Oltre Torino. Storie miti e leggende del Torinese dimenticato- Pagina 2

I matti esistono!

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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8 I matti esistono!
La stampa italiana svolse un ruolo decisivo nella denuncia delle disumane condizioni in cui si trovavano le persone recluse nei manicomi. Grandi firme del giornalismo si schierarono contro tali orrori: Indro Montanelli, Dacia Maraini, Carlo Casalegno, Natalia Aspesi, Camilla Cederna. Anche oltre confini intellettuali di spicco si sentirono obbligati a inserirsi nella lotta, come Jean-Paul Sartre e Noam Chomsky, perfino il “The Times”, nel 1965, pubblicò un articolo dettagliato sulle drammatiche condizioni dei manicomi italiani, il pezzo era firmato Peter Nichols. Lo scandalo stava piano piano venendo fuori, ma ci volle l’inchiesta di Angelo Del Boca per infastidire la coscienza reticente dell’opinione pubblica. Il giornalista, storico e scrittore, scrisse un servizio sulla “Gazzetta del Popolo” fra l’aprile e il giugno 1966 dal titolo emblematico “Manicomi come lager. Centomila ostaggi da liberare”, in cui, con pungente sarcasmo, invitava i connazionali “generosamente commossi alla fame dell’India a prendere coscienza del dramma dei manicomi a casa nostra”. L’inchiesta-choc viene pubblicata anche su altri giornali, e non si può più far finta di niente. Anche la televisione interviene insinuandosi tra i gelidi corridoi dei manicomi; il reportage più significativo è quello realizzato il 3 gennaio del 1969 da Sergio Zavoli, dal titolo “I giardini di Abele”, all’interno del programma TV7, in onda subito dopo il Carosello, girato nel manicomio di Gorizia. La telecamera fa in modo che nelle case degli italiani si proiettino immagini terribili di uomini e donne fantasma, facce svuotate, spettri che si aggirano per cortili spogli e sporchi, infagottati in abiti grotteschi, la TV fa vedere uomini che legano altri uomini, mani che stringono mazzi di chiavi che serrano improvvisamente porte e finestre. Il servizio è commentato dalla stessa voce di Sergio Zavoli che dice: “si è detto che gli alienati vengono trattati più duramente degli altri ammalati perché sono uomini senza difesa e quindi senza voce e senza diritti. Che nel mondo dei sofferenti equivalgono ai negri, agli indigeni, agli apolidi, ai sottoproletari, agli ebrei e come tali sono spesso vittime di pregiudizi e privazioni”. Le parole del giornalista suonano come un’accusa collettiva e vergognosa, dalla quale è difficile difendersi. Anche la fotografia si fa portavoce dell’ingiustizia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna e molti altri fotografi realizzano reportage-choc all’interno dei manicomi, scavalcando mura che parevano insormontabili e mostrando situazioni che non dovevano essere mostrate. Tra le tante ignobili condizioni che vengono scoperchiate c’è anche quella di via Gulio. Nell’anno 1965 “La Stampa” pubblica un articolo su quello che accadeva all’ “albergo dei tre pini”: “Il manicomio di via Giulio è un obbrobrio indegno degli uomini e della civiltà. È incredibile che in una città come Torino che si ritiene all’avanguardia del progresso e in una provincia come la nostra, che vanta antiche tradizioni in campo assistenziale e sociale, sia tollerata la presenza di un’opera che era già inadeguata cent’anni fa. La sede di via Giulio è un’accozzaglia di letti, distanti una spanna l’uno dall’altro, dove c’è posto per 600 persone e le ospiti sono 900. Dove si respira un lezzo insopportabile, dove la luce piove nelle camerate, in cui le pazze sostano tutto il giorno per mangiare e per vivere, da lucernari a mezza luna che non consentono il ricambio dell’aria. Dove i 30 uomini addetti ai servizi comuni dell’ospedale –pazzi tranquilli ma comunque malati- sono costretti a dormire nei seminterrati tra gli scarafaggi.” La gente fuori si trovava costretta a sbarrare gli occhi per vedere cosa accadeva dentro quelle mura che censuravano una realtà troppo scomoda anche solo da immaginare.  Anche la situazione a Collegno era disastrosa: “Il manicomio è tutto da rifare o da demolire. Per la sua struttura è addirittura impensabile di potervi praticare la psicoterapia o la socioterapia. Ci sono sezioni con 150 pazienti. Sezioni piene di vecchi che avrebbero bisogno solo di un’assistenza generica, ma che nessuno li vuole e finiscono qui. Ne vediamo a centinaia, distesi sui loro letti oppure sulle panche in giardino. Sono tranquilli, rassegnati, silenziosi. Nessuno si occupa più di loro. Per la società non rappresentano che alcune modiche rette da pagare, un mazzo di “fiches” in questura, alcuni mendicanti “molesti” di meno per le strade. Qualcuno di loro, però, ogni tanto si ribella e trova, per esprimere la sua protesta, energie impensabili. È il caso del vecchio che troviamo legato al letto, polsi e caviglie chiusi nei ceppi. È un grande vecchio, magro ma dotato di una ossatura imponente, i capelli ancora scuri, gli occhi che ci fissano adirati. L’infermiere sostiene che è “violento, e che spesso picchia i compagni.” All’epoca i manicomi di Collegno, Torino, Grugliasco e Savonera rinchiudevano tra le loro mura malati di mente e semplici emarginati, uomini e donne senza voce e senza difese, scaricati dalla società come zavorra e nella più totale indifferenza. Per la maggior parte erano anziani, allontanati dalle famiglie, rifiutati dalle case di riposo perché non più autosufficienti, una volta stavano al Cottolengo poi presero ad affollare i manicomi. Gli anni Sessanta videro l’immigrazione di massa dovuta all’ irrefrenabile processo di crescita dell’industria automobilistica FIAT e in particolare Torino era diventata una metropoli di oltre un milione di abitanti. Nelle fabbriche vi erano decine di migliaia di operai immigrati dal Sud, in gran parte ex contadini usciti malamente dallo scontro con la civiltà industriale; i dipendenti erano più lavoratori-macchine che semplici addetti alle linee di montaggio. I ritmi di lavoro uniti al disagio di ambientamento avevano fatto sì che nel 1965, 1579 lavoratori venissero internati nei manicomi torinesi, di questi il 37% erano operai, il 28% casalinghe, il 9% agricoltori e il 3% professionisti. Questo tipo di alienazione portò tra il 1957 e 1970 a 33 suicidi per impiccagione. Il fatto venne così commentato da un paziente :” (…) comunque, 33 impiccati in 13 anni! Ha fatto concorrenza al Rondò della Forca in tutta la storia del Rondò della Forca.”

Alessia Cagnotto

Il manicomio dei bambini

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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7. Il manicomio dei bambini
Fino ai primi anni del Novecento le malattie dei bambini non sono separate da quelle degli adulti, solo dopo gli anni Venti la neuropsichiatria infantile viene considerata una disciplina distinta e autonoma. Nascono i primi Istituiti Medico-Psico-Pedagogici, ma i bambini in manicomio ci finiscono lo stesso. All’interno di queste orride strutture trovano segregazione, cattiva alimentazione, promiscuità, e vita malsana, tutte condizioni che fanno sorgere epidemie di tubercolosi, pleuriti e infezioni di ogni genere. Le storie dei bambini nei manicomi sono fragili e brevi, riassunte in poche parole che possiamo estrapolare dalle cartelle cliniche: “indocile”, “disobbediente”, “tendente al furto”, “insofferente alla disciplina”, “cattivo”. Spesso si tratta di creature provenienti da famiglie povere e disastrate, ultimi di dieci figli, o con padri che non sanno rispondere alle semplici domande delle infermiere.  Virginia, dieci anni, è “vivacissima, irrequieta, batte le mani, gesticola, pronuncia parole senza senso o cerca di ripetere pappagallescamente parole che ode da altri. Canticchia notte e giorno, corre per le stanze. Masturbatrice e epilettica”. La piccola muore poco tempo dopo il ricovero per tubercolosi polmonare. Adrianina, invece, è “docile”, ma “rifiuta lo studio”. Viene marchiata come “oligofrenica”. Carlo, ha cinque anni e non ha un padre, è “molto discolo, indisciplinato, con grossolane anormalità del carattere e della condotta”, per lui la diagnosi è di “ritardo mentale con difficoltà psico-motoria e disadattamento mentale”; il piccolo è da internare per mancanza di disciplina. Antonio ha otto anni, pesa 26 Kg ed è alto 126 cm. La madre sembra sana, il padre e il nonno sono alcolisti, a condannare il bambino è il fatto di essere enuretico. Il piccolo viene internato per “infantilismo emotivo e interessi prevalentemente ludici”. Onofria è più grande, ha tredici anni quando viene catturata da Villa Azzurra. È rachitica, malnutrita, presenta scoliosi dorsale, una pessima dentatura e ipotrofismo muscolare, la bambina presenta le stesse caratteristiche dei sei fratelli, ma viene internata da sola all’interno della struttura. Villa Azzurra, chiamata così per il colore delle piastrelle dei bagni, è il luogo dove i bambini anormali venivano rinchiusi. L’imponente struttura si trova al confine tra Grugliasco e Collegno, in fondo a via Lombroso; all’ingresso la scritta “Sezione medico-pedagogica” ammutolisce chiunque la guardi. C’erano anche bambini di pochi mesi che finivano al manicomio dei piccoli, provenienti da famiglie molto povere o poverissime, questo era il posto degli orfani, dei disabili in carrozzina o con handicap fisici e mentali, qui finivano i ciechi, gli ipovedenti, gli epilettici, i disturbati, nessuno dei quali veniva sostanzialmente curato. Negli anni Sessanta i pazienti di Villa Azzurra erano duecento, divisi in solo due reparti, A per i meno gravi e B per i gravissimi e irrecuperabili. Qui c’erano gli “ineducabili”, quelli con cui non era necessario perdere tempo, le infermiere si limitavano a legarli ai letti o ai termosifoni, quando c’era bel tempo li legavano fuori, ai cancelli, agli alberi, alle inferriate, alle panchine o dovunque ci fosse un appiglio per immobilizzarli. Non si rimaneva per sempre a Villa Azzurra, una volta compiuti i quattordici anni potevano succedere due cose, o i ragazzi facevano ritorno alle famiglie o venivano trasportati in altri istituti, affidati al centro di addestramento professionale Lombroso o all’istituto penale minorile Ferrante Aporti; altrimenti il destino avrebbe potuto condurre quei piccoli alienati al reparto 10 di Collegno, dove li aspettava solo l’annientamento totale dell’individuo.C’è una data simbolica per tutto, quella che segna ufficialmente gli orrori di Villa Azzurra, ed è il 1964, quando il dottor Giorgio Coda viene nominato responsabile della struttura. L’uomo è soprannominato dai suoi pazienti “L’elettricista”, incute timore, spavento, è fedele al principio per cui “il bambino ama solo chi rispetta”, impartisce lezioni attraverso l’uso smodato degli elettroshock, soprattutto nei confronti di quelli che si fanno la pipì addosso durante la notte. Il metodo che usa per risolvere il problema della masturbazione è il “massaggio lombo-pubico”, una delle varianti dell’elettroshock a basso voltaggio con una scossa prolungata, tale da non far perdere conoscenza al piccolo paziente, ma da provocargli dei dolori insopportabili per 20-30 secondi. Il dottore organizza anche degli incontri di box fra ragazzi, perché sostiene siano utili per incanalare e scaricare l’aggressività, i round durano tre minuti, durante i quali i fanciulli possono imparare la dura legge della sopravvivenza: vincere o essere sconfitti. Giorgio Coda nasce a Torino il 21 gennaio 1924, nel 1944 si arruola nell’esercito di Salò, lo appassiona la retorica del fatalismo e lo sprezzo del pericolo, ideali a cui non sono estranei né l’educazione familiare, né quella scuola di regime. Nel 1948 si laurea in medicina con una tesi in antropologia criminale, a fine anno entra a Collegno nel reparto del professor Guido Treves, uno dei padri dell’elettroshock in Italia. A trentanove anni, Coda ottiene la libera docenza in psichiatria presso l’Università di Torino, nel 1964 viene promosso vicedirettore di Villa Azzurra. Diventa consulente del Provveditorato agli studi e giudice onorario del Tribunale per i minorenni. Giorgio, molto stimato negli ambienti accademici e nella buona società torinese, viene descritto come medico garbato, spiritoso, di modi salottieri. Pare non risultare a nessuno che egli utilizzi gli elettroshock per curare i suoi pazienti. Il 14 dicembre 1970 il giudice istruttore del Tribunale di Torino riceve un esposto dell’ALMM (Associazione Lotta contro le Malattie Mentali): è il primo atto di accusa contro Giorgio Coda. Si tratta di due pagine di denuncia, alle quali sono allegati sei foglietti di testimonianze, raccolti dalla Commissione di tutela dei diritti dei ricoverati che alcuni mesi prima operava all’interno del manicomio di Collegno. Giorgio Coda è accusato di aver commesso violenze nel periodo in cui prestava servizio a Collegno e poi a Villa Azzurra, si sostiene che utilizzasse gli elettroshock transcranici e lombo-pubici a scopo punitivo e sadico, e non per fini terapeutici.  Il 12 luglio 1974 viene riconosciuto colpevole dal Tribunale di Torino, condannato per maltrattamenti a cinque anni di prigione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione per cinque anni dalla professione medica. Durante il processo per la prima volta i malati di mente non solo hanno la parola, ma sono ascoltati e presi in considerazione. Coda riesce a farla franca, grazie ad un cavillo giuridico che porta all’annullamento della sentenza di primo grado con la possibilità di avvalersi della prescrizione. Viene amnistiato per i fatti di Villa Azzurra. Il suo rimane l’unico caso in Italia di uno psichiatra incriminato e condannato per maltrattamento dei malati di mente di Collegno. Il 2 dicembre 1977, un “commando” di Prima Linea irrompe nello studio di Coda, di via Goffredo Casalis, lo incatena al termosifone e lo “giustizia” con tre colpi di pistola alle spalle e alle gambe, che gli recidono un’arteria e gli frantumano un ginocchio. Al collo gli viene appeso un cartello su cui è scritto: “il proletariato non perdona i propri torturatori”. Coda però non muore, non viene radiato dall’Ordine e conclude la sua carriera come medico di famiglia a Rivoli. Certi crimini non spetta agli uomini giudicarli.

Alessia Cagnotto

 

La follia che “cura” la pazzia

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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5. La follia che “cura” la pazzia
I primi metodi utilizzati agli albori della nascita dei manicomi parevano una sorta di commistione tra riti magici e primordiali e sadiche torture. Ai malati venivano fatti indossare corsetti di ferro anche senza rivestimenti in cuoio, strette camicie e cinture di forza, i più gravi e violenti venivano incatenati a forza ai letti disposti sia in orizzontale che in verticale, e lasciati lì per giorni. Era utilizzato anche il metodo dell’urticazione, ottenuta percuotendo il malato con rami d’ortica, mentre per i più agitati erano prescritte trasfusioni di sangue di agnello, “per rendere più miti i furiosi”. A scusare – se mai possibile – i barbari metodi cinquecenteschi c’è la quasi assoluta mancanza di conoscenza della materia e l’inconfutabile incapacità di trovare una soluzione ad un problema che nemmeno si capiva; al contrario, trovare parole che spieghino i metodi altrettanto violenti utilizzati in tempi non così lontani da noi, pare più complicato se non arduo. In tutte le strutture destinate ad ospitare l’enorme massa di alienati che andava via via aumentando nel tempo, il sistema più utilizzato per tenere sotto controllo i degenti marchiati come incurabili era quello di immobilizzarli al letto, per contenerne la pericolosità. La contenzione prevedeva l’uso di stringhe, polsini e cavigliere, oppure la nota camicia di forza, che impediva qualsiasi movimento. Non sempre però tale metodo portava a raggiungere i risultati sperati, così si passava all’idroterapia, che consisteva nell’immergere il paziente in una vasca di acqua bollente o ghiacciata, per farlo rilassare: il trattamento durava poche ore o tutta la notte. Le immersioni potevano essere indotte “a sorpresa”, oppure sostituite con forti getti di acqua gelata mirati alla testa. Altro sistema era quello delle “fangature elettriche”, che prevedeva l’utilizzo di fango spalmato sulla pelle del malato, e, sopra, veniva posta una placca di metallo che trasmetteva corrente. Il fango permetteva una migliore distribuzione della corrente nel corpo, con ottimi effetti sedativi. La “diatermia”, invece, si basava sull’elevare la temperatura del corpo mediante il passaggio di correnti ad alta frequenza. Questa tipologia di cura era molto complessa, i medici raccomandavano agli inservienti di “essere provvisti di sacchetti di sabbia di vario peso e dimensioni da mettere sulla testa, sul collo, sull’addome, sugli arti dei malati per evitare movimenti”. Tecniche innovative erano poi la “malariaterapia”, che consisteva nell’inoculazione del parassita della malaria per procurare altissime febbri, o l’”insulinoterapia”, grazie alla quale si riusciva a far arrivare il paziente ad un passo dal coma, per poterlo poi improvvisamente risvegliare: più il momento del risveglio era brusco e violento, più il trattamento sarebbe stato ritenuto positivo. Quest’ultimo procedimento era consigliato soprattutto per gli affetti da schizofrenia; anche il figlio “segreto” di Mussolini e Ida Dalser, Albino Mussolini, fu sottoposto a tali cure, quando venne rinchiuso nel manicomio di Mombello, dove morì di consunzione. La stessa Ida subì le medesime pratiche, quando impazzì e venne internata in diverse strutture. Negli anni Trenta si introdusse una nuova terapia, lo “shock cardiazolitico”, precursore dell’elettroshock, che prevedeva l’iniezione endovenosa di una soluzione di Cardiazol per provocare forti crisi convulsive epilettiche nel paziente. Benchè risultasse la più potente tra le cure di shock, tale criterio non si diffuse e smise di essere utilizzato, poiché i costi erano troppo alti e in più risultava difficoltoso “azzeccare” la giusta dose di farmaco da somministrare. Con gli anni Cinquanta il boom degli psicofarmaci, che causavano amnesia e disorientamento nei pazienti, le cinghie di contenzione vengono allentate, le cicatrici e i lividi si spostano dall’epidermide alla mente. “Che cosa bella è l’uomo, quando è uomo”, diceva il commediografo greco Menandro, il problema è quando non lo è.  E’ stato un “uomo” ad inventare il metodo che, in modo tristemente stereotipato, colleghiamo agli ospedali psichiatrici: l’elettroshock.  La terapia elettroconvulsiva viene scoperta in pieno regime fascista, (sono anni in cui il numero dei ricoverati nei manicomi cresce in maniera esponenziale), dal neurologo e psichiatra Ugo Cerletti, che la mette a punto nel 1938, con l’aiuto di un altro collega, Lucio Bini. La terapia riscuote grande successo e viene largamente utilizzata, lo stesso Ugo Cerletti definisce il suo metodo “il più semplice, il più pulito, il più innocuo”, non stupisce che fosse anche quello più economico. L’”illuminazione” arriva a Cerletti quando visita il mattatoio di Roma e assiste all’uccisione degli animali. I maiali venivano prima storditi tramite l’utilizzo di un circuito che applicava una scarica elettrica direttamente al cranio, quando la bestia era presa da una vera e propria crisi epilettica, veniva sgozzata. La “terapia della morte” nasceva dalla concezione arcaica di stampo medievale secondo cui un demone si insinuava nella mente del malato, e l’unico modo per scacciarlo e guarire la vittima, era quello di uccidere il corpo della vittima stessa, poiché i demoni infestano solo la carne dei vivi. L’elettroshock non uccideva i pazienti, come si era potuto evincere dai primi esperimenti del 1938, eseguiti su un trentanovenne vagabondo fermato a Roma in stato confusionale, ma portava allo stato di coma il paziente, che poi veniva bruscamente rianimato. La morte apparente avrebbe ingannato il demone-malattia, e guarito il paziente malato-posseduto. L’oggetto più temuto dai detenuti costava pochissimo, 4.600 Lire, occupava poco spazio e sembrava un “nécessaire da viaggio”. Le sedute di elettroshock venivano annunciate da squilli di tromba da capotreno suonate da un infermiere. A Collegno, una delle tante vittime dell’elettroshock racconta la propria esperienza: ricorda che lo avevano fatto entrare in una cella chiusa senza spiegargli che cosa sarebbe successo. Gli dissero di mettersi sdraiato sul lettino e le infermiere gli posero una gomma in bocca e delle cuffie sulle tempie, e quando arrivò il medico diedero corrente. “Non potete immaginare quanto male possa fare”, spiega la vittima, precisando che il dottor Giorgio Coda, prima di farlo andare via, lo aveva bloccato per ripetere l’operazione nella zona genitale, “Per me fu la fine di tutto”, spiega il paziente, “ e il male che sentivo non potrò mai più dimenticarlo”.Nel 2013 L’elettroshock veniva praticato in novantuno presidi sanitari su 1400 pazienti, secondo i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario italiano. Un obbrobrio che si commenta da sé.
 
Alessia Cagnotto
 

La pazzia è donna

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarciagola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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4. La pazzia è donna
Quando venne internata, Ida aveva quarantatré anni, pesava cento chili e appariva “esaltata, gaia, logorroica”. Il medico scrisse nella diagnosi che la donna soffriva di “psicosi periodica”, (esaltazione maniaca), così Ida venne in seguito trasferita a Collegno, e lì rimase fino a quando morì di cancro il 1 ottobre 1922. Attraverso la lettura della sua cartella clinica sappiamo che la fanciulla aveva smesso di studiare dopo le classi elementari, quando iniziò a recitare. Giovanissima si innamorò follemente di un ragazzo, Emilio, che sposò e con cui ebbe quattro figli. I due erano soliti tirare di scherma insieme, e insieme facevano lunghissime passeggiate sulle rive del Po, fino a quando Emilio divenne alcolista e talvolta violento; lo stato del compagno influì sulla donna, che iniziò a bere a sua volta e ad avere atteggiamenti pericolosi per sé e per gli altri. La felicità abbandonò i due innamorati attraverso le tristi parole del medico di famiglia che propose il ricovero come unica soluzione. Emilio, che faceva lo scrittore, inviò una lettera all’editore, a cui domandò credito per coprire le spese per assistere la compagna, in cambio gli avrebbe mandato cento cartelle al più presto. Bemporad, l’editore, tre giorni dopo inviò la somma di denaro richiesta, ma la risposta non fu sufficientemente celere: Emilio si tolse la vita il 25 aprile 1911, tagliandosi il ventre con un rasoio sulle colline torinesi, sopraffatto dalla vita che con lui era stata troppo crudele. Emilio Salgari, questo il nome completo dell’infelice, si suicidò sguainando la propria arma affilata così come il Conte di Ventimiglia era solito sfoderare la spada; egli amò fino alla morte la sua sposa, Aida Peruzzi, che lo contraccambiò fino alla pazzia. La storia di Ida è solo una fra le innumerevoli vicende femminili che trovarono la fine tra le vuote stanze dei manicomi.  Quello di via Giulio divenne il “Manicomio Femminile di Città”, quando gli uomini furono spostati a Collegno, a metà dell’Ottocento. Non solo, era la minaccia più temuta e ricorrente per le figlie capricciose e svogliate, rimproverate e minacciate al grido di “Finirai in via Giulio!”.  Le pazienti erano nascoste agli occhi del mondo da alte mura e altrettanto imponenti pini sempreverdi, vivevano una realtà parallela, immobile come la loro condizione, mentre il mondo vero le sfiorava con i suoni lontani dei clacson, i rombi delle automobili, il rintocco delle campane e il vocio del quartiere. Le donne di via Giulio origliavano la vita che sfuggiva loro, ferme, sotto l’ombra dei grandi pini, sempre uguali, come loro. Le pazienti più tranquille erano occupate come lavandaie o come sarte per piccoli lavori di taglio e cucito che servivano alla produzione di coperte, uniformi, grembiuli, camici, tovaglie, o fodere; quelle più agitate, invece, erano costrette a letto, legate con fettucce e cinghie. Molte indossavano delle camicie di forza, quelle stesse che Edmondo De Amicis aveva visto presso il manicomio di Collegno e che gli erano sembrate delle vesti infantili ed ingenue, ma quando il celebre scrittore chiese all’inserviente che tipo di abiti fossero, la risposta lo raggelò: “è la camicia di forza, in riposo per adesso”. Le donne di via Giulio erano casalinghe, contadine, operaie, prostitute, disoccupate, vedove, domestiche, o venditrici ambulanti, erano povere per la maggior parte, poiché le ragazze di buona famiglia venivano inserite all’interno di cliniche private e in genere seriamente curate dagli stessi medici che poco si adoperavano per le pazienti meno abbienti e più sfortunate. Alcune donne riuscivano a uscire, ma fuori le aspettava una vita ancora più difficile, se possibile: l’onta del manicomio era ancora peggiore rispetto a quella del carcere e spesso chi veniva rilasciato non poteva ricominciare. Nei primi del Novecento molte delle ricoverate in via Giulio trovavano lavoro come sartine. Fino alla Seconda Guerra Mondiale, a Torino si era sviluppata un’intensa attività di sartoria, seconda solo a Parigi. Il bisogno di manodopera aumentava in primavera e in autunno, e le ragazze che venivano stagionalmente reclutate erano le stesse che poi venivano rimandate indietro quando non c’era più bisogno di loro; talvolta accadeva che non venissero più contattate, esse precipitavano così in una profonda depressione, che le conduceva dritte, dritte a cucire nelle stanze di via Giulio.
Le donne degenti erano giovani, vecchie, inquiete, taciturne, c’era chi rideva sempre e chi era incline alle lacrime, ma tutte insieme erano state in grado di dare vita ad una sorta di comunità composita, con un ordine preciso e delle regole da rispettare. La vita all’interno delle mura scorreva lenta, scandita dalla ripetizione degli stessi gesti, iniziava con la sveglia alle sette, continuava con il pranzo alle undici e trenta e finiva temporaneamente con la cena alle sei e trenta, per poi riprendere identica il giorno successivo. Tra le forzate ospiti c’era Margherita, sarta e contadina, entrata in manicomio all’età di vent’anni, poiché aveva iniziato a sostenere che tutta la famiglia le faceva dei dispetti; Rosa, a ventidue anni era stata ingannata da una mezzana e poi ingravidata da un farmacista, venne internata mentre stava cercando di abortire in ogni modo; Teresa, si era sposata con un uomo che amava fare baldoria, perse la ragione quando iniziò a ribellarsi al consorte; c’era anche la figlia di uno scialacquatore e di un’isterica, che si sposò a diciassette anni, partorì due volte ed ebbe un aborto, nessuno sa perché iniziò a stare male e la ricoverarono in manicomio. Queste erano le degenti di via Giulio, malate più di sfortuna e solitudine, che di qualche malattia specifica. Ancorate a quella struttura che perlomeno permetteva loro un briciolo di compagnia, c’è chi dice che in realtà non riescano tutt’oggi ad andarsene.  Il manicomio di via Giulio chiuse nel 1973, venne utilizzato nel 1979 dal Movimento delle Donne di Torino come luogo in cui riunirsi, a partire dagli anni ’80 diventò sede dell’Anagrafe centrale di Torino.  Ed è qui che la storia si fa davvero spettrale, infatti alcuni impiegati raccontano di strane presenze, porte che si chiudono da sole, un senso diffuso di inquietudine e auree di freddo che aleggiano a caso per i corridoi. Venne chiamato a verificare la situazione Gianni Cerruti, il quale, con alcuni dipendenti e appositi strumenti per rilevare onde elettromagnetiche, ispezionò la struttura con attenzione, i risultati che ottenne confermarono le testimonianze dei dipendenti: le anime buone e innocue delle pazienti erano ancora lì. Immobili e immutate, come i pini sempreverdi.
Alessia Cagnotto
 

Il manicomio più grande di tutti

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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2. Il manicomio più grande di tutti
La nascita della Certosa Reale a Collegno è strettamente legata alle vicende politiche del Ducato di Savoia nel XVIII secolo. Fu Maria Cristina di Francia a fondare il monastero certosino, basato sul modello architettonico della Grande Chartreuse di Grenoble, portando così a compimento le volontà del suocero e del defunto marito. Come sede del monastero fu scelto Palazzo Data, un complesso di edifici al di fuori del perimetro murario medievale collegnese. Il Palazzo era stato fatto costruire da Bernardino Data, il quale, nel 1628, venne prima accusato di peculato e di gravi abusi amministrativi e in seguito condannato a morte, poi, grazie ad amicizie altolocate, la pena si tramutò in esilio perpetuo, mentre i suoi beni venivano incamerati dall’erario ducale. Madama Reale, reggente del Ducato, volle tenere fede alla volontà dei Duchi di Savoia e diede così inizio alla fondazione della Certosa, acquistando anche i fondi contigui. La Duchessa permise ai monaci certosini di installarsi stabilmente a Collegno, in un’ampia area, attorno alla quale vennero erette alte mura che non solo assicuravano ai monaci una totale clausura, ma delimitavano le proprietà contigue al monastero e impedivano la vista dei fabbricanti ai collegnesi. Il 31 marzo 1641 fu sancita la nascita formale del complesso certosino e successivamente, nel 1737, Carlo Emanuele III donò alla Certosa il grandioso portale d’accesso, progettato da Filippo Juvarra, sul quale ancora troneggiano le statue della Fede e della Carità. Negli anni seguenti i monaci non ebbero vita facile, dapprima costretti a lasciare temporaneamente il complesso, a causa del decreto napoleonico di soppressione dei monasteri, vennero poi del tutto allontanati nel XIX secolo, con l’insediamento del nuovo manicomio, fatto che comportò anche il completo riadattamento dello stabile alle nuove necessità ospedaliere. Quando, molto tempo dopo, l’ospedale psichiatrico venne definitivamente chiuso, la struttura passò sotto la proprietà del Comune. Il 25 aprile 1985 venne inaugurato il parco pubblico intitolato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’interno del quale hanno avuto la possibilità di nascere, e tutt’oggi persistono, associazioni di vario genere, che piano piano si sono insediate all’interno dei vecchi e spogli padiglioni. Nell’ex reparto 21, quello riservato ai “pazzi criminali”, risiede illegalmente dal 2006 un gruppo di anarchici che ha denominato la propria sede “Mezcal Squat”, uno spazio libero e aperto ad iniziative culturali, politiche e ludiche. Ad una vicenda tanto remota quanto complessa ha corrisposto una realtà altrettanto difficile, articolata ed oscura. Nel manicomio di Collegno successero tante cose, moltissime persone vagarono per quei lunghi corridoi spaventosamente alienanti, ciascuno con le proprie vicissitudini, le proprie manie e con la propria incapacità di chiedere aiuto. Con l’aumento critico dei pazienti, che ogni giorno minacciava la sicurezza dei reparti e la possibilità dell’insorgere di una qualche epidemia, la creazione di una sede decentrata e fuori città era diventata una necessità. La Certosa di Collegno si presentò come la scelta migliore, una struttura enorme, protetta e isolata, distante solo dieci chilometri da Torino, ideale per risolvere sia il problema degli spostamenti che quello dell’isolamento, inoltre, essendo una struttura di campagna, presentava costi decisamente minori rispetto ad una sede cittadina. Era stato sottolineato che anche dal punto di vista architettonico e paesaggistico la Certosa possedeva le caratteristiche perfette per ospitare i malati, i quali si sarebbero sentiti meglio già solo passeggiando tra gli ombrosi alberi dell’immenso cortile. L’antica struttura dedicata alla preghiera era perfetta sotto ogni punto di vista per diventare il più grande manicomio d’Italia. L’attività dell’ospedale psichiatrico si avvia formalmente l’8 settembre 1852, con lo spostamento  di ottanta malati di mente dal manicomio di via Giulio a quello di Collegno, e avrà fine solo il 4 giugno 1998. La vita all’interno del manicomio era una lunga, disarmante e monotona attesa di qualcosa, c’era chi aspettava di guarire, chi di morire, chi attendeva una lettera di risposta e chi una visita, c’erano quelli che aspettavano un premio o un compenso e quelli che attendevano il momento giusto per la rivoluzione. I pazienti più tranquilli potevano lavorare seguendo l’insegnamento dell’ergoterapia, si occupavano dell’orto, del bestiame nelle stalle, ma anche dei forni per la produzione del pane e della pasta, c’erano, poi, quelli addetti alla lavanderia e alla manutenzione dei fabbricati, dei mobili, dei caloriferi, della disinfezione e ripulitura dei locali, c’erano muratori e cementisti, decoratori, fabbri ferrai e meccanici, c’era anche chi si occupava dei trasporti e chi gestiva una piccola tipografia e un laboratorio di orologeria, e tra tutti non c’era nessuno che venisse pagato. Fino agli anni venti del Novecento la retribuzione avveniva sotto forma di regalo, i pazienti ricevevano del vino o delle sigarette, del formaggio, della frutta o del caffè.  Ad alcuni venivano dati dei soldi, pochissimi spiccioli, ma c’era chi se li bruciava subito, come Renato, che lavorava in serra ed era efficientissimo, ma appena riceveva la mancia lui la incendiava, i regali mangerecci, invece, li seppelliva, perché temeva che qualcuno lo volesse avvelenare. C’era anche chi si lamentava delle 75 lire al giorno, con le quali, dopo dieci giorni, non si potevano nemmeno comprare le sigarette Alfa, ma erano sussurri e borbottii, perché, per chi alzava la voce, scattavano le botte o l’elettroshock. A Collegno vi erano anche degli artisti, come Francesco Toris, impazzito per il troppo stress derivatogli dall’aver messo incinta una donna più abbiente di lui. Toris divenne molto abile nell’intarsio delle ossa di bovino provenienti dalle cucine, scolpiva volti e piccoli idoli antropomorfi, che poi inseriva perfettamente nelle colossali sculture sostenute dall’audace gioco di incastro dei singoli pezzi. E poi Giuseppe Versino, addetto alle pulizie, che sfilacciava gli stracci e realizzava vestiti, borse e accessori vari, per poi indossarli con fierezza. Mario Bertola era un abile tipografo e creò “Il Mondo in rivista”, un libretto di settantasei tavole, chiamate “allegorie”. Ogni tavola era costituita da otto disegni, eseguiti con china e pastelli a cera e accompagnati da didascalie. C’era ancora Agostino G. Miletti, ricoverato a Collegno con la diagnosi di “demenza paranoide”, si credeva una volta multimilionario, un’altra volta genero del sindaco di Milano, un’altra ancora ricostruttore della Basilica di Superga; disegnava progetti per dar vita a oggetti assai complessi, come un orologio che si caricava ogni 278 anni, o come un ponte di vetro che potesse collegare L’Europa con l’America, e inventò, tra le altre stranezze, due alfabeti, i cui caratteri erano formati da chiodi e bicchieri. Tra i creativi c’era anche chi preferiva recitare, infatti, fino al 1932, fu attiva una Compagnia filodrammatica di ricoverati che si esibiva sul palco del teatrino da trecento posti, ma gli attori vennero silenziati dall’eccessivamente alto volume della radio e della TV, strumenti che entrarono nel manicomio già gridando e senza poter essere mai spenti. Il genio e la creatività non riguardano solo l’arte, ma anche le scienze, come nel caso di Luigi Marinotti. Egli era di povera famiglia, e fu costretto a terminare gli studi in quarta elementare per poi improvvisarsi in ogni genere di lavoro; impazzì quando incontrò l’amore: cercò di trovare i soldi con il rapire una bambina di Genova e chiedendone il riscatto, il suo piano andò in fumo quando accusarono un altro uomo del rapimento e lui andò a protestare in questura, presentandosi come vero colpevole. Da questo momento Luigi iniziò a frequentare carceri e manicomi, e trascorse tutta la vita in un perenne “dentro” e “fuori”, al punto da trovarsi a suo agio più “dentro” che “fuori”. Durante i periodi di detenzione egli si dedicò a scrivere brillanti teorie sulla fisica e sulla matematica, scrisse una lettera a Benedetto Croce, che gli dedicò l’ultima appendice del “Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia” dandogli il titolo di “un indagatore del mistero dell’universo”. Ne scrisse un’altra a Einstein, al quale chiese: “Dica Lei, Einstein, che vuol spiegare il mondo con le matematiche, qual è il primo numero e qual è l’ultimo? Se non lo sa dire, che cosa pretende di spiegare?” (quest’ultima, forse, non venne spedita). Tra tutto questo pensare, c’era anche chi iniziò ad illudersi. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1912, nel reparto 21, quello dei “pazzi criminali”, il bandito Rivoltella e il “famigerato martellatore di Nizza”, Demorizzi, capeggiarono una rivolta. Con un inganno, alcuni inservienti vennero catturati e presi come ostaggi e subito si perse il controllo della situazione, intervennero pompieri, carabinieri e giornalisti, il direttore sanitario del manicomio, il Prof. Antonio Marro, salì sul tetto per dialogare con i rivoltosi. Il Prof. Marro rimase in attesa finché uno tra i più assennati tra i ricoverati non espose le ragioni della sommossa: essi volevano minore clausura e più aria e cielo, le condizioni in cui vivevano erano peggiori di quelle delle bestie nelle stalle, dormivano su letti di cemento, abbandonati a loro stessi, chiedevano “perché non venite più spesso a vedere da vicino le nostre miserie?”. Sedata la rivolta, non venne preso nessun provvedimento. La vita all’interno di Collegno era poi tanto diversa da quella del mondo fuori? Chi ha potere si impone sui più bisognosi, chi non sa rispondere a semplici domande alza la voce e le mani, chi si rivolta per un disagio viene ingannato e poi messo a tacere, di questo i matti se ne sono accorti, per ciò li abbiamo rinchiusi là dentro.
Alessia Cagnotto
 

Tocca Ferro!

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

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9 Tocca Ferro!

Vi è mai capitato di essere sicuri di aver messo un oggetto in un certo posto e poi di non trovarlo più dove lo avevate lasciato? È perché “a j sun le masche”. E quando la macchina è in panne e vi lascia a piedi? Non si tratta di un guasto meccanico, né di sfortuna, è di nuovo colpa loro, delle mascheQueste donne indisponenti non si fanno notare tra la folla, ma ciò non vuol dire che non intervengano nella vita degli altri: fastidi, dispetti, disturbi, giusto qualche piccola modifica al corso comune degli eventi in modo da poter sogghignare, non viste, dietro qualche albero, o sottoforma di un gatto nero con enormi occhi gialli.  Quando si è di fretta e salta un bottone alla camicia, quando non si trova il portafoglio, quando ci si innervosisce di colpo, è perché ci sono le masche, magari non le abbiamo riconosciute, ma sono lì, non viste. Se siamo distratti, anche gli altri possono mostrarcele, per esempio quando sappiamo di dover affrontare situazioni di grande stress o ci ritroviamo di fronte a problematiche insormontabili, qualcuno ci ha fatto vedere le masche; e se per guardarci da qualche individuo furbo e doppiogiochista l’espressione che possiamo utilizzare è furb par d’na masca. Ma come ci si può proteggere da tali malefiche creature? Basta arroventare le catene della stalla e batterle una contro l’altra, la strega si infastidirà e volerà via indispettita, oppure si può circondare la casa con un filo di canapa tessuto da una fanciulla vergine, la serva del Maligno non riuscirà ad avvicinarsi in nessun modo alla dimora. Se vogliamo allontanare diavoli e spiritelli malefici, invece, sarà necessario disporre dei ramoscelli a forma di croce e posizionarli davanti alla porta d’ingresso.  Nel caso la masca vi avesse già adocchiato, potete distrarla mettendo al collo un sacchettino contenente del sale fino, la donna si metterà a contare i granelli e voi potrete sfuggire alla sua persecuzione. Nel caso il “gioiello” non rientri nel vostro look quotidiano, potete mettere delle pietre bianche sul tetto, e la strega volerà sopra altre teste. Potreste trovarvi nella situazione di dovervi disfare di una fattura, allora sarebbe il caso di cercare la vecchia del paese, o almeno del quartiere, e chiederle di pronunciare le giuste formule, e a voi il compito di far bollire per sette volte delle foglie di malva.
Nel caso la maledizione fosse più specifica e la masca avesse voluto gettare il malocchio sul burro, allora mentre cucinate il cibo in questione aggiungete un briciolo di sale, e fate attenzione che non sia né venerdì, né sabato, giorni in cui si tengono i Sabba e diventa difficile contrastare i poteri malefici di masche e satanassi. Tuttavia, la vostra persecutrice, non contenta del fatto di non essere riuscita ad intaccare il burro, potrebbe decidere di avvelenare l’acqua: in questo caso dovreste mettere nell’acqua tre foglie di ulivo pasquale e spruzzare qualche goccia di acqua santa.
Va da sé che nessuno crede più a certe cose, ma è comunque consigliabile non andare vestiti di viola a teatro, gli attori non lo apprezzerebbero. Per sapere se qualcuno ricambia i nostri sentimenti, possiamo sfruttare facebook per spiare i movimenti della persona dei nostri sogni, ma per ulteriore sicurezza si potrebbe prendere una margherita e staccarne i petali canticchiando “m’ama, non m’ama” ad ogni piccolo strappo. Per informazioni più approfondite si potrebbe ricorrere alla crommiomanzia: si intaglia il nome della persona amata su una cipolla, la si interra in un posto umido e, se germoglia, l’amore sarà ricambiato; tuttavia, a seconda della durata del procedimento di fioritura, il sentimento potrà durare in eterno oppure potrà rivelarsi una breve infatuazione. Se cercate lavoro e nessuno ha mai risposto ai numerosissimi curricula che avete inviato, è, forse, perché prima non avete pensato di ricorrere all’ovomanzia. Di sicuro non è vero, ma quando qualcuno passa la scopa, alzate sempre i piedi, altrimenti non vi sposerete più. Quando andate a fare la spesa, non mancate mai di comprare del pane, essenziale per fare la scarpetta nel piatto, ma anche per allontanare gli spiriti malvagi. Questo cibo è da sempre simbolo di vita e, per forza di cose, anche collegato alla morte: è un amuleto contro le disgrazie e gli spiriti, anche di notte deve essercene un pezzetto in giro per la casa, in modo da proteggere chi ci abita e nel caso ci fosse qualche vicino che necessiti di una estrema unzione. Sappiate, inoltre, che il pane non si butta, e che, in tavola, non va mai messo al rovescio, in quanto emblema di Gesù è come se metteste Lui sottosopra. La superstizione che ci fa sorridere nel quotidiano la ritroviamo anche nel mondo dello sport: per esempio nella Formula 1, il numero 13 non viene mai assegnato a nessuna postazione, molti piloti tengono con loro amuleti e porta fortuna, come Niki Lauda, che teneva nel guanto una monetina scaccia-iella. Nel calcio, invece, pensiamo alla leggendaria ala destra del Brasile di Pelè, Manuel Dos Santos, detto il Garrincha, che era solito mettere amuleti e feticci dietro la porta degli avversari, in modo che attirassero il pallone dentro la rete. Del resto, e sottolineiamo che nessuno lo fa perché ci crede, ma a Capodanno chi non indossa l’intimo rosso? Tale usanza affonda le radici nella lontana Cina, dove questo colore veniva utilizzato per tenere lontano lo spirito Niàn, che divorava gli uomini a centinaia; oggi nessuno oserebbe combattere un demone così temibile, ma ci si accontenta di tenere lontano il malocchio, di prevenire le disgrazie e di augurarci che l’anno nuovo possa portare buoni frutti e tanta, tanta fortuna. Rosso è sempre il “cornicello”, il cornetto tipico di Napoli, ma che ormai è diffuso in tutto il mondo. Si tratta di uno dei talismani più antichi ancora in circolazione; esso rappresenta un corno, simbolo collegato alla fortuna e alla fecondità, già i soldati romani erano soliti legarsene uno agli abiti quando andavano in battaglia. L’oggetto deve essere ” tuosto, stuorto e cu’ a punta“, (“rigido, storto, con la punta”), allontana le maldicenze e protegge dal malocchio, importantissimo per le donne incinte, le aiuta nella gravidanza e protegge il nascituro dalle malelingue. Certo è che bisogna essere proprio audaci per affrontare tutti i giorni maledizioni, invidie, masche e spiriti maligni, in aggiunta il traffico che ci fa arrivare tardi a lavoro, il colpo d’aria che ci fa ammalare proprio il giorno del colloquio più importante per l’avanzamento di carriera, il tacco del paio di scarpe preferite che si rompe, il cellulare che fa l’aggiornamento proprio mentre il navigatore ci deve dire se svoltare a destra o a sinistra… e allora viene proprio spontaneo gridare un “tocca ferro!

Alessia Cagnotto

 

Masche e Metamorfosi

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

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7  Masche e Metamorfosi

Al ritorno dai campi, due amici di Frave (vicino a Carrù, in provincia di Cuneo), videro delle masche.
“Guarda, ci sono tre pecore!”
“Ma che dici? Qui non c’è nulla”
“Come fai a non vederle? Sono qui, davanti a me”
“Dai, vieni via, qui non c’è nulla”
“Non posso, le pecore non mi fanno muovere”
L’amico che non vedeva nulla si spaventò, si caricò in spalle il compagno immobilizzato e corse veloce, lontano da quelle masche che chissà cosa volevano.


Uno dei poteri delle streghe, e anche delle masche, è quello di potersi tramutare in bestie, le quali ultime assumono una presenza ricorrente e di primo rilievo nelle storie e nelle leggende riguardanti la stregoneria e la magia. In genere gli animali sono gli aiutanti delle serve del Diavolo, giudicati immondi e di indole malvagia, come le loro padrone. Si tratta degli “animali collaboratori”, come il gatto o piuttosto il caprone, usato, quest’ultimo, come cavalcatura per arrivare al luogo del Sabba, ma possono anche essere civette, barbagianni o gufi. Compaiono, poi, gli “animali ingredienti”, utilizzati come prodotti magici da inserire nei calderoni per pozioni e balsami, tra cui i pipistrelli, i rospi o i serpenti. Tra tutti, certamente, il gatto è eletto a fedele compagno delle streghe, anche lui costretto ad un destino di persecuzioni, soprattutto se di colore nero. Questo felino è stato assunto ad emblema del male per moltissimo tempo, tanto che in Francia era usanza rinchiudere un gatto vivo nelle mura delle chiese, a testimonianza simbolica di Dio che blocca, con il peso della sacra struttura, Satana e i suoi poteri malvagi; o ancora, in tutta l’Europa medievale, era prassi seppellire un gatto vivo agli incroci delle strade, o ucciderne uno a sprangate dopo la mietitura: in questo modo si sarebbe eliminato lo spirito (malevolo?) del grano. Gli animali erano centrali anche durante i rituali dei Sabba: i caproni trasportavano sui loro dorsi irti le diaboliche donne, Satana stesso prendeva le sembianze di un capro, si metteva al centro del ballo forsennato e aspettava che le sue adepte gli baciassero le natiche, in segno di eterna devozione; durante la funzione demoniaca venivano battezzate bestie immonde di ogni genere, soprattutto rane e rospi. Al collo e alle zampe di questi ultimi, vestiti di velluto rosso e nero, veniva legato un campanello; una volta battezzati erano donati alle streghe più meritevoli e alle neofite. La superstizione era molto attenta e precisa nell’indicare quali animali avessero contatti con il demonio o con le streghe, e come ci si dovesse comportare nei loro confronti o come essi potessero essere utilizzati.  In Germania, ad esempio, la gallina nera doveva essere cucinata a porte chiuse, e il suo cuore veniva infilzato da molti aghi e infine gettato via prima del sorgere del sole. Della lepre si dice che portasse male incontrarne una di prima mattina, perché, in realtà, si trattava di una strega. L’animale, ucciso, veniva anche fissato all’architrave delle porte, in modo da allontanare gli spiriti maligni. Perfino le farfalle erano ritenute pericolose o di cattivo auspicio: sicuramente si trattava di streghe nascoste sotto tale aspetto al fine di rubare burro e latte. Per proseguire sui cattivi auspici, anche il cane nero non era ritenuto di buon augurio, pur se incontrato solo in sogno, addirittura sul suo collare venivano incisi strani simboli magici. Secondo la tradizione, il cavallo e il caprone rimanevano legati alla figura del Demonio, il primo perché Belzebù ha gli zoccoli al posto dei piedi e il secondo perché questa è la forma che il Signore dell’Inferno assume durante i Sabba. Delle civette la leggenda racconta che, quando il loro stridere si avvertiva nei pressi di una casa, esse volessero annunciare la morte di chi vi abitava; quanto ai corvi, si credeva che avessero il dono della profezia, e il loro sangue e le loro piume venivano usati per stringere patti col Diavolo. Il pipistrello era di certo prediletto dalle streghe: esse, tramutandosi in questo animale, tormentavano i viandanti notturni; invece, se volevano seminare zizzania, assumevano la forma di un maiale, motivo per cui era necessario fare attenzione a quelli senza padrone. E il vostro paffuto e innocuo animale domestico dove sarà stato nella notte, mentre voi dormivate sonni innocenti?

Alessia Cagnotto

 

 

 

Storia dei due fratelli con il gozzo

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

6 Storia dei due fratelli con il gozzo

Nel Bric di Bissarello (in provincia di Cuneo), in un grande pianoro, cresce un immenso castagno; il tronco antico e nodoso fa sì che i ragazzi si arrampichino sopra con facilità, per poi sporgersi in mezzo alla folta chioma verde e di lì, con gli occhi immortali e puri della giovinezza, osservare il mondo.  Vicino a quel luogo, un tempo, abitavano due fratelli, reietti, a causa di un grosso gozzo che li rendeva turpi nell’aspetto. Per questo motivo, essi si vergognavano di mostrarsi alla gente, temevano di essere oggetto di duri motteggi e non osavano sostenere gli sguardi inorriditi delle fanciulle del villaggio; avevano dunque deciso di ritirarsi lontano dal paese, in una piccola e assai modesta dimora che calzava a pennello per loro, con una finestrina che si affacciava sul castagno in lontananza. La drammaticità della situazione fece venire coraggio al più giovane dei fratelli, il quale decise di aspettare la notte del Sabba per parteciparvi di nascosto, convinto che quel suo gesto così audace avrebbe potuto spingere le streghe ad aiutarlo a risolvere il problema drammatico del gozzo. Ed ecco come agì. Ci fu una notte più buia del solito, le stelle in cielo si rimpicciolirono e la luna andò a nascondersi dietro le fronde del grande albero. Il ragazzo si addentrò guardingo nel bosco, inciampando nelle radici nodose del castagno, così invadenti quella notte, come se volessero addirittura fermarlo. Gli abituali, consueti rumori notturni si erano d’improvviso quietati, nessun animale correva, né usciva dalla propria tana, gli insetti non volavano, solo qualche stridio lontano tagliava l’aria e faceva quasi male all’udito. Il giovane volle convincersi che si trattava di versi di civette o barbagianni, ma solo per nascondere a se stesso quella strana sensazione di grida come provenienti dall’oltre tomba. Dopo aver camminato per un tempo che gli parve interminabile, egli arrivò in un piccolo spiazzo, dove gli alberi si allargavano tra loro e parevano formare un cerchio tracciato appositamente per ospitare balli e incontri; anche gli stessi tronchi sembravano incurvarsi leggermente, come in un eterno inchino per misteriosi invitati. Il ragazzo si acquattò dietro un tronco e rimase in attesa, si guardava attorno, pentito di essersi sentito così coraggioso, anzi pensò di tornare indietro, ma il gozzo che lo tormentava si fece più pesante e quella sensazione di malessere lo convinse a rimanere fermo dove si trovava. L’attesa fu ripagata da uno spettacolo sensazionale. Il cielo così nero si inscurì ulteriormente e dal nulla spuntarono carri trainati da cavalli imbizzarriti, adornati di campanellini tintinnanti: i suoni però erano sgradevoli, più simili al rompersi di bicchieri che a uno scampanio di festa. Le fruste schioccavano con vigore, si scagliavano contro le schiene degli animali con una forza tale che avrebbero potuto dilaniarli, ma i cavalli nitrivano, come infervorati da un insano piacere malefico. Giunsero altre streghe, ma queste non arrivarono con i carri: avevano assunto la forma di uccelli dalle grandi ali e dagli occhi piccoli. Si erano trasformate in volo, tramutando il verso del volatile in un ghigno infernale.

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Era come se l’Inferno si fosse aperto e stesse rigurgitando sulla Terra una moltitudine di creature, così spaventose che anche per il Demonio erano insopportabili. Le masche continuavano a volteggiare, gridando parole oscene e proponendosi in movimenti sempre più convulsi, quindi si presero per mano e poi, piano piano, iniziarono a scendere verso il suolo, senza fermarsi mai nella loro danza spregiudicata. Appena misero i piedi sul terreno, un fuoco rosso scuro divampò in mezzo a loro e il ragazzo, sforzandosi di guardare con attenzione, poté finalmente osservare qualche volto, incuriosito sempre più da quello spettacolo tanto raccapricciante eppure tanto irresistibile. Quando il giovane si accorse di essere stato visto, ebbe paura che le masche lo avrebbero punito per quella bravata, invece due di loro, due donne di mezza età con gli occhi lucidi di follia e i seni sgradevolmente prorompenti, lo presero per mano e lo invitarono a unirsi alla loro danza. Il giovane si sentì sopraffatto da una forza ardente, che gli lacerava gli organi e che si impadroniva del suo corpo, e anche lui iniziò a ridere e a gridare, muovendosi come un mostro in mezzo ai mostri, incapace di ribellarsi a quella sensazione di torbido piacere che lo intimoriva e lo eccitava.


La notte trascorse così, tra sogni e incubi che si susseguivano e con il caos che si accompagnò al risvegliarsi del giorno. Poi, prima che il sole spuntasse, le masche si avvicinarono al giovane e gli toccarono ognuna il gozzo ingombrante, ed egli si accorse che ad ogni tocco la sua bruttezza diminuiva, finché l’ultima donna non gli sfiorò con i polpastrelli la pelle tondeggiante del pomo d’Adamo. Mentre alcune masche salivano sul carro, altre accompagnarono il giovane fino all’inizio del sentiero che portava al villaggio e lo invitarono a proseguire verso il suo nuovo gioioso futuro. Il fratello più anziano, saputa la vicenda del ragazzo, volle provare anche lui a guarire, ma più che per coraggio, agì per invidia ed emulazione, si mosse d’impeto e andò a cercare le masche nel bosco, un venerdì notte, quando alle streghe è proibito compiere incantesimi. L’uomo le chiamò a gran voce per tutto il tempo, irrispettoso del loro riposo; gli parve, però, di aver camminato per il bosco senza aver visto niente di particolare e nessuna masca. Decise allora di salire sul castagno per avere una visione più precisa dall’alto, ma anche di lì non vedeva traccia delle streghe. Fece per scendere ma si accorse che le radici dell’albero riflettevano diversamente i raggi della luna, come se questi si muovessero; osservò meglio e vide che intorno al tronco si era formato un mare di bisce, le une intrecciate alle altre come fili all’uncinetto. L’uomo fu costretto a rimanere sul castagno tutta la notte, e si rassegnò ad attendere che l’alba facesse scomparire quegli immondi animali striscianti. Con la paura che lo attanagliava si addormentò abbracciato ad un grosso ramo, fino a quando il sole del mattino non gli infastidì il sonno. Si sgranchì la schiena, guardando subito in basso per controllare che i serpenti se ne fossero andati, ma, sebbene quel problema si fosse risolto, c’era comunque qualcosa di diverso, che non andava. L’uomo si rese conto di sentirsi appesantito, di fare più sforzo con il collo, così allungò la mano tremante verso il mento e si accorse che gli era spuntato un secondo gozzo, oltre a quello che già aveva. Del fratello più giovane si sa che in città trovò un onesto lavoro, si innamorò di una cartomante e la sposò; dell’altro, invece, si racconta che solo il prete andasse ogni tanto a fargli visita, e all’uomo di chiesa il misero reietto continuava a ripetere: ” A me delle donne non è mai interessato niente”. Chi è curioso va all’Inferno, ma talvolta viene premiato… dal Diavolo, s’intende.

Alessia Cagnotto

 

 

Dove non andare

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)
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5 / Dove non andare
Le mamme di tutto il mondo lo dicono da sempre: “Non fare quello”, “Non dire quell’altro” e, soprattutto, “Là non ci devi andare”; postulati imperativi ai quali non si può porre questione. Ma tutti quei divieti non fanno altro che accrescere la curiosità e la voglia di ribellione e alla fine, più un luogo è proibito, più si finisce col ficcarci il naso. La verità è che in certi posti ci sono i fantasmi, in altri è possibile incontrare il Diavolo e, in altri ancora, ci sono le mashe: non sarebbe saggio avventurarsi da soli con il rischio di incontrare qualcuna di queste malefiche creature, e allora ecco dove non andare. Le Langhe sono permeate di segreti e inquietudini, case da sempre disabitate emergono sul territorio come macchie non lavabili su una camicia bianca, per quanto infastidiscano è impossibile liberarsene, così come è inimmaginabile smettere di passarci il dito sopra. I boschi, le grotte, i vecchi seccatoi si mescolano alle strade curve e agli incroci, ogni porzione di terra pare la più adatta per nascondere streghe, fantasmi o folletti. Il giro del Servaion, (Il giro delle masche) si trova poco dopo Feisoglio; a Niella Belbo si trova Il Bivio dell’Inferno, (il Ponte Nero e i due Pian della Croce); verso Murazzano c’è il Gerbazzo, i muri e le rocche del Salto del Diavolo; ci sono poi le Murazze, le Grotte del Bistagnino a San Benedetto Belbo. A Cravanzana c’è la Fontana delle Masche, vicino alla quale, verso mezzanotte, durante il plenilunio, è possibile vedere una donna, -una masca-, interamente vestita di bianco, con anche un ombrellino in pizzo del medesimo colore, che chiede ristoro per la notte. Un’altra masca conosciuta è quella che si aggira nei boschi del Gerbazzo e della Bossola, questa si diverte a far sparire i funghi da sotto il naso dei cercatori. I contadini delle Langhe hanno un bell’adoperarsi per tenere lontane questa moltitudine di creature dispettose e capricciose, è perciò abbastanza comune vedere le scope di saggina appoggiate presso la porta d’ingresso, dove può anche esserci dell’aglio. Altri metodi, adottati ad esempio a Mombarcaro, prevedono che venga affisso alla porta di casa un ferro di cavallo, in modo da scongiurare le visite indesiderate, verso Ceva invece si usa sciogliere un po’ di cera della Candelora sui polsi dei familiari formando una croce, e poi eseguire lo stesso rito sulla porta di casa. Altri luoghi in cui si dice che le masche siano solite incontrarsi sono segnati dalla presenza di menhir e massi di diversa forma e dimensione: si tratta di massi erratici o riferibili al megalitismo, forme litiche di singolare morfologia o in posizioni “insolite”, pietre caratterizzate dalla presenza di incisioni rupestri. Nell’area dei Piani d’Invrea (nei pressi di Varazze, in Liguria) si trova, ad esempio, un masso di notevoli dimensioni, che, secondo i racconti popolari, è stato il centro di danze forsennate e incontri stregoneschi. Si erge nel pianoro di Cian da Munega, è alto oltre due metri e mezzo, di circonferenza ne misura quasi cinque, ha un aspetto tozzo, un tempo circondato da altri massi di notevole dimensione, che gli stavano intorno come una sorta di recinto. 
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Esistono, poi, dei sassi con vere e proprie proprietà magiche, forse assorbite da qualche magia che era stata eseguita in quel luogo, o perché toccati da qualche strega boschiva. In provincia di Biella vi è la pietra detta pietra lubricam (pietra scivolosa): si tratta dei massi detti “Roc d’ la sguija” (della scivolata), pietre di medie dimensioni che erano utilizzate dalle donne con problemi di sterilità: le fanciulle si sdraiavano sulla superficie litica e si facevano scivolare. Per risolvere il medesimo problema c’erano anche le così dette “Pietre con la pancia”, rintracciabili sulla Rocca di Cavour, una collina che si trova appunto nei pressi di Cavour, ma anche in Valle di Susa e vicino a Moncalieri (alle porte di Torino), massi la cui forma ricorda il ventre dilatato di una donna incinta sopra i quali le spose che riscontravano difficoltà ad avere figli si sedevano, aspettando che le proprietà magiche dei massi facessero effetto. Le masche si riunivano anche nei pressi del santuario della Madonna di Loreto di Graglia, (vicino a Biella), con lo scopo di suscitare temporali e grandinate. Esse si ritrovavano attorno ad un masso denominato Roc Barèsio, così pregno di energia magica che, se veniva toccato, provocava l’”ammascamento”, una sorta di malocchio, un assorbimento di energie negative che potevano causare al malcapitato avventore vari accidenti più o meno gravi o sgradevoli.  A Campiglia Cervo, (ancora in provincia di Biella), si dice che vivesse una masca che si aggirava sempre con un recipiente di pietra, dentro il quale teneva i suoi unguenti e filtri malefici, che usava soprattutto contro gli animali domestici, principale fonte di reddito dei contadini. Da quello stesso contenitore, la strega era solita far uscire un vento travolgente, che distruggeva i raccolti e metteva a soqquadro le campagne circostanti. Rimanendo nei pressi di tale località, troviamo un altro luogo dove non è consigliabile andare, vicino al Pian di Cavij, (Pian dei Capelli), alle pendici del monte Mazzaro, sempre nel Biellese: qui si svolgeva periodicamente un grande Sabba, al quale partecipavano molte masche, anche provenienti da zone lontane. Il luogo viene anche chiamato Baldusablo e si dice che il giorno successivo al grande incontro infernale nelle campagne si abbattano sempre fortissimi temporali.  Una storia simile riguarda la “Pietra Borghese” che si erge a Borzonasca, si tratta di una singolare formazione geologica di natura meteoritica. Le voci vogliono che questo sia un luogo infestato dagli spiriti e da ogni sorta di creatura dell’oltre tomba, in aggiunta, nel sotterraneo annesso ai massi, pare che si trovino i resti delle streghe condannate dal Tribunale dell’Inquisizione. Questo, dunque, un elenco di luoghi dove non andare… gli altri trovateveli da soli!
Alessia Cagnotto

La masca di Serra Capelli e altre storie

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)
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4 / La masca di Serra Capelli e altre storie
A Serra Capelli (nei pressi di Alba), c’erano le masche. Rumori improvvisi e inspiegabili echeggiavano nella notte, strani uccelli stridenti scuotevano i rami degli alberi e alcune case che dovevano essere disabitate sembravano animate da bizzarre presenze. C’era una casa in particolare di cui in paese si parlava tanto, e si diceva che sicuramente lì ci viveva una masca; la casa suscitava una tale apprensione che il signorotto di Alba che l’aveva acquistata ci andava solo nei fine settimana e persino un po’ controvoglia. Dopo di lui la villa tornò ad essere messa in vendita, ma nessuno la volle per sé, e la motivazione era sempre la stessa, senza scusanti o metafore: “Io non la compro perché pare sia abitata dalle masche”. La paura vinse la passione degli affari. Forse ce n’erano anche di più di masche, a Serra Capelli, e forse non vivevano tutte nella casa abbandonata, e forse non erano nemmeno tutte malvagie. Si dice che in quella contrada vivessero due sposi. La moglie, incinta, adorava passeggiare con il pancione ingombrante per i campi, e una sera essa incontrò una masca, che le sfiorò lievemente la pancia e le offrì una mela da mangiare. La donna non si ritrasse, accettò la carezza e la mela e ringraziò con un sorriso, infine entrambe proseguirono ciascuna per la propria strada. Arrivò il giorno della nascita e il bimbo venne al mondo forte e piagnucoloso, come la maggior parte dei neonati. Nulla di strano, ma subito i genitori si resero conto che il piccolo non voleva prendere il latte e non c’era proprio verso di convincerlo: il bimbo piangeva, gridava e non mangiava. Mamma e papà si spaventarono di quell’atteggiamento così scontroso, che non riuscivano a spiegarsi, e si corrucciarono a tal punto da passare intere notti insonni, fino a quando la giovane moglie non si ricordò dell’incontro con la masca. L’indomani i due giovani decisero di andare dal prete, il quale consigliò loro di chiedere cortesemente aiuto proprio alla masca: gli sposi sarebbero dovuti andare presso la casa della strega e con gentilezza avrebbero dovuto pregarla di uscire dall’abitazione e dare loro un saggio consiglio. La notte i due genitori presero con sé il pargoletto piangente e si avviarono verso la casa abbandonata, si appostarono vicino all’ingresso e fecero come aveva consigliato il prete. La masca uscì di casa senza adombrarsi, anzi, con cura prese il bambino e lo girò dall’altra parte, nella stessa posizione lo ridiede con cautela alla madre. “Non è mica niente” disse la masca, “invece di prenderlo in braccio in questo modo, giratelo con le gambe all’incontrario”. E tutto terminò così, il bambino smise di piangere e iniziò a gustare il latte e i genitori, pur sbigottiti, tornarono a casa sollevati e felici. E la masca rientrò all’interno della casa che doveva essere disabitata.
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C’era una volta la masca Laidin, in verità Adelaide, la masca che, se ti toccava, ti veniva la gobba. Era una di quelle a cui piaceva procurare fastidio e provocare scherzi e un giorno attirò il postino in un incantesimo. Si sapeva che quest’ultimo percorreva sempre i medesimi itinerari, passava a piedi per le stesse strade e ogni tanto capitava nei pressi del bosco chiamato “bosco delle pecore”. Una sera, proprio mentre era vicino alle altissime e fitte piante, si ritrovò immerso in una lussuosa e splendente sala da ballo: personaggi luminescenti danzavano in abiti eleganti, sorridevano gli uni agli altri e gentilmente questi lo invitarono ad unirsi a loro. Il postino, lusingato, non declinò il richiamo e danzò fino al sorgere del giorno. Quando poi venne intonata l’Ave Maria del mattino, a quel punto tutto scomparve, e il giovane, dimentico dell’incantesimo, incredulo si sentì esausto ancor prima di iniziare una nuova giornata, senza potersi spiegare il perché di tanta stanchezza. Un’altra volta, invece, la masca si era tramutata in albero di more e tutte le volte che il postino passava di lì, gli rubava il cappello con i rami, ma una volta il poveretto tentò di ribellarsi tenendosi stretto il cappello e strattonando con forza il ramo su cui questo si era impigliato; il giorno successivo l’albero non c’era più, come se non fosse mai esistito, invece la masca Laidin la videro con un braccio ingessato. Ogni tanto la donna amava trasformarsi in agnello, si metteva a belare in mezzo alla strada, attendendo che qualcuno la trasportasse in spalle, a quel punto iniziava a parlare. Certo, Laidin non era malvagia, era piuttosto scherzosa, ma la gente del villaggio la temeva perché portava maleficio. Si racconta che un giorno essa sfiorò il viso di una bimba paffutella e immediatamente la piccola si ricoprì di formiche. Quando poi Laidin decise che era il momento di morire, in attesa di qualcuno a cui concedere i propri poteri, iniziò a gridare in giro: “Lascio! Lascio!”, ma nessuno si fece avanti e lei si rintanò nella sua abitazione. Per tanto tempo non arrivò nessun pretendente, poi un giorno passò lì vicino una famiglia con un neonato. I tre si trovarono proprio vicino alla finestra della decrepita Laidin, che riuscì ad allungare un braccio e a toccare il bimbetto, al quale immediatamente comparve una gobba sulla schiena.
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C’era una pecora con le corna che si aggirava nel bosco, spuntava all’improvviso dai cespugli e aggrediva le persone che erano in cerca di tartufi. Una mattina prestissimo essa assalì il nonno, che però riuscì a difendersi e a colpire l’animale sulle zampe, e lo fece scappare via. Quando rientrò in casa, ricordo che ci disse di aver incontrato una masca tramutata in pecora con le corna; lo raccontò anche ai suoi amici più stretti e proprio mentre narrava l’accaduto passò di lì, zoppicante, la signora Madlinin, la moglie acida e perfida di un vicino di borgata. Il nonno la osservò e pensò tra sé che quella poteva essere proprio la masca-pecora che lo aveva attaccato in precedenza. Si confidò con gli amici, i quali ci pensarono su e si resero conto che in effetti quella donna aveva degli atteggiamenti strani, osservava la gente come se volesse lanciar loro delle maledizioni e si comportava in modo azzardato quando doveva spuntare la luna piena. Anni dopo Madlinin si ritrovò in fin di vita, ancora più inacidita dagli anni e senza figli, e, si sa, una masca non può morire se non passa i poteri a qualcuno, ma proprio non si trovava nessun erede, e la masca non sapeva più come fare per lasciare questa terra. Si dice che una notte una donna ebbe pietà di lei, le portò un manico di scopa e glielo mise tra le mani, in modo che potesse scaricare sul pezzo di legno i poteri magici. Madlinin spirò e subito il manico di scopa venne bruciato nel focolare, tutto fu purificato e i misteriosi poteri demoniaci si allontanarono dalla casa.
Alessia Cagnotto