei due fosse più stupito per lo strano incontro. All’animale preistorico mancava solo il dono della parola. Cosa, del resto, superflua poiché durante il lungo sonno aveva sviluppato le sue capacità di pensiero a tal punto da poter comunicare attraverso gli impulsi che la sua enorme mente era in grado di trasmettere. Il suo cervello, enormemente evoluto, ospitava un grande archivio di memoria, paragonabile a un  potente computer. Fatti, luoghi, situazioni erano stati immagazzinati con un ordine perfetto, tale da far invidia ai più moderni e sofisticati sistemi infornatici. Bastò che Ale pronunciasse le sue prime parole ( “E tu,chi sei ?” ) perché il suono della voce del bambino gli rammentasse i suoni di quegli animali che sembravano scimmie ma camminavano su due zampe e con la schiena diritta: il modo di esprimersi, di comunicare attraverso suoni gutturali degli uomini che aveva conosciuto prima di lasciarsi andare al lungo sonno aveva qualcosa in comune. Il suo cervello, in un attimo, aveva già trovato il modo di stabilire un contatto con quel minuscolo essere che aveva davanti e che, con tutta probabilità, doveva essere proprio un cucciolo d’uomo. E dunque, al “chi sei?” pronunciato da Ale, rispose articolando delle parole lentamente, quasi sillabando: “Sono il Gran Mammut, signore delle immense foreste. Chi sei tu, piuttosto..”. Ale rimase a bocca aperta. Quella montagna di muscoli e peli che aveva davanti aveva parlato. E nonostante non avesse emesso il benché minimo suono, aveva sentito la sua “voce”. “Io..io sono Ale…” , rispose , tradendo  qualche incertezza. “Che strano nome. Non l’ho mai udito prima d’ora. Eppure, a prima vista, mi sei parso un cucciolo d’uomo. Ale.. Mah.. e che razza di animale saresti, allora ? –, borbottò il pachiderma. “Ma scusa, te l’ho appena detto:sono Ale, ho dieci anni e vivo ad Omegna. Se per cucciolo d’uomo intendi un bambino allora sì, sono proprio così. Ma tu, che sembri un Mammut, cosa ci fai qui sul Mottarone ?Non eri un animale preistorico e come tale ormai estinto ?”. Per nulla intimorito, Ale non intendeva rinunciare alla sua curiosità. Figurarsi poi in questo caso, dal momento che si trovava davanti proprio un bel Mammut in carne e ossa. E per di più sulla vetta della sua montagna. Non stava più nella pelle dalla contentezza. Altro che storie!n Quel libro diceva il vero quando lesse “ ..la strada sale dolcemente verso la vetta, come se risalisse il dorso di un grosso pachiderma addormentato..”. Chiese allora al Mammut se conosceva quel signore che aveva scritto il libro ( perché,pensava, dovevano per forza conoscersi altrimenti , lo scrittore, come avrebbe potuto sapere che la sommità del Mottarone nascondeva proprio il Gran Mammut?). Il pensiero dell’animale incontrò quello del bambino, dialogando per un po’. Al termine di quell’incredibile colloquio, seppure a grandi linee, Ale apprese la storia del Mammut, scoprendo  che ci aveva scritto quelle cose era all’oscuro di tutto. Aveva tirato a indovinare, usando la fantasia. E gli  era andata bene.  Dopo di che toccò al bambino raccontare la sua di storia e così tra i due nacque una forte simpatia. Fu a quel punto che Ale pensò di far conoscere al vecchio Mammut il mondo che stava attorno. Disse all’animale: “Sai, credo che le cose, dai tuoi tempi, siano cambiate un po’. Forse è bene che ti accompagni giù dalla montagna, così te ne renderai conto da solo. Ma non andiamo da questa parte. E’ meglio passare dall’altro versante”. Con buon passo – il Mammut, con la sua enorme mole ed il bambino in groppa, dove si teneva ben stretto alle grandi orecchie – presero a risalire il monte attraverso boschi di castagni, robinie e  faggi per poi ridiscendere. Raggiunsero una strada e quella terra, liscia e dura, color antracite, era già una novità per l’animale. L’asfalto, come lo chiamava Ale, non c’era ai suoi tempi e il Mammut nutriva seri dubbi sulla bontà di quella terra. Comunque, in breve tempo , a dispetto del suo considerevole volume, il Mammut si era già lasciato alle spalle molti tornanti, tant’è che potevano già intravedere le prime case di Cheggino, sopra Armeno. Non incontrarono anima viva. Il Mammut si stupiva vedendo quei blocchi di pietra con delle aperture chiuse da assi di legno e Ale ebbe il suo bel daffare a spiegargli che erano case e che lì dentro vivevano gli uomini. Il Mammut aveva memoria di uomini primitivi che dimoravano nelle caverne e pareva scettico ma non insistette per non dare dispiacere a quel suo piccolo amico così gentile e premuroso. Ad Armeno non incontrarono nessuno. Il paese era come vuoto. Le strade deserte e le case con gli usci sbarrati. Anche il bar sulla piazza del Municipio,quasi sempre aperto, aveva calato la serranda. E così pure i negozi. Ale era sorpreso. Gli sembrava di attraversare uno di quei villaggi fantasma dei film western. Ignorava che, appena segnalata la presenza di uno strano, enorme animale,  somigliante a un elefante, che stava scendendo la Mottarone, la voce si era sparsa in un battibaleno e la gente, spaventata, si era chiusa in casa , chiudendo porte e finestre. Così, dopo Armeno, fu anche a Bassola, al Pescone, ad Agrano. Solo a Borca incontrarono le prime auto che, alla vista del Mammut, fecero dei rapidi dietrofront, con manovre convulse quanto azzardate. Nonostante Ale gli avesse parlato delle auto, la vista di quei strani animali colorati, rumorosi , veloci e puzzolenti  (si lasciavano alle spalle una scia odorosa e acre che irritava la sua proboscide) turbò non poco il vecchio Mammut. Non più con passo spedito ma con andatura incerta, dubbiosa, il bestione imboccò la statale del lago d’Orta, dirigendosi verso il centro di Omegna. Ma lì i pochi curiosi che, sfidando la paura, si erano nascosti dietro le colonne di granito del Municipio per spiarne le mosse, non lo videro mai arrivare. Il Mammut sparì nel nulla. Di quella montagna di carne e peli preistorici non c’era traccia. Svanita, quasi non fosse mai esistita se non nei sogni e nell’immaginario dei cusiani. Anche quel bambino che alcuni giuravano di aver visto in groppa al Mammut ma che nessuno poteva dire di aver riconosciuto, era sparito con lui. Alcuni automobilisti, qualche abitante di Borca, il gestore dell’Agip, giuravano che i due stavano andando verso Omegna. Ma lì, come già sappiamo, non erano mai giunti.

Nei giorni che seguirono furono indette assemblee, riunioni, tavole rotonde, consigli comunali a “porte chiuse” e in sedute aperte al pubblico. Corsero fiumi di parole,un bla-bla-bla impressionante, tanto monumentale quanto inutile. Tutti dicevano la loro, chi aveva visto e chi no. Scomodarono  scienziati, storici e biologi, antropologi e paleontologi, filosofi e medici, impiastri e ficcanaso, letterati e analfabeti. Giornali e riviste pubblicarono articoli, saggi, inchieste, indiscrezioni, fotomontaggi. Un mare d’inchiostro sommerse l’opinione pubblica. Alla fine di tutto questo chiassoso guazzabuglio il “caso” venne chiuso con una rassicurante presa di posizione di Sua Eccellenza il Prefetto che così sentenziò: “Non è successo nulla. Dopo aver analizzato e ponderato il problema siamo giunti, con assoluta certezza e senza difetto alcuno, alla decisione di comunicare che si è trattato solo di uno scherzo dell’immaginazione. Tutto, dunque, è sotto controllo: parola di Prefetto“. E quindi? Era stato solo un sogno, un’illusione ottica? La gente si guardava, scettica. E se nessuno, pubblicamente, osava mettere in discussione il Prefetto, in cuor proprio agli abitanti dei paesi attorno al lago d’Orta quelle parole suonavano poco convincenti per non dire addirittura false. Non erano per nulla convinti. Dopotutto, passati la paura ( ma era poi davvero paura ? O non era forse una bella e forte emozione di quelle che si provano davanti a qualcosa di nuovo e inaspettato!) l’idea di un Mammut in giro per la città non dispiaceva affatto. Qualcuno , con uno spiccato pallino per gli affari,aveva già pensato di cambiare nome a un noto ristorante per ribattezzarlo “ Al vecchio Mammut “ o di aprire un locale notturno in stile preistorico, con arredamento alla “Flinstone” oppure il Caffè “Delle due clave”. Tutto sommato, quell’elefante vecchio di  milioni di anni , alla gente piaceva. Anche a scuola, tra i bambini, si parlò per molto tempo solo di questo. E tutti si impegnavano a far supposizioni su dov’erano andati a finire il Mammut ed il bambino. C’era chi li aveva visti prendere il volo e sparire tra le nuvole, in direzione delle alture dei “Tre Gobbi”, suscitando un coro di risate. Chi invece li aveva visti nuotare nel lago verso il lido di Gozzano, lasciandosi alle spalle una scia come la motonave Azalea. Solo Ale non parlava. Dal suo banco guardava fuori dalla finestra, su verso la vetta del Mottarone. Il Mammut era tornato là, considerando quella del letargo la miglior soluzione. Si era scavato una comoda tana in una valletta isolata e con la proboscide si era coperto di foglie e terriccio. Era un segreto pattuito con il suo piccolo amico. Di tanto in tanto, senza farsi vedere dagli altri, Ale agitava la mano, accennando un timido saluto in direzione del rifugio segreto tra gli alberi, pensando intensamente al Mammut. Chissà se l’animale lo  percepiva il saluto? Non ne era del tutto certo ma, di tanto in tanto, seppure l’aria era immobile, senza un benché minimo alito di vento,  là in alto le chiome degli alberi  parevano scosse da un leggero, appena percettibile, fremito. E i suoi occhi sorridevano di una felice complicità.

Una Regione allo specchio

“Piemonte cinquant’anni” è la rappresentazione di mezzo secolo di vita della nostra Regione attraverso più di 200 fotografie in bianco e nero e a colori. Un percorso lungo e complesso che ha scavalcato non solo il Secolo Breve ma addirittura la svolta del Millennio.

“Sfogliando le pagine di questo catalogo – afferma il Presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia nella presentazione – è legittimo provare un senso di orgoglio per essere cittadini della nostra regione. Le immagini testimoniano episodi cruciali della storia degli ultimi cinque decenni. Questo percorso, talvolta drammatico talvolta più sereno, rimane tuttavia lontano da intenti celebrativi o autoreferenziali, mirando piuttosto a sviluppare nel lettore una doverosa riflessione sull’identità regionale, che deve attingere alla propria memoria passata per affrontare con determinazione, fiducia e senso di appartenenza comunitario le sfide del presente e del futuro”.

In occasione delle celebrazioni del cinquantenario il Consiglio regionale del Piemonte, con il sostegno della Fondazione CRT, ha promosso la realizzazione di una mostra e di un catalogo fotografico, che l’agenzia Ansa ha curato a partire dai materiali iconografici provenienti dagli archivi storici istituzionali. Il percorso si snoda idealmente attraverso i primi 15 articoli dello Statuto regionale che contengono i suoi principi fondamentali.

“La storia della Fondazione CRT si è sempre intrecciata con quella della Regione Piemonte, accompagnando ogni giorno la vita dei cittadini in molti ambiti: cultura, welfare, ambiente, lavoro, ricerca, innovazione, formazione”, afferma il Presidente della Fondazione CRT Giovanni Quaglia.

“Il volume propone un racconto iconografico sobrio ma autorevole, come l’informazione dell’Ansa, un viaggio nella storia di un Piemonte dalle forti tradizioni, pioniere nella politica e nell’economia come nell’arte e nella cultura. Centocinquanta pagine di fotografie che immortalano la vita della Regione e, con questa, il risultato di cinquant’anni di produzione legislativa e attività di governo”, dichiara Luigi Contu, direttore Agenzia Ansa.

La prima Carta della Regione Piemonte, come quella delle altre 14 Regioni italiane a statuto ordinario, era stata promulgata nel 1971. La revisione e l’aggiornamento del testo sono stati portati a termine il 19 novembre 2004, mentre l’entrata in vigore della nuova carta risale al 22 marzo 2005. Nel 2020 quindi celebriamo non soltanto il cinquantenario della Regione ma anche i 15 anni del nostro nuovo Statuto.

Il racconto della storia del Piemonte dal 1970 al 2020 parte dalle immagini in bianco e nero delle prime legislature e attraverso i numerosi argomenti toccati dallo Statuto (autonomia e partecipazione, sussidiarietà, programmazione, sviluppo economico e sociale, territorio, patrimonio naturale e culturale, salute, casa, tutela dei consumatori, diritti sociali, informazione, pari opportunità, scuola e ricerca, relazioni con l’Europa) arriva alle immagini più recenti del Piemonte di oggi.

La mostra (e il ricco catalogo a colori che la accompagna) saranno presentati al pubblico con un’anteprima virtuale sui canali social di @crpiemonte (Twitter, Facebook, YouTube, sito Web) in occasione delle celebrazioni del cinquantenario lunedì 13 luglio 2020, mentre verranno messi a disposizione dei visitatori nella versione completa (arricchita anche da alcuni video) a novembre 2020, quando sarà celebrato solennemente l’anniversario della firma del primo Statuto della Regione Piemonte (10 novembre 1970) e quello dell’approvazione della sua più recente versione (19 novembre 2004).