ARTE- Pagina 32

Le “Immagini danesi” di Birgitte Lykke Madsen

Mostra alla Galleria Pirra, sino al 19 maggio

Per la terza volta le sale della Galleria Pirra (corso Vittorio Emanuele II, 82) ospitano la pittura dell’artista danese Birgitte Lykke Madsen – Odense, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e dove vive e lavora, e dove è nata nel 1960. Un’artista che guarda avanti nella propria tecnica e altresì dentro il passato in questo impressionismo rivisto con gli occhi del Mare del Nord e del Mar Baltico, con i venti freddi, con le spiagge pochissimo frequentate, con gli isolotti che si mescolano alle onde che giungono sino a riva. Non siamo più di fronte all’arcata della scogliera di Etretat o ai poetici spazi d’acqua e alle ninfee di Monet, accanto alla casa di Giverny, non siamo più di fronte alle distese impazzite di fiori del Sud della Francia: i cieli i profumi i colori sono altri ma appieno mantengono la stessa irremovibile poesia. Le persone sono altre, bagnanti ragazzi donne di un’età indefinita, moderne, colti tutti nei loro costumi, negli abiti, nei movimenti, distesi nell’acqua o a nuotare o a chiacchierare in un momento di libertà. A confondersi con il mare.

Questa volta ci stanno di fronte le tele, di una certa grandezza o di dimensioni decisamente più ridotte che sono il frutto del progetto “Danske Billeder” – “Immagini danesi” (ovvero “Acqua e sabbia”; la mostra rimarrà aperta sino al 19 maggio, lunedì-sabato 10 / 12,30 – 15,30 /19, apertura domenica mattina, tel. 011 543393, galleriapirra.it: rischiando anche di essere prolungata, considerando l’interesse di pubblico nei primissimi giorni – nato nel 2020 a confronto di una pandemia che obbligava ognuno di noi nel chiuso della propria casa. La risposta era il bisogno intimo di evadere, la necessità fisica di lasciarsi toccare da un’altra aria, vera, integra, profumata, la necessità di liberarsi di quelle mura. Ed ecco l’artista infilarsi frettolosamente, ansiosamente, un paio di scarpe da trekking ai piedi e armarsi di un blocco da disegno per riempirlo di schizzi da sviluppare poi in studio, nel ritornato chiuso del suo studio. Ne nasce un viaggio – oli, più o meno una trentina, dove l’occasione si riallaccia pure a prove precedenti ma di eguale sentimento – fatto di più o meno piccole tappe, concepite con la mente e con il cuore allo stesso tempo, una ricerca di momenti e di paesaggi, di scorci d’acqua e di terra, tangibili realtà e magnifiche suggestioni, uno per tutti “Mare dei Wadden”, 140×140 cm: un viaggio in cui la natura e il corpo umano dialogano ancora con spazi ben definiti o si fanno tutt’uno nella stretta armonia dei verdi e dei blu. O – sulla sinistra della sala d’entrata, nelle sequenza di una decina di piccole opere – il corpo viene come risucchiato dalla liquidità dell’elemento, sino quasi a sparire, ad essere annientato. In un ambiente pressoché surreale. Dove la natura ha preso il sopravvento, in una tavolozza di colori sfacciatamente forti e arditi.

Nascono istanti carichi di bellezza. Forse di rifugio, forse di protezione cercata, forse di difesa dal frastuono della città. Istanti che chi guarda può considerare anche soltanto accenni, e in seguito riviverli nella loro completezza. La barca distesa con ampie pennellate nello sfondo verde, i ragazzi sulla spiaggia, la donna immersa nell’acqua o le altre riprese a passeggiare sulla battigia (“Figura a passeggio nel mare”, “Passeggiata nell’acqua bassa”, 30×30 cm), i corpi che fluttuano indisturbati sul fondale marino: un percorso lungo, al suo termine un fotogramma nettamente suddiviso a metà, il cielo e il terreno in parti eguali, sempre maggiori macchie di colore a sovrastare.

Elio Rabbione

Nelle immagini: “Passeggiata nell’acqua bassa VI”, olio, 30×30 cm, 2023; “Mare dei Wadden II”, olio, 140×140 cm, 2021; “Figura a passeggio nel mare”, olio, 40×40 cm, 2023.

Toulouse Lautrec, la pubblicità e l’anticonformismo estetico

 

La mostra del pittore a Torino al Mastio della Cittadella

Sempre e dovunque anche il brutto ha i suoi aspetti affascinanti, e’ eccitante scoprirli la’ dove nessuno li ha notati prima”.

Nato e cresciuto in una prestigiosa famiglia francese il noto pittore di fine ‘800 pago’ con una malattia genetica ossea, che impedi’ lo sviluppo degli arti inferiori, l’abitudine dei suoi parenti a sposarsi tra consanguinei per preservare la purezza del sangue nobile. A causa delle sue condizioni non pote’ praticare sport o attivita’ all’aria aperta e fu cosi’ che si dedico’ alla pittura e al disegno, ma anche al canto.

Pur facendo parte, in senso temporale, del periodo Impressionista non ci si identifico’ mai veramente e cosi’ fu anche per altre correnti di quel tempo. Presso l’Ecole del Beux Arts di Parigi ebbe la fortuna di conoscere Van Gogh con cui diventa amico. Dopo varie sperimentazioni tra cui il decorativismo dell’Art Nouveau e le ispirazioni della pittura giapponese dedica tutta la sua attenzione ad opere che rappresentano la vita notturna di Mortmatre marcando alcuni tratti, soprattutto di donne, di fisicita’ poco sobria; dipinge perlopiu’ ballerine, prostitute ed alcolisti in ambienti riconoscibili come bar, cabaret o teatri. Riserva dunque la sua attenzione agli strati piu’ bassi della societa’ ritraendoli, ma anche frequentandoli e abusando di alcool, condotta che lo portera’ verso un ricovero forzato.

La sua vera passione fu quella per la pubblicita’ e soprattutto per i manifesti, affiches, che pote’ approfondire grazie alla sua collaborazione con il Courier francais. Toulouse Lautrec si specialista in processi di stampa e comincia a produrre una grande quantita’ di locandine. Nel 1891 crea il suo primo, e forse piu’ famoso, manifesto, quello per il famosissimo Moulin Rouge che ha un effetto esplosivo sia per i protagonisti ritratti quasi in chiave caricaturale, che per lo stile caratterizzato da linee piatte e senza prospettiva. Era una rappresentazione di un mondo lontano dal suo che provoco’ le critiche dei suoi genitori, ma grazie a questo suo impulso avanguardista quelli che prima erano considerati solamente poster, stampe o litografie divennero delle vere e proprie opere d’arte, era iniziato un nuovo corso della pittura. La sua fu definita una “fotografia grafica” di persone che conosceva e che frequentava intenti a godersi le serate durante la vita notturna, e a volte poco raccomandabile, di Parigi. Inoltre gli fu dato il titolo di “mago della deformazione” perche’ nei suoi dipinti venivano messi in risalto i difetti e le brutture delle persone e questo, probabilmente, fu una causa della sua malattia, che oltre ad essere invalidante, era una discriminante a livello fisico ed estetico. In contrapposizione con l’Art Nouveau, porta avanti un’arte fuori dai luoghi comuni, dagli standard di bellezza con una particolare attenzione alla trasgressione e a quei difetti che fanno bello il brutto e che anticipa, in un certo senso, la volonta’ di uscire da stereotipi ancora oggi discriminanti.

Henri de Toulouse Lautrec ebbe all’attivo 737 dipinti, 4748 disegni, 275 acquerelli, 334 stampe e 33 manifesti, un lavoro enorme legata alla “sua instancabile esigenza di produrre unita’ alla curiosita’ per la sperimentazione”.

La mostra intitolata Il mondo del circo e di Montemartre, curata da Joan Abello’, inaugurata il 20 aprile scorso sara’ aperta fino al 21 luglio 2024 al Mastio della Cittadella.

MARIA LA BARBERA

Ersel, GUIDO IO: cento fotografie dalla collezione di Guido Bertero

Ersel allestisce l’esposizione GUIDO IO, itinerari fotografici di una collezione. Si tratta di  cento fotografie della raccolta di Guido Bertero, in mostra in piazza Solferino 11 a Torino dal 24 al 14 giugno. La mostra si inserisce nel programma di ExposedExtended, il primo festival internazionale di fotografia del capoluogo piemontese, che proporrà altre venti mostre temporanee sparse per la città.

Guido Bertero, a partire dagli anni Novanta, ha creato una delle maggiori collezioni italiane di fotografia del dopoguerra, così ampia che al suo interno si possono selezionare di volta in volta gruppi di artisti diversi, dai più  storici ai moderni, dai celebri interpreti internazionali alle grandi rappresentanti femminili della nostra fotografia: ecco i nomi di Giuseppe Cavalli, Mario Gabinio, Riccardo Moncalvo e Luigi Veronesi, ma anche quelli di Robert Capa, William Kline, David Seymour e Paul Strand; Alfredo Camisa, Pietro Donzelli, Nino Migliori e Federico Patella, ma anche NanGoldin, Boris Michajlov, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi e Carla Cerati, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Ugo Mulas e tanti altri ancora.

Si tratta di una collezione nata subito con un focus molto preciso sulla fotografia italiana del dopoguerra,  vera e propria testimonianza della nostra storia, intesa come memoria, documento, traccia di un’epoca, arricchita nel  contempo dalle incursioni nella grande fotografia internazionale.

Tra i meriti di Guido Bertero vi è quello di aver cercato i capolavori degli artisti più noti, ma anche gli scatti di quelli meno conosciuti, concentrandosi sul messaggio, sulla forza delle immagini e sulla qualità delle stampe che, se possibile, dovevano essere “vintage”, stampate, cioè,  al momento della realizzazione dello scatto. Ogni fotografia porta con sé una storia e immortala un momento di quell’epoca.

La collezione rispecchia la curiosità,  la sensibilità,  l’amore per il bello, ma anche la dedizione per chi l’ha creata, viaggiando per l’Italia per conoscere i fotografi e il loro lavoro, riunendo fondi di immagini important8, con la volontà di costruirne una memoria.

Guido Bertero, nato a Torino nel 1938, colleziona fotografie dal 1999 al 2015 ed è  vicepresidente di Camera, Centro Italiano per la Fotografia di Torino.

MARA MARTELLOTTA

“Tutto il resto è profonda notte”, la GAM ospita la prima mostra museale di Italo Cremona

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La GAM di Torino dedica all’universo creativo e all’opera di Italo Cremona la prima mostra museale riferita alla produzione figurativa di questo pittore fantastico e surreale. La mostra aprirà i battenti il 24 aprile fino al 15 settembre, per poi trasferirsi nelle sale del MART di Rovereto dal 18 ottobre al 26 gennaio 2025. È curata da Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari ed Elena Volpato. Il titolo dell’esposizione “Tutto il resto è profonda notte” allude alla frase con cui Cremona aveva concluso uno dei testi di Acetilene, rubrica che negli anni Cinquanta firmava per “Paragone”, la rivista di Roberto Longhi. Il “Notturno” è uno dei temi principali della pittura di Italo Cremona, una condizione espressiva, esistenziale e filosofica che produce sogni, incubi, apparizioni e immagini fantastiche.

Pittore-scrittore, intellettuale poliedrico e eccentrico, nei dipinti come negli scritti, Italo Cremona ha indagato la “zona ombra”(titolo del suo libro edito da Einaudi nella serie bianca dei Coralli): un territorio capiente dove il buio entra in contatto con la luce attraverso lampi vividi o barlumi, attraverso il chiarore di una lampada ad acetilene (il lume usato da tempo da minatori e speleologi) o la scia di una stella cadente, come nel romanzo distopico “La coda della cometa”.

“Tutto il resto è profonda notte” è il titolo insegna, la chiave scelta per tracciare un percorso espositivo dell’intera arte di Italo Cremona, dalle prime prove giovanili risalenti alla prima metà degli anni Venti fino alle opere della prima metà degli anni Settanta, dalle nature morte, vicine all’atmosfera del realismo magico, alla visionarietà del “surrealista indipendente”, come amava definirsi. L’esposizione raccoglie un centinaio di dipinti e una selezione di disegni e incisioni, documentando l’alta qualità pittorica dell’artista, rileggendo nel presente l’originalità del suo immaginario.

Italo Cremona narra la vita intensa e silenziosa degli oggetti in un’atmosfera carica di mistero, e sospesa tra metafisica e realismo magico. Il “Notturno” pervade gli enigmi di “Specchio del mattino”, esposto alla Biennale di Venezia nel 1936, “Metamorfosi” (1936-1937), “Piccolo golem (1940), “Ascolto il tuo cuore città” (omaggio a Savinio del 1954), “Aria di Torino” del 1959. “La veglia e il sogno” sono la cornice degli accadimenti del romanzo distopico “La coda della cometa” (Vallecchi, 1968- Allemandi, 1983) e dei racconti di “Zona ombra” (Einaudi, 1967).

Il percorso espositivo si articola in nove stanze intitolate e dedicate alla pittura di Italo Cremona: “Specchio”(1925-1931), “Trofei”(1928-1932), “Spoglie”(1932-1934), “Metamorfosi”(1935-1945), “Follie”(1935-1956), “Golem”(1939-1946), “Corpi”(1935-1964), “Quinte”(1926-1970), “Apparizioni”(1958-1968). La cronologia attraversa le diverse stagioni creative e, come nei quadri di Cremona, ritorna su se stessa, si riavvolge, procedendo per figure e oggetti ricorrenti, che sono costanti artistiche di natura iconografica e espressiva. In una sala centrale del percorso è stata scelta come “Cabinet des folies”, ed è dedicata alla frequentazione del grottesco, del surreale e del fantastico, con una selezione di dipinti nei quali la pennellata sembra farsi sempre più esatta e nitida quanto più si avventura nell’espressione del bizzarro. Nella Sala delle Facciate, la visione si sposta sulle architetture torinesi, un motivo pittorico peculiare sviluppato dall’artista lungo i decenni. Le facciate silenziose del palazzi e delle case risultano apparentemente deserte di ogni presenza umana, ma sono in realtà dipinte come quinte di un segreto teatro cittadino, e alludono sempre a uno spazio ulteriore. È anche presente un’ampia produzione di nudi ritratti attraverso epifanie e piccole allucinazioni, in cui non si distingue la realtà del corpo della modella dalla segmentazione pittorica dei suoi dettagli.

La mostra intervalla immagini oniriche perturbanti ad armi improprie di disegni e incisioni, con la forza plastica degli anni Venti e Trenta dell’artista, l’intensità lirica dei suoi anni Quaranta, l’esattezza del disegno impressa sull’emozione cromatica risalente agli anni Cinquanta, mettendo in evidenza gli aspetti più attuali e contemporanei dell’opera di Italo Cremona e della sua figura di intellettuale irregolare, impegnato in numerosi ambiti creativi e piuttosto affine ad altre figure eccentriche torinesi, quali Carlo Mollino e Carol Rama.

A partire dal nucleo di opere del pittore, appartenenti alla collezione della GAM (dall’”autoritratto nello studio” del 1927 a “Metamorfosi” del 1936 e a “Inverno” del 1940), la mostra antologica conta su una serie di prestiti dai musei, tra cui il MART, partner del progetto, che ha prestato “Composizione con lanterna”(1926) e la “Libra” (1929), i musei civici “Luigi Barni” di Vigevano, che hanno prestato il dipinto “Dialogo tra una conchiglia e un guantoni da scherma”(1930) e un coeso numero di opere visionarie degli anni Quaranta e Cinquanta; l’Accademia Albertina di Belle Arti, i Musei Reali, la Galleria Sabauda di Torino.

La mostra, grazie a una ricerca capillare, presenta numerose opere di collezioni private e prestiti di alcune istituzioni, come quelle del Museo Casa Mollino, che ha prestato “Ritratto di Carlo Mollino” del 1928, l’Archivio Salvo, “Autoritratto giovanile” del 1926, la Collezione Bottari Lattes con il prestito de “La vittoria sul cavallo di gesso” del 1940 e la Collezione Rai con “Piccolo golem” del 1940.

 

Mara Martellotta

Susan Meiselas, il coraggio delle immagini

 In occasione della mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerraa CAMERA fino al 2 giugno, mercoledì 24 aprile alle 18.30 incontreremo Susan Meiselas, fotografa documentaria statunitense nota soprattutto per i suoi reportage realizzati in America Latina.

 

Membro dell’agenzia Magnum Photos dal 1976, nel 1978 Susan Meiselas ha vinto, con il progetto Nicaragua, la Robert Capa Gold Medal, premio assegnato a reportage fotografici per realizzare i quali siano stati necessari eccezionali doti di coraggio e intraprendenza. Nei suoi lavori ha affrontato una vasta gamma di temi, dalle problematiche dei diritti umani, della prostituzione, della violenza domestica e dei conflitti in Nicaragua, Kurdistan e Palestina. Tra i suoi riconoscimenti più importanti anche l’Hasselblad Award, il Premio Maria Moors Cabot e il Guggenheim Fellowship.

Coraggio e impegno in temi sociali e politici sono al centro del dialogo con l’autrice statunitense. Durante l’incontro Susan Meiselas, insieme al direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini, condividerà le esperienze vissute sul campo nella realizzazione dei suoi reportage, dal suo approccio creativo alla relazione con i soggetti fotografati. Una relazione che gioca un ruolo fondamentale nella creazione delle sue fotografie: “È raro che io arrivi in un luogo con un’idea già in mente. Succede invece che l’idea si sviluppa mentre sono sul campo, interagendo con le persone e capendo pian piano ciò che sarà più appropriato”. L’incontro sarà anche un’occasione per interrogarci, insieme a una delle figure più influenti del fotogiornalismo contemporaneo, su quale sia oggi il ruolo della fotografia nel sensibilizzare l’osservatore di fronte alle condizioni di vita nelle realtà più emarginate del nostro pianeta.

Intervengono:

Susan Meiselas, fotografa

Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA

 

È consigliato prenotare per l’incontro sul sito di CAMERA.

Il biglietto d’ingresso per l’incontro ha un costo di 3 Euro.

Installazione urbana con i versi “Conoscere il respiro esattamente” di Davide Rondoni

Il 21 aprile in via Foggia 11/a, a Torino

 

In via Foggia 11/a, a Torino, a cura di Laura Milani, Stefano e Davide Cerruti, si terrà un’installazione urbana, il cui svelamento avrà luogo il 21 aprile 2024 dalle 18 alle 21:30.

“Amare è l’occupazione di chi non ha paura”.

Con questi versi termina la poesia di Davide Rondoni “Conoscere il respiro esattamente”, che nella sua interezza diventa installazione sulla facciata del building di via Foggia 11/a. I versi, pubblicati in una raccolta uscita per Guanda nel 2003, sono state offerti dal poeta a Laura Milani, un momento privato che si trasformerà in atto pubblico, grazie alla visione dei proprietari Laura Milani e Stefano Cerruti, ideatori del progetto, che hanno deciso di trasformare il testo in un’installazione permanente. Complice l’opportunità del superbonus 110, l’approccio urbano è stato superato da un concetto artistico sempre presente, capace di trasformare un’esigenza pratica in un’occasione unica e collettiva. Poesia, arte e architettura si fondono in un progetto che diventa a sua volta un regalo di bellezza alla città, un’opera di rigenerazione urbana che si fonde con una visione artistica dell’abitare, un dialogo silenzioso con il mondo nel contesto di Torino, che haabituato da anni cittadini e turisti a pause inusuali nei percorsi del Museo di Arte Urbana o con le Luci d’artista nel periodo natalizio.  Un tributo alla poesia, ma anche all’amore e al coraggio.

“Amare è l’occupazione di chi non ha paura” chiude con questi versi la poesia. Il componimento verrà disvelato ogni giorno per 15 minuti, dalle 16 alle 22.

“È un onore per un poeta vedere che la poesia divenga segno stabile e dono permanente – commenta il suo autore Davide Rondoni – il fatto che avvenga a Torino, città che ha dato i natali a grandi poeti, mi pare bellissimo. È anche un segno che va oltre la mia minima importanza. Senza parole che cerchino il segreto della vita, senza poesia, la città e la convivenza diventano soltanto calcolo, consumo e discordia. La poesia è un dono del cuore che non richiede grande fatica ed è un bel gesto da parte degli abitanti di una casa, invece di pavoneggiarsi per la loro bella dimora, di donare una poesia a chi passa. La poesia non si consuma, è un segno di stima per le persone che lo riceveranno, per la loro umanità che non merita solo marchi, pubblicità, chiacchiere o slogan”.

Durante l’evento, Rondoni leggerà alcuni testi del suo libro “Rispondimi, bellezza – poesie per artisti, maghi, sibille e visioni”(Pellegrini Editore), e sarà distribuita una copia della poesia – installazione, oltre a un segnalibro che riporta il titolo del componimento, i dettagli dell’evento e un qr code che rimanda all’immagine dell’opera.

Il 21 aprile si terrà, dalle 18 alle 22, il cocktail di benvenuto, esclusivamente su invito.

 

Mara Martellotta

“State of Emergency”. Palazzo Madama, gli scatti fotografici del belga Max Pinckers

Il racconto ufficiale del periodo coloniale britannico in Kenya

Dal 10 aprile al 2 giugno

Obiettivo: ricostruire e colmare i “vuoti storici” relativi al periodo coloniale keniota. Con la mostra “State of Emergency – Harakati za Mau Mau kwa Haki, Usawa na Ardhi Yetu”, a cura di Salvatore Vitale, “EXPOSED Torino Foto Festival” presenta da mercoledì 10 aprile fino a domenica 2 giugno, negli spazi di “Palazzo Madama  Museo Civico d’Arte Antica”, un progetto documentaristico di “finzione” (che “mescola fotografia documentaristica con scene che ricordano i film di Bollywood”, com’ebbe a scrivere – con quali intenti? – sul “The Guardian” il giornalista irlandese Sean O’Hagan), realizzato dal fotografo belga Max Pinckers in collaborazione con i veterani Mau Mau e i kenioti sopravvissuti alle atrocità della guerra.

 

Si tratta della prima mostra dedicata al progetto, che con la sua straordinaria importanza storica anticipa la ricchezza del programma del “Festival” (dedicato al tema “New  Landscapes”) che, da giovedì 2 maggio a domenica 2 giugno, porterà in città alcuni tra i più interessanti esempi della ricerca fotografica internazionale.

Tutt’ora in corso, il progetto di Pinckers, attraverso rievocazioni dal vivo” o “dimostrazioni”, crea – attraverso l’utilizzo di archivi frammentari, fotografie di resti architettonici del passato, siti di fosse comuni e testimonianze dirette di chi è sopravvissuto alla resistenza e alla guerra – una nuova visualizzazione della lotta per l’indipendenza dal dominio coloniale britannico che si svolse negli anni Cinquanta e che, mostrando oggi le esperienze del passato,intende rivolgersi al presente e a un pubblico futuro. Per fare luce su “angoli ciechi” della storia, deliberatamente nascosti. Tutto ha inizio nel 2014, allorché il fotografo belga, invitato all’“Archive of Modern Conflict” di Londra, si imbatte in una collezione di materiale di propaganda britannico degli anni Cinquanta relativo all’“emergenza Mau Mau” in Kenya, punto di partenza di una lunga ricerca su uno degli episodi più violenti della storia coloniale britannica. Il Kenya fu infatti colonia britannica dal 1885 al 1963 ed in reazione al dominio coloniale, i “Mau Mau” emersero come “movimento per la libertà” nel periodo precedente l’indipendenza, ritratti dalla propaganda britannica come una “banda di selvaggi criminali”. Meno nota è stata invece, per anni, la brutale risposta dell’Impero alla rivolta: dal 1952 al 1960, l’amministrazione coloniale costruì una rete di oltre cento campi di detenzione, luoghi di tortura e villaggi di reinsediamento, e i “Kikuyu” – il più grande gruppo etnico coinvolto nell’accesa ribellione – furono sistematicamente derubati delle loro terre, deportati in campi di lavoro e torturati. Più di mille persone furono impiccate su forche mobili trasportate di città in città. Tutto ciò fino a quando, alla vigilia dell’indipendenza, nel 1963, il governo coloniale distrusse la maggior parte della documentazione relativa alla rivolta, in un processo che passò alla storia come “Operazione Legacy”, nel tentativo di nascondere le proprie malefatte. Dovettero però passare altri cinquant’anni, perché solo nel 2013 il governo britannico esprimesse formalmente il proprio rammarico per gli abusi inferti e un piccolo gruppo di ricorrenti potesse ottenere un risarcimento di circa 20 milioni di sterline in un processo che ha portato alla luce gli “Archivi Migrati”, una raccolta segreta di migliaia di documenti relativi a tutte le 37 ex colonie, un tempo ritenuti “troppo sensibili” per essere resi pubblici. Il fatto, però, che una così importante documentazione a prova della violenza coloniale sia stata distrutta ha creato importanti “lacune storiche” e impedito i conseguenti “processi di riconciliazione”.

Questi fatti, assai poco esaltanti per l’impero britannico e le riproduzioni degli “archivi coloniali” costituiscono proprio il cuore di “State of Emergency  Harakati za Mau Mau kwa Haki, Usawa na Ardhi Yetu”. Una mostra che si pone anche “come ‘risposta collettiva’ – sottolineano gli organizzatori – volta a curare, senza cancellare, le ferite ancora aperte della violenza coloniale, proponendo uno strumento riparatore che, attraverso il mezzo fotografico, racconta ai potenti la verità di chi l’ha vissuta”.

In rassegna anche una “pubblicazione” realizzata grazie alla collaborazione tra Max Pinckers e l’ “Associazione dei veterani Mau Mau” di Murang’a, Nanyuki e Mukurwe-ini, avviata sotto la guida del defunto Presidente Nazionale Elijah Kinyua (alias Generale Bahati), con la guida e il sostegno dei “Musei Nazionali del Kenya” e dell’“Università Karatina”.

Gianni Milani

 

“Max Pinckers et al. State of Emergency”, Palazzo Madama, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Dal 10 aprile al 2 giugno

Orari: lun. merc.giov. ven. sab. e domenica 10/18. Mart. chiuso

 

Nelle foto: Nyery County, Archives, Ruringu, 2015;  “The Mau Mau War Veterans Association”, Murang’a, 2019; Dettaglio allestimento

Ricordando Alda Farinella e il suo magico “Jana”

Il “Circolo del Design” di Torino omaggia, a pochi giorni dalla scomparsa, la visionaria protagonista della moda torinese dagli anni ’90 a oggi, fondatrice del celebre show room “Jana”

Fino al 10 maggio

Fino a qualche anno fa, al numero 45 di via Maria Vittoria, a Torino, si trovava “Jana”, iconico show room, davvero “unico” nella storia della moda subalpina, “più simile a una galleria d’arte che a un negozio di abbigliamento, nel quale prendeva forma l’arte di presentare una selezionatissima collezione di abiti e accessori di designer che, per la prima volta, venivano proposti in città e non solo”. Queste condivisibili e sincere parole sono state scritte non molti giorni fa, pochi giorni prima che la fondatrice di “Jana”, Alda Farinella, venisse a mancare, il 4 febbraio scorso. “Proprio mentre stavamo cercando – scrivono ancora gli organizzatori della mostra a lei dedicata e di cui scriveremo – le testimonianze della sua straordinaria storia professionale”.

E continuano: “Alda Farinella è stata un faro per la moda dagli anni ’90 in poi, la caratterizzavano una rara sensibilità istintiva, il fiuto per il genio creativo, il modo di fare schietto ed ironico con cui si rivolgeva alle proprie clienti agitando in aria la consueta sigaretta fumante”. Già, le sigarette. Si dice ne fumasse cinque pacchetti al giorno. Raccontava: “Non dormo mai e quindi fumo sempre”. A poco più di un mese dalla sua scomparsa, la mostra a lei dedicata – “Jana: l’universo di Alda Farinella” – dal torinese “Circolo del Design” diventa quindi una postuma celebrazione, un tributo doveroso (inserito anche come secondo episodio negli “Archivi d’Affetto” del Circolo) a un vero, estroso gigante della moda capace di portare per prima sotto l’austera “aura” subalpina brand e stilisti quali “Comme des Garçons,“Margiela”, “Paul Harnden”, “Carol Christian Poell” e “Vivienne Westwood”.

In esposizione, negli spazi di via San Francesco da Paola 17, a Torino, troviamo, fino a venerdì 10 maggio (dal lun. al ven., ore 14/19) l’inedita “capsule collection” (4 camicie ispirate a “Jana”) a cura di “Serien°umerica”, brand torinese fondato da Maria De Ambrogio e Stella Tosco, e una raccolta di immagini e video interviste che ricostruiscono appieno il valore del suo lavoro.

Con la curatela degli architetti Maurizio Cilli e Stefano Mirti e in collaborazione con “IAAD – Istituto d’Arte Applicata e Design” e “IED – Istituto Europeo di Design”, l’esposizione racconta, attraverso le voci di chi con lei ha lavorato e collaborato, la capacità intuitiva e ricercata di Farinella, la sua storia strettamente intrecciata con la città (fra i suoi clienti molta della “Torino da bere”, da artisti come Mertzfino ad Edoardo Agnelli e a Marco Camerana) e di quel suo immaginifico show room nel quale prendeva forma l’arte di presentare le sue imprevedibili collezioni e i suoi “oggetti di affezione”. Uno spazio dall’atmosfera essenziale. “Nulla di simile si era mai visto prima in città”.

Figlia di Adriana Corino, specializzata in camiceria sartoriale da uomo, a partire dagli anni Ottanta, Alda apre i suoi negozi con il nome di “Jana”, soprannome dato alla madre. Inizialmente da corso Giulio Cesare a piazza Solferino. Ma i più rilevanti furono l’ultimo, al civico 45 di via Maria Vittoria e quello sotto i portici di piazza Vittorio Veneto. “Alda Farinella – scrivono i curatori della mostra – non disegna e non cuce: il suo talento è quello di selezionare e proporre abiti di designer e aziende emergenti”.

La mostra – secondo episodio di “Archivi d’Affetto” non vuole essere “solo un tributo ad Alda Farinella e a ciò che ha rappresentato per il mondo della moda e per il nostro territorio, ma anchespiega Sara Fortunati, direttrice del ‘Circolo del Design’ – uno stimolo e un’ispirazione per i tanti studenti che in città, in questo momento, hanno scelto di impegnarsi per diventare a vario titolo professionisti nell’industria della moda e del design”.

E a lei fanno eco Maria De Ambrogio e Stella Tosco, founder di “Serien°umerica”: “Siamofermamente convinte che il processo creativo non possa astrarsi dai vincoli produttivi e commerciali; pertanto, il lavoro di Alda è stato importante anche per aiutare i ‘brand’ più creativi nella comprensione del significato del proprio prodotto. In questo contesto, sottolineare la ricerca portata avanti da Alda Farinella equivale a celebrare la bellezza del nostro lavoro, che si caratterizza per un costante scambio con artigiani, ‘buyers’ e produttori. L’incontro con una personalità come quella di Alda genera immediatamente una grande forza, che si riflette sull’operato”.

Per info: “Circolo del Design” , via San Francesco da Paola 17, Torino; tel.331/4321195 o www.circolodeldesign.it

Gianni Milani

Nelle foto: Ritratto di Alda Farinella (ph. Alberto Nidola), Collezione Serien°umerica (ph. Ivan Cazzola), Allestimento mostra (ph. Tiziano Ercoli e Che Studio!)

Workshop sensoriale e creativo ispirato al testo di Munari Disegnare un albero”

 

 

Domenica 21 aprile 2024 alle ore 11 e alle ore 16 il MAO, Museo di Arte Orientale, ospiterà nelle sue sale un’esperienza sensoriale e creativa ispirata  al testo di Munari “Disegnare un albero”. L’evento sarà  curato da Marta Grespan e si propone di esplorare come ciascuno di noi osservi e presti attenzione al mondo circostante, scoprendone leggi e paradigmi, e come utilizzi la fantasia e la creatività per riprodurlo e ricrearlo.

Durante il workshop al MAO i partecipanti andranno alla ricerca degli alberi e delle loro raffigurazioni in museo e, trovata un’opera a loro congeniale, la riprodurranno con un carboncino su un cartoncino delle dimensioni delle stampe surimono. Seguirà  un’introduzione alla mostra di chasen di Tanimura Tango e la dimostrazione di cerimonia a cura di Leaves powder and…, liberamente ispirata alle cerimonie del tè giapponesi (senchado e sado) e cinese (chayi)

Marte Grespan, di origini trevigiane,  a diciassette anni si è  trasferita in Cina e, quindi, a Londra, Milano e Taiwan. Dal gennaio 2020 vive in Giappone. È  appassionata di tè da anni e, dopo essersi trasferita in Giappone, ha cominciato a praticare diversi tipi di cerimonia, il senchado, il sado e lo chayi. Progetta e realizza  chakai Tea esperienze che mettono in relazione lepersone attraverso culture e discipline diverse, in quanto per lei la diversità è un elemento di arricchimento da condividere con gli altri.

 

Mara Martellotta

A Torino l’arte è “di casa”… nel vero senso della parola

Con “Àprile – Festival delle case per l’arte”, nel prossimo week-end sono 11 le case private torinesi che apriranno le loro porte per accogliere arte e cultura

 

Da venerdì 19 a domenica 21 aprile

 

Un week end, 11 case private a porte aperte (da Vanchiglia a Parella) per ospitare più di 60 eventi culturali assolutamente gratuiti, con ospiti dai 18 agli 84 anni, provenienti da Berlino a Reggio Calabria. Alcuni per la prima volta in Italia. Il risultato si chiama “Àprile – Festival delle case per l’arte” (Attenzione! Con la “À” iniziale rigorosamente accentata, in un sottile calembour giocato sul nome del mese in corso), progetto indipendente ed autofinanziato – ideato e realizzato da artisti, curatori ed appassionati con l’intento di sostenere e promuovere il lavoro degli operatori – che, dopo il successo dell’edizione pilota dell’anno scorso, torna quest’anno a riproporsi aprendo alcuni appartamenti torinesi all’arte ed al pubblico.

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“Live painting e musica in salotto, performance teatrali o di arti visive in bagno e un po’ ovunque, perfino – dicono le organizzatrici – poesie al citofono!”. Quasi da non crederci! Obiettivo, quello di “testare spazi alternativi, più intimi ed informali in grado di far fruire arte e cultura al più vasto pubblico possibile”, a volte un po’ timoroso nell’affrontare la “sacralità” di Musei, Teatri e Gallerie d’arte. E nel contempo “permettere agli artisti emergenti di avere un rapporto più diretto con il fruitore finale”. Oltre cento quelli che, anche fuori dai confini nazionali, hanno risposto alla “call” di questa prima edizione del Festival. In totale saranno più di sessanta gli eventi gratuiti a cui partecipare nel fine settimana di sabato 20 e domenica 21 aprile,dalle 16 alle 21. Accanto a sculture, installazioni, dipinti e fotografie ogni casa presenta anche eventi performativi “site-specific”: microteatro, talk, concerti, performance. Molti anche i progetti artistici inediti e alcuni presentati per la prima volta in Italia. A cominciare dal live show del trio tedesco “Agamemnon, Jan Luxcus e Littlewood”, 22enni in arrivo da Berlino, che inaugura il festival a “Casa Museo Zona Rosato”, venerdì 19 aprile, alle 18,30, in  via Exilles, 84. Tra gli artisti visivi  sarà Sacha Philip, di base a Parigi, a presentare la sua prima personale, a Torino e in Italia, negli spazi di “Apartment Gallery”, in corso San Maurizio, 5 bis.

Debutto, tra le nuove case di questa edizione, per “CasaCaos” (via Sesia, 10) con un programma dedicato alla “poesia” in tutte le sue forme, a cura del poeta Dario Pruonto con l’associazione “Acronima”. Ma non solo. Le novità continuano anche a “Casa Cuò”, con un focus su cibo e oggetti del quotidiano, con i “dipinti” di Agapi Kanellopoulou (studi all’“Accademia Albertina”), della giovane illustratrice e artista (anche lei diplomata all’“Accademia delle Belle Arti” di Torino) Daria Rosso e le performance del collettivo “TasierACorpi” (Via Guastalla,16).

I talenti più giovani del Festival Vittoria Capoccia e Andrea Bertani, al quinto anno del “Liceo Musicale” di Torino, si esibiscono con violino e viola in Via Nota, 7 mentre “Piano B” ospita il recital al pianoforte del coetaneo Simone Saitta (Via Milano, 20).

Per gli amanti del teatro due le pièce, entrambe in scena per la prima volta, “Camille Claudelle” firmato dalla compagnia “Males” e “Lilith” dell’attrice fiorentina Valentina Brancale con David Diop. Tra i progetti inediti anche le “graphic novel” di Andrea Menata, presentate in un talk musicato in Via Bava, 19 (domenica 21 alle 17), dove lo street artistMattia Cenere del collettivo “B.E.S.” realizzerà per i visitatori un “murale” in salotto. Tra gli artisti coinvolti, da segnalare ancora, Giuliano Brancale e Jacopo della Rocca che porteranno avanti la collaborazione nata nella scorsa edizione, con “Fotoni”, progetto inedito di pittura e “videomapping” in esposizione in “Casa Moringa” (Borgo Dora, 22).

Quest’anno, sulla piattaforma “Produzioni dal basso” è possibile contribuire alla sostenibilità del “Festival” partecipando alla campagna di “crowdfunding”. Link a https://www.produzionidalbasso.com/project/aprile-festival-delle-case-per-l-arte-1/.

Il programma, nel dettaglio, è disponibile sul sito www.aprilefestival.org, dove si potrà anche consultare la “mappa” con le varie case (e relativi indirizzi) che ospitano gli eventi.

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Agapi Kanellopoulou (ph. Ikiotis)

–       “Agamemnon, Jan Luxcus e Littlewood”

–       Andrea Bertani

–       Sasha Philip