Il puntaspilli- Pagina 6

Verde pallido

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

 

Tra il 1940 ed il 1970 la quota mondiale di energia prodotta da idrocarburi è passata dal 26% al 70%, in larga misura in sostituzione del carbone. 

 

I “petro-stati”, Paesi, quasi mai democratici, concentrati per lo più nell’area mediorientale, resi ricchissimi dalle loro risorse energetiche, erano nati.

 

Stati fino ad allora poverissimi accumulavano in pochi anni immense ricchezze (in larga parte a vantaggio di pochi fortunati).

 

Per avere un’idea di quanto è accaduto negli anni successivi, basti pensare che tra il 1970 ed il 1980 il PIL pro-capite in Quatar ed Arabia Saudita è cresciuto rispettivamente di 12 e 18 volte.

 

Potremmo essere ora alla vigilia di qualcosa di molto simile: la transizione energetica che ci porterà ad uscire dall’era degli idrocarburi incanalerà enormi investimenti verso i produttori delle materie prime rese necessarie dal passaggio alle energie rinnovabili.

 

Secondo uno studio pubblicato dall’autorevole settimanale “The Economist”, a beneficiarne sarà ancora una volta un limitato numero di Paesi che soppianteranno così i “petro-stati” e che potremmo chiamare le nuove “superpotenze verdi”.

 

Non si tratterà, infatti, semplicemente di una transizione energetica bensì di un cambiamento che coinvolgerà l’utilizzo di un ampio spettro di materie prime innescandone un potentissimo ciclo di crescita.

 

Ad onor del vero le materie prime non sono nuove a movimenti prolungati e bruschi (i “cicli”).

 

Nella prima parte del nostro secolo la frenetica industrializzazione, accompagnata da una urbanizzazione di dimensioni bibliche, della Cina ha trasformato il gigante asiatico nel principale consumatore di molte risorse minerarie ed ha scatenato una corsa al loro accaparramento che ha consentito a Brasile e Russia (due dei principali produttori) di accrescere il loro PIL del 75% tra il 2000 ed il 2014.

 

Il rallentamento cinese, frutto della nuova linea inaugurata con l’ascesa al potere dell’attuale presidente, Xi Jin Ping, ha bruscamente interrotto il ciclo delle materie prime e con queste a soffrire sono stati i loro produttori.

 

Questa volta il mega-ciclo (che condurrà alla decarbonizzazione) non dipenderà dalla decisione di un, seppur gigantesco, singolo Paese ma da scelte condivise a livello mondiale e richiederà parecchi decenni.

 

Un’altra differenza è costituita dai materiali che verranno utilizzati.

 

I protagonisti non saranno più il carbone, il ferro e l’acciaio che hanno contribuito a costruire fabbriche e palazzi in Cina.

 

La rivoluzione verde si nutrirà anche di una serie di metalli non ferrosi relativamente poco diffusi (e con produzioni limitate) e di nicchia e questo finirà per renderle molto preziose (pessima notizia per noi che dovremo acquistarle).

 

Quali saranno le nuove superpotenze “verdi”?

 

Alcuni Paesi democratici come l’Australia ed il Cile (che detiene il 42% delle riserve mondiali di litio ed il 25% di quelle di rame) figurano nella lista ma la maggiore quota sarà composta da regimi autoritari, dal Congo (che produce il 70% del cobalto) alla Cina (alluminio, zinco, terre rare) e, naturalmente, la Russia.

 

Tra i Paesi OPEC, produttori degli “odiati” idrocarburi, potrebbero non soffrire troppo quelli a basso costo di produzione (Iran, Iraq, Arabia Saudita e Russia) che riusciranno a compensare la discesa dei consumi con l’aumento della loro quota sulla produzione complessiva, che passerà dall’attuale 45% al 57% nel 2040.

 

A soffrire di più saranno quei territori dove l’estrazione del petrolio è più difficoltosa e costosa: in Africa (Algeria, Egitto, Sudan, Angola e Nigeria) ed in Europa (Regno Unito e Norvegia).

 

Non c’è dubbio che il verde si tramuterà in fruscianti verdoni per molti Paesi ma la storia ci insegna che questa enorme fortuna può diventare velocemente una terribile maledizione.

 

L’abbondanza di risorse naturali si è spesso trasformata, infatti, in una perniciosa dipendenza: dopo avere (male) utilizzato le enormi ricchezze molti Stati (dal Brasile alla Nigeria) hanno iniziato a vivere al di sopra dei loro mezzi e non appena il ciclo ha cambiato direzione (con una discesa dei prezzi) si sono ritrovati in preda di violente crisi economiche, finanziarie, politiche e sociali che ne hanno, qualche volta irrimediabilmente, minato la stabilità.

 

La International Energy Agency (IEA), un ente indipendente, prevede che nel mondo, per diventare a “zero-emissioni”, l’eolico ed il fotovoltaico genereranno il 70% dell’energia entro il 2050 contro l’attuale 10% circa.

 

La domanda di metalli come cobalto, rame e nickel, ingredienti indispensabili per foraggiare le tecnologie utilizzate, salirà di ben sette volte entro il 2030.

 

Potrebbe essere un boom (con una conseguente salita dei costi che dovremo sostenere) senza precedenti che dovremo gestire con saggezza per evitare che, alla fine, la rivoluzione verde sia molto, molto più pallida di quella che sognavamo.

 

Brothers in Arms

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Il prolungarsi del conflitto in corso sta generando timori e paure di un suo possibile allargamento su scala europea o addirittura (se dovesse essere coinvolto uno dei Paesi appartenente alla Nato) mondiale.

E’ difficile sottovalutare la gravità della situazione ma ritengo che possa essere di aiuto cercare di comprendere, esaminando la spesa militare delle parti in campo, quanto questo timori siano fondati.

 

La parte di gran lunga più importante della spesa militare mondiale è sostenuta dagli Stati Uniti che nel 2020 hanno investito (dati 2020 forniti dal SIPRI, Stockolm International Peace Research Institute) 778 miliardi di dollari, pari al 39% dell’intero pianeta.

 

Al secondo posto figura la Cina, che ha destinato a questo settore investimenti pari circa ad un terzo degli americani.

 

La Russia, infine, ha speso meno di un quarto degli “amici” cinesi: quanto basta per avere ragione dell’Ucraina, uno dei Paesi più poveri d’Europa, ma non certo per potere sostenere una lunga e dispendiosa campagna di riconquista dei territori della ex Unione Sovietica, la cui dissoluzione è stata, secondo le parole pronunciate nel 2005 da Vladimir Putin, “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”.

 

Il dispendio di mezzi (materiali, finanziari ed umani) con il quale la Russia finirà probabilmente abbattere la coraggiosa resistenza ucraina non lascerà a Putin spazio per altre avventure per un po’ di tempo e non sarà certo la Cina ad intervenire in suo aiuto, prestando il fianco ad azioni che potrebbero destabilizzare l’equilibrio interno che Xi Jin Ping sta cercando di consolidare (con una ridotta attenzione all’Europa e lo sguardo rivolto agli Stati Uniti).

 

La pressoché perfetta complementarità tra la Russia (ricchissima di materie prime e povera di strutture produttive su vasta scala) e la Cina (povera di materie prime ma strutturata come un enorme stabilimento produttivo) ha la potenzialità di sfociare in un matrimonio di interesse ma non certo al costo di trascinare il gigante asiatico nella lista dei cattivi (dalla quale sta cercando faticosamente di uscire da molti anni).

 

Le dolorose vicende devono però renderci consapevoli della necessità di un sistema difensivo europeo che sia in grado di esercitare un potere dissuasivo convincente di fronte a chi avesse in animo, un giorno, di affacciarsi con intenzioni bellicose ai nostri confini.

 

Sarebbe forse il caso di provare a riannodare i fili della CED (la Comunità Europea di Difesa) che nel 1952 la Francia presentò, in collaborazione con l’Italia di Alcide De Gasperi, e che venne sottoscritta dai sei Paesi “fondatori” della EU: Italia, Francia, Germania dell’Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

 

L’ambizioso progetto, innescato nel 1950, con il “Piano Pleven” (dal nome dell’allora primo ministro francese), dal padre fondatore dell’Unione Europea Jean Monnet, su pressioni statunitensi, per una collaborazione militare tra stati europei in contrapposizione alla crescente potenza sovietica, finì per essere bocciato proprio dal Parlamento transalpino nel 1954 e venne così definitivamente abbandonato.

 

Il recente annuncio della Germania di volere incrementare la spesa militare dall’attuale 1,4% a più del 2% (il livello richiesto dalla NATO ai Paesi aderenti) tradisce ancora una volta la mancanza di un’azione concordata con i partner europei e dovrebbe farci riflettere sulla insufficiente coesione di azioni ed obiettivi di comune interesse.

 

Gli investimenti militari tedeschi sono così destinati a crescere dagli attuali (dati 2021) 57.5 miliardi di dollari ad 83,5 nel 2024, portando la Germania ad occupare il terzo posto della classifica, dopo americani e cinesi.

 

Occorre sempre ricordare come gli investimenti nel settore della difesa hanno importanti ricadute economiche (gli investimenti producono ricchezza e occupazione) e tecnologiche (è spesso in ambito militare che vengono sviluppate importanti innovazioni, internet ne è un esempio, che trovano poi diffuse applicazioni in ambito civile) e la Grande Germania, giocando d’anticipo con la sua azione isolata, potrebbe scavare un fosso ancora più profondo con gli altri Paesi dell’Unione.

 

Passata la fase più acuta e guerreggiata della crisi attuale sarà fondamentale per il nostro Paese presentarsi nuovamente al centro del progetto europeo che ha contribuito a fondare e sostenere, con il fondamentale appoggio della Francia, un’azione concertata che renda il nostro continente più sicuro e all’avanguardia, pronto per affrontare le sfide di un futuro sempre più incerto e difficile da prevedere.

 

Solo così potremo provare a eludere il rompicapo costituito, e non certo da oggi, dalla Russia che, come scriveva Winston Churchill “è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”.

Guerra digitale

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il gruppo di “hackers” (pirati informatici) internazionale Anonymous, nato nel 2003, ha dichiarato guerra alla Russia nelle ultime settimane, ed ha violato in rapida successione alcune reti televisive filogovernative,      il sito del Cremlino e della difesa e, in ultimo, quello della Roskomnadzor, l’agenzia che censura la diffusione delle informazioni (controllando, ad esempio, l’accesso a Facebook e Twitter).

 

Si tratta degli stessi autori che hanno violato il sito della discussa chiesa di Scientology, sostenuto le manifestazioni della primavera araba, dei movimenti “Occupy Wall Street” e “Black Lives Matter” (quest’ultimo piratando il sito della polizia di Minneapolis).

 

La risposta Russia non si è fatta attendere e sono stati sottoposti ad attacco e resi inutilizzabili una serie di siti ucraini.

 

Ma per il momento Mosca, alla quale è stata attribuita in passato la regia di importanti cyber-attacchi (alcuni dei gruppi più noti di hackers agiscono dalla Russia), non ha alzato troppo il livello della tensione sul fronte informatico (quello militare assorbe tutte le sue energie) ma in futuro potrebbe cambiare atteggiamento.

 

Un campanello di allarme sono stati gli attacchi che hanno avuto come obiettivo nei giorni scorsi uno dei leader della tecnologia Nvidia (il più grande produttore nazionale di semiconduttori) e la Toyota (il maggiore costruttore di auto al mondo), importanti realtà aziendali di due Paesi (Stati Uniti e Giappone) della coalizione che si oppone alla Russia.

 

Una guerra informatica, una “cyber war”, potrebbe continuare ad essere combattuta sottotraccia ma con una crescente intensità nei prossimi anni.

 

Negli Stati Uniti ben due agenzie governative, la National Security Agency (NSA) e la Central Intelligence Agency (CIA) hanno creato una specifica divisione dedicata alla attività di “hacking” informatico e queste si aggiungono allo “US Cyber Command”, uno degli 11 comandi combattenti del Ministero della Difesa.

 

In Europa la Commissione Europea ha presentato alla fine del 2020 un piano strategico sulla sicurezza informatica che dovrebbe dare corpo all’azione della ENISA (la European Union Agency for Cybersecurity, costituita nel 2005) a stimolo dei governi nazionali e delle aziende.

 

Terminati i combattimenti e le sanguinose cronache di queste ultime settimane i riflettori, a poco a poco (e per fortuna) si spegneranno ma non la necessità di mantenere la guardia alta sui nostri sistemi informatici.

La spesa mondiale per la sicurezza basata sulla tecnologia è attualmente vicina ai 200 miliardi di dollari e si prevede che raddoppierà entro il 2030.

 

Un’opportunità da sfruttare non solo per vincere la guerra sotterranea che è ora all’ordine del giorno ma anche per rendere più sicuro ed efficiente il nostro sistema sociale ed economico, sempre più digitalizzato e basato sulla conservazione e l’elaborazione di un’enorme, ed in continua espansione, mole di dati.

 

GasPutin

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’Europa è sempre stata considerata dagli Stati Uniti un po’ come il proprio cortile di casa, dove scendere solo quando il troppo rumore che ne proveniva non consentiva di riposare.

 

Ad oggi i tragici eventi europei stanno provocando modesti problemi agli inquilini della “casa” che però non possono certamente ignorare la minaccia posta loro dalla “risovietizzazione” della Russia di Putin.

 

Il signore del gas (il 17% di quello mondiale) e del petrolio (l’11% del totale) sta scuotendo con le sue azioni (e le reazioni/sanzioni generate) i mercati finanziari ma quello statunitense rimane quello meno impattato (pur dopo un inizio d’anno che si ascrive per Wall Street come il peggiore da molti anni a questa parte).

 

Uno dei fattori di maggiore destabilizzazione, dal punto di vista economico, è stato finora l’aumento del prezzo del gas (e del petrolio) ed è qui che l’Europa è stata pesantemente impattata, a differenza del continente americano.

Il mercato del gas è estremamente regionalizzato: non esiste un vero e proprio mercato mondiale, a causa gli elevatissimi costi sostenuti per trasportare (tramite nave) la materia prima da un continente all’altro.

 

Questo non aveva comunque impedito ai prezzi del gas di muoversi all’interno di una banda relativamente stabile e di allinearsi su livelli simili sino all’inizio del 2010 quando lo si poteva acquistare tra i 5 dollari negli Stati Uniti, i 7 in Asia e in Europa e i 10 in Giappone.

 

Da allora in poi il mondo del gas non sarebbe più stato lo stesso.

 

Lo sviluppo delle tecnologie per l’estrazione e la salita del prezzo del greggio al di sopra dei 100 dollari, all’inizio del decennio scorso, hanno reso conveniente lo sfruttamento degli enormi giacimenti di petrolio e di gas di scisto (estratto a 2-4.000 metri di profondità da uno strato di rocce argillose) sul territorio americano.

 

Per effetto della nuova produzione, gli Stati Uniti hanno così acquisito nel giro di pochi anni una virtuale indipendenza energetica (producendo internamente quanto loro necessario) ed il prezzo del gas sul mercato domestico è sceso al di sotto dei 3 dollari.

 

Nello stesso periodo i prezzi del gas si muovevano in direzione opposta, al rialzo, sia in Europa, fino a 12-13 dollari, a causa della liberalizzazione del mercato e dell’inizio dello smantellamento delle centrali nucleari tedesche, ed in Asia, sfiorando i 20 dollari, dove alla chiusura degli impianti nucleari giapponesi (similmente alla Germania, dopo l’incidente di Fukushima) si aggiungevano i problemi alle stesse in Corea e la rapida (e molto energivora) crescita economica cinese.

 

Quello che è successo negli ultimi anni non ha fatto altro che ampliare a dismisura la forbice tra il costo del gas naturale negli Stati Uniti (tornato ai 5 dollari, gli stessi livelli dell’inizio del 2010) ed il resto del mondo.

 

A soffrire maggiormente è, come i tragici eventi di questo periodo ci stanno insegnando, principalmente il nostro continente.

 

Il prezzo del gas è passato da noi dai circa 50 dollari dell’anno scorso ai 255 dollari (per le consegne di aprile) di oggi (7 marzo).

E’ probabile ancorché auspicabile, che la salita parabolica degli ultimi giorni si riveli una fiammata violentissima ma temporanea.

 

Il prezzo è estremamente volatile e prontissimo ad adeguarsi alle mutate condizioni economiche e geopolitiche: già a dicembre dopo essere raddoppiato (a 130 dollari) si era dimezzato (a 63 dollari) nella, sfortunatamente vana, speranza che i venti di guerra si stessero allontanano.

 

Il rischio che, ancora una volta, ad accendere la miccia di una recessione economica sia una crisi energetica non è certamente da escludere.

 

La situazione evoca, infatti, preoccupanti dejà vu con quanto avvenuto nel 1973 (la guerra dello Yom Kippur tra i Paesi Arabi ed Israele), nel 1979-80 (la rivoluzione iraniana e la guerra Iran – Iraq), nel 1989 (la prima guerra del Golfo, iniziata con l’invasione irachena del Kuwait) e nel 2001-2003 (l’attacco delle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e poi l’esplosione della seconda guerra del Golfo).

 

Come ricordava il celebre economista statunitense Jeremy Rifkin “Il regno dei cieli potrà anche essere fondato sulla giustizia ma quelli terrestri sono fondati sul petrolio”.

 

La durissima lezione che stiamo ancora una volta subendo noi europei è che l’eccessiva dipendenza dalla “benevolenza” dei nostri fornitori di energia costituisce un enorme costo economico, un insostenibile svantaggio competitivo (rispetto alle aziende statunitensi) ed una seria minaccia geopolitica.

 

Speriamo che la lezione che stiamo subendo possa insegnarci qualcosa e consentirci così di prepararci meglio ad un futuro sempre più incerto.

 

Perché, purtroppo, la guerra è vecchia quanto l’uomo e la pace è solo un’invenzione moderna…ancora tutta da perfezionare.

L’indice della paura

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

I timori che Vladimir Putin, procedendo con l’invasione, abbia sbagliato i suoi calcoli sono sempre più diffusi ed il sentimento della paura, il più forte e più antico dell’animo umano, come scriveva lo scrittore H. Phillips Lovecroft, comincia a prendere corpo tra gli investitori.

 

Al di là del dramma umanitario, che sempre accompagna le guerre, i mercati finanziari tendono cinicamente a focalizzarsi sui riflessi che simili situazioni esercitano sull’economia e sulle sue prospettive.

Le preoccupazioni ed i rischi che potrebbero abbattere ulteriormente le quotazioni dei mercati possono essere così riassunti:

  • Le sanzioni messe in campo contro la Russia si inaspriscono e finiscono per avere effetti negativi anche per chi le impone (in particolare provocando ulteriori e duraturi aumenti dei prezzi delle materie);
  • L’avanzata russa si deve arrestare a causa della resistenza incontrata e la situazione si prolunga in modo indeterminato (rendendo reali per i russi gli spettri della disastrosa esperienza in Afghanistan);
  • Putin esagera e invade uno degli stati confinanti appartenenti alla NATO;
  • L’opposizione interna porta alla caduta di Putin e la Russia precipita nel caos.

 

Realisticamente i rischi risiedono oggi principalmente nelle prime due possibilità (pur non potendo escludere completamente le altre).

 

Le sanzioni che mirano a tagliare fuori la Russia dai pagamenti internazionali (escludendo il suo sistema bancario dal circuito SWIFT) ed il timore di ulteriori sanzioni sta già gettando nel caos i suoi mercati, azionario ed obbligazionario, e facendo precipitare il rublo ma difficilmente impedirà, nei prossimi mesi, l’operatività delle banche russe.

 

La Russia ha da alcuni anni, proprio in risposta alle sanzioni internazionali,  costituito un suo sistema di pagamenti, l’NSPK (National Payment Card System), per risolvere le potenziali difficoltà nel gestire le sue transazioni nei circuiti tradizionali.

 

Molte banche russe risultano inoltre aderenti al sistema CIPS (Cross-border Interbank Payment System), alternativo allo SWIFT, costruito dalla Cina, che ha raccolto sempre più adesioni nel corso degli ultimi anni.

 

Quello che potrebbe fare davvero male a Mosca è la chiusura agli acquisti delle sue risorse energetiche (gas e petrolio) e minerarie: finora è sembrata una possibilità remota, per il potente effetto boomerang sui Paesi importatori europei, ma non è detto che continui ad essere così se il conflitto dovesse sanguinosamente protrarsi nel tempo.

 

Questo scenario potrebbe riportare in vita le ombre di una recessione che, per quanto ciò possa apparire strano, solo una volta dal termine del secondo conflitto mondiale è stata innescata da una crisi geopolitica.

 

Stiamo parlando della guerra dello Yom Kippur che nel 1973 vide contrapposti Israele ed i Paesi arabi, Egitto e Siria in testa, ad Israele.

 

L’embargo alle esportazioni di petrolio da parte dell’OPEC, il cartello dei Paesi produttori guidato dall’Arabia Saudita, ai Paesi che avevano sostenuto Israele, che ne seguì portò il suo prezzo a quadruplicarsi, da 3 a 12 dollari, in pochi mesi.

 

Il ricordo della pesante recessione di quegli anni, con il raddoppio del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti ed il quasi dimezzamento dell’indice Standard and Poor, è ancora vivo nei nostri genitori ed è popolato di razionamenti forzati, targhe alterne e pesanti disordini sociali.

 

Oggi le nostre economie sono molto meno dipendenti dal petrolio di 50 anni fa e le conseguenze di un simile scenario potrebbero essere meno drammatiche di allora ma ci auguriamo caldamente che non si debba trovare ad assistere alla sua controprova.

 

Venendo poi alla durata, è evidente che si tratta di una delle variabili più importanti: una guerra conclusa in pochi giorni o settimane riduce il numero di vittime e l’incertezza sul suo decorso e viene perciò vista positivamente (se così si può dire…) dagli investitori.

 

Un conflitto che assume una maggiore lunghezza ed un esito incerto può, al contrario, trasformarsi in un autentico incubo, non solo per chi lo sta combattendo ma anche per i mercati finanziari.

 

E’ noto, infatti, come la circostanza più temuta dai mercati è l’incertezza sul futuro (la peggiore paura è quella verso l’ignoto) ed ogni notizia che la accresce è salutata dai ribassi dei listini.

 

Questo è reso evidente dalla salita del cosiddetto “Indice della paura”.

 

Si tratta dell’indicatore “VIX” (“Volatility Index”) che misura la volatilità dell’indice del mercato azionario statunitense Standard and Poor.

 

La volatilità (le oscillazioni) dei prezzi tende ad aumentare quando sono in discesa e perciò viene utilizzata per misurare il livello di pessimismo (di paura) presente tra gli investitori.

 

In questi frangenti non riesco ad immaginare un consiglio migliore di quello fornito, in tempi non meno pericolosi di quelli attuali, da Martin Luther King: “Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno”.

Giochi pericolosi

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La situazione tra Russia e Ucraina rimane molto tesa e ha (in parte) scalzato il Covid dalle prime pagine dei giornali.

Il gioco delle parti (Russia, Ucraina, NATO) mantiene reale il rischio che il tutto possa degenerare in una guerra dalle conseguenze difficilmente prevedibili (le sanzioni potrebbero farne la parte del leone ma gli scontri, specie nelle aree sotto il controllo dei ribelli filo-russi, non sono da sottovalutare).

Rimane l’impressione che la Russia punti ad ottenere il massimo risultato con uno sforzo limitato (senza arrivare, cioè, all’esplosione di un conflitto aperto).

La strategia adottata da Putin mira al riconoscimento della sfera di influenza russa su alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica e l’Ucraina, con il suo “pericoloso” avvicinamento alla NATO, ne è l’esempio paradigmatico.

Su questo punto, peraltro, si è espresso recentemente il presidente francese Macron che ha dichiarato, durante l’incontro con l’omologo russo, che “non c’è sicurezza per gli europei se non c’è sicurezza per la Russia”.

D’altro canto Kiev aveva annunciato pubblicamente il proprio interesse ad aderire alla NATO già nel 2002 ed aveva poi richiesto, senza ricevere alcuna risposta, un piano d’azione per l’adesione nel 2008.

Alla Russia non basta però la forza dei fatti e richiede un riconoscimento formale (che molto, molto difficilmente arriverà) che le ex repubbliche sovietiche non faranno mai parte della NATO.

Quello che, più pragmaticamente, Mosca sta ottenendo è rendere chiara a tutti la sua intenzione a tornare a contare sullo scacchiere internazionale e di guadagnare così il ruolo di terzo incomodo al consolidato bipolarismo Sino-statunitense.

Arrivare sino all’orlo del precipizio (la guerra) sta inoltre consentendo alla terra degli zar di riscuotere un fortissimo dividendo grazie alla salita dei prezzi delle materie prime (gas naturale e petrolio in testa).

Basti pensare che il valore delle esportazioni di combustibili ed energia (il 54% del totale complessivo) è cresciuto nel 2021 di più del 50% mentre quello dei metalli (l’11% dell’export) è quasi raddoppiato.

Il rischio, e non solo per la Russia, è che il gioco sia diventato troppo rischioso, con la richiesta di riconoscere l’indipendenza del Donbass già occupato dal 2014 dai ribelli filorussi, e che la corda, a furia di tirarla, possa spezzarsi e, essendo vicini al bordo del burrone, si possa precipitare rovinosamente nel mezzo di una guerra.

Un accordo in extremis sembrerebbe il finale annunciato; esso porterebbe, infatti, benefici effetti per tutte le parti in causa (con limitati danni collaterali per la Russia che finora ha raccolto i frutti dell’aumento dei prezzi delle materie prime).

La riappacificazione porterebbe con sé quasi certamente una discesa dei prezzi delle materie prime energetiche (e non solo) e questo contribuirebbe a raffreddare i preoccupanti aumenti dell’inflazione che stanno minacciando da qualche mese la continuazione della ripresa economica.

La guerra che stanno combattendo le banche centrali è proprio quella contro l’innalzamento dei prezzi al consumo, prima dovuto ai colli di bottiglia della ripartenza dell’economia e poi esasperato dall’effetto sulle risorse energetiche e sulle bollette delle tensioni russo-ucraine.

L’inflazione, come ricordava Luigi Einaudi, è la più iniqua delle tasse in quanto colpisce in maniera maggiore i più poveri ovvero coloro che spendono in consumi (sempre più costosi…) la maggior parte del loro reddito.

In questo modo il carovita riduce il potere di acquisto dei salari e rallenta anche la crescita economica così ben avviata nel 2021.

Un bel gioco dovrebbe durare poco…ed essere giocato con intelligenza per evitare che a perdere siano tutti i partecipanti.

Sperando di non doverci ritrovare a dare troppo ragione a quanto scriveva Bertrand Russel: “Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Per quanto mi riguarda di una sola sono sicuro: di avere tantissimi dubbi…

 

Fuori dal letargo

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La tensione tra la Russia e la NATO è elevatissima e non sappiamo se questo porterà o meno nei prossimi giorni all’esplosione di un conflitto in Ucraina (dove, dall’annessione russa della Crimea, nel 2014, sono già morte 14.000 persone, tra le quali 3.000 civili, negli scontri tra i separatisti ucraini ad oriente, nel Donbass, e l’esercito).

La ricerca i Mosca di una linea comune con la Cina, per creare una alternativa alla NATO, è sempre più evidente e dovremo convivere a lungo con quello che si profila essere come una nuova versione, in salsa sino-russa, del bipolarismo di matrice sovietica.

Quello che però ritengo possa essere interessante esaminare qui brevemente è l’importanza che riveste il Paese, guidato dal 2012 dal presidente Putin, nel settore delle materie prime.

In ambito energetico, ad esempio, ben il 31% dei consumi di gas europei (esclusa la Turchia) arrivano da forniture russe (ne ho parlato qui https://iltorinese.it/2022/01/11/la-roulette-russa/ ).

Per essere chiari, non si tratta solo del gas e del petrolio, moltissimo se ne è discusso negli ultimi mesi, e del quale la Russia detiene rispettivamente un sesto ed un decimo della produzione globale.

La maggiore dipendenza dalle forniture di Mosca è infatti quella del palladio, con il 37% delle estrazioni mondiali.

Il palladio è il metallo più costoso (più dell’oro e del platino) ed è utilizzato principalmente (per l’85%) dall’industria automobilistica (per i convertitori catalitici degli impianti di scarico) che si trova già ora a fare fronte a prezzi in forte rialzo.

Le vetture elettriche risolverebbero il problema, ma è evidente che il parco auto dei prossimi anni sarà ancora composto principalmente dai motori termici o ibridi (entrambi hanno bisogno del metallo prezioso).

Rimanendo nell’ambito dei metalli preziosi, dal sottosuolo russo proviene anche il 10% di oro e platino (anch’esso utilizzato principalmente dal settore auto).

Ci sono poi gli altri metalli e leghe industriali (nickel, alluminio, ferro, rame, piombo, cobalto) dove l’importanza delle forniture russe è inferiore ma comunque rilevante, specie in un momento di elevata domanda (dovuta alla ripresa economica mondiale seguita alla recessione della prima parte del 2020) quale quello attuale.

L’orso (l’animale simbolo della Russia) è uscito dal letargo affamato e deciso a riconquistare quello che ritiene essere il proprio territorio (perso velocemente all’indomani la caduta del muro di Berlino).

Vengono alla mente le parole della scrittrice Margaret Atwood “Il modo migliore per essere gentili con gli orsi non deve essere molto vicino a loro.”.

 

Delitto e castigo

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il rispettato economista Rudi Dornbusch è famoso per avere detto che i cicli di crescita economica non muoiono di vecchiaia ma sono “assassinati” dalla Federal Reserve (la banca centrale americana). 

 

Si tratterebbe dell’eccessivo castigo (ben oltre la legittima difesa) di chi vuole rimettere in riga, dopo una fase di eccessi (troppa domanda di beni e servizi), l’economia che, sfuggita di mano, genera incontrollati e pericolosi aumenti dei prezzi.

 

E’ quanto stanno incominciando a temere gli analisti ora che anche la governatrice della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, dopo il suo omologo statunitense Jerome Powell, ha lasciato intendere che la politica monetaria, fatta di abbondanti acquisti di titoli e di tassi di interesse a zero, ha i giorni (mesi) contati.

 

I mercati finanziari non hanno tardato a reagire e la correzione subita dalle borse è stata sinora in linea con quanto storicamente è successo ogni qualvolta i tassi di interesse si sono mossi al rialzo ma senza provocare alcuna recessione.

 

Se questo si confermerà il caso. il calo del 15% subito dai mercati azionari potrebbe avere già in buona parte incorporato il cambiamento, dopo molti anni, di atteggiamento dei governatori delle banche centrali.

 

La correzione potrebbe essere solo un anticipo di quanto ci attende se, invece, dovessimo avviarci (anche a causa di una politica monetaria, fatta di tassi ufficiali in forte salita) ad un ciclo economico recessivo: in questi casi la discesa è stata mediamente superiore al 30%.

Per ora lo scenario principale rimane quello di un riassestamento delle elevate, valutazioni raggiunte dalle borse e dalle obbligazioni (frutto dei tassi vicini o addirittura inferiori allo zero).

 

Quello che è certo è che l’inflazione è uno “spettro” che si aggira anche in Europa (e non solo negli USA) es una BCE meno generosa rende la situazione italiana particolarmente delicata.

 

E’ noto che il nostro debito pubblico rapportato al PIL (il Prodotto interno lordo, la produzione nazionale) si colloca ai vertici mondiali (secondo solo a quello del Giappone) e una buona parte dei titoli obbligazionari emessi per finanziarlo (il 30%, era solo il 5% nel 2015) è nella cassaforte della BCE che con i suoi acquisti ha contribuito a mantenerne il costo sotto controllo.

A partire da marzo però la Banca europea comprerà quantità inferiori di BTP e diminuirà così anche la capacità (e la volontà) di mantenere i tassi di interesse di mercato vicini ai minimi storici.

 

Dopo il sospiro di sollievo tirato dopo l’elezione del capo dello Stato (dovuto alla ridotta incertezza sul futuro immediato) lo spread (il rendimento aggiuntivo richiesto per investire nei nostri titoli rispetto a quelli tedeschi) è tornato a salire, seppur di poco, reagendo al nuovo corso della politica monetaria.

 

Si tratta di un segnale da non ignorare: l’inflazione per sé potrebbe anche consentire di ridurre il valore reale del nostro debito (l’aumento del costo della vita erode il potere di acquisto dei redditi ma anche quello delle somme dovute) ma solo se riusciremo a mantenerne ad un livello inferiore i tassi che saremo chiamati a pagare.

 

E’ una sfida ardua che da un lato ci trova a combattere contro un nemico infido e che non possiamo controllare, l’inflazione, che in buona parte è frutto di variabili esterne come il prezzo delle materie prime, e dall’altro deve esserci di monito per quella che sarà la condotta di questo e dei prossimi futuri governi.

 

L’inflazione si può combattere e sconfiggere, la storia lo ha dimostrato, ma quello che non ci possiamo permettere è la perdita di credibilità nei confronti degli impegni presi con il PNRR.

 

Il ghiaccio sul quale stiamo pattinando è sottile e occorrerà muoverci con grande attenzione per evitare una dolorosissima rottura.

 

La situazione potrebbe migliorare con l’inizio del prossimo trimestre, finita la stagione fredda, quando i prezzi delle risorse energetiche dovrebbero stabilizzarsi e con loro il livello dell’inflazione (e la pandemia tornare a ritirarsi).

 

Sarà proprio nella riunione di marzo che nell’Eurotower di Francoforte la BCE deciderà i prossimi passi, sulla base dei dati che saranno stati pubblicati nel frattempo.

 

La responsabilità sulle spalle dei governatori delle banche centrali è pesante e ci vorrà tutta la loro attenzione per evitare di raffreddare troppo la crescita, alzando troppo i tassi proprio quando le pressioni inflazionistiche (dopo la forte accelerazione) potrebbero essere già in una fase di riduzione.

 

Il potenziale assassino può ancora decidere di non sparare al cuore della ripresa economica.

 

Proprio come Raskolnikov nel romanzo di Dostoevskij, esiste il rischio di compiere un delitto peggiore (l’uccisione della sorella della vittima designata/della ripresa economica) di quello inizialmente architettato (l’uccisione della vicina usuraia/dell’inflazione) e di doverne poi scontare il castigo.

 

Solo con l’arrivo della bella stagione saremo in grado di comprendere meglio l’evoluzione della situazione.

 

Potremmo allora davvero concludere, per citare José Saramago, che la forza della primavera non sarebbe niente se non avesse dormito l’inverno.

 

InCollato

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

La conferma del Presidente Mattarella mette fine alle incertezze legate alla permanenza dell’attuale governo alla guida del Paese per il prossimo anno, almeno fino alla prossima tornata elettorale (le elezioni parlamentari della primavera del 2023).

Si può tornare a pensare all’economia del nostro Paese e all’implementazione di quanto occorre per potere ricevere (e poi ben utilizzare) le risorse che ci spettano nell’ambito del Next Generation Plan.

Quest’anno saranno circa 40 i miliardi di euro messi sul piatto (pari al 2,2% del Pil italiano) e pronti per essere investiti.

Si tratta di una consistente tranche di un massiccio piano (il PNRR) che comprende 68,9 miliardi di aiuti a fondo perduto e 122,6 di prestiti agevolati (da restituire nei prossimi anni).

Dopo avere ricevuto i primi 24,9 miliardi nel 2021 i prossimi fondi sono subordinati al raggiungimento di una serie di obiettivi concordati con la commissione europea.

I primi 51 obiettivi fissati nel PNRR sono stati raggiunti prima di Natale e nel prossimo mese si dovrebbero rendere disponibili, pronti per essere investiti, altri 24,1 miliardi di euro.

Quest’anno gli obiettivi da raggiungere raddoppiano a 102: 66 di questi saranno costituiti da riforme che dovranno essere approvate dal Parlamento.

E’ davvero difficile sottovalutare l’importanza di mantenere una guida solida e credibile in presenza di variabili esterne (le pressioni provenienti dalle rinate pressioni inflazionistiche e da una graduale normalizzazione, dopo anni molto generosi, delle politiche monetarie in tutto il mondo ed il mutevole riassetto degli equilibri geopolitici tra Stati Uniti, Cina e Russia) ed interne (la gestione della pandemia e della coesione del governo) assai difficili da prevedere ed amministrare.

I mercati finanziari stanno attraversando, con qualche sussulto ed una malcelata preoccupazione, la transizione da una lunga epoca di tassi di interesse bassissimi, banche centrali benevole e totale assenza di inflazione (e modesta crescita economica) ad una fase di accelerazione economica (dopo la brevissima ma violenta recessione del 2020) messa però a rischio da un fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime (e dei prezzi al consumo di prodotti e servizi).

La stabilità è la migliore ricetta (qualunque sia il giudizio sul governo in carica) per fronteggiare una simile situazione; per poterla affrontare nel modo migliore, il Presidente Mattarella ha accettato di rimanere “incollato” al colle dal quale si apprestava a traslocare.

Con 759 voti su 983 votanti (pari al 77%) il riconfermato capo dello Stato diventa così il secondo più votato della nostra storia repubblicana (dopo Sandro Pertini eletto con 832 voti) e c’è da auspicarsi che un simile plebiscito possa essere di buon auspicio.

I prossimi sette anni potrebbero davvero traghettare il nostro Paese in una nuova era caratterizzata da una forte spinta alla sua modernizzazione (attraverso gli investimenti previsti nel PNRR per la digitalizzazione, le riforme in cantiere e le infrastrutture che ne miglioreranno la logistica).

Il rischio, se non sapremo fare tesoro di queste enormi potenzialità, è di non avere una seconda occasione per fare ricredere coloro che sono da sempre scettici sul Bel Paese e che condividono quanto scriveva Indro Montanelli: “Strano Paese il nostro: punisce i venditori di sigarette ma premia i venditori di fumo”.

Va pensiero

IL PUNTASPILLI    di Luca Martina 

 

Le ultime settimane hanno dato molto da pensare agli investitori dei mercati azionari. 

 

Dopo un brillante 2021, riflesso di una crescita economica che, dopo il forte rallentamento dell’anno precedente, non si vedeva da molto tempo, il nuovo anno, il terzo D.C., Dopo (l’inizio del) Covid, non è iniziato sotto i migliori auspici.

 

Le discese delle borse hanno “bruciato”, per ora, solo una parte della salita che avevano messo a segno ma in alcuni casi, per i settori ed i titoli che più avevano corso, si è trattato di una discesa già molto “dolorosa”.

 

Si tratta per lo più di società del settore tecnologico, che, in quanto beneficiarie per la loro attività dell’economia al tempo del Covid, erano state premiate dagli acquisti di clienti ed investitori.

 

Le azioni più rappresentative, le “FAANG” (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google/Alphabet), sono scese in un mese del 15% circa.

 

Peggio, molto peggio, si sono comportati i titoli più amati (e “sexy”) dagli investitori, appartenenti ai settori più innovativi e con la crescita futura più interessante (ma che presentano ancora, per lo più, bilanci in fortissimo passivo).

 

Si tratta delle società selezionate ed acquistate dalla celebre analista Cathie Wood per il fondo, da 16 miliardi di dollari, Ark Innovation Fund, da lei gestito: dopo avere perso il 23% nel 2021 (un anno positivo per i mercati azionari…) ha subito un ulteriore fortissimo calo del 25% a gennaio.

 

Per non parlare, poi, di un altro protagonista assoluto degli ultimi anni,  popolarissimo tra i giovani investitori di tutto il mondo, il Bitcoin, che ormai si è più che dimezzato (a circa 31.000 dollari) rispetto ai massimi di fine ottobre.

 

La soglia del dolore si è invece limitata a perdite del 10% circa per tutti i principali mercati borsistici mondiali.

 

Quanto basta, comunque, per instillare nella mente dei risparmiatori il pensiero ossessivo di dovere evitare ulteriori sofferenze e di iniziare a liquidare le posizioni presenti nei propri portafogli.

 

Il pessimismo è, dunque, tornato a regnare e, se la storia ci deve insegnare qualcosa, si tratta del momento peggiore per obbedire supinamente ai nostri istinti.

 

Proprio su questo tema gli americani Daniel Kahneman e Vernon Smith hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia del 2002.

 

Kahneman, uno psicologo ed economista, è ritenuto uno dei padri dell’economia comportamentale, la disciplina che studia gli effetti provocati sulle decisioni dalle reazioni psicologiche ed emotive e dai fattori sociali e culturali.

 

Già nel 1979, insieme allo psicologo israeliano Amos Tversky, Kahneman aveva elaborato la cosiddetta “teoria del prospetto” ed una delle sue conclusioni era che gli esseri umani attribuiscono un maggior effetto negativo alle perdite rispetto ai guadagni (anche quando questi sono stati superiori alle perdite successivamente subite).

 

Ma è nel suo libro di maggior successo, “Pensieri lenti e veloci”, che viene spiegato dal premio Nobel come le emozioni influenzino i comportamenti degli investitori rendendoli assai poco razionali.

La paura generata dalla discesa del valore del proprio patrimonio produce, infatti, una risposta immediata nel nostro cervello, in una regione chiamata amigdala, generando i “pensieri veloci” (istintivi, che non vengono, faticosamente, elaborati).

 

Si tratta di due piccole ghiandole che, rilasciando degli “ormoni dello stress”, attivano una parte del sistema nervoso (il sistema nervoso simpatico) coinvolto in quelle funzioni definite di «attacco o fuga» e spingono alla liquidazione (nel panico) dei propri investimenti.

 

Questo non deve naturalmente farci sottovalutare i rischi che, come risparmiatori, ci troviamo quotidianamente ad affrontare: dalla pandemia ancora da debellare, alla ripartenza dell’inflazione; dalla presenza di banchieri centrali meno compiacenti, ai tassi di interesse nuovamente in salita (con conseguenze negative sul prezzo delle obbligazioni e, potenzialmente, degli immobili).

 

Ma essere consapevoli delle nostre emozioni, elaborandole con il “pensiero lento” (frutto di faticose riflessioni e pazienti elaborazioni delle informazioni), anche quando amministriamo i nostri risparmi, può aiutarci a ridurre gli errori che siamo portati a fare quando, disperati ed in balia degli eventi, decidiamo di liquidare indiscriminatamente le nostre posizioni (o ad investire, senza badare ai pericoli, quando tutto sembra andare bene).

 

 

Per concludere: Karl Kraus, lo scrittore e umorista corrosivo ceco, scriveva che “La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci vorrebbe anche il pensiero…”.

 

Va’, pensiero…molto meglio se lento!