piemonte

Carducci e la sua ode al Piemonte dalle “dentate scintillanti vette”

Su le dentate scintillanti vette salta il camoscio, tuona la valanga da’ ghiacci immani rotolando per le selve croscianti :ma da i silenzi de l’effuso azzurro esce nel sole l’aquila, e distende in tarde ruote digradanti il nero volo solenne. Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popol bravo,scendono i fiumi…”.

Chi non l’ha imparata a memoria e recitata a scuola questa poesia? Secondo alcuni esperti di storia della letteratura, i versi dell’ode “Piemonte” vennero composti da Giosuè Carducci durante il suo soggiorno al Grand Hotel di Ceresole Reale nel luglio del 1890.

 

Nato a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, nella Versilia lucchese, il 27 luglio 1835, il poeta e scrittore, fortemente legato alle tematiche “dell’amor patrio, della natura e del bello”, fu il primo italiano – nel 1906 – a vincere il Premio Nobel per la Letteratura.  Questa la motivazione con la quale gli  venne assegnato, vent’anni prima di Grazia Deledda, l’ambito premio dell’Accademia di Svezia: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Giosuè Carducci morì un anno dopo, il 16 febbraio 1907, all’età di 72 anni, lasciando alla cultura italiana una vasta produzione di poesie, raggruppate in diverse raccolte: dagli “Juvenilia” fino ai lavori della maturità. Tra questi ultimi si distingue in particolare la raccolta  “Rime nuove”, composta da 105 poesie, tra cui sono contenuti i versi più conosciuti dell’autore, presenti in “Pianto antico” ( “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano..”) e “San Martino” (“La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar..”).

Nella sua produzione non mancano anche alcuni lavori in prosa, tra cui la raccolta dei “Discorsi letterari e storici” e gli scritti autobiografici delle “Confessioni e battaglie“.  Alla notizia della sua morte – nella sua casa delle mura di porta Mazzini, a Bologna –  la Camera del Regno ( Carducci, dopo essere stato a lungo Senatore del Regno era stato eletto alla Camera nel collegio di Lugo per il gruppo Radicale, di estrema sinistra)   sospese la seduta. L’Italia intera vestì il lutto per la scomparsa del poeta  che aveva cantato il Risorgimento. Durante i funerali, che si svolsero il 18 febbraio, i cavalli che portavano il feretro alla Certosa avevano gli zoccoli fasciati. Il cuore di Bologna, piazza Maggiore, e molte case private si presentarono parate a lutto. I fanali lungo il percorso vennero accesi e “guarniti di crespo“. La salma del poeta, fu “rivestita dalle insegne della massoneria, alla quale fu affiliato, e molti massoni partecipano alle esequie”.  Pochi giorni dopo la casa e la ricca biblioteca del poeta vennero donate dalla regina Margherita al Comune di Bologna. 

Marco Travaglini

Valle Strona, dal “solletico ai tarli” ai Pinocchi

Un tempo la Valstrona era conosciuta come la Valle dei “gràta gàmul”, i tornitori e lavoratori del legno in grado di “fare il solletico ai tarli”.

Nelle botteghe poste lungo lo Strona, il torrente che dà il nome alla valle,  principale affluente del Toce, si tornivano e lavoravano utensili da cucina, ciotole, mestoli, e piccoli oggetti d’arredo, già molto prima che arrivasse l’energia elettrica, usando la forza motrice dell’acqua.

A onor del vero, quella che oggi in molti chiamano anche la “valle dei Pinocchi”  – da quando gli artigiani si sono specializzati nel dar vita al burattino più amato del mondo – aveva un altro soprannome: la “val di cazzuj”, rammentando la grande quantità di cucchiai di legno che lì venivano prodotti. Questa valle, che da Omegna sale verso il monte Capezzone, è una terra ricca di suggestioni e bellezze. Comprende, nei quattro comuni che la compongono, ben 14 nuclei abitati: Germagno, Loreglia, Chesio, Strona, Luzzogno, Fornero, Inuggio, Piana, Sambughetto, Massiola, Rosarolo, Otra, Forno e Campello Monti. Da sempre è terra di lavoratori e inventori che l’anno resa famosa non solo per il legno ma anche per l’antica tradizione nella lavorazione del ferro e del peltro, tanto che, dal XVII al XIX secolo si può parlare di una scuola di peltrai emigrati dalla Valle strona in varie città d’Italia ed Europa. L’ingegno non è mai mancato. A Sambughetto venne inventata una pala, la “sesula” , che veniva utilizzata in inverno per sgomberare la neve dalle strade , senza che la neve le si attaccasse. Il primo tornio mosso dalla forza dell’acqua fu quello di Gaudenzio Piana, di Fornero. Come e perché Piana poté costruirlo, è questione avvolta in un alone di leggenda. Pare che avendone visto un esemplare nelle prigioni di Genova, dove era stato rinchiuso perché aveva disertato dall’esercito piemontese dopo la sconfitta di Novara del 1849, decise di costruirsene uno uguale, non appena fosse tornato libero. Il tutto in gran segreto, evitando che i compaesani potessero copiare la sua nuova macchina e usufruire anch’essi dei vantaggi che arrecava, visto che il tornio ad acqua consentiva una resa di gran lunga più alta rispetto ai tradizionali torni azionati a pedale. Il segreto durò poco, però e nel giro di pochi decenni la valle si riempì di torni mossi dalle acque dello Strona. Così, producendo senza soste e innovando in base alle richieste di mercato, si è giunti ai Pinocchi di tutte le fogge e grandezze che, insigniti del marchio “Piemonte eccellenza artigiana”, vengono venduti un po’ ovunque, compresa Collodi, la patria toscana del burattino inventato nel 1881. Sono più di cento i passaggi che occorrono per realizzare un Pinocchio snodabile completo e per immaginare sempre dei nuovi modelli occorrono un estro e una fantasia non comuni. “C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”, si legge nell’incipit di uno dei più famosi libri per l’infanzia al mondo, il Pinocchio, di Carlo Lorenzini, detto il Collodi. Ma andrebbe detto anche, senza offesa per nessuno, che quel mastro Geppetto che ha saputo lavorare il “tronco parlante” regalatogli da mastro Ciliegia, forse era arrivato nel Granducato di Toscana dalla Valle Strona.

 

Marco Travaglini

Le sere torinesi di Gozzano: la malinconica poesia del quotidiano

Solo Gozzano è riuscito a descrivere Torino come in effetti è. Il poeta parla della sua città natale con una splendida ironia malinconica, prendendola un po’ in giro, ma con garbo e con affetto, esaltandone i caratteri sommessi, le cose quotidiane; del nostro capoluogo sottolinea l’anima altezzosa ed elegante, intellettuale e civettuola, riuscendo a far emergere i tratti che ne contraddistinguono la bellezza e l’unicità, nel presente e nei suoi aspetti “d’altri tempi” con un gusto da stampa antica.

Nel componimento “ Le golose”, Gozzano considera un semplice momento di vita quotidiana, elevandolo a situazione poetica: in questo caso Guido, grazie alla sua vena brillante e ironica, gioca a descrivere il comportamento delle “giovani signore” torinesi all’interno di Baratti, uno dei bar storici della città. Le “signore e signorine”, che subito riusciamo ad immaginarci tutte imbellettate, con tanto di cappellino e veletta, non resistono alla tentazione di assaporare un pasticcino, e, davanti alla invitante vetrina dei dolciumi, indicano con il dito affusolato al cameriere quello che hanno scelto, e poi lo “divorano” in un sol boccone.

È un momento qualsiasi, è l’esaltazione del quotidiano che cela l’essenza delle cose. Nella poesia citata l’eleganza torinese è presa alla sprovvista, colta in flagrante mentre si tramuta in semplice golosità. Ma Gozzano sfalsa i piani e costringe il lettore a seguirlo nel suo ironizzare continuo, quasi non prendendo mai niente sul serio, ma facendo riflettere sempre sulla verità di ciò che asserisce. Se con “Le golose” Guido si concentra su una specifica situazione, con la poesia “Torino”, dimostra apertamente tutto il suo amore per il luogo in cui è venuto alla luce.
Guido Gozzano nasce il 19 dicembre 1883 a Torino, in Via Bertolotti 3, vicino a Piazza Solferino. È poeta e scrittore ed il suo nome è associato al Crepuscolarismo – di cui è il massimo esponente – all’interno della corrente letteraria del Decadentismo. Inizialmente si dedica all’emulazione della poesia dannunziana, in seguito, anche per l’influenza della pascoliana predilezione per le piccole cose e l’umile realtà campestre, e soprattutto attratto da poeti stranieri come Maeterlinck e Rodenback, si avvicina alla cerchia dei poeti intimisti, poi denominati “crepuscolari”, amanti di una dizione quasi a mezza voce. Gozzano muore assai giovane, a soli trentadue anni, a causa di quello che una volta era definito “mal sottile”, ossia la tubercolosi polmonare. Per questo motivo Guido alterna alla elegante vita torinese soggiorni al mare, alla ricerca di aria più mite, (“tentare cieli più tersi”), soprattutto in Liguria, Nervi, Rapallo, San Remo, e anche in montagna. Un estremo tentativo di cura di tale malattia porta Guido a intraprendere nel 1912, tra febbraio e aprile, un viaggio in India, nella speranza che il clima di quel Paese possa migliorare la sua situazione, pur nella triste consapevolezza dell’inevitabile fine (“Viaggio per fuggire altro viaggio”): il soggiorno non migliora la sua salute, ma lo porta a scrivere molto.

Al ritorno redige su vari giornali, tra cui La Stampa di Torino, alcuni testi in prosa dedicati al viaggio recente, che verranno poi pubblicati postumi nel volume “Verso la cuna del mondo” (1917). A parte l’ampio poema in endecasillabi sciolti, le “Farfalle”, essenziali per comprendere la nuova poesia di Gozzano sono le raccolte di versi “La via del rifugio” (1907) e “I colloqui” (1911), il suo libro più importante. Questo è composto da ventiquattro componimenti in metri diversi, legati tra loro da una comune tematica e da un ritmo narrativo colloquiale, con, sullo sfondo, un giovanile desiderio di felicità e di amore e una struggente velatura romantica. Intanto il poeta scopre la presenza quotidiana della malattia (“mio cuore monello giocondo che ride pur anco nel pianto”), della incomunicabilità amorosa, della malinconia. Egli ama ormai le vite appartate, le stampe d’altri tempi, gli interni casalinghi, ma, dopo aver esaltato le patetiche suppellettili del “salotto buono” piccolo borghese di nonna Speranza con “i fiori in cornice e le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalla campana di vetro”, non esita a definirle “buone cose di pessimo gusto”. Di contro al poeta vate dannunziano, all’attivismo, alla mitologia dei superuomini e delle donne fatali, egli oppone la banale ovvietà quotidiana, alla donna-dea oppone “cuoche”, “crestaie” (“sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), alla donna intellettuale contrappone una donna di campagna (“sei quasi brutta, priva di lusinga/ …e gli occhi fermi e l’iridi sincere/, azzurre d’un azzurro di stoviglia”). Si tratta di Felicita che, con la sua dimessa “faccia buona e casalinga” , gli è parsa, almeno per un momento, l’unico mezzo per riscattarsi dalla complicazione estetizzante.

Eppure non vi è adesione a questo mondo, mondo creato e nel contempo dissolto, visto in controluce con la consapevolezza che a quel rifugio di ingenuità provinciale il poeta non sa ne può aderire e, tra sorriso, affetto e vigile disposizione ironica, si atteggia a “buon sentimentale giovane romantico”, per aggiungere subito dopo: “quello che fingo d’essere e non sono”.
Oltre che per questa nuova e demistificante concezione della poesia, l’importanza di Gozzano è notevole anche sul piano formale: “egli è il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico” (osserva Montale), e che, con sorridente ironia, riesca a far rimare “Nietzscke” con “camicie”. Gozzano piega il linguaggio alto a toni solo apparentemente prosastici. In realtà i moduli stilistici sono estremamente raffinati. E la sua implacabile ironia non è altro che una difesa dal rischio del sentimentalismo. La consapevolezza ironica abbraccia tutto il suo mondo poetico, le sue parole, i suoi atteggiamenti, i suoi gesti.

Avviciniamoci ancor di più al letteratissimo poeta torinese disincantato e amabile, e cerchiamo di approfondire il suo contesto familiare. Guido nasce da una buona famiglia borghese.
Il Dottor Carlo Gozzano, nonno di Guido, amico di Massimo D’Azeglio, appassionato di letteratura romantica del suo tempo, presta servizio come medico nella guerra di Crimea. Carlo Gozzano, borghese benestante, possiede ampie terre nel Canavese. Il figlio di Carlo, Fausto, ingegnere, porta avanti la costruzione della ferrovia canavesana che congiunge Torino con le Valli del Canavese. Fausto si sposa due volte, dalla prima moglie ha cinque figli; dopo la morte della prima consorte, Fausto incontra nel 1877 la bella diciannovenne alladiese Diodata Mautino, che sposa e dalla quale ha altri figli, tra cui Guido. La donna ha un temperamento d’artista, ama il teatro e si diletta nella recitazione, ed è altresì la figlia del senatore Massimo, un ricco possidente terriero, proprietario della villa del Meleto, ad Agliè (la villa prediletta dal poeta).

Guido frequenta dapprima la scuola elementare dei Barnabiti, poi la «Cesare Balbo», avvalendosi anche dell’aiuto di un’insegnante privata, poiché il piccolo scolaro è tutt’altro che ligio al dovere.
Da ragazzo viene iscritto nel 1895 al Ginnasio-Liceo Classico Cavour di Torino, ma la sua svogliatezza non lo abbandona, egli viene bocciato e mandato a recuperare in un collegio di Chivasso; ritorna a studiare nella sua Torino nel 1898, poco tempo prima della morte del padre, avvenuta nel 1900 a causa di una polmonite. Le difficoltà scolastiche del futuro poeta lo costringono a cambiare scuola ancora due volte, finché nel 1903 consegue finalmente la maturità al Collegio Nazionale di Savigliano. Le vicissitudini tribolanti degli anni liceali sono ben raccontate da Guido all’amico e compagno di scuola Ettore Colla, scritti in cui si evince che il giovane è decisamente più interessato alle “monellerie” che allo studio.

Nel 1903 vengono anche pubblicati sulla rivista torinese “Il venerdì della Contessa” alcuni versi di Gozzano, di stampo decisamente dannunziano (qualche anno dopo, in un componimento del 1907 “L’altro” il poeta ringrazia Dio che – dichiara – avrebbe potuto “invece che farmi Gozzano /un po’ scimunito ma greggio / farmi gabrieldannunziano /sarebbe stato ben peggio!”). Guido si iscrive poi alla Facoltà di Legge, ma nella realtà dei fatti frequenta quasi esclusivamente i corsi di letteratura di Arturo Graf. Il Professore fa parte del circolo “Società della cultura”, la cui sede si trovava nella Galleria Nazionale di via Roma, (poi spostatosi in via Cesare Battisti); anche il giovane Gozzano entra nel gruppo. Tra i frequentatori di tale Società, nata con lo scopo di far conoscere le pubblicazioni letterarie più recenti, di presentarle in sale di lettura o durante le conferenze, vi sono il critico letterario e direttore della Galleria d’Arte Moderna Enrico Thovez, gli scrittori Massimo Bontempelli, Giovanni Cena, Francesco Pastonchi, Ernesto Ragazzoni, Carola Prosperi, il filologo Gustavo Balsamo Crivelli e i professori Zino Zini e Achille Loria; anche Pirandello vi farà qualche comparsa. Nell’immediato dopoguerra vi parteciperanno Piero Gobetti, Lionello Venturi e Felice Casorati.

Gozzano diviene il capo di una “matta brigada” di giovani, secondo quanto riportato dall’amico e giornalista Mario Bassi, formata tra gli altri dai letterati Carlo Calcaterra, Salvator Gotta, Attilio Momigliano, Carlo Vallini, Mario Dogliotti divenuto poi Padre Silvestro, benedettino a Subiaco e dal giornalista Mario Vugliano.
Va tuttavia ricordato che per Guido quel circolo è soprattutto occasione di conoscenze che gli torneranno utili per la promozione dei suoi versi, egli stesso così dice “La Cultura! quando me ne parli, sento l’odore di certe fogne squartate per i restauri”. Con il passare del tempo, matura lentamente in lui una più attenta considerazione dei valori poetici della scrittura, anche grazie (ma non solo) allo studio dei moderni poeti francesi e belgi, come Francis Jammes, Maurice Maeterlinck, Jules Laforgue, Georges Rodenbach e Sully Prudhomme.
Da ricordare è anche la tormentata vicenda amorosa (1907-1909) tra Gozzano e la nota poetessa Amalia Guglielminetti, una storia destinata alla consunzione, caratterizzata da momenti di estrema tenerezza e molti altri di pena e dolore.

Ma torniamo a Torino, la sua città natale, la amata Torino, che è sempre nei suoi pensieri: “la metà di me stesso in te rimane/ e mi ritrovo ad ogni mio ritorno”. Torino raccoglie tutti i suoi ricordi più mesti, ma è anche l’ambiente concreto ed umano al quale egli sente di appartenere. Accanto alla Torino a lui contemporanea, (“le dritte vie corrusche di rotaie”), appare nei suoi scritti una Torino dei tempi antichi, un po’ polverosa che suscita nel poeta accenti lirici carichi di nostalgia. “Non soffre. Ama quel mondo senza raggio/ di bellezza, ove cosa di trastullo/ è l’Arte. Ama quei modi e quel linguaggio/ e quell’ambiente sconsolato e brullo.” Con tali parole malinconiche Gozzano parla di Torino, e richiama alla memoria “certi salotti/ beoti assai, pettegoli, bigotti” che tuttavia sono cari al per sempre giovane scrittore. “Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca/ tuttavia d’un tal garbo parigino”, questa è la Torino di Gozzano, e mentre lui scrive è facile immaginare il Po che scorre, i bei palazzi del Lungo Po che si specchiano nell’acqua in movimento, la Mole che svetta su un cielo che difficilmente è di un azzurro limpido.
Il poeta fa riferimento alle “sere torinesi” e descrive così il momento che lui preferisce, il tramonto, quando la città diventa una “stampa antica bavarese”, il cielo si colora e le montagne si tingono di rosso, (“Da Palazzo Madama al Valentino /ardono l’Alpi tra le nubi accese”), e pare di vederlo il “nostro” poeta, mentre si aggira per le vie affollate di dame con pellicce e cappelli eleganti, e intanto il giorno volge al termine e tutti fanno ritorno a casa.

Gozzano, da buon torinese, conosce bene la “sua” e la “nostra” Torino, di modeste dimensioni per essere una grande metropoli, e troppo caotica per chi è abituato ai paesi della cintura, un po’ barocca, un po’ liberty e un po’ moderna, stupisce sempre gli “stranieri” per i “controviali” e i modi di dire. Torino è un po’ grigia ed elegante, per le vie del centro c’è un costante vociare, ma è più un chiacchiericcio da sala da the che un brusio da centro commerciale, è piccola ma a grandezza d’uomo, Torino è una cartolina antica che prova a modernizzarsi, è un continuo “memorandum” alla grandezza che l’ha contraddistinta un tempo e che, forse, non c’è più. Di Torino è impossibile non innamorarsi ma è altrettanto difficile viverci, e, se uno proprio non se ne vuole andare, c’è solo una cosa che può fare, prestare attenzione alla sua Maschera: “Evviva i bôgianen… Sì, dici bene,/o mio savio Gianduia ridarello!/ Buona è la vita senza foga, bello/ godere di cose piccole e serene…/A l’è questiôn d’ nen piessla… Dici bene/ o mio savio Gianduia ridarello!…”

Alessia Cagnotto

Luigino, il cacciatore di serpenti

Luigino “mazzabis” era un serparo. Conosceva i segreti per catturare e maneggiare le vipere. S’intrufolava nelle zone più scomode e rocciose, passando in rassegna gli  anfratti vari, alla ricerca dei rettili. Soprattutto a mezza costa, nelle parti  più assolate dei pendii del Mottarone, tra i sassi nascosti dal brugo, nei pressi delle cave di granito o sui versanti  scoscesi del torrente Selvaspessa. “Caro mio, non si va per serpi in pianura. Bisogna scarpinare e non aver fretta. Ti apposti e, quando la biscia si stende a prendere il sole, l’acchiappi al volo. Bisogna esser lesti, veloci. Altrimenti ti morde e son dolori“.

Luigino “mazzabis”, all’anagrafe Luigi Poldo, aveva studiato medicina a Pavia dando tutti gli esami senza però laurearsi. Tornato sul lago Maggiore, a Baveno, dopo aver fatto diversi lavori,  da un tempo lavorava come assistente di un dentista e s’era impallinato con la storia del serparo.  Dai serpenti che catturava, cavava il veleno per poi cederlo ad un’ importante ditta farmaceutica del milanese tramite il dottor Klever , il farmacista del posto. Le cercava un po’ ovunque: dall’alpe Vidabbia al Monte Zughero, dai valloni sotto i Corni di Nibbio fino in Valgrande. Soprattutto quest’ultima zona, oggi parco nazionale, godeva di una certa fama. La chiamavano, infatti, la “valle delle vipere”, alimentando il mito del  leggendario Bazalèsch (il basilisco) e del Galètt , una vipera nera con la cresta che emanava un profumo talmente insistente da far cadere addormentate le persone. In realtà l’essere così poco teneri con queste serpi è ingiusto. La vipera e’ un animale piuttosto timido e pauroso, che attacca solo per difendersi. Può rappresentare un pericolo per le capre o le mucche ma  i casi di donne e uomini morsi dalle vipere  sono piuttosto rari. “ Quando si incontrano sul percorso, basta semplicemente fermarsi e aspettare che si allontanino”, ci diceva Luigino. “ Questo nel caso riusciamo a vederle per primi, altrimenti se arriviamo troppo vicini e la spaventiamo, la vipera può reagire, prima di attaccare, con quel suo caratteristico “soffio”, che e’ abbastanza impressionante”.

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Le vipere, per loro sfortuna e per nostra fortuna, sono gli unici serpenti velenosi esistenti in Italia (la sola regione dove non esistono vipere è la Sardegna). A seconda della specie, possono vivere indifferentemente in pianura, in collina o in montagna, così come  nei boschi, nelle pietraie, nei prati o lungo le siepi, manifestando una certa predilezione per i luoghi soleggiati. La vipera dispone di un apparato velenifero perfetto ed efficace, una vera e propria “arma letale”: il veleno , prodotto da una ghiandola posta sopra il palato, viene inoculato nella ferita al momento del morso attraverso appositi canalini che porta dentro le due piccole zanne. Altamente tossico, talvolta mortale, è in grado di agire in meno di un quarto d’ora. Ovviamente prediligono le zone dove ci si può  nasconder bene, abbastanza isolate. “ Le serpi le trovi lontano dai posti abitati”, aggiungeva Luigino. “Se incontri un aspide o un marasso,lo riconosci dalla testa triangolare e dagli occhi: le vipere hanno le pupille verticali, simili a quelle dei gatti. Si distinguono così dalle bisce innocue che hanno la pupilla tonda. Anche se, a dire il vero, un sacco di gente non perde tempo a guardarle negli occhi e scappa via a gambe levate”. Noi , curiosi, gli chiedevamo se c’era una  tecnica per catturarle.  Guardate, la serpe percepisce le vibrazioni del terreno, e fugge. Se però ti avvicini lentamente, con passo felpato,  e più o meno conosci la zona, non è difficile scovarla e catturarla anche se si è mimetizzata tra sassi  ed arbusti. Dovete sapere che la serpe è abilissima a mimetizzarsi e la sua colorazione si adatta all’ambiente  dove vive. E’ una grandissima artista nel camuffarsi. A volte si riesce a catturarle anche non in ferma. Sì, perché quando si muovono è più facile riconoscerle. Ma, ricordate: più che la tecnica, conta l’esperienza, l’intuito. Io ne catturo parecchie di vipere  ma capita spesso che per prenderne una ci devo tornare anche tre o quattro volte. Non è né una cosa semplice, né una cosa impossibile. Molto dipende dal luogo dove vive. Per la tecnica di cattura ci vuol mano ferma e occhio vigile:le  afferro per la coda a mani nude e le sollevo in aria. Così neutralizzo la vipera perché non riesce più a risollevarsi e mordere, e la ficco nel sacco. A volte  uso anche   il bastoncino biforcuto ma non mi piace tanto”. Ma c’era anche un periodo “buono” per la caccia? Luigino, sorridendo, rispondeva con un detto ( “ a S. Giuseppe la prima serpe” ) che indicava tra fine marzo e l’inizio dell’estate il periodo migliore. Raccontava che nei  boschi e fra i sassi di Pian di Boit, in Valgrande, c’erano quelli che – catturate le vipere – le chiudevano in apposite cassette di legno con uno spioncino e le spedivano all’istituto sieroterapico di Milano.

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Per quei montanari era  un modesto integrativo finanziario al magro reddito d’alpeggio. “ Sapete,ragazzi: si guadagna qualcosa, ma non si diventava ricchi. Quelle catturate in aprile valgono di più, perché contengono una maggiore quantità di veleno. In una stagione, un bravo viperaio riesce a catturarne 70-80. Io, una decina d’anni fa, ho raggiunto il mio record: centoventitrè. Ma è stato davvero un anno di grazia. A proposito, vi ho mai raccontato di quella volta che ho dovuto soccorrere il Martin Cappella? Lo conoscete, no?”.  Lo conoscevamo sì: era uno dei “fungiatt”, dei cercatori di funghi più esperti della zona del Mottarone. Nonostante questo – stando al racconto di Luigino –  un pomeriggio  si dimenticò della necessaria prudenza. Eppure sapeva bene cos’era bene evitare di fare. Ad esempio,   mai frugare con le mani  tra le felci, vicino ai sassi, senza prima essersi accertati che non vi fosse pericolo. Gli era parso di vedere un fungo e, allungata la mano, la ritirò di scatto, dolorante. La vipera l’aveva “tassato”.. “ L’ho sentito gridare e sono volato lì come un falchetto. La pelle nel punto della morsicatura era già rigonfia, arrossata, con chiazze bluastre. Non mi sono fatto pregare. L’ho fatto distendere e con il mio coltello ho inciso la ferita, succhiando e sputando via il veleno. Con la cintura dei pantaloni gli ho stretto il braccio una ventina di centimetri sopra il segno del morso e l’ho caricato in spalla. Per fortuna non eravamo distanti dalla cava. Con il  fuoristrada di uno degli addetti a far brillare le mine necessarie a staccare le lastre di granito, siamo andati al pronto soccorso a Pallanza dove l’hanno curato. E v’assicuro che da quella volta gira sempre con il bastone e prima di metter giù le mani , fruga dappertutto con quello. Cosa volete, il morso della vipera gli ha messo una fifa addosso che non vi dico”. E concludeva i suoi racconti ricordando a chi l’ascoltava che lui, raramente, aveva ammazzato una biscia perché – in fondo – quegli esseri – un po’ come tutti gli animali – “non erano certo peggio degli uomini”.

Marco Travaglini

Temporale imprevisto sul lago d’Orta

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Chi se lo aspettava, questo temporale. Quando abbiamo messo in acqua la barca, verso le nove, il cielo era sereno. Qualche nuvola sopra le Quarne e un po’ di vento di tramontana da nord-ovest. Il callo del Giacinto non dava problemi e, a suo dire, quel suo barometro molto personale non l’aveva mai tradito.  Eppure, sentendo la radio, le previsioni non  erano poi così buone. Infatti, alle 7,20 in punto, avevo sentito al “Gazzettino Padano” il mattinale del Centro Geofisico Prealpino di Varese. “ Il vento, dal monte al piano, può portare improvvisi sbalzi di temperatura che, in casi eccezionali, potranno determinare fenomeni temporaleschi nella fascia prealpina di nord-ovest”, aveva detto l’erede del professor Furia, imitando la sua inconfondibile voce un po’ raspa. Non c’era giornata che, almeno per me, non s’aprisse con le loro previsioni atmosferiche.

Tra l’altro il nostro metereologo, classe 1924, seduto alla sua scrivania dalla quale ogni santo giorno alla sette della mattina dettava ai lombardi e ai piemontesi dei laghi le previsioni del tempo, non aveva perso un colpo fino alla fine dei suoi giorni. Preciso come un orologio svizzero anticipava le evoluzioni del meteo, concludeva il suo intervento augurando ai radioascoltatori “pensieri positivi, nonostante il tempo“. La sua scomparsa ci aveva resi più soli e tristi anche se il servizio continuava con chi aveva raccolto la sua eredità. Stando a quanto avevo sentito alla radio, ero perplesso ma mi sono fatto convincere da Giacinto che aveva già ottenuto il consenso di Giuanin. Così, in tre, ci siamo mossi dall’imbarcadero di Oira, remando a turno. La barca era quella di Giacinto: la “Carpa Dorata”. Eravamo davanti alla Qualba, la nostra acqua Alba, famosa per il colore e la limpidezza delle sua acque e qualcosa già non andava. Il cielo si stava rannuvolando sulle nostre teste. “Se vègn nìul vérs Bagnèla tò su l’umbrèla”, si raccomanda sempre il signor Barzaccheri, altro noto metereopatico in grado di avvertire la pioggia che, come tutti sanno, arriva quasi sempre da ovest, dall’alpe Sacchi. Dunque, stiamo in campana: se il cielo si rannuvola dalle parti di Bagnella e Brolo, conviene tenere a portata di mano l’ombrello perché non si sa mai. E’ quello che sta accadendo e noi siamo in barca, non sulla terraferma. Giuanin mostra uno sguardo preoccupato e anche Giacinto non è più così baldanzoso. Sta per scoppiare un temporale di quelli che ti raccomando e, per quanto ci si possa dar da fare coi remi, non saremo mai a riva in tempo per schivarlo. L’aria sta diventando elettrica, carica. S’avverte persino pizzicare sulla pelle. Il cielo ha cambiato ancora umore: la nuvolaglia da bianco sporco è diventata grigio piombo, con alcune striature nere come la pece. L’abbassarsi improvviso della pressione atmosferica sembra volerci comprimere, schiacciandoci sul fondo della barca. L’acqua inizia a muoversi.

Le onde si fanno sempre più veloci e aggressive. Mamma mia, questo che soffia è  il Marescon, la peggior inverna che ci possa essere. Le raffiche violente hanno scacciato la tramontana e percorrono il lago come una scopa, spazzandone la superficie. Il tuono annuncia il lampo e il lampo saetta la sua energia scaricandosi in acqua, a qualche centinaio di metri da noi. Uno, due, dieci lampi secchi come una bastonata. Giacinto mormora le sue preghiere, preoccupato soprattutto per la barca che non ha ancora finito di pagare. Giuanin, passato dalla paura all’eccitazione, s’alza in piedi e canta come un ossesso: “Turbini e tempeste io cavalcherò, volerò tra i fulmini per averti.. Meravigliosa creatura, sei sola al mondo; meravigliosa paura di averti accanto..”. Roba da finire insieme ai matti; ci mancavano solo le canzoni della  Giannini, in mezzo a questo bordello! Uno trema, l’altro canta e io mi metto ai remi prima che venga giù l’ira di Dio. Quello del callo che non sbaglia mai, Giacinto, mormora “Santa Barbara e San Simòn, vardén da la lòsna e dal tròn” ( Santa Barbara e San Simone, guardateci dal fulmine e dal tuono, ndr). L’altro, matto come un cavallo, canta come un juke box e dalla Nannini è passato a Cuori in Tempesta per poi finire con Bréva e Tivàn di Davide Vandesfroos. Gli piace, la trova indicata e non smette di ulularla al vento: “E la barca la dùnda e la paar che la fùnda, che baraùnda vèss che in mèzz al laagh… Ma urmài sun chè… in mèzz al tempuraal, tuìvess föe di bàll che a mi me piaas inscì…”. 

Il ritmo del mio vogare è quasi da gara. Noncurante della fatica, con il cuore che mi scoppia nel petto e il fiato corto, approdo a Ronco di Pella, sfinito. Il cielo si è rotto e l’acqua scende a secchiate sul lago che ha preso il colore dell’incudine che il fabbro tiene in bottega. In breve la pioggia si trasforma in grandine e i goccioloni diventano cicchi ghiacciati grandi come noci. Siamo al riparo, sotto al tettoia della signora Erminia. Peccato non sia in casa. La sua ospitalità, in casi come questi, è graditissima. La “Carpa Dorata”, ormeggiata alla belle e meglio, non può ripararsi e subisce l’ingiuria della grandine. Giacinto piange come un bambino e maledice quel callo che lo ha tratto in inganno. “Quando torniamo a Omegna me lo vado a far raschiare via, questo giuda traditore”, mormora tra le lacrime. Io ho i brividi perché, oltre ad essere bagnato fino alle ossa mi sento stanco come un asino. L’unico eccitato è Giuanin che canticchia ancora, ma sottovoce. I nostri sguardi poco amichevoli l’hanno quasi convinto a dare un taglio a tutta quell’allegria senza ragione.
 

Marco Travaglini

La zuppa mitonà, la ricetta piemontese con il pane raffermo

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La zuppa mitonà, a metà tra una zuppa e un gratin, ecco un piatto tipico piemontese da riscoprire.

Qualche curiosità sulla zuppa mitonà (supa mitonà)

La supa mitonà (si pronuncia mitunà) è un piatto tipico della cucina piemontese, ed è particolarmente diffusa nel biellese. Si tratta di un piatto molto sostanzioso e saporito, perfetto soprattutto nei mesi freddi per mangiare qualcosa di caldo e sostanziosa. Come tutte le ricette antiche, è anche una valida alternativa per non sprecare il pane raffermo.

Il nome di questa zuppa deriva dal verbo francese mitonner, che fa riferimento a una cottura lenta e a fuoco dolce. Esistono numerose varianti: le più comuni prevedono l’aggiunta di fagioli o pomodori.
La redazione de Il Torinese vi propone la ricetta semplice, da personalizzare come più vi piace.

Il tempo impiegato per la preparazione della zuppa è di circa 40 minuti.

Ingredienti per la zuppa mitonà:

  • 4 porri
  • 4 cucchiai di olio extravergine
  • 4 acciughe
  • 1 cucchiaio di capperi
  • 1 spicchio d’aglio
  • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 manciata di parmigiano grattugiato
  • 1 noce di burro
  • 500g di pane raffermo
  • 1l di brodo di carne

Procedimento:

  1.  Per prima cosa, mettete a bagno i capperi in acqua fredda e lasciateli rinvenire per un’ora, cambiando l’acqua un paio di volte. Nel frattempo lavate le acciughe, e privatele delle lische. Lavate i porri con acqua fredda, e poi affettateli a rondelle molto sottili. Potete utilizzare anche qualche centimetro del gambo verde, renderà il piatto ancora più saporito. A questo punto togliete l’anima (il germoglio interno) dallo spicchio d’aglio e tagliate anche questo a fettine sottilissime.
  2. Prendere una pentola di terracotta (in alternativa, potete usare una pentola antiaderente) e scaldate 4 cucchiai d’olio extravergine insieme alla noce di burro; a questp punto si uniranno tutti gli ingredienti. Cominciate con l’aglio a fettine, lasciatelo ammorbidire a fuoco basso (non deve friggere), per 10 minuti. Unite le acciughe e, sempre a fiamma bassa, fatele sciogliere servendovi di un cucchiaio di legno. Unite i porri affettati e i capperi tritati finemente. Mescolate bene e fate stufare, sempre a fuoco dolce, per una ventina di minuti. Aggiungete un mestolo di brodo in cui sarà stato stemperato 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, e proseguite la cottura fino a quando i porri non siano divenuti tenerissimi, trasparenti e quasi disfatti.
  3. A questo punto manca ancora l’ingrediente principale, ovvero il pane raffermo. Affettatelo e dividete ogni fetta in listarelle larghe approssimativamente 3 dita. A questo punto lasciatele dorare in un forno già caldo (circa 180°), fino a quando assumeranno una consistenza croccante.
  4. Imburrate una pirofila e sistematevi quindi uno strato di listarelle di pane vicine tra loro. Sopra aggiungeteci una parte dei porri e un’abbondante spolverata di parmigiano. Alternate uno strato di pane a uno di porri e parmigiano fino ad esaurire gli ingredienti. Se possibile, fate in modo che l’ultimo strato sia di pane. Un’accortezza: non riempite completamente la pirofila, poiché il pane aumenterà di volume.
  5. A questo punto unite lentamente il brodo caldo: dev’essere sufficiente a inzuppare il pane e sfiorarne appena la superficie. Infornate in forno già caldo (circa 180°) e fate cuocere per circa 30 minuti. Per gratinare la superficie, ottenendo così un gradevole effetto estetico e una consistenza più croccante.
  6. A fine cottura spolverate generosamente la supa mitonà con parmigiano e cospargete con fiocchetti di burro, prolungando la cottura ancora di qualche minuto. Prima di servire, lasciate riposare 10 minuti… et voilà, gustatevi la vostra mitonà!

La bottiglia senza “buscion”

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La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.

Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena  al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca  qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.

 

Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.

 

Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il  brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.

A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro.  Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.

Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola
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Marco Travaglini

Valle Formazza, la “piccola repubblica” dei walser

Incuneata nel cuore della Alpi, fino al centro delle “Alpi Somme” da cui partono le acque nelle quattro direzioni dei venti, la valle Formazza ha una storia singolare e affascinante, irripetibile in qualsiasi altra valle dell’arco alpino

La prima e più importante delle colonie walser, il  “nido d’aquila” di questo grande popolo di montanari che disseminò di comunità i due versanti dell’arco alpino. Lo storico Enrico Rizzi, scrivendo per l’editore Grossi la “Storia della Valle Formazza” , ha consegnato ai lettori un lavoro monumentale, frutto di anni di certosine ricerche, raccogliendo documenti e testimonianze. Un’opera davvero completa che illustra la storia ricca e spesso imprevedibile della Valle Formazza. “ La nostra posizione strategica, quasi fosse un cuneo nel cuore delle alpi centrali – afferma la vulcanica sindaca di Formazza, Bruna Papa – ha consentito al nostro territorio di essere per secoli un’arteria di traffici mercantili, scambi e contatti con il nord delle Alpi più di qualsiasi altra vallata dell’eco alpino”. Una valle “sospesa tra sud e nord” a far da cerniera e punto d’incontro anche per motivi artistici, religiosi e civili. Il nodo dei passi attraversati nei secoli dai someggiatori lungo le vie europee del sale, del vino, dei formaggi, la sua eccezionale posizione strategica, hanno fatto della più antica colonia fondata dai Walser nel medioevo, una “piccola repubblica” sospesa tra la Lombardia e la Svizzera . Territorio conteso con agli Svizzeri che cercavano un altro sbocco verso il Mezzogiorno, allargando e rettificando il confine meridionale della Val Leventina, venne aggregato al ducato di Milano, e seguì le vicende di tutto il restante della Val d’Ossola rimanendo sotto la dominazione spagnola fino al 1714, e passando poi sotto le dominazioni austriaca (1714-48), sabauda (1748-97), francese (1797-1814) e italiana.Retta per secoli autonomamente, con il proprio tribunale valligiano e rustiche magistrature democratiche, Formazza  ha sempre coltivato la sua fiera indipendenza, la sua lingua, lo stile delle sue case di legno, le sue antiche tradizioni, un ricchissimo paesaggio naturale che ha nella superba Cascata della Toce il suo monumento più suggestivo, ammirato nei loro viaggi alpini da naturalisti e scienziati, poeti e artisti come Saussure, Dolomieu, Coolidge, Ermanno Olmi,Carlo Rubbia. Un luogo  che Mario Rigoni Stern  raccontò nel suo libro “L’ultima partita a carte”, descrivendo  il suo “corso sciatori” in alta Val Formazza nel gennaio del 1939 : “Mi ricordo ancora bene che vicino alla diga di Morasco avevamo fatto una gara sci-alpinistica partendo dalla Cascata del Toce. Nella neve si viveva e si moriva. Un aspirante che era con noi era rimasto sotto una valanga durante un allenamento. Noi sciavamo, bevevamo il vin brulé, vincevamo la coppa, ma poi, nel gennaio del 1943 eravamo andati a morire per il freddo, nella neve, in guerra”. Tornando al libro di Rizzi  va detto che lo storico delle Alpi e autore di molti libri sui Walser nelle 480 pagine di quest’opera straordinaria, corredata di foto e documenti, non tralascia nulla nel ricostruire la storia di questa bellissima valle.

Marco Travaglini

Fiorenzo, l’operaio che faceva “i baffi alle mosche”

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Quando ho conosciuto Fiorenzo – detto anche “stravacà-rundell” – era ormai in pensione ma il mio collega Rinaldo, più giovane di me, l’aveva avuto come “maestro” in fabbrica

Finita la scuola dell’obbligo, nonostante i buoni voti, Rinaldo aveva scelto – contro il parere dei genitori – di andare a lavorare in fabbrica. “Per studiare c’è sempre tempo“, si era detto. Un errore bello e buono che lui stesso, con il tempo, aveva ammesso. Sì, perché, come spesso accade, “ogni lasciata è persa“, e ciò che non si fa all’età giusta è ben difficile che si possa recuperare più avanti. Per sua fortuna Rinaldo aveva, come dire, “recuperato” ai tempi supplementari, da privatista, studiando di sera e lavorando di giorno. Era approdato alla Banca quando stava per festeggiare il suo venticinquesimo compleanno. Il signor Bruno, che aveva una fabbrichetta proprio sotto casa mia, lo diceva sempre anche a me: “Studia. Fat mia mangià i libar da la vaca“. Farsi mangiare i libri dalla vacca equivaleva, un tempo, a smettere di studiare per fare il contadino, imbracciando vanga, rastrello e falce al posto di penna, libro e quaderno. Quando non ce n’era necessità assoluta, era un peccato non “andare avanti” a scuola. Comunque, tornando a Rinaldo, non si mise certo a piangere sul latte versato. La fabbrica, un’azienda meccanica con una trentina di dipendenti, era poco distante da casa sua e venne assegnato come “bocia“, come apprendista,  alle “cure” di Fiorenzo. 

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“ Dovevi conoscerlo a quel tempo, amico mio. Era un operaio provetto, in grado di fare “i baffi alle mosche”. Tirava di fino con la lima, maneggiava con abilità il truschino per tracciare e il calibro per le misurazioni. Era un ottimo attrezzista, in grado di preparare uno stampo per la pressa ma s’intendeva bene anche di macchine come le fresatrici e i torni. Per non parlare poi della rettifica”. Con quella macchina utensile, si lavora sui millesimi, togliendoli dal pezzo in lavorazione con precisione chirurgica, grazie alla mola a grana fine e durissima che garantisce un alto grado di finitura. “ Sotto la sua guida ho imparato, in quegli anni, a lavorare sulle rettificatrici in tondo, senza centro e su quella tangenziale, per le superfici piane. A volte bisognava mettersi la mascherina, soprattutto quando si lavoravano i pezzi cromati: quelle nuvole di acqua e olio emulsionabile che abbattevano le polveri  e raffreddavano il “pezzo”, non erano per niente salubri”.  Nell’officina, a lavorare con Riccardo e Fiorenzo, erano in diversi. C’era un capo operaio che veniva dalla provincia di Varese, soprannominato “lampadina“, con la sua crapa pelata e la palandrana blu dalle tasche sfondate a forza s’infilarci gli attrezzi; Antonio, tornitore dall’aria austera che al solo guardarlo metteva in soggezione; Luìsin, una specie di factotum che s’occupava principalmente del magazzino; Silverio, abile e scaltro saldatore che si esprimeva per metafore mutuate dalle pubblicità di “Carosello“; Ansaldi, addetto ai trapani, compreso quello radiale che sembrava davvero un mostro con il suo pesante mandrino che stringeva ragguardevoli punte adatte a forare le lastre più grandi.

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Dal racconto di Riccardo pare proprio che si respirasse un clima di grande umanità in quei capannoni. Anche gli scherzi che toccavano alle “matricole“, non erano mai troppo pesanti. Se mandavano a prendere la “punta scarpina del 43“, il calcio nel sedere veniva quasi appoggiato alle chiappe, senza foga. Un “ricalchin“, niente di più. Chiedere al fresatore di poter ottenere un po’ “d’acqua d’os“, comportava una annaffiatura appena accennata con lo spruzzino a mano. In caso di necessità, richiesto con i dovuti modi, non mancava mai l’aiuto dei più esperti, segno di una disponibilità al giorno d’oggi quanto mai rara. “Un giorno Fiorenzo, soddisfacendo la mia  curiosità – racconta Riccardo   mi spiegò l’origine di quel soprannome  che s’era “guadagnato” da giovane, lavorando in una fabbrica un po’ più grande. Portando una cassa di rondelle di ferro verso il magazzino non aveva visto in tempo un buco nel pavimento ed il carrellino si era ribaltato, rovesciando sul pavimento l’intero contenuto”. Aveva impiegato una mezza giornata a scovarle, quelle maledette rondelle. Erano finite dappertutto: sotto le macchine e i banchi, nei cumuli di trucioli di ferro e tra la segatura che avevano buttato per terra sotto l’alesatrice per asciugare l’acqua che colava giù. “Da quel momento sono diventato lo “stravacà-rundell”. Poco importa se quella è stata l’unica volta che mi è capitato”, ammetteva, sorridendo, Fiorenzo. Personalmente l’ho conosciuto al circolo, una dozzina d’anni fa. Da quando gli era morta l’Adalgisa, sua moglie, veniva più spesso a fare quattro chiacchiere e una partita a carte insieme a noi. Raccontando degli episodi della fabbrica – che trovavano conferma nelle parole di Riccardo – emergevano altre figure, alcune esilaranti come nel caso di Igino e di Fedele. Entrambi avevano l’abitudine del bere che consideravano tale, rifiutando categoricamente che fosse “un vizio“. Igino lo conosco e me ho avuto prova quando,  insieme, siamo andati, una mattina di primavera, a pescare nel Selvaspessa, il torrente che dal Mottarone scende giù fino al lago Maggiore. Prima di raggiungermi sul greto del torrente, aveva fatto colazione “alla montanara“: pane, formaggio e una grossa tazza di caffè e grappa, dove la grappa prevaleva e di molto sul caffè. Dopo un’ora che si pescava, chiamandolo e non ricevendo risposta, lo trovai sdraiato su di un sasso, con i pantaloni arrotolati sopra il ginocchio e i piedi nudi nell’acqua corrente del fiume.

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L’acqua era gelata ma lui, sbadigliando sonoramente dopo le mie scrollate, mi disse che “aveva caldo ai piedi e un po’ di sonno“, e così ne aveva approfittato. Roba da matti, penserete ma vi assicuro che per Igino era la normalità. Aveva un fisico bestiale. Quando la domenica, indossata la maglia azzurra del Baveno, giocava a pallone, correva sulla fascia come una locomotiva per l’intera durata della partita, mostrando una riserva inesauribile di fiato. E a caccia di camosci era capace di stare delle ore immobile, nella neve, per mimetizzarsi. Fedele, invece, era più indolente e si muoveva sempre e solo sulla sua “Teresina”, una Vespa 125 del 1953, che teneva lustra e curata nemmeno fosse la sua morosa. Fiorenzo e Riccardo ricordavano il giorno in cui l’autista dell’azienda, con la sua “Bianchina“, stava tornando da una commissione. Lo videro in fondo al viale alberato, con la freccia pulsante a sinistra. Alle sue spalle c’era Fedele, sulla sua Vespa. L’auto procedeva a passo d’uomo ma non svoltò a sinistra al primo incrocio. Fedele gli stava dietro, tradendo una certa impazienza. La “Bianchina“, nonostante la freccia sempre inserita, non svoltò nemmeno in procinto delle altre due strade che gli avrebbero consentito la deviazione annunciata dall’indicatore luminoso . Ormai persuaso che la freccia era rimasta inserita per una dimenticanza dell’autista, Fedele accelerò per il sorpasso. Fu in quel momento che, giunta in prossimità del cancello della fabbrica, l’auto svoltò repentinamente e Fedele, con una sterzata disperata, evitò di un soffio la collisione , infilandosi nel bel mezzo di una siepe di rovi. “ Non ti dico in che stato era quando riuscì a liberarsi dalla morsa dei rami spinosi”, confessò Riccardo.

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Era uno strazio, con i vestiti strappati e il corpo coperto di graffi. Anche la sua  “125” era un graffio unico e soltanto la velocità, inaspettata quanto provvidenziale, del vecchio autista nel mettersi al riparo dalla sua furia – barricandosi nel gabinetto alla turca – impedì al motociclista di strozzarlo”. Quegli anni, certamente duri e non facili, venivano raccontati sia dall’anziano Fiorenzo che dal più giovane Riccardo come una specie di “formazione alla vita”.  “ Mi hanno aiutato a farmi la “scorza”, a capire come girano le cose e ad avere grande rispetto per il lavoro e per quelli che – quando hanno un impegno – non si tirano indietro, senza dimenticare che non costa nulla dare una mano a chi è in difficoltà e fatica a tenere il passo“, diceva Riccardo. Confidava di essere in debito con i suoi compagni di allora per tutte le cose che aveva appreso, “anche per quelle meno belle che- comunque – servono a volte più di quelle piacevoli”. Li aveva conosciuto Marcello, che voleva andare dal ginecologo perché “ghò mal ad un ginocc’.. ” e  De Maria, che conosceva a memoria la Divina Commedia; aveva lavorato gomito a gomito con Carmelo, una “testa fina” in grado di leggere i disegni tecnici più sofisticati che nemmeno un ingegnere avrebbe potuto “bagnargli il naso” e Morlacchini che, un giorno, si costruì una padella per le caldarroste talmente pesante che bisognava essere in due per far “ballare” le castagne sul fuoco. Tutti erano un po’ speciali e molto, molto umani. Forse – ne sono convinto anch’io che pure ho percorso una strada diversa – si dovrebbe andar tutti, anche per poco, a lavorare in fabbrica, in cava o in ambienti simili. Si capirebbero tante cose e si direbbero tante stupidaggini in meno.

 

Marco Travaglini

 

San Leonardo, templari a Chieri

L’epoca è quella delle Crociate. Gerusalemme è tornata cristiana già da alcuni decenni e tante altre crociate verranno dopo la riconquista araba della città santa verso la fine del dodicesimo secolo. Crociati e pellegrini sono in marcia da tutta l’Europa verso Roma, verso l’Oriente e la lontana Terra Santa.

Passano anche a Chieri, alcuni solo il tempo necessario per rifocillarsi e riprendere il cammino da poveri crociati, altri invece si fermano molto più a lungo e costruiscono, nell’attuale via Roma, una “domus” templare, la chiesa di San Leonardo, l’unico tempio in provincia di Torino posseduto dal potente Ordine medievale di monaci-cavalieri. Un tempo fu precettoria templare e poi divenne un ospedale dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, i futuri cavalieri di Malta le cui croci ottagone si stagliano sulla facciata dell’edificio. Non tutto però fila liscia, templari e chieresi non sempre vanno d’accordo. Deve intervenire addirittura Federico II, l’imperatore svevo nato a Jesi, che tanto amava la nostra penisola. Cerca di fare da paciere tra il neonato comune di Chieri e i Templari per contrasti riguardanti la vendita di case e terreni. Risolve tutto e il documento firmato a Torino tra le parti nel 1245 pone fine alla disputa.
Ma oggi di tutto ciò si sa poco e soprattutto si vede pochissimo. I chieresi sfiorano San Leonardo camminando sul marciapiede e quasi toccano quella meraviglia di portale decorato con formelle in cotto a croce greca alternate a formelle con la croce di Malta. Passano di fronte a secoli di storia e magari non ci fanno neanche caso. Resta ben poco oggi della “domus” dei cavalieri templari e della chiesa citata per la prima volta in una bolla papale del 1141. Dell’antico complesso rimane solo la sala della precettoria che si affaccia su via Roma all’angolo con via Vittorio Emanuele, non lontano dalla chiesa di San Domenico, con un portale gotico sormontato da un grande rosone. Nel 1285 l’intero edificio fu distrutto da un incendio e dopo la soppressione dell’Ordine del Tempio nel 1312 la chiesa passò ai cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. La storia mutava anche nel Vicino Oriente.
Con la caduta di Acri (oggi Akko in Israele) nel 1291, conquistata dai Mamelucchi, i cavalieri di San Giovanni furono costretti a fuggire dalla Terrasanta per riparare prima a Cipro e poi nell’isola di Rodi diventando i Cavalieri di Rodi. Obbligati a lasciare l’isola all’arrivo della flotta ottomana nel 1522 ottennero dall’imperatore Carlo V l’isola di Malta e dal 1530 sono conosciuti come Cavalieri di Malta. Il cavaliere di Rodi Tommaso Ulitoto nei primi anni del Quattrocento fece ricostruire l’ospedale e la chiesa di San Leonardo che però cadde in uno stato di totale abbandono. Nell’Ottocento diventò perfino un’officina e il campanile fu abbattuto. Nei primi anni Trenta chiesa e domus templare furono acquistate dai salesiani e divennero parte integrante dell’attuale Oratorio di San Luigi. Della chiesa di San Leonardo è ancora visibile la piccola navata centrale ma non resta nulla dell’ospedale di Santa Croce dei Cavalieri di San Giovanni. All’interno della precettoria sono tornati alla luce, dopo lunghi restauri, preziosi affreschi del Quattrocento che illustrano la Passione di Cristo.
Filippo Re