CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 563

Il pop di Eros Ramazzotti e il jazz di Yazz Ahmed

Gli appuntamenti musicali della settimana

Lunedì. Al Milk suona il trio composto da Luigi Tessarollo alla chitarra, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. All’ARTeficIO Music Club si esibisce il trio di Ivano Icardi. Al Jazz Club è di scena il trio Not Only Swing.
Martedì. Al Jazz Club si esibiscono le cantautrici Agnese Conforti e Joe Elle.
Mercoledì. All’Off Topic è di scena Sipolo.
Giovedì. Al Folk Club si esibisce la cantante sarda Elena Ledda. Alle Ogr suona il cantautore svedese The Tallest Man on Earth mentre all’Hiroshima Mon Amour è di scena Dimartino. Al Cafè Neruda suona il trio di Max Carletti.
Venerdì. Al Circolo della Musica di Rivoli si esibisce Bianco, affiancato dal trombettista Stefano Piri Colosimo. Al Jazz Club suona la trombettista e flicornista britannica, di origini persiane Yazz Ahmed. Al Blah Blah si esibiscono i Proliferhate. Al Magazzino sul Po è di scena Bonetti mentre all’Off Topic si esibisce Giuvazza.

Sabato. Omar Pedrini ripropone “Viaggio senza vento “ dei Timoria, allo Spazio 211. Al Pala Alpitour arriva Eros Ramazzotti. Al Magazzino di Gilgamesh il blues della vocalist Delores Scott. Al Jazz Club suona l’Ubik Trio mentre al Blah Blah Massimo Zamboni si esibisce in quartetto, con lo spettacolo “Onda improvvisa di calore”.
Domenica. All’Istituto Musicale di Rivoli suona il pianista Fabrizio Paterlini mentre al Blah Blah si esibiscono i Downtown Boys.
 

Pier Luigi Fuggetta

Tutti gli ‘ismi’ di Armando Testa

Il termine della mostra è prorogato al 17 marzo 2019

Ha certamente colto nel giusto Jeffrey Deitch, fra i massimi mercanti e critici d’arte americani nonché direttore fino al 2013 del MOCA (Museum of Contemporary Art) di Los Angeles, sottolineando che sempre “le immagini di Testa sono andate di pari passo con le opere degli artisti d’avanguardia e in alcuni casi le hanno addirittura anticipate, anziché prendere in prestito qualcosa da esse”. Affermazione sacrosanta, che trova palese conferma, se pure ce ne fosse bisogno, nella mostra che i Musei Reali di Torino dedicano, in Palazzo Chiablese, ad Armando Testa (Torino, 1917 – 1992) con un titolo bellissimo (“Tutti gli ‘ismi’ di Armando Testa”) che ancor di più segnala la poliedrica stupefacente creatività del più celebre, estroso ed immaginifico comunicatore pubblicitario del secolo scorso. Attenzione! Pubblicitario e Artista. Sempre. Con i due mestieri che si giocano sopra e che, non di rado, si lasciano la mano per far correre in libertà la gioia dell’arte pura, compagna fedele e amatissima in tutti suoi “ismi” legati alle avanguardie del ‘900, cui Testa era stato avviato in giovane età dal pittore astratto Ezio D’Errico. A 17 anni dalla mostra organizzata al Castello di Rivoli, l’esposizione odierna è curata dalla moglie Gemma De Angelis Testa e da Gianfranco Maraniello, direttore del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (Mart), da dove arrivano le oltre 120 opere (realizzate fra gli Anni ’40 e ’90) là esposte in occasione del centenario della nascita dell’artista e in cui ben si esprime la perfetta convivenza fra prodotto pubblicitario e pagine a sé stanti di surreal- futurista- astratta arte contemporanea. I suoi personaggi da nostalgico “carosello” ci sono tutti, o quasi: dal pacioso ippopotamo azzurro Pippo della Lines al misterioso Caballero e alla sua Carmencita (quelli del Caffè Paulista), fino agli sferici extraterrestri del pianeta Papalla per Philco o all’Elefante Pirelli con la ruota fra le zanne e al Rinoceronte della Esso. E poi ancora, i manifesti: con l’allegro e saltellante Uomo Moderno della Facis, accanto al supernoto logo del vermut Carpano Punt e Mes, cui la Città di Torino in omaggio a Testa ha dedicato tre anni fa una scultura pubblica (“Sintesi ‘59”), collocata in piazza XVIII Dicembre, proprio davanti alla vecchia Stazione di Porta Susa. La sensazione è quella di trovarsi in un immaginario magnifico parco di divertimenti, creato da un genio dell’ironia e dell’estrosità, da un artista a tutto tondo (numerosi i riconoscimenti: fra gli ultimi, nell’ ’89 l’ “Honor laureate” dall’Università di “Fort Collins” in Colorado), capace di farti incrociare e di stupirti pur anche con quadri che reggono perfettamente il confronto con le grandi e più dirompenti anime dell’arte novecentesca. E, insieme ai dipinti, ecco le serigrafie, i disegni, le fotografie e le sculture con i suoi temi più ricorrenti: il cibo, le dita capaci di suggerirgli le più improbabili suggestioni creative e gli animali: il “cane strabico”, il “cavallo che ride cinese”, il “cane randagio” o la poltrona rivestita di prosciutto come l’isola di Capri che prende forma da un pezzo di formaggio o la colonna (che sembra l’italico Stivale) realizzata con il gorgonzola. Diavolerie pensate e create da un eterno giovanotto con cappello nero a larghe tese e una matita trattenuta fra naso e labbro superiore (celebre questa sua divertita e divertente foto) che amava giocare con gli “ismi”, a volte dimenticandosi delle leggi seriose, per lui troppo seriose, del marketing. E di ciò pagandone il fio. A dirlo è lui stesso in uno dei video presenti in rassegna e provenienti dalla Collezione dell’”Agenzia Armando Testa”: “Il Testa qualche volta ha delle cose azzeccate negli ‘ismi’, chiamiamoli ‘ismi tutti i modernismi. Qualche volta però sarà bene guardare di più il marketing”. E ancora: “Dopo la guerra sono tornato ad affrontare la pubblicità. I miei disegni astratti non piacevano tanto, perciò man mano li ammorbidivo e li facevo sempre più figurativi, finché una notte ho sognato Mondrian, che mi ha detto “Armando, basta così’”. E, signori, scusate se è poco. A chi di voi è mai capitato di parlare in sogno nientemeno che con il vate olandese dell’astrattismo, Pieter Cornelis Mondrian, in arte Piet Mondrian? Al grande Armando Testa, ebbene sì, è accaduto pure questo.

Gianni Milani

“Tutti gli ‘ismi’ di Armando Testa”

Musei Reali – Sale Chiablese, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 3338862670 o www.museireali.beniculturali.it

Fino al 17 marzo 2019

Orari: mart. – dom. 10/19

 

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Nelle foto:

– “Pippo”, vetroresina, 1966-’67
– Particolare mostra con “Elefante Pirelli”, stampa su lamiera, 1954
– “Uno e mezzo”, Fiberglass, 1960
– Particolare mostra Campagna “Facis”, manifesto intelato, 1954
– Particolare mostra “Esprimiamoci di più”, fotografia a colori su alluminio, 1991

"La moneta di Caravaggio"

Martedì 26 febbraio prossimo al Circolo della Stampa di Torino, palazzo Ceriana Mayneri, in corso Stati Uniti 27, alle 20.15 verrà presentato, nella sala Toniolo, il nuovo libro dell’artista torinese Roberto Demarchi, dal titolo “La moneta di Caravaggio”, edito da Paola Caramella Editrice. Prenderà parte alla presentazione lo storico dell’arte Claudio Strinati. Strinati, dal 1991 al 2009 Soprintendente per il Polo Museale romano ed impegnato nella riorganizzazione di alcuni musei capitolini, è uno dei massimi esperti di pittura e scultura del Rinascimento e del Seicento, divulgatore della storia dell’arte, oltre che docente e promotore in passato di importanti mostre dedicate ad artisti quali Caravaggio ed i Caravaggeschi, Sebastiano del Piombo, Raffaello, Tiziano e Tiepolo. Una particolare attenzione al Caravaggio è sempre stata riservata nel corso della sua attività artistica anche da Roberto Demarchi, pittore e storico dell’arte, di formazione architetto. Nel marzo 2001 diede avvio al ciclo pittorico “Peri Physeos”, di cui fu poi pubblicata nel 2003 una monografia in cui vennero raccolte le più importanti testimonianze di letterati italiani ed europei. Da allora la sua ricerca pittorica si è indirizzata verso le tematiche sacre tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, con la presentazione, nel 2011, proprio da parte di Claudio Strinati, alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano della “Passione secondo Matteo”, riflessione in astrazione dell’opera omonima di Johann Sebastian Bach. Demarchi ha anche pubblicato per Allemandi “La tempesta”, una lettura iconologica dell’omonima opera di Giorgione. “La moneta di Caravaggio” è strutturata come un dialogo tra Michelangelo Merisi ed il mercante Bernardino Rota, la sera del 3 agosto 1603, ambientato alla locanda del Moro. È una sorta di azione scenica scritta sotto forma di sceneggiatura, capace di conquistare il lettore fino al disvelamento da parte dell’artista stesso di un particolare inedito contenuto nel dipinto della “Vocazione di San Matteo”, presente nella cappella Contarelli all’interno della chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Demarchi delinea nel libro Caravaggio quale l’artista per antonomasia, l’unico veramente capace di esprimere il Vero, inteso in senso squisitamente artistico ed in particolare pittorico.

Mara Martellotta

Andy Warhol. Due Capolavori dalla Collezione Cerruti

Fino al 22 aprile

Due opere – se, come queste, sono per davvero consacrati “capolavori” – possono bastare. Sono sufficienti le due “serigrafie su tela” appartenenti alla maturità artistica di Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) e finora conservate nelle sale “museali” di Villa Cerruti a Rivoli, per mettere in piedi, come avviene al Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea, sotto la curatela di Fabio Belloni e fino al prossimo 22 aprile, un evento espositivo di indubbio e significativo richiamo. Primo: per la qualità e la “storicità” della coppia di quadri esposti, attraverso i quali rendere omaggio a un artista di fama mondiale, sicuramente fra i più eclettici e influenti del Novecento, dal look esageratamente e orgogliosamente eccentrico, star più delle star hollywoodiane che ossessivamente popolano i suoi quadri e sublime “sintesi artistico-umana” dell’idea di Pop Art. Secondo: perché le due opere, messe in bella evidenza al primo piano del Castello di Rivoli, vogliono ricordarci, con la loro provenienza dalla vicina Villa Cerruti, il futuro prossimo del Castello juvarriano e della stessa Villa, voluta dal noto imprenditore torinese Francesco Federico Cerruti per ospitare la propria formidabile collezione d’arte e destinata in tempi più che brevi a diventare parte integrante del Polo Museale di Rivoli. Eccoci allora alle due opere. E’ del 1975 l’acrilico e serigrafia su tela “Hélène Rochas”, uno dei quattro dipinti dedicati da Warhol all’ex modella francese, già direttrice del colosso “Rochas”. Intraprendente elegante e dallo sguardo senza limiti, lei. Geniale bizzarro provocatore e cinico, lui. I due sono in amicizia. Si vanno a genio. Nel Laboratorio- Factory, probabilmente quello all’860 di Broadway (Warhol ne cambiò diversi, ospitandovi altri famosi artisti come Basquiat o Clemente o Keith Haring e dove nascono anche le famose “Bottiglie della Coca Cola” così come le “Scatole della zuppa Campbell’s”) la fedele Polaroid fa il suo frenetico lavoro. Scelto lo scatto si passa alla serigrafia su una tela già dipinta con ampie pennellate di acrilici dominati dal verde. Di Madame Rochas colpisce la malia e la seduzione di un volto che ha perso contatti col tempo. L’opera appartiene ai “Celebrity Portraits”, dipinti su commissione iniziati nel 1972 e raffiguranti innumerevoli Vip dello star system internazionale (da Marilyn Monroe a Salvador Dalì, da Mick Jagger a Bob Dylan a Dennis Hopper e a Marcel Duchamp), per i quali l’essere ritratti da Warhol significava pur sempre la conferma del proprio “status sociale”; fra i ritratti italiani anche quelli di Gianni e Marella Agnelli (1972). Realizzato sette anni dopo, nel 1982, è invece il secondo quadro esposto a Rivoli. Si intitola “The Poet and His Muse”, appartiene al ciclo dedicato a Giorgio de Chirico e ripete (fascino della serialità) quattro volte sulla stessa tela un suo lavoro del 1959 raffigurante i celebri manichini “paludati all’antica”: un chiaro omaggio al Maestro della Metafisica, più volte incontrato nei suoi soggiorni italiani, ma solo in quell’anno (in una stagione segnata fra l’altro da frequenti tributi ai classici italiani, da Botticelli a Leonardo a Raffaello) “citato” su tela, dopo averne visitato la grande retrospettiva ordinata da William Rubin al “MoMA”. Un de Chirico che l’artista ama come inimitabile precursore dei tempi e che “ha ripetuto – affermava Warhol – le stesse immagini per tutta la vita”. “Probabilmente – continuava – è questo che abbiamo in comune…La differenza? Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io lo ripeto nello stesso giorno nello stesso dipinto”.

Villa Cerruti: aperta al pubblico dal prossimo 29 aprile

La “Collezione Cerruti”, da cui provengono le due opere di Andy Warhol in mostra al Castello di Rivoli, diventerà a breve parte integrante del Museo. Custodita in una Villa nelle vicinanze del Castello, finora chiusa al pubblico, rappresenta una collezione privata di altissimo pregio (fra le più importanti al mondo) che include quasi trecento opere scultoree e pittoriche che spaziano dal Medioevo al Contemporaneo, con libri antichi, legature, fondi d’oro, e più di trecento mobili e arredi tra i quali tappeti e scrittoi di celebri ebanisti. Capolavori che vanno dalle opere di Segno di Bonaventura, Bernardo Daddi e Pontormo a quelle di Renoir, Modigliani, Kandinsky, Klee, Boccioni, Balla, de Chirico e Magritte, per arrivare a Bacon, Burri, Warhol, De Dominicis e Paolini.Iniziata a metà degli anni Sessanta, la Collezione è il frutto della vita discreta e riservata di Francesco Federico Cerruti, imprenditore e collezionista nato a Genova nel 1922 e scomparso a Torino nel 2015 all’età di 93 anni, lasciando in eredità al Castello di Rivoli la curatela e la conservazione di quell’imponente patrimonio artistico, intorno al quale aveva costruito a protezione quella Villa in stile provenzale, dove si racconta abbia dormito una sola notte. Oggi, dopo due anni di restauro, la Villa è pronta al grande salto dell’apertura al pubblico. Si inizierà, con visite su prenotazione e a numero chiuso, il prossimo 29 aprile e il Castello di Rivoli- grazie ad un accordo firmato nel luglio del 2017 con la Fondazione Francesco Federico Cerruti – sarà il primo Museo d’Arte Contemporanea al mondo a includere una collezione enciclopedica fortemente datata, con l’intento di innescare un dialogo unico tra collezioni e artisti d’oggi e i capolavori del passato.

Gianni Milani

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“Andy Warhol. Due Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti”

Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea, piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (Torino); tel. 011/9565222 o www.castellodirivoli.org

Fino al 22 aprile – Orari: dal mart. al ven. 10/17, sab. e dom. 10/19

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Nelle foto:

– “Hélène Rochas”, acrilico e serigrafia su tela, 1975. Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per  l’arte, Deposito a lungo termine al Castello di Rivoli-Museo d’Arte Contemporanea
– “The Poet and His Muse”, acrilico e serigrafia su tela, 1982. Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’arte, Deposito a lungo termine al Castello di Rivoli-Museo d’Arte Contomporanea
– Una stanza a Villa Cerruti

 

 

 

 

 

 

Il manicomio dei bambini

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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7. Il manicomio dei bambini
Fino ai primi anni del Novecento le malattie dei bambini non sono separate da quelle degli adulti, solo dopo gli anni Venti la neuropsichiatria infantile viene considerata una disciplina distinta e autonoma. Nascono i primi Istituiti Medico-Psico-Pedagogici, ma i bambini in manicomio ci finiscono lo stesso. All’interno di queste orride strutture trovano segregazione, cattiva alimentazione, promiscuità, e vita malsana, tutte condizioni che fanno sorgere epidemie di tubercolosi, pleuriti e infezioni di ogni genere. Le storie dei bambini nei manicomi sono fragili e brevi, riassunte in poche parole che possiamo estrapolare dalle cartelle cliniche: “indocile”, “disobbediente”, “tendente al furto”, “insofferente alla disciplina”, “cattivo”. Spesso si tratta di creature provenienti da famiglie povere e disastrate, ultimi di dieci figli, o con padri che non sanno rispondere alle semplici domande delle infermiere.  Virginia, dieci anni, è “vivacissima, irrequieta, batte le mani, gesticola, pronuncia parole senza senso o cerca di ripetere pappagallescamente parole che ode da altri. Canticchia notte e giorno, corre per le stanze. Masturbatrice e epilettica”. La piccola muore poco tempo dopo il ricovero per tubercolosi polmonare. Adrianina, invece, è “docile”, ma “rifiuta lo studio”. Viene marchiata come “oligofrenica”. Carlo, ha cinque anni e non ha un padre, è “molto discolo, indisciplinato, con grossolane anormalità del carattere e della condotta”, per lui la diagnosi è di “ritardo mentale con difficoltà psico-motoria e disadattamento mentale”; il piccolo è da internare per mancanza di disciplina. Antonio ha otto anni, pesa 26 Kg ed è alto 126 cm. La madre sembra sana, il padre e il nonno sono alcolisti, a condannare il bambino è il fatto di essere enuretico. Il piccolo viene internato per “infantilismo emotivo e interessi prevalentemente ludici”. Onofria è più grande, ha tredici anni quando viene catturata da Villa Azzurra. È rachitica, malnutrita, presenta scoliosi dorsale, una pessima dentatura e ipotrofismo muscolare, la bambina presenta le stesse caratteristiche dei sei fratelli, ma viene internata da sola all’interno della struttura. Villa Azzurra, chiamata così per il colore delle piastrelle dei bagni, è il luogo dove i bambini anormali venivano rinchiusi. L’imponente struttura si trova al confine tra Grugliasco e Collegno, in fondo a via Lombroso; all’ingresso la scritta “Sezione medico-pedagogica” ammutolisce chiunque la guardi. C’erano anche bambini di pochi mesi che finivano al manicomio dei piccoli, provenienti da famiglie molto povere o poverissime, questo era il posto degli orfani, dei disabili in carrozzina o con handicap fisici e mentali, qui finivano i ciechi, gli ipovedenti, gli epilettici, i disturbati, nessuno dei quali veniva sostanzialmente curato. Negli anni Sessanta i pazienti di Villa Azzurra erano duecento, divisi in solo due reparti, A per i meno gravi e B per i gravissimi e irrecuperabili. Qui c’erano gli “ineducabili”, quelli con cui non era necessario perdere tempo, le infermiere si limitavano a legarli ai letti o ai termosifoni, quando c’era bel tempo li legavano fuori, ai cancelli, agli alberi, alle inferriate, alle panchine o dovunque ci fosse un appiglio per immobilizzarli. Non si rimaneva per sempre a Villa Azzurra, una volta compiuti i quattordici anni potevano succedere due cose, o i ragazzi facevano ritorno alle famiglie o venivano trasportati in altri istituti, affidati al centro di addestramento professionale Lombroso o all’istituto penale minorile Ferrante Aporti; altrimenti il destino avrebbe potuto condurre quei piccoli alienati al reparto 10 di Collegno, dove li aspettava solo l’annientamento totale dell’individuo.C’è una data simbolica per tutto, quella che segna ufficialmente gli orrori di Villa Azzurra, ed è il 1964, quando il dottor Giorgio Coda viene nominato responsabile della struttura. L’uomo è soprannominato dai suoi pazienti “L’elettricista”, incute timore, spavento, è fedele al principio per cui “il bambino ama solo chi rispetta”, impartisce lezioni attraverso l’uso smodato degli elettroshock, soprattutto nei confronti di quelli che si fanno la pipì addosso durante la notte. Il metodo che usa per risolvere il problema della masturbazione è il “massaggio lombo-pubico”, una delle varianti dell’elettroshock a basso voltaggio con una scossa prolungata, tale da non far perdere conoscenza al piccolo paziente, ma da provocargli dei dolori insopportabili per 20-30 secondi. Il dottore organizza anche degli incontri di box fra ragazzi, perché sostiene siano utili per incanalare e scaricare l’aggressività, i round durano tre minuti, durante i quali i fanciulli possono imparare la dura legge della sopravvivenza: vincere o essere sconfitti. Giorgio Coda nasce a Torino il 21 gennaio 1924, nel 1944 si arruola nell’esercito di Salò, lo appassiona la retorica del fatalismo e lo sprezzo del pericolo, ideali a cui non sono estranei né l’educazione familiare, né quella scuola di regime. Nel 1948 si laurea in medicina con una tesi in antropologia criminale, a fine anno entra a Collegno nel reparto del professor Guido Treves, uno dei padri dell’elettroshock in Italia. A trentanove anni, Coda ottiene la libera docenza in psichiatria presso l’Università di Torino, nel 1964 viene promosso vicedirettore di Villa Azzurra. Diventa consulente del Provveditorato agli studi e giudice onorario del Tribunale per i minorenni. Giorgio, molto stimato negli ambienti accademici e nella buona società torinese, viene descritto come medico garbato, spiritoso, di modi salottieri. Pare non risultare a nessuno che egli utilizzi gli elettroshock per curare i suoi pazienti. Il 14 dicembre 1970 il giudice istruttore del Tribunale di Torino riceve un esposto dell’ALMM (Associazione Lotta contro le Malattie Mentali): è il primo atto di accusa contro Giorgio Coda. Si tratta di due pagine di denuncia, alle quali sono allegati sei foglietti di testimonianze, raccolti dalla Commissione di tutela dei diritti dei ricoverati che alcuni mesi prima operava all’interno del manicomio di Collegno. Giorgio Coda è accusato di aver commesso violenze nel periodo in cui prestava servizio a Collegno e poi a Villa Azzurra, si sostiene che utilizzasse gli elettroshock transcranici e lombo-pubici a scopo punitivo e sadico, e non per fini terapeutici.  Il 12 luglio 1974 viene riconosciuto colpevole dal Tribunale di Torino, condannato per maltrattamenti a cinque anni di prigione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione per cinque anni dalla professione medica. Durante il processo per la prima volta i malati di mente non solo hanno la parola, ma sono ascoltati e presi in considerazione. Coda riesce a farla franca, grazie ad un cavillo giuridico che porta all’annullamento della sentenza di primo grado con la possibilità di avvalersi della prescrizione. Viene amnistiato per i fatti di Villa Azzurra. Il suo rimane l’unico caso in Italia di uno psichiatra incriminato e condannato per maltrattamento dei malati di mente di Collegno. Il 2 dicembre 1977, un “commando” di Prima Linea irrompe nello studio di Coda, di via Goffredo Casalis, lo incatena al termosifone e lo “giustizia” con tre colpi di pistola alle spalle e alle gambe, che gli recidono un’arteria e gli frantumano un ginocchio. Al collo gli viene appeso un cartello su cui è scritto: “il proletariato non perdona i propri torturatori”. Coda però non muore, non viene radiato dall’Ordine e conclude la sua carriera come medico di famiglia a Rivoli. Certi crimini non spetta agli uomini giudicarli.

Alessia Cagnotto

 

“Wildlife Photographer of the Year” 54esima edizione

In mostra al valdostano Forte di Bard oltre cento opere vincitrici del prestigioso concorso internazionale dedicato alla fotografia naturalistica

“Quest’immagine è un ritratto. E’ un richiamo simbolico alla bellezza della natura e al modo in cui ci stiamo impoverendo mentre la natura soccombe. E’ un’opera degna di essere esposta in qualsiasi galleria del mondo”: con queste parole Roz Kidman Cox, presidente della giuria internazionale – formata da esperti e fotografi naturalisti fra i più celebri al mondo – ha voluto sintetizzare il valore assoluto di “The Golden Couple”, la foto vincitrice della 54esima edizione del “Wildlife Photographer of the Year 2018”, il più importante riconoscimento dedicato alla fotografia naturalistica promosso dal Natural History Museum di Londra, dove nell’ottobre scorso si sono svolte le premiazioni. Autore dello scatto é il fotografo olandese Marsel Van Oosten, che, con indubbia maestria e scelta perfetta di luoghi e tempi, è riuscito a fermare l’immagine (meglio, il “ritratto”) di due particolarissime scimmie dal “naso dorato”, una rarissima specie di primati che ancora oggi sopravvivono nella foresta temperata delle montagne cinesi di Quinling, unico habitat possibile per evitarne l’estinzione. La foto (che “coglie la bellezza e la fragilità della vita sulla terra”) è esposta in tutta la sua dovuta evidenza nelle sale del valdostano Forte di Bard, principale polo culturale della Vallée, ancora una volta scelto per ospitare l’anteprima italiana del Concorso londinese. In esposizione, fino al prossimo 2 giugno, si possono quindi ammirare, all’interno dell’imponente complesso fortificato fatto riedificare nell’Ottocento dai Savoia, oltre cento emozionanti immagini, vincitrici nelle 19 categorie prestabilite e selezionate fra 45mila scatti provenienti da 95 Paesi del mondo. Fra gli artisti premiati – molti nomi occupano da anni la ribalta internazionale della fotografia – da segnalare anche, per la sezione Young, il giovane sedicenne Skye Meaker (Sud Africa); figlio d’arte, Meaker scatta foto dall’età di sette anni nei posti più incredibili del pianeta ed è sua la suggestiva immagine dal titolo “Lounging Leopard”, un leopardo colto nell’attimo del risveglio nella “Mashatu Game Reserve” in Botswana. “Grazie al timing e alla composizione eseguiti con precisione – sottolinea Alexander Badyaev, giudice di gara e vincitore dell’edizione precedente – riusciamo a gettare uno sguardo nel mondo interiore di uno degli animali fra i più difficili ad essere colti dal vivo”. Sei gli italiani presenti in gara. Un primo premio, nella sezione “Urban Wildlife”, se l’è portato a casa il lombardo Marco Colombo con lo scatto “Crossing Paths” che raffigura un orso marsicano nell’atto di attraversare le strade notturne e deserte di un borgo appenninico del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Menzioni speciali sono inoltre andate al genovese Emanuele Biggi (fotografo e conduttore televisivo su Rai3, insieme a Sveva Sagramola, di “Geo”) per il suo “Eye to Eye”, foto da pugno nello stomaco scattata in Sud America sulla spiaggia della Riserva Nazionale di Paracas, con la carcassa di un leone marino in decomposizione e un iguana che fa capolino da una cavità oculare, e al toscano Valter Bernardeschi, autore di “Mister Whiskers”, simpatica coppia di mega e baffutissimi trichechi immortalati nelle acque artiche. Menzioni speciali anche per Lorenzo Shoubridge, categoria “Behaviour: Amphibians and Reptiles”, per Stefano Baglioni, categoria “Plants and Fungi” e per Georg Kantioler, categoria “Earth’s Environments”. Novità, infine, di questa edizione il premio speciale “alla carriera”, andato al fotografo di origini olandesi (è nato a Rotterdam nel ’51, ma da tempo vive a Santa Cruz in California ) Frans Lanting, per il suo eccezionale contributo dato da oltre trent’anni alla conservazione della fauna selvatica. I suoi incarichi per il “National Geographic” lo hanno anche portato a svolgere lavori pionieristici in Madagascar, mettendo ben bene il evidenza i problemi ambientali dell’isola, ed in Botswana.

Gianni Milani

“Wildlife Photographer of the Year”

Forte di Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it – Fino al 2 giugno

Orari: fino al 3 marzo feriali 10/17, sab. dom. e festivi 10/19; dal 4 marzo feriali 10/18, sab. dom. e festivi 10/19; chiuso il lunedì.

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Foto

– Marsel von Oosten: “The Golden Couple”
– Shye Meaker: “Lounging Leopard”
– Emanuele Biggi: “Eye to Eye”
– Valter Bernardeschi: “Mister Whiskers”

 

Incontri illuminanti con l’arte contemporanea

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Appuntamenti a Torino con Tobias Rehberger e Nicola De Maria

Collegata alla XXI edizione di “Luci d’Artista”, dopo quattro mesi di attività formative, si conclude giovedì prossimo 21 febbraio, la prima edizione del Progetto “Incontri illuminanti con l’Arte Contemporanea”, promosso dalla Città di Torino e realizzato, con il   sostegno della Fondazione Teatro Regio, dai Dipartimenti Educazione della GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e del PAV-Parco Arte Vivente / Centro Sperimentale d’Arte Contemporanea. Ad ispirare questa prima edizione è stata la Luce d’Artista “My Noon”, opera dello scultore e designer tedesco (Leone d’oro, come migliore artista della “Mostra Fare Mondi”, alla Biennale di Venezia del 2009) Tobias Rehberger, collocata nel cortile della Scuola Elementare “Carlo Collodi” e dai cui contenuti ha preso spunto il tema guida della proposta artistico-culturale incentrata su “Il tempo: nell’arte contemporanea e nel quotidiano”. Proposta portata avanti per quattro mesi, durante i quali insegnanti e allievi delle scuole del territorio hanno partecipato a percorsi formativi, laboratori e itinerari, aventi come obiettivo quello di promuovere la crescita culturale e rendere più accessibile il patrimonio d’arte contemporanea della Città. Il progetto ha offerto inoltre l’opportunità di interagire con lo stesso Tobias Rehberger , oggi fra i più importanti protagonisti del mondo creativo internazionale e che, proprio a conclusione delle attività, sarà accolto per la seconda volta a Torino giovedì prossimo 21 febbraio alle 15.30, per inaugurare alla GAM ( via Magenta, 31) l’allestimento collettivo-performativo, dal titolo “Diari illuminanti”, realizzato con gli elaborati dei 700 allievi delle 35 classi delle scuole della Circoscrizione 8, che si sono concentrati sul tema del “Tempo” nelle sue molteplici interpretazioni. A conclusione dell’inaugurazione della mostra, l’artista tedesco si sposterà nel “Salone d’onore” dell’ “Accademia Albertina di Belle Arti” (via Accademia Albertina, 6), dove, a partire dalle 17,30 dialogherà con docenti, studenti e con quanti siano liberamente interessati a conoscere la sua visione del produrre arte oggi. Nei giorni di sabato 23 e domenica 24 febbraio si svolgeranno ancora e sempre alla GAM attività a tema, rivolte alle famiglie coinvolte nel progetto, che sono invitate con ingresso gratuito a visitare le Collezioni del Museo. I piccoli protagonisti dell’esperienza accompagneranno in seguito i genitori alle attività previste nello spazio “Education” della GAMSempre nell’ambito degli “Incontri illuminanti”, venerdì 22 febbraio, alle ore 17,30, l’appuntamento è invece con Nicola De Maria, fra i grandi protagonisti della Transavanguardia italiana e autore per “Luci d’Artista” del “Regno dei fiori: Nido cosmico di tutte le anime”. L’artista, beneventano d’origine ma residente e operante a Torino, sarà presente a un incontro che si terrà all’“Hotel NH Collection”, al civico 15 di piazza Carlo Emanuele II, dove è ancora possibile, fino a fine mese, ammirare la sua opera. L’appuntamento, organizzato dalla Città con il network indipendente NESXT, sarà moderato da Olga Gambari e coinvolgerà operatori, appassionati, curatori e artisti impegnati nella progettazione di interventi creativi utilizzando la luce (e il buio) come elemento per rileggere e rigenerare gli spazi urbani. Per info: GAM Area Education, tel. 011/4429544 o didattica@fondazionetorinomusei.it

g.m.

 

Nelle foto
– Tobias Rehberger di fronte alla sua opera “Kotatsu” nelle Collezioni GAM
– GAM: “Laboratorio illuminante”
–  Nicola De Maria, il “Regno dei fiori” (foto: il Torinese)

 

Il martirio di Jan Palach e un insolito Prezzolini

Venerdì 22 febbraio alle ore 18, al Centro “Pannunzio” in via Maria Vittoria 35H, Luisa Cavallo, Paolo Vita e Pier Franco Quaglieni parleranno su:  Il martirio di Jan Palach per la libertà e la primavera di Praga” a cinquant’anni di distanza : una riflessione storica, non una commemorazione.

Lunedì 25 febbraio alle ore 18, al Centro “Pannunzio” in via Maria Vittoria 35H, Elisabetta Cocito dell’Accademia Italiana della Cucina, parlerà su: Un insolito Prezzolini. La cucina tra Italia e Stati Uniti.

Alda Besso. Un percorso d’arte nel Novecento

Fino al 23 febbraio

Pittrice di singolare talento. Ma anche grafica, brillante illustratrice di libri per importanti case editrici e, ancora, abilissima e raffinata decoratrice di stoffe e tappeti, nonché fortemente attratta dal design, dalle progettazioni d’arredo e , in generale, dal vasto universo delle arti applicate. Negli anni della prima gioventù amava firmarsi “Balda” (ironica crasi di nome e cognome, ma anche esplicito manifesto di come voler acchiappare a modo suo e a tutti i costi la vita); dagli anni ’40 in poi lo pseudonimo diventò “Giò”, come “Gioia” e “Giovinezza” , su esplicito desiderio e intuizione del grande Eugenio Colmo “Golia”, fra i più famosi illustratori e caricaturisti del Novecento, che “Balda” conobbe alla redazione della “Gazzetta del Popolo” ( dove lei lavorava come grafica e dove lui era tornato come direttore dell’Ufficio Vetrine nel ’44, profondamente segnato da drammatiche vicende esistenziali e famigliari) e con cui nacque un sodalizio d’amore e di arte che si manterrà per tutta la vita. Nata “per caso” nel 1906 a Genova (dove il padre Lodovico aveva trasferito per breve tempo la famiglia per lavoro) e scomparsa a Torre Pellice nel 1992, ad Alda Besso il Collegio San Giuseppe di via San Francesco da Paola a Torino dedica un’importante e ricca retrospettiva – una settantina i pezzi esposti fra dipinti, disegni, tecniche miste e curiosi piacevolissimi manufatti a panno lenci – curata da Alfredo Centra, Francesco De Caria e Donatella Taverna. In rassegna può dirsi rappresentato tutto il “percorso d’arte”, non meno che esistenziale (e mai, come nel suo caso, arte e vita hanno macinato insieme il tempo), compiuto in oltre sessant’anni di attività dall’artista: l’iter accademico in primis sotto la guida di Giulio Casanova e di Giacomo Grosso, la sottile fascinazione per le sospese silenti atmosfere casoratiane, i primi compositi e lineari paesaggi della periferia torinese, seguiti alla “buriana” emotiva che in lei produsse l’Esposizione di Torino del ’28 e la dirompente frenesia di quel secondo Futurismo che ritroviamo sintetizzato nell’aggressiva “Natura morta futurista” del ’31, così come nel “Sentiero”, fusain su carta del ‘39 esposto in mostra. E poi i ritratti. Grosso docet. Perfetto nei tratti di elegante compostezza – il naso marcato sormontato da spesse lenti da vista – e nelle combinazioni cromatiche ( con il pacato marrone del papillon sul bianco increspato della camicia) quello degli anni ’60 raffigurante il suo “Golia”. Con lui, molto più anziano (Colmo era nato a Torino nel 1885), Giò fondò, nella casa di corso Regina Margherita 101 a Torino – dove passò gran parte dell’intellighenzia artistica e culturale torinese – lo Studio “GoBes”, dove i due tennero prolifici corsi di pittura, grafica, design e scenografia per una nutrita corte di allievi, alcuni diventati nel tempo anche illustri. Uno per tutti, Giorgetto Giugiaro, rimasto particolarmente affezionato a “Giò”, anche dopo l’ esperienza di corso Regina. Furono quelli anni di intenso lavoro e grandi soddisfazioni. Seguiti da giorni e mesi carichi di amari presagi, diventati ben presto dolorose realtà. “Golia” (pare che il soprannome, riferito alla notevole statura, gli fosse stato appioppato da Guido Gozzano, suo compagno di scuola nei lontani anni del Liceo “Cavour”) morì nel settembre del 1967. Per “Giò” è quello l’inizio di una vita in ombra, segnata dal dolore, dalla memoria e dalla solitudine interiore. Nonostante tutto, incontra amici, partecipa a mostre e si sforza di mantenere viva la figura del marito attraverso interviste, pubblicazioni varie e il riordino delle sue carte e delle sue opere che sfociano nel ’68 nella pubblicazione de “Il mondo di Golia”, edito da “GoBes” e da lei curato. Di questo periodo, e fino agli anni ’80, sono ancora numerosi i ritratti. Di amici, famigliari, della sorella Bianca e della giovane amica Donatella Taverna con il bimbo di quest’ultima che in testa porta un cappello da moschettiere, dalla stessa “Giò” realizzato in panno e piume. Ma soprattutto, l’“Autoritratto” del ’76, che vediamo in mostra: i capelli ingrigiti, dietro l’armonia del volto le tracce dello scivolare degli anni, con un lieve e malinconico sorriso che cerca di annientare irremovibili malinconie. Piano piano “Giò” arriva alle ultime opere collettivamente definite “Sensazioni”: specchio di un’anima dolce indifesa e impaurita. Ecco allora i “Tronchi al vento”, dove il bosco partecipa e soggiace al vortice impetuoso delle emozioni, con una nera impercettibile presenza umana al riparo, in primo piano, di un albero. Figure nascoste e mani nascoste che s’intrecciano: le troviamo anche in alcune grandi composizioni floreali, su cui spesso vanno a posarsi variopinte farfalle e insetti. Apparenti scampoli di serenità. Anche in “Abbraccio” c’è sì il fondersi di affetti, ma le figure hanno perso volti e carne; sono oniriche sinuose e serpentine presenze – il gigante “Golia” e lo scricciolo “Giò”? – che abitano ormai mondi lontani. Separati. Diversi. A unirli, solo la drammaticità dei ricordi e dell’attesa.

Gianni Milani

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“Alda Besso. Un percorso d’arte nel Novecento”

Collegio San Giuseppe, via San Francesco da Paola 23, Torino; tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 23 febbraio

Orari: lun. – ven. 10,30/12,30 – 16/18; sab. 10,30/12,30

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Nelle foto

– “Autoritratto”, olio su tela, 1976
– “Sentiero”, fusain su carta, 1939
– “Golia”, olio su tavola, anni ’60
– “Tronchi  al vento”, fusain e china su carta, 1970
– “Euforbia e farfalla. Incontro n. 5”, tempera su carta, fine anni ’70
– “Abbraccio”, tempera olio e china su carta, anni ’70-’80

 

“Quando qualcuno se ne va resta l’amore intorno”

Si chiama “Resta quel che resta” l’inedito composto da Pino Daniele nove anni fa ed emerso a tre anni e mezzo dalla scomparsa del cantante. La canzone è stata trasmessa contemporaneamente in anteprima da nove radio nazionali ed arriva a meno di un mese da “Pino è”, l’evento con cui si è reso omaggio al cantante il giugno scorso. “Quando qualcuno se ne va resta l’amore intorno” dice la canzone nei suoi versi iniziali, con un attacco che, oggi, assume un significato particolare. Una ballad questa, senza troppe concessioni alla malinconia, dagli accordi e dalla struttura molto semplici, forse a richiamare quel desiderio di minimalismo che oggi ci coccolerebbe come ne avremmo bisogno. Percussioni sempre presenti per il Pino nazionale e chitarre, meravigliose. “I miss you”, “mi manchi”, sono le uniche parole che l’artista si concede sul ritornello: “Resta quel che resta”, che oggi suona come una “triste profezia” e un “involontario testamento”, si pone innanzitutto come una canzone sulla mancanza, su un amore – non necessariamente tra partner – finito per cause di forza maggiore, dove non c’è spazio per il rancore (“E se qualcosa ci sarà / oltre quegli occhi chiusi / devi pretendere la vita migliore / essere contento di te che ami me / in questo tempo che passa mi accorgo che mi manchi”). E’ inevitabile, certo, leggere oggi il testo come saluto di Daniele ai fan. Saluto dove per la tristezza c’è posto, ma fino a un certo punto, perché – come canta lui – “E se qualcuno ti dirà che si può anche impazzire / senza discutere spiega al tuo cuore / resta quel che resta”. Nietzsche diceva che vi sono perdite che comunicano all’anima una sublimità, nella quale essa si astiene dal lamento e cammina in silenzio come sotto alti neri cipressi…io mi permetto di sottoscrivere ed aggiungere che il vero amore deve sempre fare male. Deve essere doloroso amare qualcuno, doloroso lasciare qualcuno. Solo allora si ama sinceramente. Vi invito all’ascolto di una ballad meravigliosa, vi farà stare bene, anche se per poco.

https://www.youtube.com/watch?v=7a7LuPMw02k


Chiara De Carlo

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Chiara vi segnala i prossimi eventi… mancare sarebbe un sacrilegio!