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L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Maurizio de Giovanni “L’equazione del cuore” -Mondadori- euro 19,00
Questo è il libro che de Giovanni voleva scrivere da tempo, con un personaggio nuovo sospeso tra logica ferrea e un’umanità seminascosta. E’ il professore di matematica in pensione Massimo De Gaudio, vedovo un po’ misantropo, taciturno e solitario. Vive a Solchiaro “un’isola nell’isola”, in una casa appartata a Procida, nel Golfo di Napoli, che ama soprattutto in inverno quando scompaiono i fastidiosi turisti. Ama godersi la bellezza del mare, pescare in santa pace, vivere con i suoi ricordi e pensieri. Ha un’unica figlia, Cristina, sposata ad un ricco imprenditore del nord; tra il padre e la donna qualche veloce telefonata e spizzichi di vacanze condivise quando lei lo raggiunge con il figlio di 9 anni, Francesco detto Checco. Momenti preziosi in cui il nonno diventa l’eroe del nipotino, al quale insegna a pescare spiegandogli i dettagli della lotta tra preda e predatore. A spezzare i ritmi abitudinari di Massimo è la notizia che figlia e genero sono morti sul colpo in un incidente d’auto; a bordo c’era anche Checco, ora ricoverato in ospedale, operato d’urgenza, in coma e sospeso tra vita e morte. Addio tranquillità e ordine, Massimo lascia il suo rifugio -spera solo temporaneamente-, sale al nord ed affronta la dura realtà.
E come riesce a farlo? Ricorrendo al solo ordine che conosce, quello dei numeri, ai quali ricorre per arginare anche le emozioni; lui che delle tovaglie dell’osteria conta i quadretti e posiziona il bicchiere sempre in un punto calcolato e preciso. Mentre il nipote lotta per sopravvivere nel reparto di terapia intensiva, il nonno nutre dubbi sull’inspiegabile dinamica dell’incidente. Soprattutto scopre di essersi perso gran parte della vita della figlia; una distanza emotiva prima ancora che fisica.
Deve anche fare i conti con il fatto che il bimbo sia l’unico erede di una colossale fortuna dalla quale dipende il benessere dell’intera zona. I medici non sono in grado di fare previsioni in merito alla sopravvivenza di Checco, tantomeno sulle condizioni in cui potrebbe risvegliarsi. De Gaudio, che sogna di tornarsene al mare quanto prima, potrebbe diventare il tutore del nipote e deve confrontarsi con una serie di personaggi legati all’azienda del genero e alle opere umanitarie della figlia. Con persone come la baby sitter del nipote –la protettiva affezionata Alba- e la migliore amica della figlia. E pagina dopo pagina emergono segreti e correnti sotterranee che spiegano molte cose……

 

Karina Sainz Borgo “La custode” -Einaudi- euro 18,00
E’ il secondo romanzo della giornalista e scrittrice venezuelana, nata a Caracas nel 1982, che vive in Spagna da 12 anni. Ed è di una struggente bellezza, che ha a che fare con la pietà verso i morti, ambientato in una sanguinosa terra di confine tra Colombia e Venezuela.
La storia ruota intorno a una donna che a Mezquite si fa carico di seppellire i cadaveri abbandonati dei migranti. E’ Visitación Salazar, della quale Karina Sainz Borgo apprese l’esistenza leggendo un reportage; decise di rintracciarla e ci riuscì grazie all’aiuto di un amico che aveva lavorato per la Croce Rossa in quella zona.
La raggiunge e trascorre del tempo con lei, ne scopre la natura profonda e magnifica, la missione che diventa il suo motivo di vita: dare sepoltura a chi non ha terra, con una compassione rara nelle storie di “los caminantes”, intrise di disumanizzazione lungo le frontiere dove sei un fuggitivo o un cadavere. Visitación si oppone a tutto questo ed è la custode del raffazzonato cimitero illegale il Terzo Paese, nel quale consegna corpi e ossa all’eterno riposo in nicchie di blocchi che lei stessa cementa in modo rudimentale o sotto palate di terra, poco più che fosse comuni, ma con l’aggiunta di indicazioni per segnare dove sono i resti dei disperati. I primi capitoli del romanzo sono folgoranti. Angustias, voce narrante, è una giovane donna alla quale sono morti tra le braccia due gemellini nati da poco: «Lasciarono questo mondo nello stesso ordine in cui c’erano arrivati. Prima Higinio, poi Salustio…Li avvolgemmo negli asciugamani e li trasportammo così finché non rimediammo delle scatole. Erano talmente piccoli che ne sarebbe bastata una». Angustias, con il suo carico di morte, va alla ricerca della donna che avrebbe seppellito i suoi figli e le avrebbe insegnato a sotterrare quelli degli altri. Non è solo finzione letteraria perché la Sainz Borgo è stata testimone di quanto avveniva e tutt’ora accade alla frontiera. Ha partecipato lei stessa alla sepoltura di cadaveri abbandonati ed ha visto davvero una giovane che portava con sé i suoi gemelli nati prematuri e chiusi in una scatola da scarpe. Da lei nasce la protagonista Angustias, che abbandonata dal marito -in questo libro gli uomini sono spesso codardi- decide di restare con Visitacion, aiutarla nella sua missione di custode dei morti, di essere sua alleata contro i soprusi del possidente più ricco della zona e del suo pericoloso braccio destro….

 

Enrico Rotelli “L’America è un esperimento” -La nave di Teseo- euro 18,00

Giornalista e scrittore, Enrico Rotelli, è stato assistente di Fernanda Pivano, della quale ha anche curato i volumi dei diari, inoltre è coautore di libri autobiografici di grandi nomi come Valentina Cortese, ed ha seguito svariati progetti editoriali. Il sottotitolo “Scrittori e storie degli Stati Uniti” anticipa le pagine che seguono, nelle quali scopriamo come si raccontano alcuni grandi autori nelle interviste concesse al giornalista tra 2015 e 2020. Gran parte è stata pubblicata su “La lettura” del Corriere della Sera, ed ora Rotelli le ha raccolte in 200 pagine.
Una carrellata che incanterà gli amanti della letteratura nordamericana; ma di notevole interesse anche per chi vuole riflettere sui grandi temi di attualità (o pure antichi) insieme ad attenti autori contemporanei. Rotelli ha dialogato con 23 scrittori a stelle e strisce tra i più interessanti, da Premi Pulitzer famosi ad altri meno noti oltreoceano: tutti però con un occhio particolarmente sensibile ed acuto che mette a fuoco svariate realtà. Il giornalista ha avuto la fortuna di lavorare per 5 anni (fino al 2009 anno in cui è morta) al fianco dell’immensa Fernanda Pivano che è stata l’artefice della scoperta in Italia di grandi scrittori americani, prima quasi ignoti da noi e mai tradotti. Insieme a lei ha percorso in lungo e in largo New York, ed ha incontrato molti protagonisti della scena culturale. Non perdetevi l’introduzione di questo libro dedicato “a Nanda” in cui Rotelli racconta il loro incontro e l’avvio dell’entusiasmante avventura come suo assistente, trascinato nella coinvolgente scoperta delle firme più prestigiose e dei loro pensieri sulla vita, sulla letteratura e sul mondo.
Tra gli intervistati nomi del calibro di Erika Jong, Lawrence Ferlinghetti, Michael Cunningham, Andrew Sean Greer. E ancora Dave Eggers, Richard Powers e Jill Eisenstad, ovvero la rossa del Literary Brat Pack: il gruppo di 4 ventenni –oltre a lei Bret Easton Ellis, Jay McInerney e Tama Janowitz- che negli anni ottanta raccontavano le vicissitudini dei giovani americani disillusi.
Alcuni li ha incontrati personalmente, raggiungendoli anche sulla costa ovest degli Usa; altri li ha interpellati telefonicamente o per email.
Sono tanti dialoghi diversi e indipendenti, con voci della scena letteraria americana, ma anche provenienti da culture diverse: come la cinese Yiyun Li, Ayelet Waldman nata a Gerusalemme, Maaza Mengiste nata nel 1971 ad Addis Abeba o ancora, tra gli latri, Elif Batuman nata in New Jersey da genitori turchi.
Tante analisi e prospettive sul lavoro dello scrittore, sulle difficoltà che si possono incontrare nell’analizzare e narrare il proprio tempo, sulle esperienze personali, sul futuro della letteratura e della situazione politico-sociale. Un composito mosaico di voci che ci portano nel cuore della letteratura americana contemporanea.

 

Ana Bågstam “Testimone oculare” -Marsilio- euro 18,00

E’ il primo appuntamento di una serie che l’avvocato svedese Ana Bågstam ha in mente di scrivere, con al centro il personaggio della giovane criminologa Harriet Vesterberg.
Un ‘eroina dalle molte sfaccettature: preparata, ma a tratti insicura, forte e determinata, eppure delicata al contempo. Ha 30 anni ed è specializzata in criminologia, figlia di Eugen docente universitario in pensione, sorella di Paul sposato e padre di famiglia. Dopo una delusione amorosa, Harriet decide di lasciare Stoccolma e cercare una nuova partenza nel piccolo paesino sulla costa della Scania, Lerviken, dove è solita trascorrere le vacanze estive e dove vive il padre.
Assunta come criminologa nella stazione di polizia locale si trova a dover affrontare la diffidenza della capa e dei colleghi, e il suo battesimo lavorativo è particolarmente cruento. Nel tranquillo villaggio di pescatori, dove tutto sembra scorrere in modo tranquillo, avviene un efferato delitto.
In un capannone viene trovato il cadavere straziato di Laura Andersson: ha la bocca e il mento coperti di nastro adesivo telato, lo stesso con cui qualcuno le ha fissato le palpebre aperte, ed una mortale ferita di arma da taglio alla testa. E’ in un bagno di sangue, sotto un trattore e in una posizione innaturale. E’ la moglie 53enne del ricchissimo finanziere Douglas Andersson di 72 anni. Una coppia senza figli né altri parenti, proprietari di una vasta tenuta che era appartenuta ad una famiglia dell’aristocrazia locale.
Laura, molto più giovane del marito «…lunghi capelli rossi e la grazia di una star del cinema. Bellissima, enigmatica e misteriosa. Però camminava in modo strano, zoppicando, come se le facesse male una gamba». Era lo strascico della polio ed ultimamente era peggiorata tanto da muoversi solo in sedia a rotelle.
Il marito – che in un primo tempo non si trova- risulta essere stato condannato due volte per maltrattamenti nei confronti della moglie. Poco dopo però è proprio Harriet a scoprire Douglas gravemente ferito e chiuso in un container. Dunque l’assassino da dove arriva?
Poco a poco le indagini proseguono e convertono su alcuni individui, con risvolti anche tragici: testamenti cambiati all’ultimo, gemelli problematici, moventi economici, vendetta per violenze passate…. Senza anticipare troppo, va però detto che questo è un godibilissimo giallo dalla tipica struttura investigativa, in cui fondamentale è la sequenza: crimine, indagini condotte tra ragionamento, indizi da valutare, suspence, colpi di scena e deduzioni che trascinano il lettore alla scoperta della dinamica del delitto e del colpevole….o colpevoli? Gustatevi le imprese di Harriet, giovane dall’intuito notevole, alle prese con un ambito lavorativo in cui deve farsi strada con unghie e denti; le sue ansie, delusioni e aspettative ce la rendono particolarmente vicina e simpatica.
Oltre alle indagini, c’è anche molta vita privata di Harriet che aiuta a delineare meglio il personaggio. Tra padre anziano e smemorato, fratello sfuggente, vicina di casa con qualche segreto, e forse un nuovo amore all’orizzonte, godiamoci queste 387 pagine che corrono via accattivanti più che mai. E diamo il benvenuto a una nuova stella del firmamento del giallo nordico.

Solfrizzi come Ardante nel “Malato” di Molière La rivolta dell’individuo nei “Canti di Maldoror” messi in scena dai Marcido Marcidorjs

Spettacoli nelle sale teatrali torinesi

 

Siamo nella seconda metà del XVII secolo ma tutta la nevrosi che circola tra le pagine del “Malato immaginario” di Molière rimanda al secolo che abbiamo da poco lasciato, a quel Novecento che ha inventato – e vissuto – nuovi meccanismi drammaturgici, che ha prosciugato la scrittura e le azioni, che ha parlato più di altri di solitudine, di alienazione, di fuga dalla realtà. Quadro perfetto dell’ipocondriaco, il protagonista Argante, dice Guglielmo Ferro – regista di questa edizione prodotta dalla Compagnia Molière e La Contrada, Teatro Stabile di Trieste in collaborazione con il romano Teatro Quirino Vittorio Gassman in occasione dei quattrocento anni dalla morte del grande autore francese, in scena all’Alfieri da stasera sino a domenica 10 febbraio per la stagione di Torino Spettacoli – “ha più paura di vivere che di morire, e il suo rifugiarsi nella malattia non è nient’altro che una fuga dai problemi, dalle prove che un’esistenza ti mette davanti”. Quando i tempi di Freud erano ancora ben lontani, l’uomo Argante, cercando rifugio da ogni sua debolezza, si pone al riparo – all’interno della malattia, con l’aiuto cercato e la distruzione al tempo stesso dello stuolo di medici dai nomi e dalle virtù più assurdi – di quanto lo circonda, della vita di ogni giorno, di chi abita nella sua casa, delle vicende che come mostri gli piovono addosso. Non è certo una errata questione di anagrafe, non è questione di abbinare con troppa semplicità la malattia alla vecchiaia. È la rappresentazione della vita di mezzo, con le sue paure e le sue debolezze. Molière rappresenta quest’ultima sua opera quando da poco meno di un mese ha compiuto i 51 anni e Emilio Solfrizi, interprete oggi di Argante (dopo i vari Buazzelli, un grande Romolo Valli immerso nell’interno vermeeriano di Pier Luigi Pizzi, Bonacelli, Franco Parenti e Alberto Sordi sullo schermo), sta per raggiungere il mezzo secolo e si pone bene in linea con l’età, restituendo al “Malato” quell’aspetto che a volte è stato dimenticato. Oltre a rendere, con il cinismo e il disincanto con cui l’autore guarda alla sua epoca, il grande divertimento che sta nelle sue pagine e nei personaggi.

Le scene e i costumi sono firmati da Santuzza Calì e le musiche di Massimiliano Pace. Con Solfrizzi, Lisa Galantini, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Pietro Casella, Cecilia d’Amico e Rosario Coppolino.

Il resto, nella storia del teatro, prende i tratti della tragedia. Il 17 febbraio 1673, giunto alla quarta rappresentazione, Molière, seduto nella sua poltrona, sul palcoscenico del Palais-Royal, si sentì male e venne trasportato a casa, dove nella notte spirò. Una leggenda, cresciuta negli anni, raccontava del grande drammaturgo morto in palcoscenico sì, ma dalle sonore risate nel tentativo di recitare al pubblico le battute che lui aveva scritto.

 

La stagione dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa continua dall’11 al 13 febbraio, alle ore 20,45, al teatro Marcidofilm di corso Brescia 4bis (info.marcido@gmail.com/www.marcido.it) con il secondo appuntamento, la riprogrammazione di due allestimenti che non sono potuti andare in scena nelle scorse stagioni, a causa della chiusura dei teatri per l’emergenza sanitaria. Un primo tempo dedicato a “Vecchio oceano” da “I canti di Maldoror” di Lautréamont (pubblicati in Belgio nel 1869), interprete Paolo Oricco (nella foto), scenario di Daniela Dal Cin, con la direzione di Marco Isidori. Scrive quest’ultimo negli appunti di regia: “Il primo dei “Canti di Maldoror”ci permette (dopo un drastico adattamento drammaturgico) di sondare quel territorio che coi suoi incerti confini è patria dello sbilanciamento dell’uomo dal consueto asse di animale sociale, per metterne a nudo, sotto l’abito di una normalità relazionale, il sempre costante, decisivo empito verso quella dimensione “extra” dalla quale, paradossalmente ma realmente, esso uomo ricava la propria patente di umanità. L’interpretazione “infuocata” di Paolo Oricco riesce con sapienza attoriale a sciogliere in “comunicazione” ogni nodo di un dettato poetico complesso per stratificazione metaforica e spessore concettuale, trasformando, anzi “formando” con esso testo un momento di grande, emozionante teatro”. Sulla scena un’opera in prosa cara al surrealismo, l’uomo dell’Ottocento attraversato da mille tormenti, la sua ribellione al Creatore, l’uccisione dello stesso Dio nella speranza di una serenità che al contrario non può ritornare.

La seconda parte della serata vede la messinscena di “Hansel e Gretel” dai Fratelli Grimm (siete avvertiti, “alla Marcido”), con Ottavia Della Porta (narratrice), Paolo Oricco (Hansel), Valentina Battistone (Gretel), Maria Luisa Abate (la matrigna e la strega) e Alessio Arbustini (il padre). Una favola che può essere letta in modo cruento ma pure rassicurante: come spiega Pierre Laforgue, “…la strega, che esiste nei fantasmi del bambino angosciato, lo perseguiterà e gli farà paura. Una strega che egli può spingere in un forno e bruciare vive è più rassicurante: il bambino sa che è capace di sbarazzarsene. I piccoli hanno bisogno di sentire delle storie dove dei bambini, grazie alla loro ingegnosità, si sbarazzano di questi personaggi persecutori”.

 

Elio Rabbione

Scontri Esselunga, Lo Russo: “l’assessore ha parlato a titolo personale”

DA PALAZZO CIVICO

Nella seduta del Consiglio Comunale del 17 gennaio 2022, su richiesta dei gruppi consiliari Fratelli d’Italia, Lega Nord, Forza Italia, Torino Bellissima e Lista Civica per Torino, il sindaco Stefano Lo Russo ha fornito comunicazioni in merito agli scontri avvenuti nella giornata dello scorso 15 gennaio nei pressi del centro Comala di corso Ferrucci a Torino.

Il sindaco ha spiegato che la manifestazione era autorizzata dalla Questura come presidio statico e che ci sono stati momenti di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Sono state espresse posizioni politiche legittime e non entro nel merito della dialettica politica – ha affermato Lo Russo – precisando che le dichiarazioni dell’assessore Rosatelli al riguardo sono state espresse a titolo personale e non a nome della Giunta e che comunque non minano il rapporto fiduciario.

Ha quindi spiegato che l’aula studio realizzata nell’area era nata per fronteggiare l’emergenza Covid e che l’attuale Giunta ha intenzione di rivedere, se possibile, la via di accesso al futuro supermercato, per salvaguardare le attività svolte da Comala e altri soggetti.

Nel dibattito in aula, il consigliere Enzo Liardo (Fratelli d’Italia) ha affermato che non si può dire tutto e il contrario di tutto e ha chiesto al sindaco se è solidale con le forze dell’ordine oppure no, ricordando le sue prese di posizione di alcuni anni fa nei confronti dei manifestanti violenti contro il Tav. Per Paola Ambrogio (Fratelli d’Italia) il sindaco è abilissimo a spostare l’attenzione su un argomento diverso da quello all’ordine del giorno: occorreva invece – ha detto – prendere le distanze da un altro membro della Giunta e dire con chiarezza da che parte sta, se dalla parte dei facinorosi o da quella delle forze dell’ordine. Secondo Fabrizio Ricca (Lega Nord) esponenti della Giunta hanno dimostrato di stare con i centri sociali. Ha quindi ribadito che la Lega Nord è da sempre a fianco della Polizia e ha chiesto coerenza al sindaco: è inaccettabile che parte della Giunta si sia schierata contro le forze dell’ordine – ha concluso.

È utile discutere del progetto dell’area, secondo Giovanni Crosetto (Fratelli d’Italia), ma ora è doveroso prendere chiaramente le distanze da realtà anarchiche e pericolose, far rispettare le Istituzioni e condannare violenze e cortei non autorizzati.

Occorre valorizzare i luoghi del protagonismo giovanile per Nadia Conticelli (PD) attraverso concertazione sociale e progetti concreti e trasparenti: è facile invece – ha aggiunto – provocare ad arte e poi stigmatizzare l’operato delle forze dell’ordine, che il Partito Democratico ringrazia per il loro lavoro.

La questione si protrae dal 2015 – ha affermato Valentina Sganga (M5S), che ha espresso solidarietà all’assessore Rosatelli e alla consigliera Diena e ha chiesto di affrontare in Seconda e Sesta Commissione la questione Comala, Esselunga e area verde e di rispettare i giovani che manifestano per amore del proprio territorio. Per Andrea Russi (M5S) la Giunta non ha capito la gravità di una situazione delicata e non l’ha affrontata nei giusti tempi, intervenendo prima. Capisco i manifestanti bloccati anche dal Covid nell’esprimere il dissenso – ha dichiarato – ma non solidarizzo con Rosatelli. Ha quindi stigmatizzato la posizione ambigua del sindaco e della giunta e ha auspicato che si trovi presto una soluzione per l’area e se ne discuta in Commissione.

Pierlucio Firrao (Torino Bellissima) ha ricordato di aver incontrato come consigliere di minoranza i giovani del centro Comala già un mese fa e ha affermato che il suo Gruppo non è solidale con la consigliera Diena e l’assessore Rosatelli perché le forze dell’ordine sono un’istituzione fondamentale, sempre da rispettare.

Per Tiziana Ciampolini (Torino Domani) c’è un convitato di pietra nella vicenda: la rabbia. Rabbia che chiede quale città vogliamo in un’area dove si giocano partite rilevanti per la vita di cittadini e cittadine: servirà concertazione – ha detto – secondo logiche innovative in vista di scelte politiche rilevanti.

Per Pietro Abbruzzese (Torino Bellissima) le forze dell’ordine dovevano essere presenti per evitare cortei non autorizzati, ma occorre però ascoltare anche le sofferenze delle associazioni e della gente perché la città sia migliore, tutelando aree verdi e piccolo commercio. Non si deve parlare solo di centri sociali, ma di un vasto gruppo di associazioni che difendono gli spazi che animano– ha dichiarato Alice Ravinale (Sinistra Ecologista) – secondo la quale c’è stato un eccesso di reazione da parte delle forze dell’ordine.

Le regole per le manifestazioni vanno rispettate secondo Simone Fissolo (Moderati), che ha auspicato il coinvolgimento della realtà giovanili nel processo di riqualificazione dell’area, in una progettazione partecipata e condivisa con le Istituzioni.

Per Andrea Tronzano (Forza Italia) quando un politico fa l’assessore qualche volta si deve mordere la lingua perché il senso istituzionale deve prevalere: l’ordine pubblico non è compito di Rosatelli e va evitata confusione nei ruoli – ha chiarito – mentre non c’è stato alcun eccesso da parte delle forze dell’ordine perché il corteo non era autorizzato.

Anche secondo Giuseppe Catizone (Lega Nord) il comportamento dell’assessore Rosatelli è grave: avrebbe dovuto prendere le distanze dai comportamenti violenti e non rilasciare dichiarazioni come se fosse un privato cittadino. Si continua a delegittimare le forze dell’ordine – ha aggiunto – e le istituzioni non dovrebbero mai farlo: i violenti vanno sempre condannati.

Per Silvio Viale (Lista Civica per Torino) le dichiarazioni di Rosatelli sono criticabili in un contesto di questo tipo. La dinamica è stata chiara – ha precisato – e sono evidenti gli errori dei manifestanti: le attuali norme non consentono manifestazioni in corteo e non si spinge la polizia andando addosso agli agenti. La vicenda comunque – ha concluso – è in via di definizione e finora nessuno ha deciso di chiudere Comala.

È opportuno uscire dalla logica della contrapposizione e delle strumentalizzazioni per Elena Apollonio (Lista Civica per Torino), cercando linguaggi non violenti ed evitando scontri.

Nella replica, il sindaco Stefano Lo Russo ha ribadito una vicinanza piena e totale alle forze dell’ordine, che ha ringraziato per il loro operato. Ha quindi affermato che è necessario garantire sempre la libertà di manifestare il proprio pensiero, nell’ambito delle regole stabilite per contrastare la pandemia di Covid19.

“La metà pericolosa” di Silvia Volpi, giallo a puntate

È entrato nel vivo il giallo dell’estate. La domenica esce a puntate sul sito

unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

 

E’ entrato nel vivo dell’indagine il giallo che sta uscendo a puntate sul sito Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri. “La metà pericolosa” è il racconto che Silvia Volpi, autrice toscana, ha scritto per la grande community di lettori che ha appena superato i centosettantamila iscritti.

Autrice del giallo “Alzati e corri, direttora” (Mondadori), Silvia Volpi ha confezionato una storia ambientata a Firenze e con l’indagine portata avanti in parallelo sia dalle forze di polizia che da una coppia di acconciatori con la passione per l’investigazione.

Cosa sarà successo a un avvocato di mezza età che una mattina è stato trovato morto nel suo studio? Mentre il commissario e il suo ispettore verificano telefoni e prove, sentono vicini e parenti, al GialloKakao lavorano il barbiere Cosimo Guanti e la collega parrucchiera Rebecca Vani che insieme cercano di ricostruire la vita del povero Sante Tornabene.

In una città ancora attraversata dai turisti, tra le poltrone e gli specchi del GialloKakao si avvicendano diversi personaggi che accompagnano il lettore alla soluzione del caso.

I curatori del sito dedicato ai libri e alle letture “fuori dal coro” – Claudio Cantini e Valentina Leoni – stanno seguendo con attenzione il racconto a puntate e raccolgono i commenti dei lettori:  ogni domenica una puntata de “La metà pericolosa” si legge gratuitamente su unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it e attraverso le pagine e gruppo facebook che portano lo stesso nome.

Silvia Volpi è giornalista e scrittrice e vive a Pisa. Con il libro “Alzati e corri, direttora” ha ricevuto il premio come migliore esordiente a Giallo d’Amare 2019, e secondo QLibri è tra i migliori dieci esordi del 2019. Lavora al Tirreno come segretaria di redazione, si occupa di public speaking e comunicazione, tiene corsi di scrittura ed è attenta ai temi che riguardano le donne e il lavoro.

Sullo schermo del TFF la convincente opera prima di Ginevra Elkann

Gli occhi dei bambini su una famiglia divisa e lontana

Gli occhi e le parole, l’impertinenza e le piccole sofferenze, le solitudini e le attese di una bambina di otto anni, Alma, e dei suoi due fratelli di poco più grandi, una famiglia divisa e lontana, due genitori che ancora si dilaniano, la madre in attesa di un figlio dal nuovo compagno, il padre sceneggiatore, impegnato a riscrivere un film tra rabbie e giornate di lavoro e assenze. In Magari, suo primo film in veste di regista, in qualche modo debitrice ad un certo cinema di De Sica o di Comencini, Ginevra Elkann – con l’apporto nella sceneggiatura di Chiara Barzini – racconta di una famiglia e con ogni probabilità non ha timore di catturare sensazioni e immagini all’interno di versante autobiografico che lo spettatore (il film è stato presentato al TFF nella sezione “Festa mobile”, uscita sugli schermi il prossimo marzo) si diverte a scoprire per quanto può; rivelando qualità non solo di acuta narratrice delle piccole cose di ogni giorno, ma anche addentrandosi con grande padronanza e con sommessa delicatezza nei comportamenti dei tre ragazzini dentro quella vacanza sulle spiagge di Sabaudia che a fine anno, equipaggiamento pronto per le nevi di Courmayeur, la madre ha dirottato all’improvviso. La ricerca di amicizie nuove, le partite di pallone in riva al mare, gli allontanamenti alla ricerca di nuovi spazi, incontaminati, gli intrecci con la nuova amica di papà (Alba Rohrwacher e Riccardo Scamarcio, presenze non invadenti, al servizio dei veri protagonisti), cercati o definiti a fatica, gli incidenti improvvisi che provano a riunire, ogni attimo è utile a crescere, a diventare più maturi, nel sogno leggero e continuo della famiglia riunita. Ancora una volta “i bambini ci guardano”, scrutano, giudicano, fuggono ma allo stesso tempo sono vittime dei disegni degli adulti. La giovanissima Oro De Commarque è un bell’esempio di verità cinematografica, come il Jean di Ettore Giustiniani e il Sebastiano di Milo Roussel, non si recita, si vive. Un promettente esordio per tutti.

Lo stesso certamente non si può dire per Riccardo Spinotti – figlio di Dante, grande direttore della fotografia, candidato due volte all’Oscar, diviso tra Italia e States, collaborazioni con Cavani e Olmi e Cristina Comencini, Michael Mann e Garry Marshall e Michael Apted, Tornatore e Benigni – e sua moglie Valentina De Amicis, che debuttano con Now is everything, coproduzione italo-americana, composto (meglio, scomposto) con gli apporti amichevoli di Anthony Hopkins e Ray Nicholson (un altro figlio di), presentato in concorso a questo 37° TFF che non si può certo dire che abbia saputo mettere in bella fila il meglio delle opere prime e seconde. Il film di Spinotti è tra quelli che più s’aggirano in quota debolezza e superficialità, aggiungendo una buona dose di vuote aspirazioni, di inconcludente scrittura (vogliamo chiamare così quanto scorre sullo schermo?). La ricerca di una ex che un bel giorno scompare lasciando soltanto un biglietto, “non cercarmi più”: nel filo vuoto e illogico di queste immagini (a riempire tempi e spazi scomodiamo pure il lungo corridoio di un albergo e una ragazzina che lo percorre di corse, manco fossimo in Shining, come qualcuno ha prima scomodato il nome di Malick), scene capovolte e ossessivamente ripetute, fiori che si dilatano nei colori, giochi in piscina, dialoghi fatti di nulla, misteri abbozzati di cui non si cerca chiarezza, pretese sperimentazioni che restano giochi personalissimi degli autori (autori?), tutto quanto scorre via inutilmente e nel buio della sala di tanto in tanto scorgi ombre che riguadagnano una boccata d’aria al di là dell’ingresso.

Tacendo del protagonista che ha l’espressività delle ostriche che occupano Ohong Village diretto dal giovane Lungyin Lim (concorso, produzione Taiwan/Repubblica Ceca), anch’esse in uno stato di salute non eccellente. Sheng è stato a cercare un nuovo futuro a Taipei e quando ritorna al suo villaggio sfodera davanti a parenti e amici un successo che non c’è stato, inventa appartamenti e auto e un continuo divertimento. Nulla di nulla. L’unico a comprendere è il padre. Nascono contrasti, si aggiunge una crisi che colpisce la già barcollante economia, gli allevamenti nelle acque del mare vanno male e i compratori si rivolgono altrove: qualcuno ha intenzione di partire, come il giovane amico di Sheng, dai capelli rossi e libero da ogni legame, inutile stare ad ascoltare come fanno i vecchi del villaggio il responso degli dei. La realtà è vera, concreta, amara, porta la morte del padre, sarà necessario tentare qualche altra soluzione. Forse il successo dell’amico sono altre chiacchiere, intanto si accenna alla religiosità dell’Oriente, al lavoro che non esiste, ad destino che si impone al di là di ogni ricerca e di ogni migliore intenzione, alle false aspettative che accompagnano la vita di un ragazzo. Lim, che pure ha tra le mani argomenti non da poco, accenna, tratteggia per scene brevissime, evita di addentrarsi a scavare nella psicologia e nelle azioni del suo protagonista. Lo pone davanti alle luci della grande città e lo lascia lì, immobile.

Pollice verso anche per l’unico film tedesco in concorso, Prélude di Sabrina Sarabi. Il mondo della musica, quella di Bach e Beethoven, come il mondo della passione e dei sogni caparbiamente coltivati, il mondo dello studio e della costanza, degli insegnati intransigenti, degli applausi e delle sconfitte. David ha tutto questo in sé, il bene e il male, ha la dedizione ma pure l’amore per Marie che pare frenarlo, la disordinata amicizia – e la rivalità – di Walter che lo distoglie nei divertimenti: la borsa di studio per la frequenza della prestigiosa Juilliard School dovrà attendere. Poi tutto precipita nella scrittura di Sarabi, inspiegato e assurdo, l’instabilità del racconto, il ritorno a casa, i colloqui con la madre, la decisione di farla finita. La regista accumula tante ragioni ma gira a vuoto tra le “ragioni” del protagonista, non è capace di mettere a fuoco gli altri due ragazzi intesi come impedimenti, non ne spiega i reali rapporti, tutto appare a tratti incoerente, pasticciato, tirato via senza la volontà (e il piacere, per lo spettatore) di dare una spiegazione plausibile.

Elio Rabbione

Nelle immagini, nell’ordine: due momenti di “Magari” di Ginevra Elkann, scene da “Now is Everything”, “Ohong Village” e “Prélude”

Gli esami non finiscono mai: la storia di Mirella Antonione Casale

Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, EmmelinePankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere. (ac)

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Gli esami non finiscono mai: la storia di Mirella Antonione Casale

“La maestrina della prima inferiore numero tre, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guance, e porta una gran penna rossa sul cappellino, e una crocetta di vetro giallo appesa al collo”, così Enrico, alunno di terza classe di una scuola municipale d’Italia, descrive la maestra, nel diario immaginario, che non è altro che il celebre libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Lo scolaro ricorda la donna “sempre allegra”, che “tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per imporre silenzio; poi quando escono, corre come una bimba dietro all’ uno e all’ altro per rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto perché non infreddino; li segue fin sulla strada perché non s’ accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa e porta delle pastiglie a quei che han la tosse”. L’autore del libro conosce bene l’ambiente scolastico, soprattutto quello delle elementari di via della Cittadella, che frequentano i suoi due figli, conosce anche per davvero la giovane maestra dalla penna rossa, in realtà Eugenia Barruero, un’insegnante umile e modesta che abitava in Largo Montebello 38, e a cui Edmondo si ispira per il suo personaggio indimenticabile. A Eugenia i vecchi torinesi, del sodalizio “i Ragazzi del ’99”, hanno dedicato una targa a sua memoria apposta sulla facciata della casa in cui visse, con incise poche parole,  come a voler dimostrare che di lei non si sarebbero mai dimenticati. Proprio come avviene nella memoria di tutti per il suo incancellabile alter egoletterario. Nel capolavoro di ambientazione torinese il personaggio della maestrina non solo rappresenta il simbolo della giovinezza, ma è anche l’emblema di ciò che per De Amicis è la missione della scuola, ossia di fare gli italiani una volta fatta l’Italia, (per riprendere d’Azeglio), senza distinzioni di censo e di lingua, e di dialetti. Ed è sempre stato questo il compito della scuola, essere quella solida pietra monolitica che infonde cultura e conoscenza, teatro di crescita civile affinché tutti diventino capaci di affrontare il mondo con coscienza critica e responsabilità, essere quell’Istituzione fondamentale in cui da piccoli nessuno vuole mai entrare e della cui importanza ci si accorge sempre dopo. Ed è così che arriviamo alla storia di oggi, che ha per protagonista un’insegnante torinese, una storia ambientata nella scuola e che tratta del diritto all’istruzione per tutti. La scuola nasce elitaria, destinata e riservata ad una ristretta classe sociale altolocata; quando  il sistema cambia si passa ad una fase di modernizzazione, in cui la scuola ha la specifica funzione di socializzazione etico-culturale, per poi giungere alla fase di industrialismo e all’alfabetizzazione di massa. Anche se può sembrare incredibile, fino a non pochi anni fa non tutti hanno potuto usufruire della scuola pubblica, una parte di bambini e ragazzi è rimasta esclusadalle classi “normali”, quasi confinata in strutture e istituti specializzati: si tratta dei disabili. Con il tempo tuttavia anche questa situazione ha incominciato a sbloccarsi. Il primo passo è rappresentato dalla Legge 118/1971, grazie alla quale i disabili lievi possono frequentare le classi comuni, negli anni successivi vengono prese disposizioni affinché alcuni docenti vengano inseriti a supporto degli insegnanti curricolari.

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La prima vittoria si ha con la Legge 517/1977, che approva l’abolizione delle classi differenziali, la seconda, quella più degna di nota, è l’importante Legge 104/1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e per i diritti delle persone con handicap. Alla 104 segue la Legge 170/2010 in cui si trovano le norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico, che sancisce così il diritto per tutti, -abili e diversamente abili-  a partecipare alla vita scolastica ad ogni effetto. Dopo un lungo pellegrinaggio, pare che la scuola sia riuscita ad attuare ciò che l’articolo 34 della Costituzione Italiana proclama già da un bel po’ di anni: “La scuola è aperta a tutti (…) I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Tra le tante personalità che hanno contribuito ai cambiamenti appena citati c’è anche Mirella Antonione Casale, nata a Torino il 12 dicembre del 1925, città in cui vive e lavora fino al pensionamento, nel 1988. Si laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Torino nel 1949, insegna Materie Letterarie presso la  scuola media, e poi all’istituto tecnico, prima in provincia di Vercelli e successivamente, dal 1955,  a Torino, fino alla partecipazione al concorso a preside di scuola media. La lineare vita di Mirella è destinata a stravolgersi, un evento drammaticamente significante porta la donna ad approcciarsi al mondo con altri occhi: il 1 maggio 1957 nasce la figlia Flavia, che all’età di sei mesi contrae l’influenza “asiatica”; la piccola, dopo febbri fortissime e convulsioni, sviluppa una grave encefalite virale, seguita da coma con previsione di certezza di morte. Dopo un ultimo consulto medico e un nuovo farmaco specifico per i lattanti appena arrivato dall’estero, la bimba riesce a sopravvivere, riportando però gravi conseguenze per le numerose lesioni celebrali. E quando la madre vuole iscrivere la bambina – giunta all’età di sei anni –  a scuola, tutti la rifiutano, tranne gli istituti privati e differenziali. Mirella, però, non si lascia abbattere dalle difficoltà e continua nel suo percorso: dal 1960 viene eletta Consigliere d’Amministrazione, nominata dalla Provincia di Torino, dell’Istituto Buon Pastore (istituto rieducativo per le ragazze difficili, e di sostegno per le ragazze madri). Dal 1972 al 1980 ricopre la carica di Giudice Onorario presso il Tribunale dei Minori di Torino e dal 1985 al 1999 è Consigliere di maggioranza al Comune di Torre Pellice, dove vive tutt’ora. Dal 1977 al 1982 è  comandata dal Ministero della Pubblica Istruzione presso il Provveditorato agli Studi di Torino per coordinare e seguire l’integrazione scolastica dei disabili. Mirella aveva frequentato, infatti, tra il 1963 e il 1965, un corso biennale di specializzazione dell’Università in Psicologia-Pedagogia e successivamente corsi reiterati di formazione ministeriale. Nel 1968 vince il concorso a preside a Torino, e ottiene la dirigenza scolastica della scuola media Camillo Olivetti dove, qualche anno dopo, in seguito ad un corso d’aggiornamento, inizia in alcune classi la sperimentazione del tempo pieno (sono sei le scuole medie di Torino a iniziare la sperimentazione).

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Fin dal 1971 promuove anche un’altra sperimentazione, che prevede l’inserimento di alunni disabili intellettivi e psicofisici nelle classi comuni del tempo pieno, prima ancora dell’approvazione della Legge istitutiva 517/1977. Dal 1964 è iscritta all’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità) a Torino, ricoprendone nel corso degli anni cariche locali ma anche nazionali. Nel 1988, ormai in pensione, si trasferisce con la famiglia a Torre Pellice, dove pochi mesi dopo fonda con sede locale a Pinerolo l’Associazione ANFFAS-Valli Pinerolesi, nella quale ancora oggi continua a prestare la propria attività come socia, dopo otto anni di presidenza. Nel 1991 scrive “Il bambino handicappato e la scuola” per Bollati Boringhieri, insieme a Pier Angela Peila Castellani e Francesca Saglio. Il libro si basa sull’esperienza e sulla riflessione delle autrici a proposito dell’ambito diagnostico-terapeutico della presa in carico dei bambini con disabilità da parte della scuola, e del loro inserimento all’interno dell’Istituzione. Fino alla primavera 2012 svolge attività di volontariato come componente della Commissione minori e disabili per i piani di zona ed è ancora presente nella Commissione permanente per l‘integrazione scolastica dei disabili. Fa parte della Commissione welfare del comune di Torre Pellice. Per alcuni anni ha partecipato all’accoglienza presso il presidio ospedaliero in aiuto agli utenti, nello specifico degli anziani, per aiutare nel dare informazioni o nella stesura delle domande per esenzioni ticket. Inoltre, con altri volontari di altre associazioni locali, dopo aver frequentato corsi di preparazione, si è occupata del tempo libero degli adulti disabili intellettivi e/o relazionali, organizzando attività teatrali. Ha partecipato, grazie all’AUSER  (Associazione per l’invecchiamento attivo), all’animazione nelle case di riposo per anziani dove tutt’ora si propone come lettrice.

 

Alessia Cagnotto

Un americano a Torino. "Seeming Confines"

Nel torinese “Spazio Don Chisciotte”, le astratte forme colorate di David Ruff
Forme armoniosamente informi, dal vibrante e intenso tratto coloristico. Giocate, in ampie campiture, su stupendi bagliori di luce e sull’astrazione di un segno che, all’apparenza, “fatica” a prendere corpo. Compiuto e intellegibile. Forme che generano forme, che si frappongono e sovrappongono, che s’inciampano, s’indispettiscono, si spezzano e si ricompongono. Come i sogni alle prime luci del giorno. O le immagini di una natura tanto amata (“una foglia dorata, un ciottolo, una crepa in un muro, una lumaca, la forma dei campi…”) da esaurirsi nel gioco imprevedibile e suggestivo e bastevole di poetiche intime sensazioni. Sospese fra subconscio e realtà. Senza confini di mezzo. Terra libera, dove “parte della mia anima diventa un dipinto con una propria anima, e sono io che la devo nutrire. Ogni dipinto dà vita al successivo. Nasce qualcosa di nuovo, qualcosa che è sempre esistito. Poi non resta che una finitura cosciente. E’ il mio nome, la data e forse un titolo”. Così, meglio d’ogni altro, raccontava –in una personale del ’75 alla “Bergamini” di Milano – la genesi dei suoi dipinti David Ruff (New York, 1925 – Torino, 2007), cui la Fondazione Bottari Lattes dedica oggi nelle sale torinesi del suo “Spazio Don Chisciotte” di via Della Rocca, una coinvolgente retrospettiva comprendente nove lavori su carta (inchiostri e gouache) e venti dipinti, realizzati prevalentemente negli anni Settanta, accanto a diari, appunti scritti a mano e ritratti fotografici, utili a meglio comprendere il contesto storico-culturale presente nella ricerca dell’artista. Curata da Valentina Roselli e dal “David Ruff Archive” (fondato a Torino nel 2017 dalla moglie Susan Finnel), la rassegna s’incentra con saggio acume sugli oltre trent’anni trascorsi in Europa da Ruff, che artisticamente cresciuto fra New York e San Francisco (dove fonda e dirige, fra l’altro, un atelier grafico, producendo opere destinate a diventare testi fondativi della poesia d’avanguardia americana, sotto l’egida e l’amicizia di nomi sacri come Kenneth Patchen o Harold Chumbly o Ferlinghetti) nel ’69, con la moglie e la figlioletta Aleyda, si trasferisce prima ad Amsterdam e, nel ’71, in Piemonte, vivendo per oltre trentacinque anni fra Baldissero, Bagnolo e Torino. Pittore, grafico, poeta e intellettuale nel senso più lato del termine Ruff – che negli States fu anche attivista impegnato nelle grandi campagne politiche per i diritti civili, in Alabama, Mississipi, Upstate New York e Washington D.C. – “porta con sé una ricerca – scrive Valentina Roselli – alimentata dal grande fermento artistico degli Stati Uniti a partire dagli anni Quaranta, studiando dal vivo giganti come de Kooning, Pollock, De Stael, Gorky, Baziotes e Rothko”. La lezione è quella dirompente dell’informale prima e dell’espressionismo astratto poi, cui spesso l’artista viene negli anni associato, pur se il suo percorso di ricerca naviga da sempre per mari assolutamente originali, inconfondibili nella trattazione di cifre stilistiche particolarmente attente ai miracoli del colore e che negli anni europei lo avvicinano fortemente allo studio del Rinascimento italiano, così come alla pittura tonale veneta (dei Giorgione e dei Tiziano) e soprattutto ai modi di certo grande post-impressionismo, che riporta agli intensi gialli mediterranei e ai blu ineguagliabili di un Bonnard. Il tutto arricchito da una sensibilità pittorica e da un modo d’intendere il “mestiere” d’artista assolutamente singolare, come “viaggio dai confini non demarcati, senza l’urgenza di una definizione”. Di qui anche il titolo della mostra “Seeming Confines” (“Confini apparenti”) che coincide con il titolo di un olio su tela di Ruff del ’73, ispirato all’opera “Endymion (IV, 513)” di John Keats, poeta molto amato dall’artista. Un pittore che “ha saputo trasformare in immagini – ancora Roselli – l’avventura esistenziale, scardinando categorie e stereotipi con prontezza e raffinata ironia”. Con colta gioiosità e la pura fantasia di un curioso poeta fanciullo che all’amata natura guarda ogni volta con infinito stupore e un desiderio profondo nel cuore: “Ogni volta che guardo un ciottolo, una conchiglia o le stelle –scriveva Ruff – c’è qualcosa di nuovo da vedere… Spero che i miei quadri stiano nel cosmo come le piante, le stelle, le conchiglie, le persone”.

Gianni Milani

“Seeming Confines”
Spazio Don Chisciotte – Fondazione Bottari Lattes, via Della Rocca 37B, Torino; tel. 011/1977.1755 o www.fondazionebottarilattes.it
Fino al 18 aprile
Orari: dal mart. al sab. 10,30/12,30 e 15/19
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Nelle foto

– David Ruff
– “Seeming Confines”, olio su tela, 1973
– “Untitled”, gouache su carta, 1969
– “The Second Sound”, olio su tela, 1975
– “Come gli uccelli in autunno”, olio su tela, 1974

 

10 cose che (forse) non sai sull’Erasmus

Era il semestre invernale dell’a.a. 2017/2018, quando mi buttai allo sbaraglio nell’ardua impresa di sopravvivere 6 mesi nel capoluogo della Renania Nord-Occidentale, presso l’Heinrich Heine Universität, facoltà di filosofia. Mi rivolgo a te, che stai pensando di partire per un periodo Erasmus, ti avverto: sarà uno shock culturale. Ecco 10 curiosità che devi sapere prima di avventurarti in un periodo Erasmus


1) È un’ansia continua Carte su carte, scartoffie a non finire… Durante il tuo Erasmus dovrai rassegnarti a convivere con uno scambio epistolare INFINITO di documenti per il contratto tra università, per ottenere uno studentato nel paese di arrivo, per le borse di studio… E poi ti toccherà combattere con changes continui del learning agreement e miliardi di scadenze… Insomma, riuscire a mantenere la sanità mentale dietro a tutto questo, mentre stai anche preparando gli esami, richiede non poca resistenza, capacità organizzativa e memoria.

2) Richiede coraggio Eh sì, mollare famiglia, amici di sempre e magari un amore, per partire per mesi da solo per un paese sconosciuto può non suonare allettante per tutti… ma le difficoltà non sono mica tutte lì! Una volta partito dovrai anche essere in grado di organizzarti il viaggio da solo e orientarti all’estero, fino a raggiungere il tanto agognato, per quanto modesto, studentato (se hai avuto la fortuna di vedertene assegnato uno!)

3) Ti rende un po’ bohème… I continui viaggi che caratterizzano lo studente Erasmus e le risorse modeste, date dai risparmi di un lavoro saltuario e la misera borsa di studio, ti insegneranno l’arte dell’arrangiarsi con poco e sentirti comunque il giovane più felice e fortunato dell’universo!

4) Ti insegna il valore della condivisione Come solo uno studente fuori sede può capire, condividere è ESSENZIALE quando non hai vicino una famiglia che può sostenerti e i soldi scarseggiano sempre… Ma questo non crea affatto depressione, come qualcuno potrebbe immaginare! Si viene anzi a creare una sorta di atmosfera di “decrescita felice”, in cui gli sprechi sono nulli, la condivisione è massima e i legami sociali con i vicini di casa e i nuovi amici diventano sempre più stretti, quasi a formare un nuovo nucleo familiare.

5) Ti fa scoprire più fratelli e sorelle di quanti credevi di averne Come dice il proverbio: mal comune, mezzo gaudio! Ebbene sì, in mezzo ai mille disagi del doversi ambientare alla cultura locale e del dovere imparare a districarti con la lingua, i tuoi fratelli di Erasmus, ossia gli altri studenti aderenti al progetto, saranno anche i compagni tuoi di sventure, con cui potrai confrontarti, ridere delle piccole disavventure quotidiane e costruire bellissimi ricordi insieme. Senza contare i nuovi amici del posto! Se sarai fortunato ti sarà affidato uno o più buddies dalle associazioni universitarie, ossia uno studente dell’università ospitante che si offrirà volontario per  farti da Cicerone per quanto riguarda il campus universitario e la città stessa. Un buon buddy ti saprà consigliare dove bere una buona birra la sera, un ottimo buddy ti porterà a bere tutta la notte!

6) Rinforza il legame con Casa Prima di partire credevo che vivere all’estero mi avrebbe fatto, se non perdere, quantomeno affievolire i legami con gli amici di sempre, la famiglia e il mio stesso Paese… Non mi sono mai sbagliata tanto. È incredibile quanto si rafforzi il legame di solidarietà tra compaesani quando ci si ritrova in un paese straniero e quanto sia grande la gioia che si prova quando i tuoi vecchi amici o i parenti vengono a trovarti a sorpresa! È scioccante quanto sembra che si amplifichino le emozioni in un contesto del genere.

7) Ti fa capire che non tutto si può tradurre Parola di una studentessa di Lingue: non tutto è traducibile. Avete mai sentito parlare dei Realia? Ebbene, sono delle parole strettamente collegate alla cultura locale, agli usi e costumi, ai gusti e al modo di sentire tipico della gente del posto. Un Glühwein ha tutta un’altra connotazione emotiva rispetto al nostro vin brulè, l’Einsamkeit è ben più di un semplice senso di solitudine e lo Stammtisch è un meraviglioso momento e un rituale di aggregazione che non sembra avere una parola corrispondente nella nostra lingua. Mentre per quanto riguarda invece il tipico abbiocco italiano, i tedeschi sembrano non capire bene fino in fondo di cosa si tratti e quanto esso sia inevitabile dopo una bella mangiata.

8) Ti fa prendere coscienza della tua “italianità” Non hai idea di quanto il tuo accento, il tuo modo di fare e perfino di camminare sia italiano, finché non vai a vivere all’estero. Spiazzante ma allo stesso tempo divertente, questa nuova consapevolezza emergerà quando meno te l’aspetti. Mentre chiacchieri, studi o brindi con la gente del posto o studenti di altre nazionalità che all’improvviso se ne usciranno con un “typisch italienisch!” o “that’s so typical of Italians!” riferendosi a piccoli particolari quotidiani o modi di dire che tu credevi fossero culturalmente neutri o quantomeno internazionali.

9) È un investimento Richiede soldi… tanti soldi! Molti studenti Erasmus spesso infatti finiscono per trovarsi un lavoretto da affiancare alle attività di studio perché, effettivamente, le borse di studio coprono malapena i costi dell’affitto. E inoltre ti fa perdere tempo, in termini accademici, in quanto, per esempio, il progetto Erasmus+ non permette di poter dare esami di più annualità della stessa lingua nello stesso anno accademico, limite invece assente (per fortuna!) all’Università degli Studi di Torino.

10) È un’esperienza pirandelliana: ti trasforma in uno, nessuno e centomila! Nonostante i mille ostacoli e difficoltà una cosa è certa: una volta tornato a casa, la depressione postErasmus per te sarà inevitabile. Ti mancherà terribilmente lo stimolante ambiente interculturale e la possibilità di imparare sempre cose nuove sulle altre culture ma contemporaneamente, per contrasto, anche sulla tua. Ti accorgerai di avere assunto dei modi di fare e di dire tipici della cultura del paese che ti ha ospitato per tanti mesi, ma di cui non ti eri accorto finché non sei rimpatriato. Realizzerai all’improvviso quanto sei unico ma allo stesso tempo piccolo in un mondo così grande, e imparerai che superare la propria zona di confort implica sì dei rischi, ma anche delle meravigliose avventure. In Germania esiste una parola: Fernweh. Essa indica il dolore per ciò che è lontano, per un luogo che non è la tua patria, ma è un posto in cui sei stato e hai lasciato un pezzo di cuore, in cui vorresti disperatamente ritornare. Chissà, forse, quando hanno coniato questo termine, i teutonici pensavano proprio alla nostra bella Italia, ma io, invece, penso alla cittadina di Düsseldorf, che mi ha ospitato per sei mesi, diventando la mia casa. Ma questo Erasmus mi ha insegnato anche il Wanderlust, l’istinto migratorio, la voglia irrefrenabile di viaggiare e scoprire posti nuovi, ampliando la mia identità da italiana a cittadina del mondo. In conclusione, se deciderai di partire per questa esperienza, non posso garantire che tornerai… E se lo farai, non sarai più lo stesso.

 

Valentina Scebba

Natale d’altri tempi

Il racconto  di Barbara Castellaro

 

Di molte cose buone sono stato io a non voler profittare, quest’è certo – rispose il nipote; – e il Natale fra l’altre. – Ma il fatto è che io ho tenuto sempre il giorno di Natale, quando è tornato – lasciando stare il rispetto dovuto al suo sacro nome, se si può lasciarlo stare – come un bel giorno, un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si spassa: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come ad un’altra razza di creature avviata per altri sentieri. Epperò, zio, benché non mi abbia mai cacciato in tasca la croce di un soldo, io credo che il Natale m’abbia fatto del bene e me ne farà. Evviva dunque il Natale!

Charles Dickens “Canto di Natale”

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Con il trascorrere degli anni, con il passare, inesorabile, inarrestabile, del tempo che mi avvicina alla definitiva separazione da questa realtà, mi accade, per uno strano fenomeno che non riesco a spiegare neppure a me stessa, di ricordare con difficoltà gli eventi più vicini e di vedere, invece, nitidamente, gli anni lontani, quelli dell’infanzia, i volti di persone che non ci sono più.

Mi ritrovo a vivere quei fatti, come se fossero il vero presente, in tutti i loro particolari, anche quelli più insignificanti, anche quelli marginali, privi di importanza.

Per contro, mi estranio dall’oggi, rifugiandomi altrove, in un mondo tutto mio, in una stanza dell’immaginario della quale solo io possiedo la chiave.

Non prendetemi per pazza e nemmeno per malata di un principio di demenza senile.

Gli anziani sono sempre considerati un po’ fuori di testa.

In realtà, siamo condannati a vivere di ricordi, non avendo più davanti a noi nessuna sfida, nessuna opportunità, nessun miraggio.

Abbiamo anche cessato di sognare, o almeno di farlo per noi stessi. Lo si fa per gli altri, per chi si ama.

Persino la speranza è un lusso che ci concediamo raramente ormai come se fosse un cioccolatino da gustare solo nei giorni di festa.

Negli ultimi tempi, da quando si sta affacciando, come uno spettro, il giorno del mio ottantesimo compleanno, ho ripreso a pregare.

Non l’ho fatto mai molto nella mia vita, soltanto quando avevo bisogno di qualcosa, cercando di scambiare fioretti con grazie e bestemmiando quando le mie richieste non venivano esaudite.

Mia nipote mi ha regalato una riproduzione della statua della Madonna nera di Oropa, identica a quella che aveva mia madre.

L’ho collocata sul comodino, accanto al letto. La guardo, le parlo come se fosse viva. Mi aiuta a sentirmi meno sola.

Quando arriva l’inverno mi chiudo in casa e mi rifugio davanti alla televisione per l’intera durata della giornata, fino a tarda sera.

E’ l’unico mio contatto con l’esterno.

Guardo di tutto e giudico ogni cosa, ogni fatto, come se il mio passato fosse trasparente e pulito, uno specchio senza incrinature, senza macchie.

Ma, ormai, mi è consentito farlo. A chi è anziano si perdona tutto.

A Natale compirò ottant’anni. Questo, forse, ve l’ho già detto. Mi ripeto un po’ e sono noiosa, lo so, ma anche voi perdonerete come fanno tutti gli altri.

La notte scorsa non riuscivo a dormire. Mi stanco poco di giorno e la notte diventa un lungo peregrinare dal letto alla cucina, dal salotto fino al letto, nell’attesa di veder filtrare la prima luce dell’alba attraverso le tende della stanza.

Non leggo più, non serve a conciliare il sonno. Penso, invece. Penso molto.

Senza sapere come, sono passata dal pensiero della festa che mi attenderà tra poco a quello di un Natale di tanti, troppi anni fa, il primo Natale che riesco a ricordare nitidamente, in tutti i suoi particolari, in tutte le sue sfaccettature: un Natale d’altri tempi.

Ed era tutto così reale, così vero, come se lo stessi vivendo di nuovo, come se la mezzanotte che il pendolo, nella scala, aveva appena scandito avesse portato con sé lo spirito dei Natali passati ed io avessi fatto un balzo indietro nel tempo, ritornando all’infanzia.

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Sono nata nel 1929, l’anno dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa, in casa, una lunga cascina giallo limone, dispersa tra prati e vigne, nel Canavese, una terra così verde da fare male agli occhi in primavera ed in estate.

Era una casa di poche stanze, tutte gelate e umide, tranne la cucina, surriscaldata da una grossa stufa che serviva anche per cucinare.

Era una casa povera, una casa di gente umile, modesta, dove esisteva spazio soltanto per il lavoro e dove gli insegnamenti che si ricevevano erano quelli scritti sull’almanacco appeso in cucina.

La lotteria della vita mi aveva assegnato un posto su un vagone di terza classe.

Mancavano pochi giorni a Natale quando venni al mondo.

Mia madre diceva che i mesi invernali fossero i migliori per far nascere dei figli.

Capii presto perché. I contadini, nella buona stagione, non possono permettersi di stare a letto né per malattia, né per partorire.

Io ero la terza dei suoi figli. Uno era morto appena nato.

Ma, nelle famiglie come la nostra, non c’era tempo per il dolore. Si andava avanti e basta, in modo automatico, senza piangere su chi se n’era andato, con una sorta di rassegnazione.

Ero attesa per febbraio. Invece, la mia voglia di vedere il mondo, di conoscere quello che esisteva all’esterno della caverna buia vinse su tutto e a sette mesi pretesi di uscire e di lanciare verso il soffitto il mio primo vagito.

Mio padre, in primavera ed in estate, faceva il contadino.

In autunno vendemmiava e produceva vino, ma soltanto per le necessità della famiglia.

Durante l’inverno trasportava frutta secca e mandarini per conto di altre persone, fino ai mercati.

Era ancora notte fonda quando partiva per la città, avvolto in un tabarro pesante, il cappello calcato sulla testa piccola, la falda abbassata a coprirgli il volto magro, dalle guance scavate, due linee nette tracciate nella pelle come un bassorilievo.

Il suo carro, rivestito con un telone spesso ed impermeabile, era una tentazione per i tre bambini della casa: mio fratello, mio cugino ed io, una tentazione di mandarini profumati, di arance, di noci e di arachidi, quelle che chiamavamo “spagnolette”, di fichi secchi e di datteri che non potevamo assaggiare mai perché non appartenevano a noi, perché erano un tesoro che ci era stato affidato, ma dentro il quale non potevamo affondare le mani.

Avremmo potuto trascorrere ore intere a guardare le cassette.

Ma eravamo troppo poveri per permetterci di mangiare ciò che avrebbe dovuto essere venduto ed eravamo troppo consapevoli della nostra condizione per privare nostro padre anche soltanto di un frutto.

Non so perché, ma ho sempre pensato che il bambino povero cresca molto prima di quello ricco, di quello benestante che non deve lottare per avere un posto nel mondo, che può dare per scontato anche qualcosa di semplice, banale come una cena.

Per noi diventava una colpa persino desiderare qualcosa e così, restavamo a guardare, in silenzio, senza osare respirare, tutte quelle delizie che avrebbero arricchito la tavola di qualcuno più fortunato.

Non era una colpa essere nati dalla parte sbagliata della barricata. Non era colpa di nessuno. “L’essenziale – diceva mia madre – è non fare del male al prossimo ed avere la salute”.

E, durante i primi anni della mia vita, isolata in quella casa solitaria in mezzo a lingue di terra e bosco, fu facile credere che avesse ragione, fu semplice non sentire la differenza della nostra, della mia condizione, non dovendola confrontare con quella di nessun altro, non dovendomi ritrovare nella situazione di desiderare un abito oppure un paio di scarpe di raso lucente.

Ereditavo, senza preoccuparmi del loro aspetto, le scarpe che a mio fratello non andavano più. Ricevevo come un regalo gli abiti, i grembiuli, ricavati da quelli smessi di mia madre.

Quando ne avevo il tempo, giocavo con un cane meticcio, di un rosso tendente all’arancione, dal pelo lungo, che si chiamava Diana e che acconciavo come se si trattasse di una bambola.

Diana, animale buono di cuore, si prestava senza un lamento, alle mie rozze ed inopportune cure di bellezza, limitandosi a sollevare verso di me enormi occhi colmi di tristezza.

Ma, in fondo, credo che capisse che, a modo mio, le volevo bene.

***

E, poi, c’erano le bambole di foglie di granoturco che zia Valentina, se ne aveva voglia, in autunno, preparava e mi regalava, quelle fatte di foglie secche e modellate per sembrare bambine in miniatura, con abiti ampi come quelli di una dama dell’Ottocento.

Niente altro. Non si potevano sprecare e gettare via soldi per i giocattoli in una casa dove ce n’erano appena per vivere.

Eppure non posso dire di aver mai patito la fame.

Sia a pranzo che a cena c’erano sempre un piatto colmo di minestra o di polenta e latte, talvolta una frittata, talaltra un volatile arrostito o bollito, quando si era fortunati.

Non mancava mai il pane sulla nostra tavola.

Si faceva ogni quindici giorni nel forno in muratura in fondo al cortile ed usciva caldo e croccante, lasciando per giorni un profumo goloso di biscotto nell’aria.

Certo, verso la fine della quindicina, quel pane era diventato duro come le pietre e si poteva mandar giù soltanto immerso nel latte oppure accompagnato da parecchi bicchieri d’acqua, ma andava bene così.

Noi avevamo di che nutrirci. C’era chi stava peggio, molto peggio.

Da bambina non credo di avere mai osato chiedere qualcosa.

Semplicemente, alla fiera del Santo Patrono, mi limitavo a lanciare occhiate di nascosto a qualche giocattolo, ad un nastro per i capelli, forse, stando bene attenta che nessuno mi potesse vedere e fingendo, per lo più, indifferenza.

“Le cose si comprano quando si può e se ce n’è bisogno” diceva mia madre.

***

Mio padre, che il cuore buono avrebbe spinto a cedere e ad acquistare anche soltanto un dolce, un croccante, un torrone, non aveva però il coraggio di dire nulla ed accettava le decisioni altrui, limitandosi a scuotere la testa.

Aveva sempre subito la moglie, donna dura e forte, donna solida e sana di corpo, di idee e di principi e vi si era sottomesso.

Del resto, subiva anche il padre, mio nonno, che non poteva incontrare i suoi nipoti senza provare la tentazione di assestare loro uno scapaccione, così senza motivo, giusto per il gusto di menare le mani, oppure i piedi, a seconda di quello che gli risultava più comodo.

Il nonno non amava i bambini. Non so il perché, eppure ho sempre saputo che non ci amava.

Pertanto, avevamo imparato presto a tenerci alla larga da lui, a fargli, di nascosto, tutti i dispetti possibili, a rubargli le pere che nascondeva sotto il letto, con una sorta di ingordia frammista ad uno spiccato egoismo.

Tutto questo era realizzato senza lasciare traccia alcuna ed, anzi, cercando di scomparire per ritrovarci lontani quando lo avesse scoperto.

Mio nonno, da giovane, era stato un po’ libertino ed un po’ sognatore.

Si raccontavano strane storie su di lui, ma a bassa voce, per non farsi sentire, storie che cessavano appena noi, bambini, entravamo nella stanza, sfumando in sussurri ed indici della mano portati alle labbra per intimare il silenzio.

Si sedeva sempre a capo della tavola, alzando un pugno con le nocche dure come il legno per minacciare chi tra noi faceva rumore con il cucchiaio nel piatto fondo della minestra.

Dicevano che fosse ateo e che vedesse i preti come il fumo negli occhi.

In realtà, lo si poteva udire pregare, in un modo tutto suo, mentre vagava nella campagna o attraverso il cortile, ripetendo in dialetto una preghiera composta da lui, totalmente incentrata sull’interesse personale: “Signore, Signore, la vita e l’onore, soldi da spendere, roba da vendere, donne belle in questo mondo, Paradiso nell’altro, Signore non ti chiedo niente altro”.

Si trattava, effettivamente, di un’invocazione che toccava tutte le tematiche a lui care, senza tralasciare la sua grande debolezza per le belle donne e, tanto meno, la preoccupazione, sviluppatasi in tarda età, riguardante la vita dopo la morte, che il nonno auspicava sarebbe stata tra santi, angeli e cori celesti.

In fondo, non aveva commesso peccati così gravi da fargli meritare il Purgatorio.

Non era, in effetti, stato più cattivo di tanti altri ed, in terra, non aveva avuto una vita facile.

Perché, dunque, avrebbe dovuto “purgarsi” prima di accedere alla porta custodita da San Pietro?

Forse era un po’ blasfemo, ma in fondo più onesto di tanta gente che finisce per nascondersi dietro a falsi comportamenti, atteggiandosi a persona pia e timorata di Dio.

***

Il primo Natale che riesco a ricordare in modo chiaro e vivido coincide con il mio primo anno di scuola.

Ho potuto studiare soltanto fino alla quinta elementare e sempre a patto che, durante l’estate, aiutassi in campagna.

Poi dovetti rinunciare alla scuola.

Mi sarebbe tanto piaciuto fare l’Avviamento, ma mia madre puntò i piedi e disse: “No, ad una donna saper leggere, scrivere e far di conto basta ed avanza”.

Così accettai di “farmi mangiare i libri dalle capre”, come si diceva da noi, e di lasciare gli studi.

 

A scuola ritrovai, nella stessa classe, mio cugino Cino che aveva la mia età e tanti altri bambini del paese che già conoscevo.

Eravamo tutti poveri diavoli, ma di una povertà linda, dignitosa e sempre pulita, decorosa persino nei rammendi.

A me la scuola piaceva, sapete? Mi piacque fin dai primi giorni.

Era bello imparare a sillabare le parole fino a renderle frasi di senso compiuto, a leggere, a graffiare i fogli di carta spessa con il pennino, tracciando eleganti sbuffi di inchiostro nero.

La maestra ci leggeva i racconti di bambini poco più grandi di noi, ma coraggiosi ed impavidi come soldati, capaci di eroici sacrifici e di amor di Patria.

Erano storie piene di sentimento, di atti grandi, immensi, custodite in libri che, adesso, non vengono neppure più stampati, in libri che non interessano più.

Ma tutto cambia. Forse, un giorno, quando io non lo potrò più vedere, torneranno di moda.

I valori e gli ideali possono essere accantonati, mai uccisi.

***

Io penso che ci potrà sempre essere posto per una bella storia, ben raccontata e che, in futuro, questi testi potranno uscire dalla biblioteca dimenticata dove li hanno confinati, pretendendo di riavere il proprio spazio.

Dicembre, quell’anno, arrivò con una rapidità sorprendente e portò con sé, amplificata, tutta la bellezza delle tradizioni natalizie.

L’albero, diffuso nei Paesi del Nord Europa, non si trovava nelle nostre campagne, non era conosciuto.

Si allestiva, invece, il presepe.

In cascina ne avevamo uno anche noi. Non so da dove provenisse o chi lo avesse comprato.

Statuine rozzamente realizzate in gesso, con colori vivaci, che comprendevano la Natività, i tre Re Magi, qualche pastore ed alcune macchie bianche a rappresentare le pecore.

L’8 dicembre lo si metteva sul tavolo della sala con uno sfondo color oro realizzato con una specie di carta da pacco che mio padre aveva recuperato al mercato, abbandonata tra i cartoni e le cassette e vi restava, ammirato, ma mai toccato da nessuno di noi che avevamo nei confronti di quelle statuine un timore reverenziale, durante tutto l’Avvento, fino all’Epifania che “tutte le feste porta via”.

A scuola come a casa si parlava continuamente e soltanto della nascita del Bambin Gesù, non certo dell’attesa dei regali come al giorno d’oggi.

Ad onor del vero confesso che guardo a quei tempi semplici con rimpianto quando, passando nei corridoi di un centro commerciale vedo scaffali pieni zeppi di giocattoli ed oggetti inutili, molti dei quali verranno regalati solo per senso del dovere, senza sentirlo veramente.

Noi attendevamo, con ansia, con impazienza, un Bambino speciale, quello che avrebbe salvato l’umanità: questo doveva essere festeggiato.

Almeno così diceva don Amilcare in chiesa ed in classe: quel bambino che, divenuto uomo, sarebbe morto su una croce.

Ed additava il crocefisso che, all’epoca, non aveva bisogno di alcuna sentenza per restare appeso alla parete, non recando nessuna offesa un martire che, innocente, aveva subito i tormenti della tortura e della morte, simbolo di tanti altri innocenti di tutto il mondo, appesi ad una forca.

Sono cose che non capisco queste, mi indignano, poi lascio perdere.

Mi darebbero della rimbambita e così lascio perdere.

***

Durante l’Avvento, anche i due chilometri che, al freddo e sotto la pioggia, dovevamo percorrere per raggiungere la scuola, divennero qualcosa di lieve.

Eravamo, infatti, smarriti in pensieri permeati di bontà, di bellezza, di unione, e, così, mettendo un piede dietro l’altro, arrivavamo senza nemmeno accorgercene davanti ai due cancelli, quello della scuola all’andata e quello della casa al ritorno.

Ricordo che faceva un freddo tremendo e le strade erano piene di pozze quando pioveva e spesso tanto gelate da non riuscire a restare in piedi.

I nostri abiti erano una barriera troppo leggera ed il gelo li penetrava come un punteruolo doloroso.

Ma l’unico mezzo di trasporto a nostra disposizione erano le gambe che tenevamo allenate e scattanti.

Le prove di bella grafia, le letture strascicate, ma abbastanza sicure ad alta voce, le piccole poesie da imparare a memoria, tutto appariva come un gioco in quel dicembre di attesa febbrile, scandita dalle campane della chiesa.

In un piccolo paese come il nostro, isolato e lontano dalla città, ogni festa diventa un evento e l’attesa è il momento più bello.

Pensateci: un giorno di festa brucia e si consuma rapidamente.

E’ l’attesa di quel giorno il momento magico, quello che veramente ci fa palpitare, ci fa battere il cuore, non ci fa dormire la notte e ci toglie il respiro.

Poi, quando arriva quella data, anche se tutto è stato bello, i nostri pensieri sono già rivolti alla sua fine ed ha già trovato collocazione nel ricordo e nel passato.

La mente è già volata a domani, perché l’uomo è fatto così. Non riesce a vivere il presente, vive di passato oppure di futuro, mai di presente.

***

Adesso, ad ottant’anni, io mi nutro di passato, mentre vedo mia nipote, i suoi amici con la mente rivolta al futuro, al domani, a quello che sarà, senza sapere utilizzare e coniugare il tempo della loro vita al presente.

La festa di Natale arrivò in un soffio, tra recite di poesie e racconti.

La Vigilia, un giorno in cui il cielo era cupo e pesante e prometteva di ricoprirci di neve, ci sorprese senza che nemmeno potessimo accorgercene, immersi come eravamo nella nostra euforia.

Ricordo, perfettamente, anche a distanza di settantaquattro anni, quel giorno uggioso, perché mio nonno se ne stava sull’uscio a borbottare, levando il pugno nodoso verso il cielo quasi a minacciare anche il Padre Eterno.

La neve avrebbe significato difficoltà negli spostamenti, difficoltà nel raggiungere la chiesa per la Messa di mezzanotte e soprattutto per ritornare a casa.

Il nonno scandiva l’anno liturgico con due Messe soltanto, non una in più, non una in meno: quella di mezzanotte a Natale e quella della mattina di Pasqua.

Riteneva, in questo modo, di fare il proprio dovere nei confronti di Dio e di salvare le apparenze con gli uomini che gli davano dell’ateo e che avrebbero dovuto rimangiarsi quella parola vedendolo entrare in chiesa almeno durante le feste comandate.

“Chi prega lavora” diceva.

Ma guai a chi gli avesse impedito di essere presente ad una di queste Messe.

Pertanto, lo preoccupavano non poco le condizioni meteorologiche ed era intrattabile.

A casa, però, c’eravamo soltanto mia madre ed io, quindi non osava sfogarsi ed alzare la voce.

Con mia madre, fin da quando era giunta, giovane sposa, nella sua casa, c’era stato un silenzioso e tacito patto di non belligeranza.

Entrambi, infatti, possedevano due caratteri troppo forti e, comprendendo, immediatamente, che avrebbero finito per scontrarsi continuamente ed inutilmente, senza ottenere alcuna vittoria l’uno sull’altra, avevano deciso di tollerarsi, per poi sfogarsi, a turno, su mio padre che si trovava così stretto nella morsa di padre e moglie.

Quel giorno a mia madre appunto dava un estremo e visibile fastidio l’andirivieni del nonno dal cortile alla cucina e, poi, di nuovo in senso inverso, proprio mentre lei era impegnata a preparare il pranzo per il giorno successivo, un pranzo che sarebbe stato speciale, unico, anche perché atteso per un intero anno.

Quel pranzo era la nostra debolezza, una debolezza che ci concedevamo soltanto a Natale e che si svolgeva, però, senza che il pensiero si distogliesse mai dal significato religioso della festa, dal momento che, tra una portata e l’altra, si continuava a ringraziare il buon Gesù per quello che ci aveva concesso.

Mia madre preparava tutto da sola o meglio aiutata da me che, pur bambina, mi reinventavo sguattera, pur di restarle accanto, prestandomi a tutti i servizi che voleva affidarmi, dall’andare a prendere l’acqua al porgerle gli ingredienti.

E tutto questo era già molto per una bambina di sei anni, ve lo assicuro.

La cucina veniva invasa da vapori che appannavano i vetri e dai profumi di brodo e di carne arrostita che solleticavano i sensi con la promessa del pranzo del giorno successivo.

Mia madre teneva il tavolo sgombro, lindo e lucido, per poter distendere sul suo ripiano lunghe e larghe strisce di pasta gialla sulle quali posava palline di un impasto fatto con tre carni mecolate al cavolo.

L’impasto era poi ricoperto con un’altra striscia di pasta ed, infine, venivano ricavati, tagliandoli a mano, grossi quadrati, gli agnolotti che avrebbero rappresentato il piatto forte del giorno successivo, ricchi e nutrienti com’erano.

L’unica portata del pranzo che non usciva dalle mani di mia madre era il dolce.

Il dolce di Natale, tanto atteso, non soltanto da noi bambini, veniva portato da Torino che, all’epoca, in paese, era vista come una città ricca, speciale ed irraggiungibile e questo semplice fatto lo rendeva qualcosa di meraviglioso e di indescrivibile.

La sorella di mio padre, zia Matilde, dopo essersi sposata, si era trasferita a Torino ed, in breve, aveva assunto lo stile e le abitudini della donna di città, non ultima quella di recarsi in pasticceria a Natale e portare con sé, avvolto in carta argento, un enorme panettone, arricchito con canditi, uva passa e mandorle, che veniva collocato su un tavolino e spiato, durante tutto il pranzo, con sguardi vogliosi.

Il panettone rappresentava il coronamento di un pranzo perfetto.

Quella vigilia, quindi, trascorse tra sbuffi di farina, profumi di arrosti, colori di grembiuli a fiorellini indossati per proteggere gli abiti ed improvvise correnti d’aria gelida causate dal nonno che, non solo non riusciva a stare fermo, ma che continuava a ripetere in modo monotono la stessa frase: “Nevicherà. Sono sicuro che prima di sera nevicherà”.

Non so se per rispondere alle sue affermazioni o semplicemente perché così era scritto che avvenisse, nel tardo pomeriggio iniziarono a volteggiare nell’aria piccoli fiocchi bianchi che, posandosi sulla lingua che sporgevo tra le labbra, avevano un sapore di metallo.

Natale senza neve non è un vero Natale.

Anche adesso che i miei anni sono tanti, quando mi affaccio alla finestra, la mattina di Natale e vedo il cielo azzurro e terso, il sole splendente che fa scivolare i suoi raggi attraverso i rami degli alberi, mi invade un senso di tristezza profonda e di nostalgia per quel candore gelido che abbagliava e che ha preso l’abitudine di non presentarsi più durante le festività natalizie.

Proprio mentre la neve iniziava a cadere, il cancello si aprì lasciando entrare il carro di mio padre.

Papà lavorava anche la Vigilia di Natale.

Dovrei dire che lavorava soprattutto durante la settimana che precedeva questa festa.

Era abitudine diffusa, infatti, che, nella città più vicina, si tenesse la grande fiera della Vigilia e quelli erano giorni in cui i servizi di mio padre erano utilizzati più del solito ed il carro partiva da casa nostra colmo di casse di frutta, rendendo ben più gravoso il lavoro del cavallo Nino, cieco da un occhio, che tendeva ad affidarsi più all’istinto che alla vista, menomata, ormai conoscendo a memoria la strada.

***

Quella sera, però, mio padre non ritornò solo.

Alla fiera aveva incontrato due amici, coscritti con lui sotto le armi, che abitavano in cascine poco lontane dalla nostra e li aveva portati a casa, per “far Natale” tutti insieme con un bicchier di vino, per stare allegri almeno una volta ogni tanto.

L’arrivo della neve aveva dato loro una gioia intensa ed incontrollabile che aveva spinto tutti e tre a cantare qualche canzone popolare sul Natale.

Tale allegria stonava alquanto con il cattivo umore del nonno che, però, si limitò a restare seduto in un angolo e a non partecipare alla festa, indirizzando a mio padre, tra i denti, un sommesso quanto irritato: “Non ritirare il cavallo. Stanotte si deve andare alla Messa”.

Mio padre aveva un carattere ospitale e gioviale ed avrebbe offerto i frutti delle proprie fatiche in campagna, anche durante l’anno, se mio nonno e mia madre non l’avessero fermato con sguardi di manifesta disapprovazione.

L’ospitalità era una cosa, sperperare un’altra.

Però a Natale nessuno poteva negargli di intrattenere gli amici e di consentir loro di scaldarsi.

Così ci ritrovammo tutti ammassati nella cucina bollente e profumata di rosmarino ad attendere che mio padre tornasse dalla cantina con due bottiglie di vino.

“E’ il mio, proprio il mio” ripeteva mio padre per dire che non solo proveniva dalla sua vigna, ma anche che l’uva era stata trasformata con il frutto del proprio lavoro e, mentre pronunciava quelle parole, gli occhi gli diventavano lucidi, lucidi per il piacere e l’orgoglio.

Uno degli amici, Samuele, rispondeva in dialetto: “L’ho sempre detto che tu, Berto, hai un bicchiere insuperabile”.

La frase di difficile traduzione in lingua italiana significava semplicemente che riteneva quel vino il migliore che avesse mai assaggiato.

Ed aggiungeva: “Se solo me ne volessi dare qualche bottiglia…pagando il giusto, naturalmente…”.

Ma su questo punto mio padre era sempre stato irremovibile: il vino si faceva per la famiglia e per offrirlo a chi andava a trovarlo, mai per venderlo.

Non ho mai compreso il perché di questa sua ostinazione. Forse pensava che la vendita avrebbe svilito quello che lui considerava il frutto di un piacere.

Quando, per raggiunti limiti di età, papà dovette cessare la produzione ne soffrì come se gli avessero sottratto qualcosa di prezioso ed insostituibile.

In realtà, il vino che produceva – lo compresi molti anni più tardi – era pessimo ed aveva un retrogusto acido, ma, a quei tempi, sembrava a tutti una prelibatezza da conservare e custodire.

Oggi le sue vigne non esistono più da molti anni.

Dopo la sua morte, mio fratello decise che, non potendosene occupare nessuno, era il caso che fossero sradicate.

Fortunatamente, mio padre non lo dovette vedere e questo mi è rimasto di consolazione.

Io non credo che i morti possano vedere quello che accade in terra. Turberebbe la loro pace eterna.

Al vino seguirono altri canti natalizi e gli amici rimasero per una tazza di brodo. Per quella soltanto, però.

Mia madre non avrebbe mai permesso che avessero accesso a quello che era stato preparato per il giorno successivo.

Le risate ed i cori riempirono la casa fino a quando mio nonno, gettando uno sguardo all’orologio a cipolla che portava sempre con sé appeso ad una robusta catena, non congedò tutti con un grugnito: “Si deve andare a Messa”.

Il capo famiglia era lui e noi dovevamo limitarci ad obbedire, senza poter discutere, né replicare.

***

Per bambini, abituati com’eravamo noi, ad andare a letto molto presto la sera, durante l’inverno, e a svegliarci prima dell’alba, quella Messa collocata proprio nel cuore della notte rappresentava al tempo stesso qualcosa di dolce e di gravoso, di dolce per l’anima, di gravoso per il corpo.

La strada da percorrere sotto la neve, a mezzanotte, la chiesa fredda, illuminata dalle fiammelle dei ceri, la lunga predica di don Amilcare, eccitato dal fatto di vedere riunite tutte le sue pecorelle, il presepe composto di statue grandi dai colori vivaci: tutto questo aveva il potere di attrarci e respingerci al tempo stesso, trasmettendoci un senso di timore per quel fasto, per quell’atmosfera tanto insolita.

Anche sulla panca dura, in quella notte, riuscii ad addormentarmi, con la testa appoggiata al braccio di mia madre che, impietosita, cercava di celarmi agli sguardi rapaci del nonno.

Però tutto era bello, tutto era pace: persino la neve, persino il freddo, persino le parole di don Amilcare che non comprendevo, ma che mi cullavano come una nenia.

Me ne rendo conto ora che mi trovo a guardare la me stessa di un tempo attraverso i vetri di una finestra immaginaria che non posso aprire, né varcare.

Non mi è consentito intervenire, né partecipare agli eventi. Non si può cambiare il passato, soltanto restare a guardarlo.

Era bello perché sentivo di avere tutta la vita davanti e non soltanto per quello.

Eravamo uniti, facevamo le cose senza secondi fini, felici del poco, senza aspettative e senza ambizioni.

Mi manca tutto questo.

Mi mancano mio nonno, mio padre, mia madre e mio fratello che ho visto andarsene l’uno dopo l’altro ed il mio sguardo è ormai rivolto al giorno in cui li ritroverò.

Man mano che aumentano i dolori, gli acciacchi, che ho bisogno di appoggiarmi ad un bastone per camminare, sento che questo giorno si avvicina e che, ormai non manca molto, la meta non è più distante.

Ma non ho paura, sapete? Certo, mi dispiace lasciare i miei cari, ma ho una voglia sottile e continua di vedere gli altri miei cari, quelli che non ci sono più, quelli assenti da questa terra.

***

Ma torniamo a quella notte. Una notte che vedo chiara e nitida attraverso questa mia finestra.

La Messa durò a lungo, un po’ per la predica, un po’ per i canti gioiosi, un po’ perché ci attardammo a scambiarci gli auguri con altre famiglie.

Poi, sempre sotto la neve, riprendemmo la via di casa.

Il carro avanzava piano, cigolando.

Con il suo grande telone bianco sembrava quello degli zingari o degli acrobati che arrivavamo, talvolta, in paese, accampandosi nei prati e con i quali, ogni volta, mio fratello sognava di fuggire, per vedere il mondo e cercare avventure.

Nino era stanco e manteneva un’andatura lenta e cadenzata.

Mia madre, mio fratello, mio cugino ed io ci eravamo rifugiati sotto il telone, sostituendo per una notte le cassette di frutta e respirandone il profumo che aveva impregnato il legno.

Il nonno, impavido, sedeva al freddo, esponendosi al vento ed alla neve, come un bravo nocchiero, dritto accanto a mio padre che teneva le redini.

Credo che si sentisse in pace per aver compiuto il proprio dovere nei confronti di Dio e che restasse fuori per controllare che il ritorno si svolgesse senza problemi ed arrivassimo a casa sani e salvi.

La stanchezza mi costringeva a passare continuamente da uno stato di dormiveglia al sonno, interrotto dal sobbalzare del carro sulle pietre della strada.

Mi sembrava di avere vissuto un sogno e non riuscivo più a ricordare quali fossero stati gli eventi reali. Vedevo muoversi intorno a me le statue del presepe come se si fossero animate ed il Bambino dalle guance rosee e paffute tendere le braccia dal suo giaciglio di paglia.

La neve cadeva abbondante, copiosa, sollevata dal vento in piccoli vortici gelidi ed andava a ricoprire la strada, i campi, i tetti.

Mentre scendevo dal carro, frastornata, infreddolita, avvolta in una sonnolenza che mi ovattava la mente, mi giunse, in lontananza, la voce del nonno: “Meno male che Tilde è arrivata ieri mattina o quest’anno avrebbe fatto il Natale in città con i signori”.

Nel pensiero, che conteneva il sollievo di sapere che la figlia non avrebbe dovuto mettersi in viaggio con il brutto tempo e che avrebbe potuto trascorrere il Natale, in cascina, con la famiglia, non aveva potuto fare a meno di abbandonarsi alla propria natura polemica ed anarchica, indirizzando una frecciata ai “signori torinesi” che sua figlia, secondo lui, ormai imitava come una scimmia, vestendosi, pettinandosi e comportandosi come loro.

Ci risparmiò le bestemmie, dato che era appena uscito, purificato, dalla cerimonia liturgica e ne continuava a subire gli effetti.

Io, dopo altri saluti ed auguri che mi parvero eterni, mi trascinai lungo le scale, affondando le scarpacce troppo grandi, trattenute da lacci spessi, nella neve e raggiunsi a fatica la mia camera.

Non mi dimenticai, però, di appendere al pomello del cassetto del comodino una mia calza, una di quelle calze spesse, lavorate ai ferri con la lana che era avanzata, che mia madre, durante l’inverno, ci costringeva a portare e che, quando si inzuppavano d’acqua, pesavano, nelle scarpe come pietre e ci provocavano geloni e raffreddori.

La maestra aveva detto che, a chi si era comportato bene per l’intero anno, il Bambino Gesù avrebbe portato un dono ed io mi sentivo tranquilla ed in pace con la mia coscienza e confidavo che sarei stata tra i fortunati.

Poi, vinta, mi abbandonai all’abbraccio delle lenzuola di tela ruvida del letto ed al suo tepore dovuto al fatto che aveva ospitato fino ad un momento prima uno scaldino del quale io stavo prendendo il posto.

Dormii profondamente un sonno senza sogni e fui destata dal gallo che, neve o non neve, non mancava mai al proprio appuntamento mattutino di sveglia vivente.

Avevo l’abitudine, trasmessami da mia madre, di non indugiare a letto, sotto le coperte, di alzarmi subito e di scacciare i residui del sonno offrendo il volto all’acqua ghiacciata del catino, con la quale mi lavavo, ripetutamente, il viso.

Terminato il rituale, quella mattina, il mio sguardo scivolò attraverso la stanza alla ricerca della calza.

Non era più appesa al comodino, bensì appoggiata in terra, accanto al letto ed era gonfia e straripante come una cornucopia.

Dentro vi trovai tre mandarini, un pacchetto di fichi secchi con le mandorle, uno di datteri ed un Bambin Gesù grasso e roseo, con i riccioli biondo oro, tutto fatto di zucchero, tanto bello che non so se avrei avuto mai il coraggio di mangiarlo.

Seppi più tardi, quando iniziai a non credere più a presenze magiche che visitavano la casa durante la notte di Natale, che la frutta arrivava da quelle cassette caricate sul carro che osservavo tutto l’anno con desiderio.

Mio padre, in occasione del Natale, comprava qualche pacchetto di frutta secca ed un sacchetto di mandarini perché non restassimo delusi al nostro risveglio e potessimo trovare anche noi un regalo come gli altri nostri compagni di scuola.

Il Bambino di zucchero era, invece, un’iniziativa della sorella di mia madre, zia Teresa.

Zia Teresa era tra gli invitati del grande pranzo a casa nostra e, “per non arrivare a mani vuote”, come diceva lei, preferiva comprare qualcosa per i bambini, da mettere nella calza.

Mia madre non approvava pienamente questa scelta.

Meno ancora mio nonno che avrebbe preferito qualcosa di utile.

Ma, dato che zia Teresa dei suoi soldi poteva fare ciò che voleva, evitavano entrambi di dare giudizi e mio fratello ed io beneficiavamo di queste sue attenzioni.

Scesi in cucina, portando con me il mio “tesoro”, la ricompensa del piccolo Gesù per essere stata buona.

Mio padre, seduto a tavola, davanti ad una scodella di latte caldo, sorrideva tutto contento.

Aveva già strigliato e nutrito Nino che stava al riparo, nella stalla, ed ora si concedeva la colazione a base di pane e latte.

***

Nel corso della mattinata si susseguirono, incalzanti ed inarrestabili, i “Buon Natale” e gli “Auguri” e la casa iniziò ad animarsi e ad affollarsi.

Nonostante la neve fosse caduta durante tutta la notte, imperturbabile ed indisturbata, e continuasse a scivolare dal cielo senza sosta, morbida e gelida, senza intenzione alcuna di fermarsi, nemmeno per una breve tregua, tutti i parenti attesi, invitati, giunsero con le guance rosse un po’ per il freddo, un po’ per il piacere.

Giunse zia Teresa, quella del Bambin Gesù di zucchero, con un cappotto nuovo, rosso fuoco, al quale stavano appese tre bambine di età diversa.

Giunse zia Valentina, con zio Pietro ed il cugino Cino, portando tre salampatata avvolti in carta spessa, da utilizzare come antipasto.

Zia Valentina era sempre stata una donna piuttosto parsimoniosa con la propria roba, anche se poi, a casa degli altri, dimostrava un sano, vorace e robusto appetito.

Giunse zia Matilde, elegantissima in un completo color tortora, con il cappello inclinato di lato sui capelli corti, alla moda, con i guanti di capretto per proteggere le mani, con lo zio Giovanni ed il piccolo Giulio, l’uno da una parte, l’altro dall’altra, come due valletti.

Alla vista della figlia, mio nonno nascose un sorriso compiaciuto sotto i grossi baffi curati ed impomatati, limitandosi, però, quando lei si avvicinò per baciarlo, a dirle con voce catarrosa e dura: “Da quando hai preso l’abitudine di profumarti come le donnacce di Parigi?”.

Il nonno alludeva al delicato profumo di violetta di Parma che emanava dalla zia e che per lui rappresentava un’altra abitudine cittadina, una degenerazione dei costumi.

In quanto alle “donnacce di Parigi”, il nonno conosceva bene la categoria, essendo stato a lavorare in Francia, in gioventù ed avendole frequentate, mentre suo fratello, per trascorrere le domeniche preferiva a quei trastulli dispendiosi, quello più fruttuoso di recuperare le monete sul fondo delle fontane.

Dalla Francia mio nonno era poi dovuto fuggire in fretta e furia, forse lasciando dietro di sé il frutto di amori proibiti e scandalosi.

Zia Tilde che conosceva troppo bene il carattere del padre e la sua predilezione per lei per prendersela o ritenersi offesa, gli rivolse un luminoso sorriso e passò oltre, senza neppure replicare, pienamente consapevole di essere l’unica della famiglia a poter fare quello che voleva.

Il nonno rimase sull’uscio della sala a tormentarsi i baffi fino a quando tutti gli ospiti non si furono accomodati a tavola.

Era una tavola lunghissima, dove si stava stretti, sedia contro sedia, mano contro mano, sorriso accanto a sorriso.

In un angolo, sul tavolino bello, faceva mostra di sé il grosso dolce torinese, con la carta d’argento e con i nastri larghi e rossi, ammiccando e promettendo piaceri infiniti e un po’ peccaminosi e faceva da contraltare al presepe che, placido, silenzioso, ma splendente, ci ricordava il senso vero della festa.

Io, seduta tra mio fratello e mio cugino Cino, tenevo sulle ginocchia il Bambino e la frutta e non riuscivo a separarmene neppure per un istante perché quel contatto mi scaldava il cuore.

***

Posso vedere chiaramente la me stessa di allora: piccola, magra, con gli occhi grandi e verdi, felice, tanto felice da non riuscire a trattenere le lacrime.

I vetri della mia finestra sul passato iniziano ad appannarsi, piano, piano, angolo dopo angolo.

Tutto si oscura come se si stesse chiudendo un sipario.

Il ricordo, la memoria sembrano non volermi sostenere più.

Provo a spingere gli occhi indeboliti dalla vecchiaia, oltre la cortina di fumo, per cercare di scorgere qualcosa.

“Ancora, un istante, ti prego. Lasciami un momento ancora per vedere la stanza. Fammi entrare per pochi minuti. Mi basteranno per rivederli tutti, per salutarli ancora una volta, per ritrovare quei cari volti e dir loro “Buon Natale”. Ti chiedo soltanto questo, Bambin Gesù”.

Ma i vetri sono appannati, ormai.

Non si vede più nulla e nulla più si sente: né risate, né musica, né voci.

Tutto è silenzio.

“Papà, mamma, nonno…” provo a chiamare.

Nulla. Nessuna risposta.

E’ la memoria che mi sfugge, è il ricordo che mi tradisce.

La finestra è buia e riflette me stessa.

Il pendolo della scala ha iniziato a battere l’ora. “Dan, dan, dan, dan, dan, dan”. Sei colpi.

Sono già le sei. Mi riscuoto.

Mi sono addormentata come una vecchia stupida sul divano ed ho sognato, forse, proprio io che non sogno mai.

Deve essere stato uno scherzo della nostalgia, quella che assale gli anziani.

Sì, sono vecchia ormai, una vecchia svanita che ragiona con il cuore e non con il cervello.

Mi alzo. Preparo il caffè, nero, amaro, bollente.

Lo bevo, guardando l’alba livida, guardando la luce entrare nella stanza sempre più forte.

Quella che mi attende sarà una bella festa, ne sono sicura. So anche che mi hanno preparato regali e sorprese. Mi vogliono bene.

E stanotte anche Dio mi ha voluto fare il suo dono: mi ha fatto rivivere momenti poveri e belli, un Natale d’altri tempi, tempi senza televisione, senza aerei che fendevano il cielo, senza viaggi, crociere e settimane bianche.

Voi giovani non sapete nemmeno di che cosa sto parlando, vero?

Avrei voluto poter vedere ancora, ma va bene così. Non sono delusa, anzi sono grata al Bambin Gesù per tutto, nel bene e nel male. Lo ringrazio e mi sento in pace.

Tutto deve avere una fine, anche il ricordo.

Adesso so che è questo, quello presente, il Natale che mi interessa vivere, non il Natale di ieri e nemmeno il Natale di domani.

Ho bevuto un sorso di gioventù, ora è arrivato il momento di riprendere il mio posto di ottantenne un po’ svampita, com’è giusto che sia.

Cerco di vivere al meglio quello che è il mio presente, non mi interessa altro.

Domani rappresenta un’incertezza, un’incognita.

Ieri è lontano, remoto, trascorso e sepolto sotto tutta la neve di questa mia esistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Linea di confine. Spigolature di vita e storie torinesi

di Pier Franco Quaglieni

Briga e Tenda 70 anni fa – Via Nizza e via Madama Cristina, cose senza senso – Berrino, Matteotti e il pasticcere torinese – Il grande Umberto Eco – Maria Valabrega, Lucio Pisani e la scuola torinese

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Briga e Tenda 70 anni fa
Con il trattato di pace firmato il 10 febbraio 1947 e ratificato nel settembre dello stesso anno- oltre all’Istria ,alla Venezia Giulia, alla Dalmazia e a Fiume che passarono alla Jugoslavia- passò alla Francia anche la piccola comunità italiana delle Alpi Marittime di Briga e Tenda. Invano Benedetto Croce all’Assemblea costituente difese l’italianità di quelle terre. Invano Vittorio Badini Confalonieri che fu deputato alla Costituente e al parlamento italiano in rappresentanza del Collegio di Cuneo, si battè per impedire la mutilazione richiesta dalla Francia. Anche la M.O. della Resistenza Enrico Martini Mauri che aveva combattuto fascisti e tedeschi a capo delle Divisioni Alpine Autonome, si schierò per la difesa dell’italianità di Briga e Tenda. Solo i comunisti si comportarono come fecero con le terre del confine orientale. E infatti a scrivere di quella vicenda è stato uno dei più faziosi giornalisti che si siano occupati di Resistenza , quel Mario Giovana, partigiano sicuramente valoroso, che nessuno però può seriamente considerare uno storico, ma semmai un ideologo prestato alla storiografia. In un saggio pubblicato incredibilmente da Firpo, Giovana vide come forma di totalitarismo novecentesco il nazifascismo , trascurando l’altro mostro totalitario, il comunismo sovietico, cinese ecc. Ho conosciuto Giovana e ho potuto constatare di persona la sua istintiva, sanguigna faziosità. Era così di natura, neppure le forme venivano salvate. Chi la pensava diversamente da lui ,era un nemico, magari un neofascista. Con il suo libretto “Frontiere ,nazionalismi e realtà locali” edito dal Gruppo Abele egli non ha “recuperato la dimensione esatta di quei conflitti nel contesto di una realtà complessa”, ma ha sparato a zero contro chi ebbe il coraggio di difendere il nome di un’Italia sconfitta che non doveva essere umiliata. Vittorio Emanuele Orlando ,riguardo al trattato di pace del ’47 , parlò di “cupidigia di servilismo” verso i vincitori. E Giovana ha anche ovviamente dimenticato la matrice italiana di Nizza che fu la patria di Giuseppe Garibaldi. Ancora oggi tanti italiani come il benemerito Achille Ragazzoni, ci ricordano quella storia e molti nizzardi sentono le profonde radici italiane della loro terra .Anche al Consolato italiano di Nizza si ritrovano tanti italiani non necessariamente solo in vacanza sulla Costa Azzurra.

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Via Nizza e via Madama Cristina, cose senza senso
Il piano di lavori per via Nizza che partiranno in autunno rappresenta un gravissimo errore.
Rivela la gretta miopia del quartiere 8 ,incapace di vedere che via Nizza è una via importante dell’intera città, non di San Salvario. Avevano già devastato, ”riqualificandola”, piazza Saluzzo ,suscitando le giuste critiche del critico d’arte Angelo Dragone, ma almeno quella piazza è interna al quartiere e può, al massimo, riguardare la movida che impazza e i funerali nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Via Nizza collega la stazione con il Lingotto e con piazza Bengàsi (non Béngasi, come dicono i torinesi). Pensare di mettere due piste ciclabili dicasi due, riducendo ad una sola corsia la percorrenza delle auto appare assurdo, ma occorrerebbe ben altro aggettivo, per rendere l’idea dell’assurdità del progetto.Spariscono anche 125 parcheggi a partire dalla stazione , in una zona in cui ci sono le Poste e altri uffici importanti. In compenso, ci sarà lo spazio per qualche piantina. Bizzarria ambientalista inutile che neppure i Verdi, ai loro tempi, avrebbero pensato di fare. Gianni Vernetti era ed è una persona intelligente, anche quando era verde. Solo altri pensarono di incatenarsi alle piante di piazza Madama Cristina per impedire il parcheggio sotterraneo, ma poi anche loro capirono e smisero. Carpanini che era uomo di buon senso, forse li convinse. Il piano di riqualificazione di via Nizza esprime una logica da sabato del villaggio, da natio borgo selvaggio, avrebbe detto Bepi Dondona, non da città. Non dico da grande città perché sarebbe pretendere troppo. Un’idea pregrillina, che trova nei grillini gli entusiasti realizzatori. I lavori di asfaltatura in Via Madama Cristina della corsia dei tram appare priva di senso. Non intendono ripristinare il 18 come linea tranviaria ,lasciando il bus. Il 18 è una delle poche linee che funzionino con cadenza ragionevole. Perché investire soldi in una asfaltatura che non serve ? Un rebus inestricabile. Sempre a riguardo di linee di bus ,anche il 67 transita in via Madama Cristina. Parte da piazza Albarello ed arriva a Moncalieri. A Moncalieri ha deviato il vecchio percorso per servire più punti della città. Ma a Torino è una linea fantasma.L’attesa di un 67 è di circa mezz’ora, a volte anche oltre. Forse sarebbe il caso di intervenire per rendere quella linea un servizio per la città. Spesso, dopo aver atteso inutilmente il 67, vado a piedi o ricorro ad un taxi. Ma c’è chi deve spostarsi necessariamente in bus e viene trattato da cittadino di serie b.

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Berrino, Matteotti e il pasticcere torinese
Ad Alassio Enzo Canepa, ottimo sindaco della città regina del turismo ligure, ha deciso di intitolare i giardini del Comune a Mario Berrino, artista noto a livello internazionale, artefice del turismo alassino, creatore del celebre Muretto. Una proposta che fui il primo ad avanzare già nel 2011 quando morì. Questa intitolazione ha suscitato gli appetiti dei parenti di altri alassini e dei loro amici.

Il comandante dei vigili urbani di un paesino vicino ad Alassio ha avanzato -con quali titoli con si sa- la proposta di intitolare una piazza al pasticcere di origini torinesi il cui nonno inventò i “baci” di Alassio, in sé non una grandissima idea perché i baci, sotto nomi diversi, sono diffusi un po’ dappertutto e forse lo erano già prima. Un po’ come i cuneesi che si trovano in tutti i paesi della Provincia Granda. A fare i baci ad Alassio, ad esempio, c’è anche il grande pasticcere Sanlorenzo che produce senza spocchia ottimi prodotti. Anche il Sindaco Canepa, se non vado errato, produce nella sua azienda degli ottimi baci, anche se è laureato in Economia. Per alcuni anni il pasticcere in attesa di ricordo toponomastico ha anche realizzato un caffè concerto in piazza Matteotti dove ha sede il suo locale, che poi chiuse. Una bella ,ma breve meteora degli anni Cinquanta, quando a Torino c’è il caffè concerto Dadone. Ciascuno lecitamente può proporre chi ritiene alla riconoscenza pubblica . E’ un diritto di tutti. Il prof. Tommaso Schivo sicuramente ebbe meriti maggiori del pasticcere che seppe condurre molto bene i suoi affari, ma non si può oggettivamente dire che si sia speso disinteressatamente per Alassio in qualcosa di significativo. La legge che impone dieci anni dalla morte per procedere ad un’intitolazione è molto saggia, ma, in alcuni casi, gli anni per valutare dovrebbero essere raddoppiati. Quando però c’è stato qualcuno che ha buttato lì l’idea peregrina di dedicare al pasticcere piazza Matteotti, mi sono sentito ribollire di rabbia. Giacomo Matteotti non si tocca. E’ un’offesa grave alla storia anche solo pensare di eliminarlo dalla toponomastica alassina. Matteotti è stato un martire della libertà. Pagò con la vita per le sue idee, come i fratelli Rosselli, don Minzoni, il giornalista Carlo Casalegno ammazzato 40 anni fa dai sicari delle BR. Qualche sciocco mi ha rimproverato perché io torinese non ho parteggiato per un altro torinese. Se avevo dei dubbi, questo rimprovero mi ha dato la certezza che l’esimio cav. Balzola, pasticcere in Alassio, deve attendere in lista di attesa. Checchè ne dica l’esimio vigile urbano proponente.

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Il grande Umberto Eco
Umberto Eco era già considerato un maestro venerabile quand’era ancora in vita. Malgrado lui abbia chiesto intelligentemente di evitare convegni su di lui almeno per dieci anni, le messe cantate in suo onore , più che in suo suffragio, sono molte. Ha incominciato la Regione Piemonte a dedicargli la sua biblioteca. Poi le celebrazioni sono continuate. Certamente è stato un grande personaggio e un mio amico , alto magistrato, che fu suo compagno di scuola ad Alessandria ,mi ha raccontato della eccezionalità dell’uomo. Anch’io lo conobbi in qualche occasione e fu il francesista Mario Bonfantini il cui figlio era suo assistente a Bologna, a farmelo conoscere.
Di fronte alla contestazione e anche al terrorismo nascente non fu un buon maestro. Eco è stato in primis il teorico della semiotica in Italia e nel mondo. Guai in certi anni se la lettura di un’opera letteraria, non fosse stata condotta secondo i canoni semiotici. Come ha osservato Paolo Fabbri ,direttore del Centro internazionale di scienze semiotiche , “l’impatto della diminuì già negli anni 90.Oggi la semiotica appare quasi morta. Era la disciplina di cui Eco fu precursore e voce indiscussa. Come si vede, il tempo passa e finisce di toccare anche i grandi. Ed Eco, che piaccia o non piaccia, è stato un grande. L’unico piemontese importante e noto nel modo per i suoi romanzi, del secondo Novecento.

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Maria Valabrega, Lucio Pisani e la scuola torinese
Maria Valabrega Buffa di Perrero è stata la giornalista che dal 1967 -iniziando a seguire la contestazione studentesca-si è occupata per decenni di scuola. Io la conobbi quando lavorava alla Sip di cui era direttore del personale mio zio che la assecondò nella sua passione giornalistica per cui si sentiva nata. Il lavoro di impiegata le stava stretto e riuscì ad entrare alla “Stampa”. Fece cronache della contestazione che spesso erano in contrasto con la linea del giornale espressa nelle pagine nazionali. Era con il cuore dalla parte dei contestatori. Fu severissima con i professori, i presidi e con molte scuole. Lei, laicissima, vedeva in Don Milani un riferimento ideale. La minima cosa che non funzionasse e che a lei pareva giusto segnalare, veniva subito scritta. Una volte stava per “rovinare” un preside che era disperato e si rivolse a me. Io , pur esitante, telefonai a Maria e le spiegai la situazione, senza chiederle nulla. Capi’ che la sua valutazione era sbagliata e scrisse l’articolo con il giusto equilibrio. Salvò un poveruomo senza colpe e senza polso che, con me ,si dimostrò anche privo di gratitudine. Forse dovevo ,alla luce di eventi futuri, lasciarlo massacrare. Si rivelò un vigliacco , quando, tempo dopo, comminò una sanzione disciplinare ad una professoressa, considerata anello debole della catena, dopo aver tollerato tutte le illegalità, le leggerezze e l’inadeguatezza professionale di tutti i tesserati al sindacato confederale . Maria ha svolto comunque una funzione utile perché ha messo in evidenza le pecche della scuola torinese, anche se a volte esagerava. Solo il provveditore Lucio Pisani, futuro deputato del Pci per una legislatura, riuscì a tenerle testa con la sua diplomazia. Pisani, liberandosi dai ruoli istituzionali, riuscì, attraverso la cronaca di Maria Valabrega, ad emergere come un personaggio mediatico. Dispiacque al ministro della P.I. Guido Bodrato, ma trovò il sostegno dei comunisti e dei sindacati confederali.
Con Maria ci siamo frequentati a lungo, spesso mi telefonava e ci siamo anche voluti bene, pur ben sapendo che la pensavamo in maniera diversa, se non opposta. Ma lei aveva rispetto per le idee degli altri. In questo senso era una giornalista esemplare. Fu anche coraggiosa perché non si lasciò imbrigliare da nessuno.

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LETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
Caro Professore, ho letto i suoi articoli sulle vicende di piazza San Carlo del 3 giugno. Ho apprezzato il suo coraggio e il suo equilibrio. Dopo che è stato dichiarato il lutto cittadino per la morte di una delle vittime della mancata sicurezza della piazza (giudicherà il magistrato ovviamente le singoli responsabilità personali) non ritiene che qualcuno/a debba fare un passo indietro?
Lina Agosti

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Anch’io mi sono posto il problema di un passo indietro. Ovviamente vanno distinte le responsabilità penali che riguardano la magistratura da quelle politiche che riguardano il Consiglio Comunale e che ogni cittadino ha il diritto di giudicare. Mi pare che il sindaco Appendino abbia sottovalutato gli eventi, abbia tardato a dare spiegazioni, limitandosi a leggere la relazione dei vigili urbani e a garantire che fatti così non sarebbero mai più capitati. Troppo poco. Fuori posto la sostituzione dell’assessore all’Ambiente. La delega alla sicurezza era del Sindaco, non di altri. Non vorrei peccare di intellettualismo, ma sono convinto che, se i responsabili avessero letto Machiavelli, forse si sarebbero comportati diversamente. Il prefetto Saccone l’ha sicuramente letto, è persona coltissima. Il grande fiorentino diceva che l’imprevedibile della vita (che lui definiva fortuna ) doveva essere sempre considerato ,anche se sfuggiva alle previsioni. Parlando attraverso una metafora, diceva che le piene dei fiumi non si possono prevedere, ma se si costruiscono dei buoni argini, esse possono essere contenute o comunque possono essere meno devastanti. In piazza san Carlo sono mancati i buoni argini della prevenzione, d’altra parte già “Valentina” che finì contro i pilastri del ponte della Gran Madre per la piena del Po, era stata un segno non bello di imprevidenza. Non era successo neppure sul Tevere ,con la sindaca Raggi.

pfq