Oltre Torino. Storie miti e leggende del Torinese dimenticato- Pagina 3

Così si racconta della masca Paroda

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino.
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Non è più tempo delle fiabe. La televisione, gli smartphone, la tecnologia tutta esige quotidianamente così tanta dedizione, che quando finalmente essa non ci serve più è già tempo di andare a riposarsi, per essere pronti ad affrontare un nuovo giorno isterico, fatto di corse, di clacson, di whatsapp e di e-mail. Le storie della buona notte, o quelle raccontate dai nonni mentre stavano seduti sulle poltrone infossate, o quelle attorno ai fuochi la sera, tra i boschi o in spiaggia, sono diventate leggende a loro volta. Tuttavia non tutto può essere conservato in un hard disk, ci sono vicende che si possono tramandare solo oralmente, passando di orecchio in orecchio, accresciute di fantasia in fantasia, di suspance in curiosità, avvolte nei giochi di immaginazione. La verità è che l’onniscienza di internet nulla può contro gli aneddoti narrati a voce, magari in dialetto, dalla nonna. E la nonna così inizierebbe un suo racconto… C’era una volta una donna, dall’aspetto comune, secondo alcuni molto bella, secondo altri brutta addirittura, che amava la natura e abitava in una piccola casa lontano dal paese. Si occupava del suo orto, in cui coltivava erbe, verdure e qualche frutto. Aveva caro il bosco, lo guardava cambiare colore a seconda delle stagioni, lo respirava in tutti i suoi profumi e si addormentava ascoltandone i magici suoni. La donna, di nome Paroda, passava molto tempo passeggiando tra gli alberi, osservando con attenzione il mondo che le stava attorno, e imparò così a conoscere le piante, per gioco le chiamava per nome e aspettava che esse le rispondessero. Ad ognuna di esse era affezionata come a delle persone vere, perché, come tra la gente, anche tra queste c’era quella che poteva aiutarla a star bene, quella che la pungeva per dispetto, quella incantevole ma priva di prerogative e quella che stava in sordina, nascosta nel sottobosco, gelosa delle proprie qualità curative infallibili. Paroda apprezzava il sole che la faceva sudare mentre zappava la terra, ma adorava anche la luna, che di notte era sua compagna di chiacchiere e pensieri; anche il vento le piaceva, così come la pioggia e come i fulmini e i tuoni. Non c’era nulla che la donna non ritenesse affascinante o quantomeno gradevole. Medesimo atteggiamento ella aveva per gli animali: non c’era creatura che lei reputasse non importante o non degna di rispetto, dal topo al cane, dal bruco al falco. Paroda era ben convinta che la Natura niente fa per caso o per distrazione, e tutto va compreso e capito e rispettato. Avvenne poi che una terribile epidemia si abbatté sul villaggio e su tutto il territorio circostante. La peste travolse gli abitanti come una tormenta inarrestabile, trascinando via le anime di moltissime persone, lasciando i pochi superstiti nel terrore e nella disgrazia. La malattia stagnò nella terra, faceva marcire le carni e il cibo, ma più di tutto attecchì sugli animi della gente, che, impazzita per il dolore, gridava al maleficio. Il castigo divino non poteva essere già arrivato, sicuramente tutto ciò era opera del Demonio e delle scellerate sue seguaci: le streghe! Ed ecco trovata la soluzione: per scacciare la terribile pestilenza era necessario liberarsi di chi la malattia l’aveva causata. Non ci volle molto tempo per individuare le colpevoli, tutte donne, tutte guardate con sospetto e ora con disprezzo, tutte che preferivano vivere lontano dal villaggio, vicino al bosco, dedite al loro piccolo, secco, orticello “malefico”.
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Vennero a prendere anche Paroda, in un giorno qualunque, con quella cattiveria che è tipica degli uomini, ed è estranea al mondo dei boschi e dei fiumi, quella stessa malvagità che Paroda non voleva conoscere e che aveva tentato fino a quel momento di fuggire. I soldati, si dice, sradicarono le piante, uccisero violentemente gli animali e misero a soqquadro la casa di Paroda. Del suo gatto dissero che era nero come il Demonio e per ciò gli tagliarono la testa, quando sgozzarono la capra si spiegarono a vicenda che anche quella era una bestia di Satana, e nel momento in cui scoprirono l’altare con una croce e un lumino si riconobbero tutti d’accordo nell’affermare che era ovvio che lì si svolgessero i Sabba più indecenti. Nell’orto trovarono lattuga malefica, patate del diavolo e cavoli demoniaci. Anche le margherite furono una prova schiacciante della colpevolezza di Paroda: essa le usava per staccare i petali, e ogni petalo caduto era un’anima che se ne andava; infine, non fossero bastati quei fiori bianchi e gialli, scorsero anche delle rose, le cui spine servivano di certo per puntellare i fantocci di coloro che la donna voleva far soffrire. Paroda venne portata in prigione e torturata per giorni, soffrì le pene più indicibili, nate dalle fantasie più torbide dei detentori. A volte la donna sveniva e quando rinveniva era il Diavolo ad averla fatta svegliare, e così le torture ricominciavano da capo, e quando invocava Dio per chiedere pietà era solo un altro trucco del Demonio, che ormai ghermiva la sua anima. Qualsiasi cosa farneticasse la sventurata era solo colpa di Belzebù, che proprio non voleva lasciarla andare. Il giorno del processo chi la stava giudicando le consigliò cosa dire, in modo che potesse essere finalmente salvata, e così alla donna esangue venne suggerito di confessare qualunque argomento le proponesse la giuria. Paroda fece in tal modo e finalmente si conquistò la tanto promessa salvezza, ma l’unica maniera con cui i torturatori potevano prometterle l’amore di Dio era attraverso il rogo, le fiamme avrebbero purificato l’anima dannata e finalmente le sue pene sarebbero terminate. La masca Paroda finì i suoi giorni in una gabbia, sporca e rasata, morì silenziosa e miseramente come tante altre sue pari, colpevoli di niente se non di non essersi volute conformare a come gli altri le volevano. La vicenda della masca Paroda si svolse intorno agli anni Trenta del 1600, a Sommariva Bosco. Poco più in là del demoniaco Roero, con le Rocche costruite dal diavolo e i precipizi che ancora rimbombano delle vicende della masca Micillina. Oggi, a Sommariva, si organizzano feste e cacce al tesoro, su internet si vendono i biglietti per parteciparvi. Andate e divertirvi, ma non dimenticate di chiedere a qualche anziana del paese della masca Paroda: essa vi racconterà una storia meno virtuale e più veritiera, magari in dialetto, usando i termini giusti, i soli che possono testimoniare per sempre le vicende che ormai non interessano a nessuno e che secondo alcuni possono anche essere dimenticate.
Alessia Cagnotto

Micillina: storia di una masca piemontese

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta particolare, che si avvicina al dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, procurano molestie, fastidi, fanno sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si lasciano vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Questa serie di articoli vuole soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne “magiche” che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, procurandoci dispetti, mentre tutti – forse – fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche non ci sfiorino. (ac)
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Masca, termine diffuso prevalentemente nel Roero, nelle Langhe, in Astesana, nel Biellese, nel Canavese, nelle Valli cuneesi e nell’Alessandrino, significa propriamente strega, fattucchiera, maga, incantatrice, fata. Per lo più il vocabolo è usato per disprezzo o ingiuria. Nel latino tardo, (VII sec.d.C.), era sinonimo di lamia, mostro con faccia di donna maliarda e vampiro. Il termine assume una certa rilevanza con l’Editto di Rotari, (643), dove viene utilizzato per indicare una strega i cui poteri sono molto temuti, una donna malvagia che divora i propri simili, e che è quindi contrassegnata con caratteristiche antropofaghe e pregne di reminiscenze pagane. La masca -strega è anche voce di ambito occitano e francoprovenzale, pur se più propriamente tipica del Piemonte. Molte sono le donne -masche piemontesi con un’identità specifica, delle quali ancora si racconta… C’era una volta una fanciulla, originaria di Barolo, di nome Micillina, conosciuta purtroppo per essere capace di produrre effetti negativi che si abbattevano sulla gente del suo villaggio, tanto che, secondo alcuni, essa si divertiva a causare al suo prossimo danni fisici e malattie. Un giorno Micillina decise di andarsene e si spostò a Pocapaglia, dove trovò marito e una nuova dimora. Non passò molto tempo, e anche qui gli abitanti della comunità notarono i malefici della nuova arrivata: tutti sospettavano che essa procurasse danni alle persone anche solo con lo sguardo, ben convinti che la giovane si dedicasse ad oscure arti magiche per portare malattie e disgrazie all’intero paese. Tali imputazioni non potevano però essere provate e così gli abitanti di Pocapaglia si limitarono a guardarla di sottecchi e a fare di tutto per non includerla nella vita del paese. La cattiva reputazione della donna cresceva senza tregua, qualsiasi avvenimento sgradevole faceva capo a lei e le accuse divenivano sempre più colme di odio, finché arrivarono alle orecchie di Paucapelea, il marito di Micillina. Questi, invece di difendere la moglie, si schierò dalla parte dei compaesani, gridando a gran voce contro la compagna per distoglierla dagli insani interessi. Micillina però non cambiò nulla del suo comportamento, così le invettive contro di lei aumentarono ulteriormente. Fu allora che Paucapelea iniziò a picchiarla ogni giorno, dopo essere rientrato a casa dal lavoro, sempre nell’intento di cambiare l’indole della moglie: i suoi sforzi si rivelarono vani e si vide costretto a cacciare di casa la sposa. Avvenne però un fatto strano. Dopo qualche giorno dall’accaduto, il povero Paucapelea, cadde da un albero, sul quale si era arrampicato per raccogliere della frutta, rompendosi l’osso del collo. Micillina si trovò vedova e di nuovo in possesso della casa. Forse che la donna, con l’aiuto del Demonio, aveva messo lo zampino in tale sfortunato e sinistro avvenimento? La comunità non volle approfondire, tuttavia iniziò a temere in maggior misura la donna, che continuava ad aggirarsi per le strade del paese, guardando tutti malamente e sogghignando quando qualcuno inciampava o si feriva o si procurava qualche tipo di disgrazia. Un giorno il fornaio perse la pazienza e si infuriò con lei, e, per qualche bizzarra coincidenza, venne trovato morto sull’entrata del suo negozio la sera stessa. Di lì in avanti i compaesani iniziarono ad accusare la donna apertamente di aver cagionato loro ogni sorta di male, anche se non così grave e definitivo come la morte. 
La vicenda divenne fin troppo nota, tanto che di Micillina si parlava anche nei vicini paesi, e le voci giunsero al Tribunale dell’Inquisizione, che si vide costretto ad intervenire.  Non si hanno notizie del processo, né del dibattimento, né dell’eventuale indagine, si sa però che il 29 luglio del 1544 Micillina fu portata su un carro trainato da due buoi sulle rocche del Roero, dove era stato allestito il rogo per bruciarla. I racconti ci dicono che Micillina morì quel giorno, ma riuscì, in punto di morte a provocare ancora alcuni danni. Mentre ardeva, la donna lanciò le ultime maledizioni: i buoi, impazziti, trascinarono dietro di sé il carro pesante, con il quale travolsero molti presenti, causandone la morte. Alcuni tizzoni del rogo caddero sulla folla, procurando ustioni gravissime e ulteriori vittime. Questo è ciò che tramandano le dicerie, che la malvagia Micillina fu tale finché il Demonio non la portò via con sé: chissà se anche lui se n’è pentito? La vicenda si compenetra di realtà e fantasia, i protagonisti che la animano sfumano nel passato tanto da apparire fantasmi inventati, eppure questa donna misteriosa ha lasciato una traccia consistente e profonda nel Roero, e risulta pressoché impossibile considerare tali avvenimenti frutto solo della superstizione e dell’immaginazione. Il fuoco del rogo che arse la donna pare ancora bruciare, proprio là dove era stato appiccato secoli fa: esso colora diversamente la terra di un poggio rialzato, tuttora chiamato Bric d’la masca Micillina.
Alessia Cagnotto

Chi ha paura delle masche?

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

1 / Chi ha paura delle masche?

Credenze religiose, leggende, miti e fantasiosi racconti popolari fanno sì che in ogni parte del mondo vivano creature magiche e stregonesche, conturbanti divinità o dispettosi spiriti figli di Madre Natura. Nei territori dell’immensa Africa tutti temono il “voodoo”, e Fetischeur eTradipraticien sono figure riconosciute, temute e rispettate dall’intera popolazione; in Oceania, Ginga –“il Coccodrillo”, Gandajiti – “il Canguro” e Almudj – “il Serpente”, appaiono in sogno agli uomini e li guidano nei luoghi sacri della Terra, aiutandoli nelle scelte e nella difficoltà della vita. Ancora, nei Caraibi, le credenze del popolo Taino si espandono per tutto il territorio e fanno sì che gli sciamani occupino un ruolo di assoluto rilievo nelle comunità, poiché sono gli unici in grado di dominare gli spiriti. Un culto sicuramente conosciuto è quello di Nuestra señora de la Santa Muerte, conosciuta anche con il nome di La Catrina o La Flaca, rito che si svolge il 2 Novembre in Messico. Si tratta di una divinità di origine precolombiana, adorata dagli Aztechi, la Dea Mictecacilivati, dea della morte, dell’oltretomba e della rinascita. Non a caso La Muerte messicana non intimorisce i suoi fedeli, ma li accoglie e li protegge con benevolenza, accogliendo tra le sue braccia anche le minoranze perseguitate a causa di pregiudizi e di preconcetti.   Queste sono solo alcune delle innumerevoli credenze che si diramano nel Mondo, e sono solo pochissimi esempi che valgono a testimoniare come il confine tra realtà e superstizione si dimostri labile e sottile, tanto che si potrebbe quasi affermare che in verità tale confine non esista. E se questi culti vi appaiono troppo distanti, pensate all’alone di mistero che ancora oggi sovrasta l’attuale città di Danvers, l’antica Salem, nel Massachusetts, all’interno di quell’America che non possiamo fare a meno di conoscere, -almeno per sentito dire-, e idolatrare, -almeno per conformismo-. E se ancora pensate che questo tipo di storie non vi riguardi, provate ad allontanarvi dalle vostre città e ad addentrarvi in qualche borgo ancora geloso del suo essere rurale e retrogrado, cercate qualche anziano rugoso che si riposa all’ombra e chiedetegli:chi sono le masche?

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Le masche sono le streghe del folcklore piemontese, di indole dispettosa, vendicativa e capricciosa, ma non così malvagie come le lamie della letteratura e dei racconti classici dell’orrore.
Si tratta di donne apparentemente normali, che vivono ai margini della comunità, un po’ perché scontrose, un po’ perché temute a causa delle loro approfondite conoscenze delle erbe, per curare malattie o ferite, e delle loro abili capacità di levatrici. La condizione di subalternità delle donne dell’epoca medievale, che le voleva relegate alla casa, all’accudimento dei figli e al lavoro dei campi, faceva sì che attorno a tali figure femminili così diverse e “acculturate”, si creasse un alone di mistero e sospetto, che aumentava con il passare del tempo e finiva inevitabilmente con il trovare nelle masche il capro espiatorio perfetto per qualsiasi calamità o disgrazia. Va da sé che le “signore” emarginate venissero anche perseguitate e sacrificate ad opera dell’Inquisizione.
Le masche possono trasformarsi in animali, come il pipistrello, il maiale, la capra, la biscia o il gatto, possono decidere, poi, di comparire improvvisamente, per spaventare i viandanti notturni, già intimoriti dall’oscurità della notte.  E’ di notte, infatti, che esse agiscono, quando la vita nel villaggio si ferma e si assopisce, quando i contadini affaticati si curvano vicino al fuoco e le donne mettono a dormire i figli; solo alcuni viaggiatori guardinghi si attardano a percorrere sentieri ingannatori, resi ancora più tortuosi dall’ombra tenebrosa. Tali figure, messe in contrapposizione rispetto alla “normale” comunità, colpiscono nei luoghi più diversi: nelle case, nelle stalle, ma anche nei boschi, vicino ai grandi alberi o nei crocevia delle strade di campagna. Scagliano i loro sortilegi sui parenti, sui compaesani e talvolta su sconosciuti viandanti, su chiunque, per qualche motivo, abbia urtato la loro suscettibilità, acceso la loro invidia o pizzicato il loro lato geloso.

 


Si dice che si riuniscano in luoghi deputati, generalmente denominati “Pian delle streghe”, quattro volte all’anno: il 2 febbraio, (la Candelora), il 1 maggio, (la Crocefissione), il 1 agosto, ( il raccolto) e il 31 ottobre, (la vigilia di Ognissanti). Le masche si differenziano dalle streghe “canoniche” perché pare non abbiano   rapporti “diretti” con il Demonio, infatti svolgono le riunioni solo tra loro, e non partecipano ai Sabba come le loro consorelle. I loro poteri sono strettamente collegati alla natura, esse possono causare tempeste, nebbie e terribili temporali che distruggono i raccolti e, se questo non bastasse, possono provocare lunghe carestie, per vendicarsi di eventuali torti che la comunità ha procurato loro. Anche se decisamente in numero minore, si attestano anche aneddoti positivi: qualche masca ha messo a disposizione le proprie conoscenze per portare a termine un parto difficile o per aiutare un giovane gravemente ferito o un ammalato in fin di vita. Sono creature quasi immortali, rimangono in vita finchè decidono di averne a sufficienza di questo mondo umano, non hanno il dono dell’eterna giovinezza, né sono immuni da malanni o acciacchi della vecchiaia; anche loro si trovano   a invocare la morte, tuttavia per poter lasciare questa terra esse devono trasmettere i propri poteri . Il passaggio è diretto, generalmente si tratta della figlia o della nipote, in rari casi viene scelta una giovane al di fuori della famiglia. Nel caso la masca non trovi nessun erede, essa dovrà scagliare su un albero di noce i suoi poteri e l’albero seccherà immediatamente, se invece potrà contare sull’aiuto di un’amica, morirà con in mano un manico di scopa, che verrà, poi, gettato nel fuoco del focolare, per purificare l’aria e allontanare le energie magiche che il pezzo di legno ha assorbito.

 

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Molte masche dispongono del Libro del Comando, un testo di magia con indicati i metodi per distinguere gli spiriti benigni e quelli maligni, gli incantesimi per invocare sia gli uni che gli altri, in modo da chiederne l’aiuto per mezzo di responsi e rivelazioni; pare che, a seconda del verso   con cui le donne sfogliavano il libro, esse potessero leggere sia il futuro che il passato.
Su questo testo circolano molte leggende e polverose informazioni, per alcuni studiosi si tratta del De Cerimoniis magicis, attribuito a Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, ultimo alchimista di tradizione medievale. Egli avrebbe steso tale scritto come quarto capitolo, segreto e destinato a pochi eletti, da aggiungere ai tre libri del De occulta philosophia libri tres.  Alcuni, più melodrammatici, ritengono che il testo sia stato scritto dal Diavolo in persona, altri, invece, ci testimoniano come l’amore per il marketing sia antico quanto l’uomo stesso, e ci raccontano, infatti, che tale oggetto, così personale e malefico, poteva essere acquistato, con un talismano in regalo, tramite i settimini, bambini nati prematuri e per questo ritenuti dotati di poteri di veggenza e sensitività. In tutte le raffigurazioni, il libro è rappresentato di grandi dimensioni, con inciso sulla prima pagina: “comanda, comanda, comanda”. Le masche, dunque, sono donne comuni, certo scontrose e capricciose, relegate ai limiti della comunità, ma comunque non riconoscibili ad un primo sguardo: come fare, allora per smascherarle?  Prima di tutto bisogna osservarle bene e vedere se hanno delle strane cicatrici: potrebbero infatti essere delle ferite che esse si sarebbero procurate mentre erano in forma di animale, in secondo luogo, esse non si lasciano pettinare, in terzo, le masche non si ubriacano, anche se sono in grado di bere molto vino. Per allontanare ogni sospetto, tuttavia, il metodo è quello stesso che si usa per smascherare una qualsiasi strega comune: è necessario cercare il “marchio” della strega, un neo a forma di stella sulla spalla sinistra o una piccola protuberanza sul pube.

 

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E una volta scovata? Ecco alcuni metodi per difendersi da loro e dormire sogni sicuri:

  1. Portare al collo una collana di tela grezza, con all’interno un ossicino a forma di croce e peli di gatto, (oppure unghie di gallo, anche se meno efficaci), aghi di pino e piume di civetta catturata in una notte di plenilunio.
  2. Mettere sulla porta alcuni fuscelli a forma di croce o una scopa di saggina sul focolare, la masca si fermerà a contare i fili di saggina invece che lanciare malefici, finché la luce dell’alba non la scaccerà via.
  3. Non lasciare i panni dei neonati stesi dopo il tramonto, perché una masca potrebbe toccarli
  4. Tenere qualcosa di benedetto a contatto con il corpo

Con tali precauzioni nessuna masca potrà farvi del male, riuscirete a scacciarla e a tenerla segregata nella solitudine del suo giardino, in compagnia delle erbe e della luna, laddove si merita di stare, senza poter nuocere a nessuno. Ma quando vi renderete conto che nessun altro potrà aiutarvi se non lei, e andrete a supplicare il suo aiuto, non vi stupite se, indispettita, prenderà la scopa e vi volterà le spalle, volando via sogghignando, come un barbagianni nella notte.

 

Alessia Cagnotto

La dama velata

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie.Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare.

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10 / L’unico modo di preservare la bellezza è precluderla alla vecchiaia. Questa è la storia di quando il Tempo si innamorò di una principessa, bella come il mare d’inverno, e non accettò di veder decadere quello splendore. Decise così di portarla via con sé, lontano dai luoghi in cui i mortali sono destinati ad avvizzire. La principessa si chiamava Varvara Belosel’skij, apparteneva ad una potente famiglia zarista ed era la moglie dell’allora ambasciatore russo presso la corte sabauda. La giovane donna, madre di tre figli, morì per cause legate alle passate gravidanze, proprio qui a Torino, dove si era recata per stare accanto all’amato marito. Il principe ambasciatore Aleksandr Michajlovic Beloselskij, addoloratissimo per la scomparsa dell’adorata giovane moglie, desiderò per lei il meglio anche nella morte. Aleksandr, uomo colto e amante delle arti, interpellò Innocenzo Spinazzi, celebre scultore romano di stile neoclassico, chiedendogli di eseguire un’opera in marmo per adornare la tomba dell’amata sposa. Spinazzi si era contraddistinto nell’ambito scultoreo grazie al suo particolare approccio tecnico e al suo desiderio di rottura con la sovrabbondanza barocca. A Firenze nel 1784 ebbe l’incarico di Professore di Scultura presso L’Accademia di Belle Arti. Spinazzi accettò l’incarico che il principe russo gli offriva e studiò un complesso gruppo statuario, di cui oggi ci rimane solo una figura, quella centrale, che rappresentava simbolicamente la principessa Varvara. Nell’eseguire tale scultura Spinazzi decise di rielaborare uno dei suoi lavori passati più apprezzati, la statua della Fede del 1781, opera che aveva eseguito per la Chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi a Firenze. Situata inizialmente nel cimitero di San Lazzaro, ora non più esistente, la tomba venne poi sposta nel piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli a Torino. È un giorno qualunque, presa da svariati pensieri seguo meccanicamente gli ordini del navigatore, che mi strattona da una parte all’altra della mia città. D’un tratto mi accorgo di trovarmi proprio nei pressi dell’antico cimitero di San Pietro in Vincoli, in via Torino, ora adibito a tutt’altra tipologia di funzione e completamente circondato da macchine parcheggiate con disordine e prepotenza. Il mesto edificio venne edificato nel lontano 1777, su progetto dell’architetto Francesco Valeriano Dellala, di Beinasco.

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Fu il primo cimitero edificato fuori dalle mura cittadine, dopo il decreto di Vittorio Amedeo III che, per motivi igienici, disponeva l’obbligo di sepoltura dei morti in appositi siti, oltre il perimetro della città. Il cimitero era costituito da un cortile interno, circondato su tre lati da un porticato. La facciata in stile neoclassico, presentava due file di lesene, la prima costituita da ghirlande, l’altra da teschi alati. Dal timpano del pronao incombeva l’angelo della morte. La parte centrale dell’area era adibita a ossario, attorno ad esso vi erano quarantaquattro pozzi destinati a sepoltura comunale per le salme dei più poveri. Ai più abbienti era riservato il porticato, qui si trovavano settanta due salme, divise in tombe private, lapidi e busti. Attorno alle mura del cimitero vi erano due zone, una atta ad ospitare i non battezzati e l’altra per gli impiccati e gli esecutori di giustizia. La struttura però era di piccole dimensioni e il sovraffollamento che non tardò ad arrivare portò con sé altre fastidiose conseguenze, la peggiore delle quali fu il fetore, intollerabile nei mesi estivi, provocato dai cadaveri disposti alla rinfusa e non adeguatamente tumulati. Nel 1829 l’edificazione del Cimitero Monumentale causò il progressivo disuso dell’antico sito sepolcrale. Per alcuni anni successivi San Pietro in Vincoli ospitò ancora i cadaveri dei giustiziati, fino al 1852, quando subì gravi danni strutturali a seguito dello scoppio della polveriera vicino all’arsenale militare, fu questo l’anno del definitivo abbandono. La costruzione seguì lo scontato decorso che si addice ad un cimitero abbandonato: atti vandalici, profanazioni e pare, addirittura, qualche messa nera. Alcuni monumenti che si trovavano all’interno della struttura vennero recuperati, anche se con danni più o meno gravi, tra questi anche la velata statua della principessa, che trovò un primo rifugio all’interno della Mole Antonelliana, dove venne sistemata nel 1976, ma fu la GAM a diventare la sua definitiva e rassicurante dimora. Oggi non c’è più alcuna traccia di quel sepolcrale lontano passato. Risulta di difficile concezione il solo pensiero che lì non fosse già più città. Le macchine sfrecciano rumorose, usano i clacson come rostri sonori, le osservo parcheggiate alla rinfusa e mi ricordano un sorriso di storti denti accavallati. La storia legata a San Pietro in Vincoli è prova del fatto che le parole trovano la forza di vivere, sempre, mentre lo spirito dei luoghi, talvolta, può morire.

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Sono andata a cercarla, la bella dama di marmo, tra le grandi sale della GAM, e quando l’ho vista è stato un po’ come vedere un fantasma. La pietra bianca delinea una figura femminile, che indossa dei semplici calzari, come quelli delle antiche sculture classiche; la donna ha le braccia leggermente distanti dal corpo, con il destro tiene un grande libro aperto, con il sinistro accentua la delicata torsione del busto. È interamente nascosta sotto un velo che la copre con riguardo, come fa la nebbia quando cala sul mondo. Il tessuto, scolpito con minuziosa maestria, segue il movimento del corpo e occulta castamente le sinuose forme del corpo femminile. Ha il viso leggermente sfregiato, a causa delle azioni poco belle che ha dovuto subire nel tempo in cui era sistemata nel piccolo cimitero. Si intravedono le fessure degli occhi al di sotto dell’illusorio tessuto, paiono chiusi come si addice ai defunti, in contrasto con la postura viva e in movimento del corpo. La osservo per un po’, girandole a fianco, ne ammiro i dettagli. È posta al termine del percorso del secondo piano, appare come d’improvviso su uno sfondo grigio, proprio come fanno gli spiriti, senza dare avviso del loro imminente arrivo e restando sfumati, costringendo chi li vede al dubbio di aver davvero visto qualcosa. Dalla sua postazione osserva tutti i visitatori, che sono costretti a contraccambiare il suo sguardo. Essa continua a far innamorare, esattamente come il suo doppio spettrale, che, secondo la leggenda, continua a percorrere le strade che le erano familiari, ammaliando gli ignari che si imbattono in lei. Infine mi allontano e abbandono anch’io la giovane principessa russa condannata alla solitudine della sua eterna velata bellezza.

Alessia Cagnotto

 

La torre di Trana

9 / Questa storia è dedicata agli scettici, a chi non vuole sentir parlare né di aldilà, né di spiriti, né di anime, a chi crede solo nel freddo e cinico razionalismo.

Fantasma, è termine greco, che significa “Immagine”, connesso con il verbo phantàzomai, “mi mostro, appaio”. Come da definizione del dizionario esso indica l’immagine creata dalla fantasia senza alcuna corrispondenza con la realtà delle cose, ma è anche l’immagine di persona defunta che una fantasia allucinata rievoca e ritiene reale. Dunque i fantasmi. Essi presentano caratteristiche specifiche, sono eterei, luminescenti e fluttuanti, sono abitudinari, si aggirano sempre in luoghi cupi, bui ed inquietanti; appaiono di notte, nel momento in cui il buio sovrasta il mondo; amano molto anche le tempeste, quando possono approfittare dell’inquietudine provocata dagli improvvisi lampi e tuoni. Alcuni di loro mostrano un carattere più romantico e aspettano la luce tenue del plenilunio per manifestarsi ed accentuare il proprio pallore. Essi sono figure centrali e ricorrenti nelle tradizioni popolari di tutto il mondo. Per chi crede a queste storie -e soprattutto per chi non ci crede- ci sono luoghi in cui assistere ad apparizioni sovrannaturali è più facile rispetto ad altre parti. Si tratta di zone particolari, a cui gli spiriti rimangono strettamente legati, scenari di vicende antiche, talvolta quasi dimenticate.Uno di questi luoghi peculiari è il piccolo paesino di Trana, in cui si trova una solitaria torre di epoca medievale, che parrebbe essere un ricettacolo di anime inquiete. Pare che proprio qui siano solite mostrarsi luminose figure, spiriti fatti di luce, non si sa chi o cosa siano, né se siano portatori di specifici messaggi. È surreale la quantità di testimonianze che riguardano tali apparizioni. In molti sostengono di aver visto due figure femminili, particolarmente iridescenti, una con lunghissimi capelli corvini. Questi spiriti compaiono nella notte e vagano come stelle cadute che non sanno come tornare a casa.  È decisamente il giorno sbagliato per andare verso le montagne, l’aria è fredda, ai bordi della strada persiste la neve, guido piano perché ho paura di scivolare sulla strada a tratti ghiacciata.È un viaggio lungo quello di oggi, perché sono sola e l’assenza di compagnia aumenta le distanze e abbassa ulteriormente le temperature già fredde.

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Il cartello “Trana” appare proprio quando mi viene il timore di essermi persa; vado ancora avanti per una decina di minuti prima di arrivare al centro del paese e alla mia reale meta. Compare all’altezza dell’orizzonte, preciso di fronte a me, il mistico mastio di trenta metri di altezza, ultima testimonianza della presenza di un castello risalente al X, XI secolo, raso al suolo dalle truppe francesi dei Catinat, sul finire del XVII secolo. La torre era un tempo proprietà degli Orsini, successivamente, nel 1581, passò alla famiglia Gromis. Riesco a lasciare la macchina in un piccolo spiazzo proprio ai piedi della modesta collina su cui si trova la costruzione che mi interessa visitare, scendendo dalla vettura vengo immediatamente presa a schiaffi dall’aria gelida, socchiudo gli occhi e sprofondo all’interno dello sciarpone invernale, così imbacuccata faccio forza su di me e parto per la mia solitaria perlustrazione.La neve ricopre tutto, la stradina che sto percorrendo a piedi, che dallo spiazzo sembra condurre verso l’alto della collina, i tetti delle case, la copertura del ponte in legno che attraversa il Sangone e l’altura che avevo scioccamente immaginato di risalire per arrivare ai piedi della torre. L’atmosfera è spettrale, poca luce che riesce a penetrare attraverso le nuvole che ricoprono il cielo per intero, sono talmente tante che potrebbero avvolgere il Mondo, il terreno è un’enorme coperta, vecchia, usurata, strappata dagli alberi che spuntano slanciandosi con violenza verso l’alto. Con l’illuminazione di quel giorno i toni dei colori si abbassano, il marrone dei tronchi è quasi pece, il verde dell’edera che serpeggia tra gli alberi è smorto e propende verso la gamma dei grigi. I rami crescono selvaggi uno sull’altro, allungano i rami esili e nodosi verso l’alto, sembrano volersi impossessare del cielo.

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Sto continuando a seguire la stradina scivolosa, ma ben presto mi rendo conto che continuare su questa via non sarà d’aiuto al mio intento, inoltre compare un dettaglio a cui non avevo pensato: una recinzione che circonda la collina. Noto che la rete presenta delle aperture, segno che qualche altro curioso ha anticipato i miei passi, ma la neve ghiacciata rende il terreno scivoloso e l’arrampicata rischiosa, più che per me, per la mia reflex. Mi fermo a guardare la torre da quella bassa prospettiva, di lì, mi ricorda una divinità arcaica posta nel mezzo di un rituale di adorazione, i rami sembrano protendere verso di lei, quasi in segno di supplica. Oggi non c’è molto che io possa fare, se non ridiscendere con attenzione. Ora che il mio primo obbiettivo è sfumato posso passare ad altre considerazioni, prima fra tutte il fatto che una località così piccola abbia così tanta storia da raccontare: il paesino di Trana, in epoca antica strettamente collegato alla fortuna e al destino della famiglia Gromis, in tempi meno antichi aveva assunto una posizione di rilievo nella lotta partigiana durante la Seconda Guerra Mondiale. Mi viene in mente che, oltre alla valenza prettamente storica, c’è anche un aspetto antropologico per cui questa terra è conosciuta, cioè la presenza di imponenti menhir sul vicino monte Pietra Borga. Intorno a tali preistoriche testimonianze di insediamenti umani circolano altre storie, che alludono alle masche e agli spiriti dei boschi. Le storie di queste zone confinano tra loro, dove termina una, subito ne inizia un’altra. È possibile che in una tale moltitudine di leggende non ci sia nulla di vero? Prima di risalire in macchina mi volto a guardare quel paesaggio perfetto nel suo essere spettrale, il cielo si è rabbuiato ancora, così come i tratti delle ombre sono più calcati. Penso che l’unico motivo per cui non mi sono imbattuta in nessuno spettro è che dietro le nuvole è ancora giorno, i fantasmi sono creature abitudinarie, appaiono solo di notte. Nessuna eccezione, nemmeno per i curiosi forestieri come me.

 

Alessia Cagnotto

 

In cerca di fantasmi al castello di Arignano

8 / Il romanzo gotico è un genere narrativo che si sviluppa a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, è caratterizzato dall’unione di argomenti romantici e dell’orrore. Le vicende trattate si svolgono in antri oscuri, ignoti sotterranei o vetusti castelli diroccati. Centrale è la presenza dell’elemento sovrannaturale, un fantasma, un essere demoniaco o qualcosa di estraneo al mondo umano. Le atmosfere dei romanzi gotici sono buie, inquietanti e ricche di suspanceAppartengono a questo filone, ad esempio, i romanzi Il Castello di Otranto, di Horace Walpole, Dracula, di Bram Stoker, Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo di Mary Shelly, o, ancora, Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson. Questa mattina, in compagnia di due amici, mi trovo a percorrere le strade di un luogo che riporta tutti i tratti tipici dei romanzi gotici: la rocca di Arignano. Le previsioni davano pioggia ma al momento fa solo tanto freddo. Mentre uno dei miei amici guida io mi perdo a guardare fuori dal finestrino: la città affollata di case si rilassa e diventa prima cintura, fino a quando anche le villette sporadiche scompaiono, lasciando spazio solo ai bassi arbusti della campagna. Il brutto tempo rende grigio topo il paesaggio circostante e ne esalta le ombre, tutte le cose assumono un che di spettrale. Mi concentro sugli alberi ancora spogli, alzano i rami nodosi verso il cielo, mi ricordano degli idoli arcaici, antiche e ambigue divinità. Arignano è l’ultimo comune della provincia di Torino, è situato in cima ad una collina verdeggiante a nord-ovest del Monferrato e a nord-est di Chieri, il torrente Levanetto lo attraversa come fosse un’arteria rigonfia. Di questo comune mi interessa il castello, edificato nella parte più alta del paesino. Esso è caratterizzato da una maestosa torre quadrata ornata con tipici merli quattrocenteschi, tutta la struttura, che risale al X secolo, reca testimonianze stratificate di interventi architettonici avvenuti nei secoli successivi. Quando arriviamo il paesino sembra essere ancora addormentato, incontriamo pochissime persone e un micio paffuto che pretende da noi un po’ di attenzioni, forse è lui il vero detentore del potere della zona e questo è il dazio che dobbiamo pagare per percorrere le sue strade: una volta convintosi della nostra incondizionata sudditanza ci permette di proseguire. Le strade sono fredde come l’aria che ci infastidisce la pelle, le finestre, pur con le ante aperte, mantengono un’aria sopita, sbircio qualche vetrina dei pochi negozi che ci sono. Non intravedo alcuna attività, ma trovo particolarmente tenera la scuola elementare, con i finestroni resi più belli dai disegni ingenui dei bambini. Su tutta la cittadina grava come un velo di tristezza.

Proseguiamo lungo la strada in salita, gli edifici sono tutti ben tenuti, i colori degli intonaci puliti, le piante, che ogni tanto sbucano tra una abitazione e l’altra, sono robuste e verdeggianti. Mi aggiro per un paese dall’apparenza ordinaria, in cui ogni cosa sta al suo posto, eppure trovo straniante la quasi totale assenza di abitanti. Mi accorgo che stiamo parlando a bassa voce, inconsciamente non vogliamo disturbare: chi o cosa non si sa. Il castello compare d’improvviso, lo guardiamo stupiti come ce ne fossimo dimenticati. È un’enorme struttura cadente ben incastonata nel resto del paesaggio, si mostra d’un tratto simile a un drago mimetizzato in mezzo alle rocce, è lui che decide quando è ora di farsi vedere. Le mura mantengono l’antico aspetto intimidatorio, le finestre ai piani più alti hanno i vetri rotti, quelle ai livelli inferiori presentano solo la componente in legno degli infissi. Scatto qualche fotografia. L’atmosfera piuttosto cupa di quel giorno inserisce il maniero in una tipica ambientazione gotica. Se lo dovessi disegnare userei il carboncino, farei il cielo calcando leggermente in alcuni punti, per dare l’idea della presenza delle nuvole temporalesche che si stanno avvicinando, e accentuerei i contorni del castello, facendolo risaltare in tutta la sua possanza. Ci avviciniamo lungo una strada che sembra portare ad un cantiere più che alla rocca. Arriviamo ai piedi delle mura guardando in alto, da questa prospettiva sembra ancora più grande. Su tutto sovrasta la torre quadrata, bucherellata da finestre dalle quali pare osservare il mondo, come il periscopio di un sottomarino che sbuca per controllare l’eventuale presenza dei nemici. Avvicinarsi ulteriormente alla rocca è impossibile, le spine delle piante lo avvolgono e lo proteggono dal mondo e dai curiosi come noi, si comportano come i più fedeli soldati, pronti a sguainare la spada contro chi supera la distanza minima da mantenere al cospetto di un re. Sbircio oltre il roveto con attenzione, intravvedo altre finestre dall’aspetto tipicamente medievale, hanno tutte i vetri rotti o quantomeno crepati, l’interno è completamente buio. Riesco a scorgere uno spiazzo erboso, forse un tratto di giardino interno, oltre il quale ci sono delle porte di dimensioni diverse, tutte ermeticamente chiuse. Cerco altre inquadrature, ma è solo una scusa per rimanere ancora un po’ lì, presa da quel particolare stato d’animo in cui speri che succeda qualcosa che un po’ temi, ma nulla accade, nessun tonfo sordo, nessun movimento inspiegabile tra i rovi. Il fantasma non si è fatto vedere. Avrà i suoi buoni motivi, dopotutto è stato messo in vendita, come dice l’annuncio pubblicitario che propone l’acquisto in un unico blocco castello, fantasma e tesoro. Chissà se l’agenzia è andata a chiedere il suo parere o il suo permesso?

Forse, oltre che offeso, è adirato perché il nuovo inquilino potrebbe inavvertitamente scoprire i passaggi segreti presenti nei sotterranei, potrebbe percorrere quei sacri cunicoli che portano fino alle grotte Alchemiche. Sarebbe davvero una spiacevole situazione, dato che solo pochi eletti hanno il permesso di varcare quelle mistiche soglie. Mentre torniamo indietro mi immagino l’ectoplasma che si aggira pensoso per il suo gigantesco castello, tutto corrucciato mentre medita nuovi metodi di infestazione. All’improvviso la pioggia. Le piccole gocce leggere cadono giù come in un finale perfetto, con i protagonisti della storia che si allontanano velocemente, senza trovare il tempo per le risposte che cercavano. Forse perché il fantasma stava dormendo, come il resto del borgo, esausto, dopo aver trascorso l’intera notte in piedi, su e giù per le segrete, come fanno solitamente gli spiriti. O forse quel giorno non era in casa, forse era andato a visionare altre dimore da occupare, l’idea di trovarsi senza un tetto sopra la testa da un giorno all’altro fa paura a tutti, meglio darsi da fare!

Alessia Cagnotto

 

Il Castello del Drosso

7 / Questa è la storia breve di un castello la cui disposizione interna si presenta come un lungo susseguirsi di stanze e saloni. Anche le leggende hanno bisogno di tempo per crescere e diventare adulte.

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Esse nascono in forma di “incipit“, nell’infanzia diventano “premesse”, “la trama” si forma nell’adolescenza e si sviluppa nell’età adulta, quando diventano vecchie si tramutano in solenni e saccenti “finali”. La leggenda del Castello del Drosso è ancora una “bambina”, ma le basi sono buone, la piccola diventerà una grande e coraggiosa Valchiria.


È metà pomeriggio di una giornata senza precisi impegni, il sole sta a mezz’asta, inizia ad illuminare le cose di traverso allungandone le forme. D’improvviso l’idea di una gita, una telefonata, pochi accordi e in un lampo sono in macchina con il mio odierno compagno di avventure, il mio impavido papà. Appena oltre i confini cittadini si trova il Castello del Drosso, un’antica grangia cistercense dotata di forti mura e torri massicce, un tempo sotto l’influenza dell’Abbazia di Staffarda, divenne in seguito proprietà dei Vagnone. L’edificio è visibile dalla strada, se uno sa dove guardare. La sua imponenza è ovattata dall’attuale posizione isolata, spersa in mezzo ai campi coltivati, e dallo stato di abbandono che lo sta lentamente divorando.


La sua presenza si inserisce nell’orizzonte senza saltare all’occhio, un bambino lo disegnerebbe senza staccare la matita dal foglio, sullo stesso piano degli alberi che lo affianco su entrambi i lati. Accanto alla torre antica vi è una moderna gru che appartiene al cantiere aperto appena davanti al castello. Da lontano i contorni si perdono, antico e moderno si fondono e danno vita ad una creatura ibrida e sterile, una mostro di Frenkenstein architettonico che per ora è solo un’illusione ottica. Lasciamo la macchina poco distante e percorriamo a piedi una strada sterrata, arriviamo a costeggiare la zona dei lavori, immobile come la condizione del castello.Prima di cercare un modo per addentrarci nella struttura decidiamo di proseguire per ammirare l’aspetto esterno della costruzione. Imbocchiamo un sentiero stretto e leggermente fangoso che costeggia i campi circostanti; la stradina, leggermente in discesa si incurva verso destra e prosegue poi diritta, conducendoci proprio sotto la roccaforte e regalandoci una prospettiva da cartolina. Subito estraggo la reflex e scatto molte fotografie, mi sposto da un’angolazione all’altra come stessi eseguendo un’approssimata ed incerta danza della pioggia.


Il cielo azzurro intenso, già tendente al blu Bondi, fa da sfondo neutro alla struttura in primo piano, due porticati paralleli sostengono sulle proprie spalle altri due piani e altre due torri. I porticati sporgono in avanti, rispetto al resto del corpo della costruzione, svolgendo anche la funzione di terrazzo, a loro volta sprofondano nel terreno della colina sulla quale si ergono. Dal basso, la posizione in cui mi trovi, si intravvede l’antico rosso della parete dietro il porticato del primo piano, il resto delle mura, malate di vitiligine, sono color ocra pallido con chiazze tendenti al bianco. Soddisfatta dei miei scatti cartolina-ricordo, propongo di risalire il sentiero per provare a intrufolarci all’interno del castello. Riusciamo nel nostro intento, anche se con meno facilità rispetto ad altre situazioni in cui mi sono trovata; la fatica però è decisamente ripagata dalla vista che ci si prospetta davanti: sbuchiamo a fianco dell’edificio, il sole delle cinque pomeridiane esalta il color mattone delle alte mura, è come se il castello arrossisse in risposta ai commenti che facciamo riguardo alla sua possanza e al suo bell’aspetto. La costruzione è circondata da un grande giardino, in cui si trovano una fontana scavata, un pozzo decisamente fiabesco, adornato di edera verde dalla base fino all’arco a cui si agganciava il secchio, un grande albero che mi permette di scattare un’altra cartolina-ricordo e, infine, una preziosa cappelletta privata, nascosta timidamente dietro grossi alberi verdeggianti.


È questa piccola costruzione che più mi attrae e che preferisco esplorare per prima. Gli affreschi alle pareti e sul soffitto piangono lo splendore di un tempo, la muffa li sta lentamente ingoiando, e il verdone dell’umido sta cancellando l’oro dei trompe l’oeil. Sopra l’ingresso si legge ancora una vetusta scritta in latino: timentibus deum nihil deest, “a coloro che temono Dio non manca nulla”, parole forti e solenni, degne di un castello come quello del Drosso.Il complesso è di origine medievale, già agli inizi del 1100 si hanno notizie del castello e del suo intorno rurale. Inizialmente era alle dipendenze dei monaci di Staffarda, poi di quelli di Torino, divenne proprietà dei Gorzani nel 1334, da loro passò ai Vagnone. La storia del castello è abbastanza travagliata, ebbe molti proprietari dopo i Vagnone, e nel 1496 si trovò in una surreale situazione di frazionamento che lo vedeva conteso tra più padroni, fino al momento in cui, nel 1539, il Conte Gugliemo Gromis di Trana riuscì ad avere ragione sugli altri pretendenti, ma solo nel 1860 la famiglia Gromis riuscì ad acquistarlo per intero. L’aspetto esteriore del castello è frutto delle varie trasformazioni che ha dovuto subire epoca dopo epoca, per essere sempre al pari con le mode del tempo; guardandolo ora, dato che non ha mai sfigurato in periodi passati, forse siamo noi che dobbiamo porci qualche domanda.


Usciti dalla piccola chiesetta privata, ci addentriamo all’interno della decisamente più ampia struttura che ci si pone davanti. Il primo salone che incontriamo fa da specchio al resto dell’edificio: pareti un tempo minuziosamente decorate stanno lentamente cedendo all’inevitabile trascorrere del tempo, la delicatezza degli ornamenti va scomparendo irreparabilmente, e tutto avviene in silenzio, come si addice ad un valoroso condottiero, che, per quanto stremato dalle ferite, muore in silenzio, senza rendersi supplice di nessuno. È un complesso enorme, ci mettiamo un po’ a girarlo tutto, ogni antro ha il suo fascino, ogni raggio di luce che si insinua mette in risalto qualche dettaglio. Mi è rimasta impressa una nicchia interna, sul cui soffitto erano stati dipinti gruppi di uccelletti canterini, che sembravano ancora emanare gioiosi cinguettii. Mi colpisce la presenza casuale ed improvvisa, in alcune stanze, di alcuni mobili decontestualizzati. Al centro di un salone abbiamo trovato un divano a tre posti, impolverato e consunto, aveva l’aspetto di un viandante perduto, che rimane immobile perché non conosce la lingua e non può chiedere informazioni; anche al piano terra c’è uno frammento di anni ’60, un tavolo apparecchiato, qualche sedia, un frigorifero ed un piano cottura fanno pensare che qualcuno abbia deciso di potersi trasferire lì, ma l’impossibilità di chiudere gli spifferi deve averlo fatto desistere.


Su tutto grava un silenzio rigoroso, che pretende rispetto e che indubbiamente riesce ad ottenerlo. Quando usciamo il sole è al limite dell’orizzonte, il castello è ormai in ombra, lo guardo e mi ricorda un valoroso combattente, un vecchio generale innamorato della propria divisa, con lo sguardo fiero, che non si spaventa di fronte all’invincibile decadimento. C’è chi dice di aver visto delle figure fluttuanti affacciarsi alle finestre, altri iniziano a giurare che ci siano delle luci che si accendono e si spengono sulle torri, ma per ora sono solo parole inconsistenti. La leggenda sta nascendo ma deve ancora formarsi, tuttavia ci sono delle ottime basi per una futura storia di fantasmi: un castello abbandonato che scolorisce al sole, dimenticato nel silenzio della periferia e che, come ultimo dettaglio, fu costretto ad ospitare il comando Torino Sud dell’esercito tedesco durante l’occupazione nazista.

Alessia Cagnotto

 

Villa Moglia, la dama addormentata

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)

 

6 / Villa Moglia

 

Quella di oggi è una storia triste, simile al racconto di una dama addormentata che ancora aspetta il bacio del risveglio. Stesa tra le colline del chierese, si trova Villa Moglia, una dimora di circa 6138 m2, circondata da un enorme parco, di quasi 30 000 m2, che le fa da dormeuse. Non c’è nessuna leggenda specifica che si ambienti tra le mura di questa enorme costruzione, anche se alcuni chiacchierano di ritrovi satanici, altri giurano di aver visto i fantasmi dei bambini che lavoravano nell’antico opificio, che qui vi era un tempo, ma l’unico vero mistero è come abbia fatto la portentosa Villa Moglia a trasformarsi in un enorme cumulo di sterpaglie. La villa fu la prima costruzione a sorgere su quei terreni, tanto tempo fa, nei primi anni del 1600. La storia inizia con Ercole Turinetti, originario di Poirino, che si trasferì a Chieri in cerca di fortuna. Egli divenne maestro di grammatica e riuscì ad acquistare il lotto di terra per progettare la costruzione di una filanda, con annessa coltivazione di gelsi. Ercole sposò Maria Garagno, una donna del luogo molto facoltosa; essi ebbero tre figli, Giorgio, Ercole II e Antonio Maurizio. Tutti aiutarono il padre nell’attività dell’opificio, che andò presto iniziò ad avere successo. Fu del terzogenito di Antonio Maurizio, Giuseppe Maurizio, l’idea di costruire una villa attorno alla fabbrica. Per progettare l’abitazione, Giuseppe chiamò illustri personalità torinesi, tra cui forse Filippo Nicolis di Robilant e Luigi Barberis. Giuseppe Maurizio si sposò due volte, ma non ebbe eredi. La villa cadde poi in uno stato di abbandono, fino a quando, nell’800, il Conte Federici, un patrizio genovese, la acquistò per capriccio, e subito dopo la regalò ad un suo faccendiere di umili origini. Questi, senza denaro e incapace di gestire un edificio così grande, lo svuotò completamente, vendendo tutto il possibile.

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Dopo un altro lungo periodo in cui la casa fu in disuso, verso la metà del ‘900, Villa Moglia venne in parte ristrutturata e occupata dai Salesiani, che la tramutarono in un centro per novizi missionari. Evidentemente il destino di Villa Moglia era quello di spegnersi insieme alla dinastia dei suoi antichi proprietari, poiché anche i Salesiani, senza un motivo precisato, lasciarono la struttura, che cadde nuovamente preda dei rampicanti e del tempo che avanza inesorabile. Negli anni ’70 la villa entrò a far parte del patrimonio del Comune di Torino.   Venne emesso un bando per la concessione a enti o associazioni che se ne potessero assumere il restauro e la gestione, ma nessuno apprezzò l’offerta; nel 2007 l’imponente costruzione entrò a far parte dei diciannove edifici del Fondo Città di Torino. Questa è la storia di Villa Moglia, iniziata con il sogno di un maestro di grammatica, finita con l’addormentarsi silenzioso di un colosso che sta implodendo su se stesso. Non è difficile rinvenire la struttura, si trova esattamente dove è stata edificata un’eternità fa, al termine di un lungo sentiero che accoglie i visitatori, lo stesso che sto percorrendo in macchina in compagnia di due amiche, Martina e Irene.

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È uno spettacolo portentoso: imprigionato da una natura rigogliosa, l’antico edificio si staglia netto davanti all’azzurro intenso del cielo. Già da lontano si intuisce quanto ci sia da esplorare e la curiosità spinge tutte e tre ad accelerare il passo. La giornata è calda e prima di addentrarci nella villa approfittiamo del refrigerio dell’ombra dei grandi alberi presenti nel parco circostante. La prima cosa che noto è che, per essere un luogo in abbandono, esso è piuttosto frequentato: si sente il vociare di gruppetti di giovani curiosi, li raggiungiamo ci diamo come il cambio di consegne con altri tre “esploratori” che si fermano a darci alcuni consigli su dove andare a “ficcanasare”. Entriamo nella villa oltrepassando un porticato, le colonne massicce sorreggono sulle proprie spalle tutto un altro piano, costellato di finestre e finestroni, che il forte sole di questo giorno rende iridescenti. L’edera ed i rampicanti sono riusciti ad entrare ovunque, si avvinghiano alle pareti con forza, stritolano tutta villa, tanto che il rumore dei nostri passi potrebbe essere il suono dei muri che scrocchiano. La prima stanza che incontriamo è color acqua marina, non è molto grande e serve a condurci allo scalone principale. La bella giornata ci regala spettacolari giochi di luce ed ombre, ottimi per le fotografie che stiamo scattando. Le altre sale che oltrepassiamo differiscono per grandezza e sfumature di colore, alcune sono lievemente più cupe, altre fanno male agli occhi talmente riflettono la luce esterna. Unico elemento in comune è lo stato di degrado, non c’è un vetro intatto, i pavimenti sono consunti e si alternano a pezzi di terriccio, le pareti sono state tutte spellate e private di dignità e bellezza. L’intera struttura è senza mobilia, gli unici elementi di arredo sono vecchie porte di legno secco, alcuni bagni troppo sporchi persino per essere vandalizzati e pezzi di antichi e arrugginiti macchinari, ammonticchiati uno sull’altro, come si fa con le cose vecchie.

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I raggi del sole scendono calpestando sinuosi i gradoni di marmo, passano sotto gli archi esterni, scivolano sui pavimenti e si appoggiano a quel che resta degli affreschi ormai irrecuperabili.

È la luce a farci da guida attraverso la particolare planimetria della villa, che presenta una struttura centrale a forma di U, dalla quale si diramano corridoi e passaggi che conducono alle altre zone.Trovo un locale adibito a cinema, è un’ampia sala suggestiva, dal pavimento spuntano delle vecchie sedie di legno con la seduta pieghevole, schierate fianco a fianco, immobili, sembrano un plotone di soldatini giocattolo, hanno un aspetto fragile, ho timore che basti una parola detta a voce alta per farle sgretolare. All’interno dell’edificio vi è una cappella di famiglia, un tempo doveva essere splendida, ora mi chiedo per quanto riuscirà a sopravvivere intatto l’altare, unico elemento risparmiato dalla brutalità dei precedenti visitatori. Ecco tutto attorno alle pareti i segni delle sette sataniche, scritte illogiche e sgrammaticate che non mi fanno pensare a tremendi riti occulti, ma a gruppi di ragazzini sciocchi che non sanno come passare il sabato sera. La luce sta diminuendo e data la grandezza della villa è bene metterci in marcia per tornare indietro. Non tutte le storie sono uguali e non tutte possono sempre coinvolgerci totalmente, così è stato per me l’incontro con Villa Moglia: mi porto a casa delle fotografie esteticamente belle, ma con poco significato. Forse questa volta sono arrivata tardi, il corpo della villa sarebbe stato ancora lì per un po’, ma l’anima se n’era già andata via, prima che l’edera riuscisse a stritolare anche lei.  

 

Alessia Cagnotto

 

Il Ponte del diavolo

5 /  Questa è una storia di scelte, quale versione fare propria? Il detto dice: “vedere per credere” e io aggiungo “e per decidere”. È domenica ed è un bel giorno per un pick-nick all’aria aperta, prendo la macchina, raccolgo gli amici fidati, compagni di avventura e mi avvio verso le Valli di Lanzo

Qui si trova un ponte, detto Ponte del Diavolo, è fatto di grossi ciottoli di pietra, il suo arco è a tutto sesto, gli passa sotto l’acqua fredda e tumultuosa della Stura, la sua presenza scenografica si staglia nel panorama della valle, ma il fascino della costruzione risiede nel mistero della sua edificazione. Il luogo è decisamente turistico, per trovarlo è sufficiente seguire i cartelli stradali.Quando arriviamo è proprio ora di pranzo, spinti un po’ dalla fame e un po’ dalla curiosità, scendiamo dalla macchina velocemente ed imbuchiamo a piedi il sentiero che dalla strada ci conduce al ponte. Rimaniamo un attimo straniti dal bizzarro ritrovamento che facciamo immediatamente: sotto il cartello turistico di spiegazione della storia del sito troviamo un gruppo di ossa di mucca, dalla disposizione sembrano state lanciate a casaccio, come dadi durante un gioco da tavola. Stupiti, continuiamo il nostro percorso. In lontananza si sente già il fragore del fiume, l’erba si muove sinuosa sotto le carezze ruffiane del vento. Dopo poco tempo troviamo un tavolino con panche di pietra posto vicino alla strapiombo della collina: addento il panino più panoramico che abbia mai mangiato. Finito il pranzo ci rimettiamo in marcia, seguiamo il frastuono dell’acqua che aumenta, oltrepassiamo una piccola chiesetta, chiusa ed abbandonata, fatta di pietroni e cemento; al suo interno si intravvede un affresco, imprigionato dietro delle grosse sbarre che impediscono l’accesso ai visitatori, e a lui di essere restaurato. Il sentiero aumenta l’inclinazione e per poco non inciampo sui miei stessi passi, distratta dal guardarmi attorno; mi ricompongo e finalmente vedo il ponte per cui abbiamo fatto tanta strada.

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Da quell’angolazione ricorda l’illustrazione di un vecchio sussidiario, un acquerello antico, dai colori che fanno fatica a mantenersi vividi. Secondo la versione ufficiale fu edificato nel 1378, con il consenso del vice castellano di Lanzo, Aresmino Provana da Leynì, collaboratore di Amedeo VI di Savoia, conosciuto come il Conte Verde. La spesa per costruirlo fu ingente, tanto che per sostenere i costi venne imposta una tassa sul vino per dieci anni. Il ponte metteva in collegamento Lanzo e Torino, e permetteva di non passare attraverso territori all’epoca ostili, come Balangero, Mathi o Villanova, località governate dai principi d’Acaja, e nemmeno da Corio, in cui vigeva la giurisdizione dei marchesi del Monferrato. Nel 1564 venne ordinata, da parte del Consiglio di Credenza di Lanzo, la costruzione di una porta sul ponte, per controllare il passaggio dei forestieri, possibili portatori di peste, morbo che si era diffuso in quel periodo ad Avigliana e nelle zone limitrofe. Lo scorcio che sto guardando è davvero suggestivo, non a caso una ricerca condotta da “La Repubblica” colloca il ponte del Diavolo tra i trenta più belli d’Italia. I raggi del sole cadono a picco nell’acqua, il grigio cangiante dei ciottoli levigati lungo la riva risplende sotto il calpestio dei nostri passi, gli unici altri colori sono il marrone del terriccio e il verde degli alti e magri fili d’erba. Giochiamo a guardarci attorno, ci arrampichiamo per lo stretto sentiero che ci porta attraverso i roccioni limitrofi, quasi interamente ricoperti di lichene, di qui ci affacciamo a guardare le “Marmitte dei Giganti”, allunghiamo in giù il collo, come fanno i gatti quando stanno per fare un salto molto alto.

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In questo punto il rumore del fiume è assordante, gorgoglia come un mostro marino; osservo l’acqua che turbina nei mulinelli, posso assaporare la forza della corrente che risucchia verso il basso; mi piace il colore del fiume, un azzurro opaco striato di increspature bianche. Percorriamo il ponte più volte, dalle due estremità si vede solo fino a metà tragitto, fino al punto in cui la curva dell’arco precipita. Secondo alcune leggende le anime dei morti iniziavano il proprio percorso nell’aldilà a partire da quel punto preciso, si incamminavano incerte e fino a che non arrivavano a metà strada non sapevano se sarebbero finite all’Inferno o in Paradiso. Dal punto più alto del ponte mi fermo a guardare la valle, sezionata a metà dalla Stura, i fianchi delle colline profumano di alberi ombrosi, di lì, il resto del mondo sembra tanto distante. Per vari motivi, -l’ampiezza della struttura, la forma dell’arco che doveva sostenere la costruzione, la gittata nella sua totalità-, la realizzazione del ponte fu molto difficoltosa, tanto che esso crollò due volte e la soluzione a tali problemi non veniva trovata. Fu il Diavolo ad intervenire. Egli promise che avrebbe costruito il ponte nel trascorrere della notte in cambio dell’anima del primo che lo avrebbe oltrepassato; alle prime luci del mattino il collegamento tra le due sponde era stato eretto e per non venir meno ai patti, il capomastro, decise di far oltrepassare il ponte ad un ignaro cagnolino. Il Diavolo si infuriò per essere stato ingannato, sbatté forte le sue zampe nel terreno e formò le ora caratteristiche “Marmitte dei Giganti”. Il sole sta calando e anche il fragore del fiume pare tranquillizzarsi, la giornata sta per volgere al termine ed è ora di andare via. Penso all’ingenua bellezza delle storie antiche, penso che mi piacciono sempre e che vorrei conoscerle tutte. Penso a chissà quanti altri luoghi che ho visitato hanno in sé storie che non conosco. Penso che un po’ di fantasia non può far male e scelgo di credere alla seconda versione di questa storia.Penso che, se il detto ha ragione, probabilmente a sovrintendere i lavori, sarà stata una donna.

 

Alessia Cagnotto

 

Leri Cavour, le estati di Camillo Benso

4 /  Oggi non voglio raccontare una storia, ma dipingere un quadro. Il cielo è turchese, la luce che si spande nell’aria è quella del mattino, si appoggia, timida, sulle cose del mondo, levigandone i contorni. Al centro della tela vi è una villa a pianta quadrata, suddivisa su due piani, ha pareti sobrie e bianche, eleganti nella loro austerità. Semplici bassorilievi decorano le finestre ed il portone principale, su tutto dominano i toni del bianco, dell’azzurro e del grigio; con educato contrasto si delineano le linee marroni e terra d’ombra del legno delle finestre e del portone principale. La villa è in procinto di svegliarsi, le imposte al piano superiore aperte per metà rappresentano un metaforico sgranchirsi dopo il riposo della notte. Tutto intorno vi è un gran fracasso di persone, contadini già stanchi si mescolano a qualche figura ben vestita, mentre un distinto cane da caccia insegue un gruppo di galline, un giovinetto porge dei fiori alla sua bella. Si sta eseguendo un quadro manierista, ricolmo di infiniti dettagli, uno in particolare va messo in risalto: nell’angolo in basso a sinistra, vicino all’anziana contadina che spia i giovani innamorati, il prete del paese sta discutendo con un signore dall’aria raffinata e dai lineamenti leggermente rotondi come i piccoli occhiali che indossa. Quello che si è delineato è un esercizio di pura fantasia, se avesse un titolo potremmo proporre: “Visione idealizzata di una giornata di Camillo Benso, Conte di Cavour, durante l’estate a Leri”. Sappiamo infatti che il grande statista piemontese, amava trascorrere più tempo possibile presso questo borgo, una sua tenuta estiva a cui egli era molto affezionato. Si dice che qui abbia scritto ben ottantatre lettere documentate.

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Ci troviamo nel vercellese, in una frazione di Trino, in una piccolissima borgata dalla storia antica e travagliata. I primi ad interessarsi alla zona furono i monaci Cistercensi, che, nell’XI secolo, bonificarono il territorio per adattarlo alla coltura del riso. La nascita del paesino è strettamente legata al Principato di Lucedio, di lì per nulla distante, e al Monastero di San Genuario, di cui era una grangia satellite. Il Monastero acquistò i terreni nel 1179 e ne trasse grandi benefici. Con il passare del tempo la borgata crebbe di importanza e di dimensioni, fino a quando, all’inizio dell’800, il territorio venne acquistato da Napoleone Bonaparte, che però non lo visitò mai di persona. In seguito la zona venne concessa al Principe Camillo Borghese, che lo vendette a Michele Benso di Cavour, padre di Camillo. Grazie agli interventi della famiglia Cavour il borgo cambiò completamente aspetto, trasformandosi in una sorta di azienda agricola, Camillo stesso progettò dei macchinari per l’epoca avanzati e moderni, volti sia al lavoro nei campi, sia a migliorare il sistema di irrigazione. Oggi, chi si avventura a perlustrare il territorio di Leri non trova alcuna facilità nell’immaginare l’operosità ed il fermento che all’epoca caratterizzava questa zona. Quando mi metto in macchina, con due amici, per raggiungere la borgata i colori attorno a me sono intensi, in netto contrasto gli uni con gli altri. Non sono io questa volta a guidare e decido di distrarmi guardando il paesaggio in continua trasformazione al di là del finestrino: penso alle vecchie pellicole in cui le scene erano tutte accelerate e i protagonisti si muovevano a scatti. Usciamo dalla via principale ed imbocchiamo una stradina sterrata e non capiamo nemmeno di essere arrivati a destinazione. Siamo scivolati in una atmosfera di onirico silenzio, la moltitudine di cascine e strutture a due piani sembrano essersi addormentate in seguito a chissà quale incantesimo; tutto sta riposando e nel sonno invecchia senza accorgersene.

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Estraggo la mia reflex ed inizio l’esplorazione: le crepe delle pareti sembrano rughe, gli oggetti di legno sono ingrigiti, in generale tutto pare sbiadito. Il paese di Trino visse fino agli anni ’60, poi iniziò a spopolarsi con lentezza inarrestabile. Si sparse la voce, in quel periodo, che sarebbe stata costruita una seconda centrale nucleare, in una zona troppo vicina perché gli abitanti dell’epoca potessero accettarla; fu questa, forse, la ragione principale della migrazione, e così, piano piano, qualcuno iniziò ad andar via, fino a quando rimase solo ciò che non poteva spostarsi. Negli anni ’80 ci fu un piccolo ripopolamento, alcune famiglie degli operai dell’Enel si trasferirono nelle vecchie cascine, ma fu una breve resurrezione di appena dieci anni. Negli anni ’90 qualcuno propose di costruire lì un Museo Nazionale dell’Agricoltura, ma le parole si persero nel vento, come l’ipotesi, del 2011, di iniziare i lavori di restauro per recuperare la tenuta della Famiglia Cavour, in occasione dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia. È malinconicamente romantica la sensazione che provo, osservando oggetti dimenticati, traccia silenziosa del vissuto di qualcuno, mi colpiscono uno stendibiancheria e degli adesivi appiccicati al muro ad altezza di bambino. Tutte le strutture sono prive di mobilia, le finestre e le imposte e le porte sono state scardinate e appoggiate ai muri, l’unico edificio chiuso ermeticamente è la chiesa. Ci aggiriamo tra quei colossi assopiti, il loro respiro calmo passa attraverso i battenti scarni, levigando con delicatezza la loro pelle di cemento e pietra, fino al momento in cui ci ritroviamo in uno spiazzo quadrato, che circonda un edificio, abbastanza ben conservato, dalla pianta quadrata e che si alza su due piani.

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È il cuore, un tempo pulsante, di Leri, villa Cavour. Entrare dell’edificio è difficoltoso, poiché tutto attorno sono cresciute delle siepi spinose, abitate da una moltitudine di api indaffarate: è complicato, ma non impossibile. Una volta varcata la soglia entriamo in un grande salone affrescato, i decori sono sulle tinte del blu e dell’oro, sulla parete che sta di fronte a me e in quella alla mia sinistra sono stati dipinti dei finti caminetti, il muro che sta alla mia destra è squarciato da due grandi finestre rettangolari. I segni delle intemperie sono visibili, ma pare che il tempo abbia voluto essere meno intransigente con questo edificio. La villa è abbastanza grande, priva di arredamento interno, ogni sala è dominata da una tinta differente, penso che se si frantumasse potrebbe trasformarsi in un ipnotico enorme caleidoscopio. Giriamo con calma, venendo meno alla tabella di marcia; scatto molte fotografie tentando di catturare le sfumature di colore, ad ogni passo rifletto sul fatto che ogni cosa, lì, è pregna di Storia. Abbiamo appena finito di visitare tutte le stanze, quando il cambiamento di luce mi avvisa che è ora di andare. Anche qui ci sono stati avvistamenti di spiriti e fantasmi, ed è il momento di lasciare spazio a loro, i degni abitanti di quei sogni lontani che i giganti di pietra ancora stanno vagheggiando.

Alessia Cagnotto