Dall Italia e dal Mondo- Pagina 18

Yemen, guerra senza fine

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Focus internazionale  di Filippo Re

Sauditi, emiratini, iraniani, russi e americani, sembra che non ci sia potenza regionale o internazionale che voglia fermare una volta per tutte il conflitto nello Yemen che si trascina da oltre quattro anni.

Una guerra quasi dimenticata che fa comodo a tanti, come ai governi europei che vendono le armi e agli estremisti islamici che approfittano del caos. Uno scontro che nel frattempo continua a falcidiare la popolazione sia per i bombardamenti sia per la fame. Secondo alcune organizzazioni umanitarie sono quasi 100.000 le persone uccise in Yemen nel conflitto che da marzo 2015 oppone i sauditi che guidano una Coalizione internazionale ai ribelli sciiti Houthi armati dall’Iran. “Non dimentichiamo il disastro dello Yemen”: le parole che il vescovo Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (comprendente Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen) più volte pronuncia con la speranza che questa tragedia non venga ignorata perchè, forse, meno importante di altre crisi mediorientali, sembrano cadute nel vuoto. Con il risultato che la situazione nel Paese asiatico resta drammatica per la fame, la povertà, la siccità, la guerra e l’epidemia di colera. Quasi 11 milioni di persone sono sull’orlo della carestia, oltre l’85% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari mentre tre milioni di yemeniti sono sfollati. Sono milioni le persone che hanno necessità di assistenza sanitaria e sono privi di servisi igienici e di acqua potabile ma la preoccupazione maggiore in queste settimane è per la crisi di colera che ha già ucciso un milione di yemeniti. Si aggrava anche la situazione dei minori.

Nei primi quattro mesi del 2019 oltre 400 ragazzi sono stati uccisi o sono rimasti feriti e più di 3 bambini al giorno perdono la vita o restano mutilati. La Camera dei Deputati ha fermato le bombe italiane che cadono sullo Yemen ma dal cielo continua la pioggia incessante di ordigni devastanti su ospedali, scuole, aeroporti quasi 20.000 sono i raid condotti finora dalla coalizione saudita e migliaia sono i minori vittime di bombe, attacchi kamikaze, congegni esplosivi e mine, armamenti prodotti all’estero e venduti dai governi stranieri alla Coalizione saudita. Tra questi ci sono anche le bombe prodotte in Italia dalla fabbrica Rwm in Sardegna la cui esportazione verso i Paesi che violano i diritti umani è vietata dalle leggi italiane. Ora la Camera ha votato una mozione di maggioranza per sospendere la vendita di armi pesanti come missili e bombe d’aereo a Riad e agli Emirati. Dall’inizio del conflitto almeno 6500 bambini sono rimasti uccisi e feriti durante i bombardamenti. La “svolta” è giunta (resta però da vedere se la mozione sarà realmente applicata) dopo che nei mesi scorsi anche Germania, Danimarca, Finlandia e Gran Bretagna avevano deciso di sospendere le esportazioni di armi pesanti verso l’Arabia Saudita. Londra è il secondo esportatore di armi a Riad dopo gli Stati Uniti con sei miliardi di dollari dal 2015, quando la guerra cominciò, pari al 42% delle vendite totali di armi inglesi. Nello Yemen continua intanto la guerra regionale “per procura” tra Riad e Teheran. Gli insorti sciiti, grazie ai missili ricevuti da Teheran, hanno alzato il tiro e colpiscono gli aeroporti nel sud dell’Arabia Saudita in risposta ai raid sauditi sulle loro città nello Yemen del nord. Nel 2014 gli Houthi presero il controllo della capitale Sana’a costringendo il presidente Mansour Hadi, filo-saudita, alla fuga. A marzo 2015 l’offensiva dei ribelli sciiti verso la città Aden nel sud del Paese dove nel frattempo si era rifugiato Hadi scatena la reazione dei sauditi che formano una Coalizione sunnita di dieci Stati, del Golfo, oltre all’Egitto e al Sudan con l’obiettivo di aiutare l’ex presidente con raid aerei. In quattro anni sono morti oltre 100.000 yemeniti per i combattimenti e altri 120.000 di fame e malattie.

Approfittando della guerra e dell’anarchia centinaia di miliziani di Al Qaeda e dell’Isis hanno occupato porzioni di territorio. I negoziati in Svezia hanno avuto finora poco successo e la fine della guerra è lontana. Gli interessi in gioco sono tanti, da una parte e dall’altra. La monarchia di Riad non può mollare lo Yemen ai filo-iraniani e quindi vuole riprendere completamente il controllo di quel territorio che ha sempre considerato il proprio “giardino di casa” . Lo Yemen è fondamentale per controllare lo stretto di Bab el Mandeb dove transita il petrolio del Golfo diretto in Europa e i sauditi, acerrimi rivali di Teheran, non possono certo lasciarlo nelle mani di un gruppo che obbedisce agli ordini dei pasdaran che tramite gli insorti sciiti aumenterebbero la loro influenza sull’intera regione. Una soluzione potrebbe essere quella di tornare a due Stati distinti, uno al nord e uno al sud, oppure alla formazione di più di due Stati perchè all’interno dello Yemen ci sono varie regioni che hanno mire indipendentiste. Per Paul Hinder la strada giusta potrebbe essere uno Stato confederato, quindi meno centralizzato di come era in passato.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

La Capitaneria salva anziano colto da malore

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Dalla Liguria

Un settantenne, residente a Genova, colto da malore è stato soccorso da personale della Capitaneria di porto di Genova.

Il diportista, al rientro dalla navigazione con un amico a bordo di un gozzo, diretto agli ormeggi nell’area del Molo Giano ha accusato i sintomi di un’emoraggia cerebrale. Poiché, date le condizioni, non era facilmente trasportabile, veniva inviata una motovedetta con a bordo personale medico del Cisom (Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta) che coadiuvava il 118 nelle complesse prime manovre di  assistenza, riuscendo ad ormeggiare vicino al gozzo, nonostante la ristrettezza dei luoghi dove si trovava l’imbarcazione. Il personale di bordo e di terra della Capitaneria di Genova riusciva a trasbordare l’uomo che veniva poi portato all’Ospedale civile Galliera per ricevere le cure del caso.

M.Iar.

Via D’Amelio, mai dimenticare

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Ricorre quest’anno il 27° anniversario di una delle più meste giornate della storia della nostra Repubblica: la strage di Via D’Amelio, Palermo 19 luglio 1992

Oltre ad essere un esemplare magistrato, Paolo Borsellino era un fermo promotore dell’educazione alla legalità. Sosteneva che solo una rivoluzione culturale potesse sconfiggere il male mafioso e, forse non a caso, tra le sue ultime parole v’è una missiva rivolta ad una scuola come a volerle “passare il testimone” della lotta alla mafia.Scriveva infatti di essere ottimista nel vedere che << verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella di colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta>>.

La sua visione si fece realtà sin da subito. I funerali vennero trasmessi in tantissime scuole italiane e i quarantenni di oggi ricordano con nitidezza lo sgomento provato nel vedere le immagini della Via D’Amelio in fumo, dei palazzi sventrati, le auto carbonizzate e le bare che, a distanza di meno di due mesi, tornavano alla vista di preadolescenti del tutto ignari delle amarezze di una terra tanto armoniosa e bella. Fu così che quella che ai più sembrava una leggenda si fece d’improvviso materia, dolore, disgusto.

Il Coordinamento Nazionale dei docenti dei diritti umani da anni prosegue nella “staffetta” e mantiene vive le parole di Borsellino nelle aule di tutta Italia raccontando di un impavido servitore dello Stato che, assieme ad un gruppo di amici come gli piaceva definirli, ci ha insegnato che lo Stato siamo noi, che la mafia esiste anche se non si sente e non è un fenomeno territoriale, che per debellarla occorre una sinergia tra tutte le istituzioni dello Stato e la società civile e che la legalità non è solo rispetto della legge ma ligio rigore morale.

L’educazione alla legalità non prescinde dall’insegnamento del diritto o dell’educazione civica in tutte le scuole, quest’ultima purché affidata ai docenti delle discipline giuridiche ed economiche (classe di concorso A046 – discipline giuridiche ed economiche). Sono questi, infatti, i docenti da tenere in massima considerazione per l’attuazione della rivoluzione culturale e morale promossa da Paolo Borsellino e gli unici idonei ad assicurare un approccio approfondito alla tematica, anche attraverso l’interpretazione dei codici e delle leggi.Tuttavia, in controtendenza all’aumento degli indici di criminalità diffusa, non si registra ancora alcun incremento della didattica in tal senso e la classe di concorso A046 continua ad essere in esubero nazionale, con un sostanziale stallo delle mobilità e delle immissioni in ruolo.

Nell’ottica di potenziare l’effettiva educazione alla legalità, il CNDDU rinnova la proposta di introdurre l’insegnamento del diritto e/o dell’educazione educazione civica in tutte le scuole secondarie del primo e secondo ciclo affidandone l’insegnamento ai docenti delle discipline giuridiche ed economiche, accompagnata da una più appropriata regolamentazione della classe di concorso e la valorizzazione delle migliaia di docenti italiani che si sono formati, o si stanno formando, per accedere al ruolo della classe di concorso A046.
Ci teniamo inoltre a ricordare che quel pomeriggio di luglio, assieme a Paolo Borsellino, entrarono nell’eterna memoria degli italiani anche i compo

nenti della sua scorta: gli agenti Catalano, Cosina, Loi, Traina e Li Muli. Tra di loro una donna, Emanuela Loi, la prima poliziotta a prendere parte ad una scorta e la prima a morire in servizio. Fu una ragazza esemplare per coraggio e dedizione al lavoro che, nonostante la sua giovane età, divenne ispiratrice di una nuova coscienza di genere per un ruolo attivo delle donne nella pubblica sicurezza e nella lotta alla mafia.
Il CNDDU propone l’ingresso delle associazioni impegnate nella lotta alla mafia e delle forze dell’ordine nella “Rete di Polo” affinché nelle scuole si possa approfondire la conoscenza della vita degli agenti della scorta che, al pari del magistrato protetto, si sono impegnati in prima linea nella concreta lotta alla criminalità.

 

Prof.ssa Veronica Radici
Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani

Ragazzo di 19 anni cade dalle scale e muore

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Cronache italiane

Era  ipovedente il giovane di 19 anni morto a Genova cadendo dalla tromba delle scale del palazzo dove abitava, un condominio  di Sampierdarena. Il ragazzo aveva anche problemi motori. Ieri ha preceduto sulle scale la mamma, con cui stava uscendo, per chiamare l’ascensore ma quando la donna è arrivata era ormai precipitato per diversi metri. Inutili i soccorsi per quella che è stata una tragica fatalità.

Cane muore dimenticato in auto per ore sotto il sole

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Cronache italiane

Dopo essere tornata a casa ha dimenticato il cane per alcune  ore dentro l’auto sotto il sole cocente

Accortasene, ormai era troppo tardi e per l’animale non c’era più nulla da fare. E’ accaduto nel Genovese, dove la donna ha lasciato il suo  golden retriever di  sei anni,  ed è andata a casa con il figlio. I passanti hanno visto l’animale in difficoltà e hanno chiamato gli agenti che  hanno provato a salvare l’animale bagnandolo e provando a farlo respirare ma senza riuscire salvarlo.

 

(foto archivio)

Srebrenica, ventiquattro anni dopo

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Ripensando all’11 settembre del 2001 la stragrande maggioranza delle persone si ricordano dov’erano, chi aveva al loro fianco, cosa facevano in quegli istanti drammatici, quali emozioni provarono di fronte all’assalto terroristico alle Torri gemelle del World Trade Center di Manhattan

Pochi, troppo pochi rammentano le stesse cose pensando all’11 luglio di ventiquattro anni fa quando, nella calda estate di guerra del 1995, cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Le vittime furono tre volte più numerose di quelle di New York, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. Srebrenica, per troppi era un nome senza storia, quasi impronunciabile. Quella cittadina tra le montagne della Bosnia nord-orientale, enclave musulmana a pochi chilometri dalla Drina, cosa rappresentava? Poco o nulla, per chi non aveva nessun desiderio di sapere, conoscere. L’Europa era al mare, la Bosnia non faceva quasi più notizia, la guerra che aveva insanguinato i Balcani pareva stesse finendo.

E poi perché bisognava sapere ? Era più facile chiudere gli occhi o girare la testa da un’altra parte. In fondo tutti erano complici di quanto stava accadendo: l’Europa, le Nazioni Unite, la Nato, la civilissima indifferenza dell’Occidente. Così si lasciò che il massacro avvenisse. Oltre diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. Tutto avvenne in una decina di giorni dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, fin dai primi giorni del conflitto, era caduta il 10 luglio nelle mani criminali del generale Ratko Mladić. Nove anni dopo il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica “un genocidio”, il primo in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma da quel momento, tra omissioni e rinvii, è passato moltissimo tempo. Sono passati ventiquattro anni. Ora,sappiamo. Radovan Karadžić e Ratko Mladić, i due principali boia, sono stati condannati all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. altri non hanno pagato per i loro crimini e, con il tempo, si tende a rimuovere,dimenticare. Restano però le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi,

violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio. Ci sarà mai una giustizia piena? Quasi cinque lustri dopo rimane l’amara sensazione di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per parecchi dei carnefici di allora, in molti casi ancora a piede libero e considerati dagli ultranazionalisti alla stregua degli “eroi”. Ha fatto bene in questi giorni Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi e prete coraggioso, a rammentare le similitudini di quella vicenda con l’attualità brutale dell’oggi, con l’accanimento nei confronti dei migranti, con l’assurda violenza che si consuma contro le donne. Come tanti altri, in tutti questi anni mi sono impegnato a raccontare ciò che è stato fatto a Srebrenica affinché il grido di madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “dell’argento e del sangue” non resti inascoltato. Da anni queste donne coraggiose, durante le loro proteste non violente che si svolgono l’11 di ogni mese a Tuzla, pronunciano una parola: “Odgovornost”, responsabilità. Chiedono verità e giustizia, accertamento delle responsabilità,condanne per tutti i criminali. E’ un modo per offrire voce e forza a queste donne. Uno dei più grandi intellettuali balcanici, l’indimenticabile Predrag Matvejevic, scrisse: “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”. Quando ebbi la fortuna di conoscere Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva, del suo sentirsi cittadino europeo.

L’Europa, per lui, non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. Diceva: “ i Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa.Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile”. Immaginava un’ Europa diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. Sperava di non dover più vivere l’orrore e la tragedia di Srebrenica. Per questo, soprattutto ora che anche lui ci ha lasciati, il dovere della memoria ci obbliga a  non cedere le armi della giustizia e della ragione. 

Marco Travaglini

Le foto sono di Paolo Siccardi

Donna trovata morta per il caldo dopo una settimana

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Cronache italiane

Una anziana donna è stata trovata morta nella sua casa di Genova  Sampierdarena

 

Sarebbe morta da almeno una settimana e forse a causare il decesso potrebbe essere stato il caldo  dei giorni scorsi. L’allarme è stato dato dai vicini che hanno sentito un cattivo odore provenire dall’abitazione. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e il personale del 118.

Donna travolta e uccisa sulle strisce

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Cronache italiane

Una donna è stata travolta e uccisa da un’auto,  mentre attraversava sulle strisce pedonali. Secondo i primi accertamenti della polizia municipale, intervenuta sul posto, a Imperia, con il personale sanitario del 118, il conducente della vettura Peugeot che ha travolto l’anziana di 85 anni,  si sarebbe fermato all’altezza dell’attraversamento pedonale. Sarebbe però stato tamponato e spinto in avanti da una  una Volkswagen Polo.

Untorelli e popolo volubile

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E dagli all’untore.  Ma anche i nostri moderni (tanti) untori si devono arrendere ai Magistrati e soprattutto allo Stato di diritto e alle sue regole sulla divisione dei ruoli tra Politica e Magistratura
  Il gip non ha convalidato l’arresto della Capitana Carola. Rambo ( deluso ) Lui che aveva già anticipato la sentenza . Carola colpevole e condannata al pubblico ludibrio. Non funziona così. La scarcerazione non vuol dire che la Capitana sia innocente, si vedrà. Dopo il fascismo l’ autonomia tra Magistratura e governo e Parlamento è uno dei pilastri della nostra Costituzione e della nostra democrazia.  Ma i moderni untorelli non se ne dolgono e vanno avanti.  Aiutati dal web sono imperterriti.
Altri casi come il Sindaco Pd emiliano già condannato perché considerato al pari di coloro che gestivano i servizi per l’affido, arrestati. Da Pinerolo all’ Emilia.  L’accusa è concussione. Cioè avrebbe favorito chi è indagato. Ma di queste sottigliezze agli untori nulla importa. Dalla Capitana alla quelli che sono per antonomasia colpevoli. Gli untorelli sono tutto.  Poliziotti magistrati politici inquirenti e giudicanti.  Se poi il magistrato non conferma le loro tesi il magistrato è colluso.  Così come i poliziotti ed avanti di questo passo.  Gli untori hanno sempre ragione nello spargere la loro quotidiana peste.  E passi che una parte di popolo la pensi così.  Il popolo che dai tempo di Masaniello è volubile.
Incoronato il Re pescatore  poi lo vende ai Borboni per un pezzo di pane, felice della sua decapitazione. Proprio così, popolo volubile ed anche infingardo.  In fondo ci abbiamo fatto l’abitudine.  Ma non  con chi vuole e dice di governare. Per governare non  si deve spargere peste, ideologia e demagogia.  Ci risiamo:  un conto sono le idee e le opinioni.  Un conto sostenere che chi non è d’accordo è contro e dunque delinque.  Siamo in democrazia e ci dobbiamo rimanere.
Patrizio Tosetto

Tensioni in Eritrea: come ai tempi del Negus rosso

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“Sembra di essere tornati ai tempi di Menghistu Hailè Mariam, il Negus rosso che negli anni Ottanta governava l’Etiopia con il pugno di ferro e confiscava con l’uso della violenza i beni della Chiesa cattolica come conventi, scuole e centri medici”

 

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

 

Etiopi ed eritrei non dimenticano quanto accadde tra il 1977 e il 1991 sotto la sua dittatura comunista e oggi, in Eritrea, indipendente da Addis Abeba dal 1993, sembra di essere tornati a quei tempi. Funzionari governativi dell’Asmara hanno fatto irruzione nei conventi di suore dove si trovano molti centri sanitari, hanno messo i sigilli, hanno cacciato il personale e i pazienti, terrorizzando religiosi e suore che da decenni svolgono servizio in questi presidi sanitari. Il leader del regime di Asmara, il dittatore Isaias Afewerki, usa la forza contro dissidenti e cattolici e non si allontana molto dai metodi violenti del Negus governando con strapotere autoritario. In carcere sopravvivono oltre 10 mila prigionieri politici in condizioni pietose e non per nulla il regime è stato condannato dall’Onu per crimini contro l’umanità. Al potere dal 1993, anno dell’indipendenza, Afewerki guida una dittatura utilizzando sistemi oppressivi per limitare la libertà politica, di stampa e di associazione. Nessuna critica è ammessa verso il regime e dal 1993 non si sono più svolte elezioni presidenziali. La pace tra l’Etiopia e l’Eritrea raggiunta con l’Accordo di Algeri nel 2000 che ha posto fine al conflitto tra i due Paesi non ha cambiato i metodi della tirannia e ha lasciato irrisolte alcune questioni come la definizione dei confini tra le due nazioni. Le stesse religioni sono perseguitate e decine di eritrei appartenenti alle Chiese pentecostali, poste fuorilegge nel 2002, sono stati arrestati a maggio perchè pregavano in casa. Ora nel mirino del regime sono finiti tutti gli ospedali cattolici del Paese, chiusi d’autorità. Nel 2002 lo Stato eritreo (51% musulmani e 46% cristiani su una popolazione di poco più di 5 milioni di abitanti) ha ammesso quattro confessioni religiose: la Chiesa ortodossa, la Chiesa cattolica, la Chiesa evangelica luterana e l’islam sunnita ma i fedeli hanno una libertà di culto assai limitata. I cristiani incarcerati per la loro religione sono alcune migliaia e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia nella propria abitazione.

I movimenti religiosi cosiddetti “non ufficiali” secondo il governo eritreo sono considerati strumenti di sovversione, e quindi non sono tollerati ma lo stesso discorso vale per tutte le organizzazioni della società civile che non sono allineate alle direttive del regime di Asmara. Secondo le organizzazioni dei diritti umani le forze di sicurezza continuano a fare irruzioni nelle case private dove fedeli di religioni non riconosciute si riuniscono a pregare e l’unico modo per essere rilasciati è quello di ripudiare la religione. Le prospettive per la libertà religiosa sono tutt’altro che rosee. “Il fatto che il governo abbia portato avanti la stessa politica di stretto controllo sulle istituzioni religiose, continuando a limitare le loro attività, dimostra, scrive l’Acs, l’associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” nel Rapporto 2018 sulla libertà religiosa nel mondo, che negli ultimi anni ben poco è cambiato. A causa di divieti e restrizioni è particolarmente difficile trovare informazioni riguardanti l’attuale situazione della libertà religiosa in Eritrea e nulla suggerisce che in Eritrea possano registrarsi cambiamenti positivi nel prossimo futuro”. Rincara la dose il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che lo scorso anno ha incluso l’Eritrea tra i Paesi che destano particolare preoccupazione a causa delle gravi violazioni della libertà religiosa. Ma cosa è accaduto? La Chiesa sarebbe stata colpita come vendetta per le critiche mosse al governo eritreo il quale ha subito reagito con violenza ordinando alla Chiesa cattolica di consegnare allo Stato tutte le strutture sanitarie gestite dalla Chiesa. Agenti del governo si sono presentati nelle strutture cattoliche e hanno chiesto agli amministratori di firmare un documento che sancisce il passaggio di proprietà delle strutture. La tensione è salita alle stelle, gli amministratori si sono rifiutati di firmare e hanno chiesto agli uomini di Afewerki di confrontarsi con le autorità cattoliche. A quel punto i funzionari pubblici hanno chiuso i centri sanitari, evacuando il personale e lasciando molti malati senza assistenza medica. Il provvedimento ha suscitato molta preoccupazione nelle comunità cattoliche e nella popolazione. Una legge del 1995, in realtà mai entrata in vigore, prevedeva che tutte le strutture sociali come scuole e centri medici fossero amministrati dall’autorità pubblica.

 

Questa disposizione ha però iniziato a essere applicata solo negli ultimi anni. Tra il 2017 e il 2018 sono state chiuse otto cliniche cattoliche. I Vescovi cattolici, nell’aprile scorso, avevano chiesto “un processo di riconciliazione nazionale che garantisse giustizia sociale” per tutti e che il governo eritreo realizzasse profonde riforme per aiutare la popolazione più povera ma queste parole non sono state ben accolte dai vertici del regime. Ecco dunque ciò che sarebbe successo. “Quella lettera, aggiungono i prelati, apriva alla riconciliazione e al dialogo nazionale per superare insieme le difficoltà del Paese. Nelle nostre parole non c’era quindi un intento critico ma piuttosto costruttivo. Probabilmente il regime ha interpretato la lettera come un attacco e ha reagito di conseguenza”. La Chiesa cattolica gestisce in Eritrea 40 tra ospedali, centri sanitari e ambulatori, tutti a servizio della popolazione, senza alcuna distinzione di etnia o religione, che forniscono cure quasi sempre gratuite. In una lettera inviata al Ministro della Sanità Amna Nurhsein i vescovi eritrei hanno espresso perplessità e rincrescimento nei confronti della decisione del governo: “dichiariamo che non consegneremo di nostra volontà le nostre istituzioni e quanto fa parte della loro dotazione. Privare la Chiesa di queste e simili istituzioni vuol dire intaccare la sua stessa esistenza, ed esporre alla persecuzione i suoi servitori, i religiosi, le religiose, i laici”.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”