CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 4

I pianeti fantascientifici di Holst con l’OSN Rai diretti dall’americano John Axelrod

 

 

Torna sul podio dell’OSN Rai l’americano John Axelrod, protagonista del concerto in programma all’Auditorium Arturo Toscanini di Torino giovedì 16 gennaio alle 20.30, con replica in diretta su Radio 3. La replica di venerdì 17 gennaio, alle 20, è trasmessa in live streaming sul portale di Rai Cultura.

Attuale direttore Principale Ospite della Kyoto Symphony e direttore Principale della Real Orchestra Sinfonica de Sevilla, Axelrod è apprezzato in tutto il mondo per la sua versatilità ed energia. Con la compagine Rai è stato protagonista di una tournée nel sud Italia nell’estate del 2022, che ha toccato Catania, Catanzaro, Salerno, Matera, Brindisi. Ad aprire la serata sarà il “Rendering”, il restauro realizzato da Luciano Berio tra il 1988 e il 1990 sugli schizzi lasciti da Schubert a proposito della sua Decima Sinfonia, mai completata.

“Erano anni che mi veniva chiesto da varie parti di fare ‘qualcosa con Schubert’- spiegò Berio nelle note alla partitura – e non ho mai avuto difficoltà a resistere a quell’invito tanto gentile quanto ingombrante, fino al momento in cui ricevetti copia degli appunti che il trentunenne Franz andava accumulando nelle ultime settimane di vita, in vista di una Decima Sinfonia in Re maggiore D 936 A. Si tratta di appunti di notevole complessità e di grande bellezza, che costituiscono un segno interiore di nuove strade, non più beethoveniane, che lo Schubert delle sinfonie stava già percorrendo. Sedotto da questi schizzi, decise dunque di restaurarli e non ricostruirli”.

Nella seconda parte del concerto, Axelrod interpreta “The planets”, la suite opera 32 per coro femminile e orchestra scritta da Gustav Holst tra il 1914 e il 1915. In quegli anni il compositore britannico, di mente aperta e curiosa, era particolarmente influenzato dal wagnerismo e dall’espressionismo, e venne introdotto all’astrologia dallo scrittore Clifford Bax durante una vacanza sull’isola di Maiorca. Nacque così la partitura che lo rese celebre e che infuse di mirabile maestria coloristica oltre che di visionaria fantasia. Il successo del lavoro fu tale da rendere una sorta di modello per la musica cinematografica successiva, specie per le pellicole di ispirazione fantascientifica. L’opera, composta da sette movimenti ispirati al significato astrologico dei pianeti del sistema solare, vede impegnato un organico orchestrale enorme che include strumenti come il flauto basso, l’oboe basso, l’eufonio e l’organo.

Nell’ultimo movimento interviene anche il coro femminile del Teatro Regio di Torino preparato da Ulisse Trabacchin. L’ultima esecuzione di “The planets” da l’arte di una compagine Rai a Torino risale al 1957, con Sir John Barbirolli alla testa dell’OSN di Torino della Radiotelevisione Italiana.

 

Mara Martellotta

Se l’aspetto tecnico prevale sulla Storia e la Poesia

Sullo schermo l’ultimo controverso film di Robert Zemekis

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un vulcano che erutta e la natura che riprende a fiorire, un terreno su cui il magma esplode e gli incendi improvvisi divampano, una corsa di dinosauri e i nativi indiani che cacciano nella foresta vergine. I calessi del Settecento e la figura di Benjamin Franklin, la casa inconfondibile in stile georgiano costruita sul fondo dello stretto sentiero e una piccola casa, accogliente e confortevole, che le cresce accanto, una grande finestra per guardare il mondo che le si snoda davanti. E con lui i secoli e le decadi, incorniciati da una macchina da presa stabilmente poggiata, uno sguardo fisso sul salotto bello, che raccoglie e che accoglie, dove si festeggia il giorno del Ringraziamento o dove per maggiore comodità s’alloggia il padre malato, a riprendere i tanti cambi di divani più o meno antichi più o meno attuali, gli apparecchi tivù e il caminetto, gli alberi di natale e gli addobbi, i paraventi e i tappeti da spolverare e le lampade, le persone soprattutto che passano e s’avvicendano, in special modo tra le ultime generazioni, sino alle soglie del Covid, quelle che l’attraversano con visi e gesti tutti diversi, con amarezze e attimi felici, con aspirazioni e con sogni ormai buttati in fonda a un cassetto, dentro la grande Depressione e gli anni Quaranta dove un aspirante aviatore può dare vita al suo sogno (vedrà lo spettatore con quali esiti) e una coppia bohémien e desiderosa di successo può inventare una comodissima poltrona girevole e ribaltabile o più vicino a noi, dove un padre afroamericano catechizza con grande consapevolezza il figlio alla perfetta obbedienza al poliziotto se fermato ad un controllo di documenti e patente.

Questo e altro ancora passa dinanzi all’obiettivo ristretto di “Here” che Robert Zemeckis ha tratto dalla omonima graphic novel di Richard McGuire del 2014, riunendo ancora una volta attorno a sé – dopo il successo planetario di “Forrest Gump” trent’anni fa – l’amorevole cura dello sceneggiatore Eric Roth, delle musiche di Alan Silvestri, della coppia Tom Hanks e Robin Wright. Sono questi ultimi a vivere la storia del signore e della signora Young e della storia che vivono il regista ci fa sapere qualcosa di più, la passione della gioventù e l’amore sul divano sotto lo sguardo divertito del fratello di lui, il matrimonio celebrato proprio in quello stesso salotto e la nascita di una bambina, il lavoro di lui e i festeggiamenti per i cinquant’anni di lei: lei che passerà quasi l’intera esistenza recalcitrante tra quelle mura, a mugugnare, a sognare un luogo diverso, fatto di emancipazione e di completa padronanza. Ricordate la mamma di Forrest? la vita è come una bella scatola di cioccolatini e non sai mai quello che ti capita.

Libertà da quell’altra coppia Young, con le loro manie e loro premure invadenti, i genitori di lui (Paul Bettany, il più convincente di tutti, e Kelly Reilly), Al e Rose, che incrociano una guerra e un Vietnam per il quale l’altro figlio non vede l’ora di partire. Accadimenti e piccole e grandi imprese che sono una manna per un regista come Zemekis che da sempre è stato bravo a intessere nel suo Cinema quelle nuove tecniche che possono fare miracoli. Non soltanto il suo attore feticcio stringeva mani e riceveva onorificenze da presidenti degli Stati Uniti che avevano terminato la loro permanenza alla Casa Bianca oppure languiva nell’isola di “Cast Away” o entusiasmava grazie alla “permormance” o “motion capture” di “Beowulf” e di “Polar Express”: altresì – e siamo già giunti qui al tempo della autocitazione – la terna di “Ritorno al futuro”, Jessica Rabbit o il pilota di “Flight” mostravano un regista che precorreva e di parecchio i tempi. Tutti i processi tecnologici riempiono le facce di Hanks e di Wright, le rendono vive in ogni momento, li guardiamo giovanissimi e li ritroviamo con i tratti invecchiati, dentro una stanza e uno schermo che il regista spezzetta in innumerevoli quanto diversissimi – per posizioni e grandezze – riquadri, in quelle tante occasioni che potrebbero far diventare “Here” il film scoperta dell’anno. Dicevo di miracoli, se la tecnica non arrivasse ad affievolire la Storia, sovrapponendosi ad essa, imbrogliandola, anche impoverendola.

Dicevo potrebbero. È chiaro che il saggezza dell’espediente, la tecnica perfettissima, la ricerca del particolare, l’immagine spezzettata, la frammentazione del Tempo che è il grande protagonista del film, in tutta la sua costruzione e nella sua de-costruzione, possono avvincere, interessare, essere guardati con grande curiosità: ma le tante sottotrame non hanno mai sviluppo – e capiamo benissimo che a Zemeckis non interessa che le abbiano: ma a noi quegli sviluppi mancano -, anche la coppia principale si alimenta di flash, di piccole se non deboli, stringate emozioni, fatte nel momento in cui essi vivono e non oltre, di fatti che potrebbero raddoppiarsi o scomparire e il risultato non cambierebbe. Non è per risollevarci il morale: ma in “Here” resta bella davvero quell’aria di malinconia che circola, quella poesia che già ha commosso altrove e che qui siamo obbligati a ricercarla e a stringercela ben stretta. Pur se claudicante, se “imperfetto” nella sua costruzione, “Here” merita di essere visto, forse soltanto per riuscire a intravedere quel che sarà il Cinema negli anni che verranno (o forse ci stiamo già dentro): merita per quel finale d’emozioni, per quell’attimo che vola alto, con la macchina da presa che finalmente girando su se stessa inquadra ciò che sinora è stato alle sue spalle, permettendosi di uscire da quell’unico spazio, con il piccolo colibrì, che abbiamo visto qua e là nei 100 e poco più minuti, arrestarsi per spiccare di lì a un attimo un volo più deciso. Come faceva la piuma bianca sotto gli occhi buoni di Forrest.

Le origini piemontesi di Giuseppe Verdi

 

I discendenti dei Walser provenienti dai villaggi del Monte Rosa emigrati in Valstrona dalla Val d’Ossola e Valle Anzasca generarono antiche importanti famiglie. I Gianoli di Chesio, fondatori della società mineraria per l’estrazione del ferro sull’Alpe Loccia con un ramo della famiglia Cane del condottiero Facino, emigrato da Casale alla Piana di Fornero per sfuggire alla prepotenza dei marchesi del Monferrato; i conti Gozzano di Luzzogno, proprietari del patrimonio più grande di sempre del Monferrato, marchesi di San Giorgio, Treville e nobili dell’impero austroungarico; i Guglielminetti di Sambughetto, antenati della scrittrice Amalia definita l’unica poetessa italiana da Gabriele D’Annunzio, amante del poeta Guido Gozzano di Agliè la cui famiglia era proveniente da Luzzogno; gli Uttini di Chesio, Otino o Utino del ramo materno di Giuseppe Verdi, giunti nel Ducato di Milano nel 1200 con il cognome Hutten.

È doveroso ricordare l’americana Mary Jane Phillips-Matz (1926-2013), per oltre 30 anni instancabile ricercatrice sulla genealogia del grande compositore, amica di Ezra Pound protagonista e forza trainante del modernismo poetico di inizio ‘900 con Thomas Eliot. La biografia su Giuseppe Verdi di Mary Jane fu pubblicata nel 1992 dalla Banca di Piacenza, nel 1993 dalla Oxford University Press e nel 1996 dalla casa editrice Fayard di Parigi. Già su un’edizione di Famiglia Cristiana del 1990 fu citata da Maria Grazia Gibelli con un inserto sulla famiglia verdiana, a conclusione delle ricerche negli archivi parrocchiali e alla  certezza storica ottenuta grazie alla collaborazione dei discendenti di Maria Filomena Carrara-Verdi adottata nel 1869, cugina del maestro e figlia del suo notaio personale.
Luigia Uttini filatrice, mamma di Giuseppe Verdi e prima moglie dell’oste rivenditore di sale Carlo Verdi, era figlia di Carlo Uttini e di Angela Villa, abitanti a Saliceto di Cadore nell’ufficio del negozio di alimentari della vecchia Posta, nonni di Giuseppe Verdi trasferiti a Busseto nel 1800. Mary Jane scoprì gli antenati del compositore, i bisnonni Lorenzo Uttini nato il 13-8-1708 nella parrocchia di Crusinallo di Omegna e la moglie Maria Bracco. Madrina del battesimo di Lorenzo fu la zia Maria Francesca Avanzini, sposata nel 1708 nella chiesa di San Vitale del comune piacentino di Besenzone con Francesco, fratello di Giacomo Antonio Uttini trisnonno materno di Giuseppe Verdi. Era originario di Cranna di Sopra, frazione di Crusinallo, piccola comunità montana nella Diocesi di Novara dove nel 1670 fu eretto il santuario di San Fermo martire.

Le antiche tradizioni musicali degli Uttini ci riportano a Francesco Antonio Baldassarre, violinista e compositore marito di Rosa Scarlatti sposata nel 1753, cantante lirica  conosciuta a Firenze presso la Compagnia Teatrale Mingotti e nipote del compositore barocco napoletano Alessandro Scarlatti. Il violinista Uttini, membro dell’Accademia Filarmonica di Bergamo e Bologna, debuttò a Genova esibendosi davanti a Mozart e fu direttore dell’Orchestra Reale di Corte svedese. Alla morte della moglie Rosa sposò a Stoccolma nel 1788 la soprano svedese Sofia Liljegren, conosciuta come Sofia Uttini e il figlio Carlo fu attore e ballerino del Corpo Reale svedese. Ricordiamo l’esibizione della soprano Elisabetta Uttini nella basilica di San Marco a Venezia nel 1721 e don Carlo Uttini, sacerdote e grande pedagogista italiano, cugino del compositore di Busseto. Mary Jane scoprì una figlia illegittima di Verdi, abbandonata nell’orfanotrofio di Cremona avuta da Giuseppina Strepponi nel 1851, in quel momento amante ed in seguito sua seconda moglie. L’ardente patriota è considerato tuttora uno dei maggiori  compositori di tutti i tempi e la sua musica assimilata nella coscienza nazionale rappresenta un’epoca memorabile.
Armano Luigi Gozzano 

“Il cammino della speranza: poesia come cura per l’anima”

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TORINO TRA LE RIGHE

Per la rubrica Torino tra le righe, oggi voglio parlarvi di un libro molto toccante: “Il cammino della speranza”, scritto da un’autrice torinese che si firma con lo pseudonimo Good Vibes. Si tratta di una raccolta poetica profondamente commovente che esplora le cinque fasi del lutto attraverso la forza evocativa della poesia. Ogni poesia rappresenta un viaggio intimo e universale attraverso le fasi del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. La raccolta è stata concepita per aiutare il lettore a riconoscere e accogliere le proprie emozioni, offrendo al contempo un percorso verso la speranza e la rinascita.
Il libro si apre con un prologo in cui l’autrice spiega come scrivere queste poesie sia stato per lei un atto di sopravvivenza, un modo per dare forma al dolore che l’ha travolta quando ha perso entrambi i genitori. Questo processo di elaborazione personale si riflette nelle sue parole, che guidano il lettore attraverso le emozioni più profonde e dolorose, dall’incredulità iniziale alla rabbia, dalla negoziazione alla tristezza, fino alla scoperta di una nuova luce nell’accettazione. “Il cammino della speranza” diventa così uno specchio per chiunque abbia affrontato una perdita, un invito a sentirsi meno soli e a trovare conforto nella poesia.
Good Vibes, nata a Torino nel 1980, ha seguito studi classici e si è laureata in lettere moderne. La prematura perdita dei genitori l’ha costretta a mettere da parte il sogno di insegnare, spingendola verso una carriera nel mondo aziendale. Tuttavia, il bisogno di esprimere e comprendere il proprio dolore l’ha portata a scrivere. Con il tempo, ha trasformato questa attività in una missione: aiutare gli altri a superare il lutto attraverso le sue opere.
“Il cammino della speranza” non è l’unico libro in cui Good Vibes affronta il tema della perdita. “Il libro del vento”, ad esempio, trae ispirazione dalla toccante storia del “telefono del vento”, un monumento situato a Otsuchi, in Giappone, dove le persone possono metaforicamente “parlare” con i propri cari scomparsi. Un altro titolo significativo è “Nel tuo abbraccio: lettere dal cuore”, una raccolta di lettere intime in cui l’autrice tiene vivo il ricordo delle persone amate, offrendo al lettore una prospettiva sincera e confortante sul modo di affrontare il dolore.
Lo pseudonimo Good Vibes riflette il desiderio di trasmettere un messaggio di positività e di speranza, anche nei momenti più bui. La bellezza di queste raccolte risiede nel loro valore terapeutico: attraverso i versi, il lettore viene accompagnato in un percorso di riflessione, comprensione e guarigione. Alla fine del viaggio, la poesia illumina una strada verso una nuova serenità, ricordandoci che, anche nei momenti più difficili, la speranza può essere una guida preziosa.
Consiglio vivamente la lettura di “Il cammino della speranza” e delle altre opere di Good Vibes a chiunque senta il bisogno di ritrovare un senso nel dolore e di scoprire una luce nel buio. Questi libri rappresentano non solo un’esplorazione poetica del lutto, ma anche un abbraccio virtuale per chiunque stia affrontando una perdita.
Marzia Estini
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Un Pigmalione atroce dei nostri decenni

La forma delle cose” al Gobetti sino a domenica 19 gennaio

Come un piccolo granello di sabbia che viene a frapporsi tra gli ingranaggi della vita è questa Evelyn Thompson, un accadimento dirompente nelle esistenze altrui: che scalza, che scoordina, che sconvolge. La ragazza viene sorpresa da Adam, un ragazzo che per arrotondare le entrate utili a proseguire gli studi universitari s’è trovato un’occupazione in qualità di sorvegliante in una delle sale di un ricco museo della California d’inizio millennio, mentre supera un cordone di divisione con la sua bella bomboletta spray in mano. Un atto di piccola smania rivoluzionaria a infrangere le convenzioni sociali ma anche a superare quella al momento – o sempre – insormontabile frontiera che esiste tra vita reale e area artistica, tra quelle norme credute imposizioni e una pretesa libertà d’espressione. E poi, un vistoso pene da colorare sulla statua che le sta di fronte: ovvero, abbasso la censura. Neil LaBute, ormai sessantenne, discusso quanto talentuoso drammaturgo americano ma anche sceneggiatore e regista abituato a portare sullo schermo con riconosciuti successi opere dapprima pensate per il palcoscenico (“Nella società degli uomini” è stato il primo esempio una trentina d’anni fa), accompagna nella “Forma delle cose”, scritto nel 2001, il suo deflagrante personaggio – una donna, a esprimere l’incisività di una parte del genere umano – ad affrontare nelle scene successive il cambiamento del povero Adam, il cesellamento dello spirito e del corpo. Venti e più anni prima che i social di oggi spingessero nel quotidiano e nell’immediato al mutamento anche funesto di certe esistenze.

Perché Adam, nella mente di Evelyn, Pigmalione atroce dei nostri decenni, va cambiato. Sapremo alla fine perché. Rivoltato come un calzino da un deus ex machina contemporaneo, guardato nella sua forza e nella sua fragilità, nell’aspetto fisico e nei comportamenti, nelle azioni di tutti i giorni, nei contatti sociali sino a quel momento sicuri. Il taglio di capelli, il modo di vestire, i chili che sono di troppo, anche quel viso all’improvviso inaccettabile dove dovrà essere fatto un intervento di rinoplastica, tutto è là da modificare, come un artista farebbe con l’opera che le sta tra le mani. Un blocco di marmo in cui già individuare una nuova sembianza. Vedendoci già con un piccolo quanto simbolico scalpello in mano un accattivante “restyling metodico”. Anche gli amici che circondano Adam, il loro mondo di abitudini e sicurezze, dovrà essere affrontato e mutato, si dovrà lavorare all’interno (come faceva decenni fa il visitatore del “Teorema” pasoliniano dentro la famiglia del grande industriale), creare delle fessure e degli squarci difficilmente risanabili. Tutti a convivere e a sbranarsi in quella scatola di specchi realissimi e deformanti al tempo stesso, che osservano e dentro cui è facile controllare, a riflettere immagini di noi insicure, bugiarde, ingannevoli. È lento il cammino che LaBute percorre in questa sua parabola dell’oggi, è più che convincente la costruzione che avviene attraverso i dialoghi, fatti di stringatezza e di finte dolcezze e di ferocia – mentre si cerca di mantenere le apparenze con educati brindisi, quasi si fosse dalle parti di quelli verdiani. Nella scrittura s’abbandonano poco a poco i riferimenti artistici, l’autore li lascia più sul fondo, per far esplodere quelli comportamentali (“trasferire le proprie idee o sentimenti nelle menti altrui: questo è potere”, è stato scritto), per studiare appieno i caratteri, i gesti e le ribellioni e i soprusi di quanti occupano la scena: e la sua è una scrittura che lascia davvero il segno.

La forma delle cose” è sino a domenica 19 gennaio sul palcoscenico del Gobetti per la stagione dello Stabile torinese, affidata nella sua realizzazione (e con la traduzione di Masolino D’Amico) alla giovane Marta Cortellazzo Wiel, attrice cresciuta nel vivaio della Scuola dello Stabile e già trasmigrata in altre preziose produzioni (l’abbiamo vista e apprezzata di recente nella “Locandiera” di Latella): che oggi torna a casa e vince questa sua scommessa di regista. Strapazza come più non potrebbe i dialoghi di LaBute, ne mantiene la frammentazione, li insegue e immediatamente li rimanda attraverso le voci dei suoi attori, metallici e fendenti, sanguinosi su quel ring, lavora con giusti sguardi sullo sfaldamento di Adam, di Jenny (Celeste Gugliandolo) e di Philip (Christian Di Filippo), mantiene ogni momento con mano ben ferma, senza compiacimenti, senza sbavature, senza fastidiose ripetizioni. Insomma, ha ben visto chi ha deciso di credere in lei. Come lei allieva della stessa Scuola di recitazione, Beatrice Vecchione è Evelyn, perfetta nel dare nuova forma alle proprie vittime, ancor più di lei convincente l’Adam di Marcello Spinetta, sicurezza e annientamento, su quel cammino di distruzione in cui lo pone lo sfrontato disegno altrui.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma.

Arsenio Lupin … eccolo di nuovo!

Doppia replica, al torinese “Spazio Kairòs”, per lo spettacolo firmato “Onda Larsen” e dedicato al celebre “ladro gentiluomo” creato da Leblanc

Venerdì e sabato 17 e 18 gennaio.

Nuova data, domenica 19 gennaio, anche per “Tekken Drama”

Per i tanti aficionados (il gruppo è davvero folto!) del leggendario Arsenio Lupin (Arsèn Lupin), creatura letteraria ideata da Maurice Leblanc nel 1905, la notizia penso sia davvero ghiotta. Udite udite, oh irriducibili “Lupiniani”! Il vostro mitico “ladro gentiluomo” che ruba per sé ma anche per i più bisognosi e sempre e solo ai più facoltosi, protagonista di numerosi romanzi dai quali, negli anni, sono state tratte numerose trasposizioni cinematografiche e televisive, nonché magico ispiratore del famoso manga ed anime “Lupin III” creato dal fumettista giapponese Monkey Punch, è tornato! E non solo. Con lui, e, perennemente, al suo fianco, potrete nuovamente imbattervi nelle innumerevoli peripezie del suo migliore amico e tiratore scelto (dai folti capelli neri e l’indisciplinata barba che va dal basso verso l’alto), il taciturno bevitore e accanito fumatore Jigen (Daisuke Jigen), insieme al collega Goemon Ishikawa XIII e alla superseducente e, anch’essa, abile “artista della truffa”, Fujiko Mine o Margot. Che bellezza! Di nuovo insieme il “magnifico poker”, che ha sempre a che vedersela, almeno nelle pagine di Leblanc, con l’ispettore Justin Ganimard della polizia francese e con il detective inglese Herloch Sholmes, personaggio ovviamente ispirato allo “Sherlock Holmes” di Sir Arthur Conan Doyle. Di nuovo insieme. A vostra completa disposizione. Sì, ma questa volta non in un racconto di Leblanc, o in un fumetto di “Mangaka”, o in un  film o un cartone animato: tutto accade a teatro in “Io, me e Lupin” prodotto dalla torinese Compagnia Teatrale “Onda Larsen” e in scena venerdì 17 e sabato 18 gennaio prossimi, alle 21, allo “Spazio Kairòs” di via Mottalciata 7, a Torino, per la stagione “Interferenze”.

Doppia replica, lo  spettacolo, scritto e diretto da Lia Tomatis, con in scena Riccardo De LeoLuciano FaiaGianluca Guastella e la stessa Tomatis si rivolge soprattutto a un pubblico giovane, ma non solo. E lo fa attraverso una “storia contemporanea”, che racconta, come spesso oggi accade, di “ragazzi qualificati” e “super formati” alla ricerca di lavoro e dignitose opportunità:  quando però si trovano con muri invalicabili davanti e porte sbattute in faccia e a loro paiono non restare altre via d’uscita, può anche nascere l’idea “non bella” di mettere su una banda, senza tralasciare una certa classe e una certa “esigenza artistica” per farlo. Pertanto, perché non ispirarsi a uno dei propri “eroi d’infanzia”: lui, Lupin? “La cosa – dicono gli interpreti – sembra funzionare bene, anzi forse fin troppo bene, fino a sfuggire loro di mano: e così il gioco alla sopravvivenza di quattro sprovveduti diventa una moda così diffusa tanto da costruire una sorta di realtà alternativa. Come uscirne? Ma soprattutto: occorre uscirne? Si aprono, dunque, una serie di interrogativi che riguardano tutti, banda e pubblico: quanto siamo condizionati nelle nostre azioni, ciò che ci piace, ci piace davvero o ce lo facciamo piacere? E le nostre identità, noi stessi, siamo ciò che siamo oppure diventiamo ciò che è necessario? E cosa altro potremmo essere? E quanta consapevolezza c’è, e quanta ne serve per riconoscere i condizionamenti che subiamo?”. Queste, e altre, le domande che sottendono questa nuova commedia di “Onda Larsen” che, come al solito, fa ridere “affondando però un po’ il coltello nella carne viva della nostra società, svelandone le falle e le contraddizioni”. Senza troppo infierire. Con le dovute maniere.

Come accade per la seconda pièce, anch’essa in replica, dopo il sold out dell’anteprima nazionale in dicembre. Titolo: “Tekkendrama – Come farsi amici i mostri”, di e con Francesca Becchetti (attrice e formatrice della Compagnia “Anomalia Teatro”) per la regia di Alice Conti. Inserito in “Interferenze”, la stagione di “Onda Larsen”, lo spettacolo è in programma, sempre allo “Spazio Kairòs” di via Mottalciata, domenica 19 gennaioalle 18,30. La storia racconta di Eveline, una giovane di trent’anni impegnata a portare il pubblico nei meandri della sua psiche, partendo da un pretesto banale: la fine di una relazione amorosa. “Tekken”, perché è una “lotta fatta di pugni e pugnalate”“Drama” perché “luogo di tragedia e satira”.Il lavoro comincia dalla collaborazione con “Educadora Onlus”, realtà educativa nella zona Nord di Torino, che lavora con pre-adolescenti e adolescenti del territorio, dove la maggior parte di abitanti é di origine straniera e migrante.

L’autrice ha ideato e condotto per tre anni il Laboratorio “Sistar!” per “sole ragazze adolescenti” sul tema della sessualità e l’affettività. Questa indagine laboratoriale insieme ad altre pone il seme alla drammaturgia che inizierà a prendere forma durante il “Festival Montagne Racconta” condotto dal drammaturgo e sceneggiatore aretino Francesco Niccolini.

Il lavoro inizia la sua indagine registica insieme alla collaborazione con l’attrice, autrice e regista Alice Conti del  Collettivo Nomade “Ortika”.

Per info: “Spazio Kairòs”, via Mottalciata 7, Torino; tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

Gianni Milani

Nelle foto: Immagini da “Io, me e Lupin” e da “Tekken Drama”

‘Antico Testamento’ per la regia di Gabriele Vacis debutta alle Fonderie Teatrali Limone

Debutto in prima nazionale della Trilogia dei Libri Antico Testamento per la regia di Gabriele Vacis alle Fonderie Teatrali Limone

 

Martedì 14 gennaio debutta in prima nazionale alle Fonderie Teatrali Limone, ‘Antico Testamento’ per la regia di Gabriele Vacis, il primo spettacolo che compone il progetto pluriennale ‘La trilogia dei libri’, nuova produzione del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale in collaborazione con PoEM impresa sociale.

Dopo la ‘Trilogia della guerra’, in cui Vacis e PoEM avevano indagato tre grandi classici del teatro greco, il nuovo progetto de ‘La Trilogia dei Libri’ è dedicato ai testi sacri delle religioni monoteiste e si concentrerà, nei prossimi due anni, su Nuovo Testamento e Corano.

Lo spettacolo resterà in scena per la stagione in abbonamento fino a domenica 26 gennaio 2025.

Nel III secolo a. C. , sotto il regno di Tolomeo II, una commissione di settantadue sapienti ebrei fu incaricata di tradurre in greco il Pentateuco, ovvero i primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Le narrazioni contenute in questi libri sacri costituirono un vero e proprio spartiacque, relegando il mito che, fino a quel momento, era stato il principale strumento per spiegare le origini e l’ordine del mondo, a una sfera di fantasia. Il linguaggio dell’Antico Testamento, intriso di simbolismi e significati profondi, pone una sfida che sappia cogliere non soltanto il messaggio religioso, ma anche il contesto culturale e storico in cui tali testi furono scritti.

Gabriele Vacis e gli artisti di PoEM si sono confrontati con queste domande, tentando di restituire la poesia e la profondità di questi testi millenari attraverso un linguaggio che parla all’uomo di oggi, ricucendo il legame tra passato e presente e donando nuova vita alle parole che, pur distanti nei secoli, continuano a risuonare con forza nelle coscienze.

“La Trilogia della guerra, Prometeo, Sette a Tebe e Antigone e i suoi fratelli – annota Gabriele Vacis- ha avvicinato PoEM ai testi antichi, alle nostre radici greche. ‘Siamo tutti greci’ affermava Borges. E anche l’Antico Testamento come lo conosciamo noi proviene da quel mondo. Ad Alessandria d’Egitto, nel III secolo a.C., una settantina di sapienti traducono in greco i primi cinque libri della Bibbia. Sta finendo l’epoca dei tragici, ma l’humus culturale è quello, un ambiente di scambi profondi tra Grecia, Egitto e tutto il Medio Oriente. Un momento che innegabilmente ha fondato il nostro modo di stare al mondo, ha modellato il prima e governato il dopo e che spesso, senza che ci rendiamo conto della ragione, fonda le relazioni che abbiamo, le leggi che rispettiamo. Nella Trilogia della guerra siamo andati a cercare le ragioni di scelte, giudizi, diritti e leggi che continuano a gettarci nei conflitti. Ho provato a capire come queste parole ci parlino ancora e che cosa abbiano da dire a dei giovani di questo millennio.

A questo punto è stato naturale continuare il lavoro sull’altro grande serbatoio delle antiche scritture, i libri sacri.

Così abbiamo pensato a una nuova trilogia che porterà in scena l’Antico Testamento nel 2025, il Nuovo Testamento nel 2026 e il Corano nel 2027. Quindi abbiamo cominciato a leggere l’Antico Testamento. Per alcuni dei ragazzi di PoEM era la prima volta ma non è stato difficile appassionarsi alle storie della creazione e dei patriarchi. Quello che si è capito subito è che i primi cinque libri della creazione raccontano, più o meno eguali alla Torah, la creazione come separazione. Dio è quello che separa il cielo dalla terra, le acque dall’asciutto, il buio dalla luce.

Poi racconta una migrazione, come se l’esodo fosse un elemento costitutivo di un’altra. Terzo grande tema è la costruzione di un popolo, di una grande famiglia. Cosa ci dicono i libri sacri sui grandi temi? Come usciamo dalle secche delle banalizzazione e delle strumentalizzazioni che delle parole, quelle antiche come quelle attuali, fanno le tecnologie di comunicazione?

Dalla lettura del Pentateuco estraggo domande che pongo agli attori. Le domande richiedono come risposte delle storie piuttosto che opinioni. Non chiedo se sia giusto che creare significhi separare, ma “Quando hai vissuto una separazione?” Che cosa è nato da quella separazione?”

Non chiedo se sia giusto accogliere i migranti? Ma quando hai affrontato una migrazione? Rispondendo a domande come queste gli attori raccontano vicende personali, che vengono poi riprese e intrecciate e generano una drammaturgia che ha anche a che fare con noi, con me, nato quando è nata la televisione e iniziato all’uso del computer trenta anni fa, mentre la dozzina di ragazzi sono nati solo qualche anno prima di Facebook.

Questo è un modo per liberarsi dai pregiudizi e dai conformismi che ci spingono a fare uso del nome di Dio per il falso”.

Fonderie Teatrali Limone dal 14 al 26 gennaio 2025 prima nazionale La Triologia dei Libri Antico Testamento

Mara Martellotta

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Sigrid Nunez “Attraverso la vita” -Garzanti- euro 18,00

Questo romanzo profondo che parla di eutanasia ha ispirato il film di Pedro Almodovar “Nella stanza accanto” -vincitore del Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia- interpretato magistralmente dalle strepitose Tilda Swinton e Jiulianne Moore.

Il libro della scrittrice americana –già vincitrice del National Book Award- è stato pubblicato nel 2020; è un mosaico di incontri tra personaggi e mondi diversi, fitto di dialoghi che riflettono sulla natura dei rapporti umani. Emerge soprattutto il difficilissimo confronto con il dolore, la malattia, la prospettiva della morte subito dietro l’angolo.

Voce narrante è quella di Ingrid, scrittrice che ha appena pubblicato il suo ultimo libro, intenta al tour del firma copie. Viene così a sapere che la reporter di guerra Martha, amica negli anni Ottanta e di cui aveva perso le tracce, è ricoverata per un cancro che la sta uccidendo. Non si vedono da una vita, ma quando va a trovarla in ospedale il tempo si azzera e tutto torna come prima.

Ingrid ha un sacro terrore della morte ed è con sorpresa e sgomento che si trova a dover rispondere all’inusuale richiesta di Martha, ormai giunta allo stadio terminale. Cosciente di non avere più alcuna speranza vuole decidere lei come e quando morire. Una fine dignitosa e asciutta, senza strazio e dolore insopportabile, decisa a rivendicare il libero arbitrio nel momento più difficile, quando la morte sta per arrivare.

Mette a punto una precisa regia del suo fine vita e chiede all’amica di accompagnarla nell’ ultimo tratto di strada. Organizza una bella morte, in una casa nel bosco a Woodstock dove, quando sarà il momento, prenderà una pillola acquistata sul dark web, grazie alla quale andarsene decorosamente.

L’amica deve solo starle accanto, almeno fino a quando non vedrà che la porta della camera di Martha è chiusa; a quel punto saprà che è terminata anche la sua esistenza terrena.

Un libro e un film che viaggiano leggeri ma trattano un tema portante. Le vite delle due amiche scorrono tra aneddoti divertenti, riflessioni serissime, difficoltà nelle relazioni familiari. Emerge il pessimo rapporto della donna morente con la figlia che le serba un sordo rancore perché -secondo lei- la madre l’avrebbe trascurata privilegiando la carriera.

 

 

Tracy Chevalier “La maestra del vetro” -Neri Pozza- euro 20,00

Tracy Chevalier (nata in America 61 anni fa, naturalizzata inglese nel 1984) è la scrittrice che 25 anni fa raggiunse il successo planetario con “La ragazza con l’orecchino di perla”. Ora torna con un altro romanzo storico, in cui ricompaiono anche le perle che qui, però, sono di vetro. L’arco temporale si snoda attraverso i secoli; dalla Venezia rinascimentale a quella odierna, meta turistica gettonatissima.

La struttura del romanzo è particolare. E’ la storia di Orsola e della sua famiglia di vetrai. Inizia a Murano nel 1486, ambientata sull’Isola del Vetro che vive una sua dimensione, rallentata e laboriosa, in una sorta di bolla sganciata dai ritmi del tempo e del mondo che avanzano.

I personaggi sono ogni volta gli stessi e si muovono in tempi nuovi. Una magia che la Chevalier ha compiuto durante 4 laboriosi anni di ricerche e scrittura, compiendo una ricostruzione storica impeccabile.

Orsola Rosso, ambiziosa e caparbia, appartiene ad una famosa famiglia di vetrai, il cui laboratorio è tra i più affermati, organizzato sulla base di una rigida gerarchia. All’epoca alle donne non è permesso soffiare il vetro insieme agli uomini; tutt’al più potevano creare perline come passatempo.

Quando il padre muore e la famiglia si trova in serie difficoltà, Orsola decide di realizzare perle colorate e sfidare così le rigide convenzioni dell’epoca. Il suo colore prediletto è quello della laguna verde scuro miscelato con i riflessi azzurri del cielo; ma le sue perle avranno ogni forma e colore possibili. Lei è davvero brava e la vocazione è nel suo Dna.

Le sue opere viaggeranno a tutte le latitudini, dal suo atelier usciranno infinite meraviglie dalle fogge più disparate: specchi ornati di fiori, calici, figure di donne e tantissimo altro. Il romanzo racconta una bellissima storia di emancipazione femminile in una professione tradizionalmente maschile; ci vorranno 500 anni perché le donne vetraie riescano a farne parte a pieno titolo.

 

 

Lorenzo Bonini Paolo Valsecchi “ Una casa di ferro e di vento” -NORD- euro 19,00

E’ una saga familiare scritta a quattro mani e racconta ascesa, vicende e declino dell’importante famiglia Badoni, il cui palcoscenico è l’imponente villa, simbolo dei cambiamenti nel corso del 900. La dimora è il punto fisso e riferimento intorno al quale si muove questo potente romanzo in parte storico.

La famiglia che la abita rappresenta il microcosmo della società italiana nel secolo scorso. Al centro c’è l’imprenditore visionario che, tramite il ferro prodotto nei suoi stabilimenti di Lecco, è uno dei grandi protagonisti dell’industrializzazione italiana e della ricostruzione del paese nella seconda metà del 900.

E’ Giuseppe Riccardo Badoni, patriarca dal polso fermo negli affari di famiglia; ma è anche il padre schiantato dalla tragedia della morte dell’unico figlio maschio, designato erede dell’azienda. Gli restano ben 11 figlie, ognuna con un suo destino particolare; delle quali il romanzo narra a fondo i caratteri, le scelte, gli amori, le delusioni e le diverse traiettorie di vita.

Dalla ribelle Laura alla poetessa Piera che nelle parole trova rifugio dalle intemperie della vita; da Adriana devota all’impresa di famiglia a Sofia che con coraggio riesce ad affrontare il dolore…..e sullo sfondo c’è sempre la dimora avita.

 

 

Carola Barbero “Nuotare via” -Il Mulino-

euro 12,00

L’ autrice è filosofa del linguaggio all’Università di Torino, e in questo smilzo libro riflette sul nuoto che, come ogni altro sport, è molto più che semplice movimento. Di fatto queste scorrevolissime 128 pagine sono l’apologia dello sport acquatico.

Un pamphlet estremamente arguto che porta a galla la bellezza dell’immergersi nell’acqua, avanzare fluttuando senza peso in un mix dii movimenti dei muscoli, ritmo, respirazione e tecnica che sono autentica igiene mentale.

Nuotare con assiduità e rigore diventa piacevole momento di introspezione che, bracciata dopo bracciata, ha il potere straordinario di immergerci dentro noi stessi per arrivare al più profondo sé. Il piacere indescrivibile di essere accarezzati dall’acqua che scorre sulla pelle, la fatica gratificante del corpo che avanza e fende l’elemento liquido, i pensieri che accompagnano ogni pinnata.

Il testo è l’elogio di questo splendido sport solitario che viene scandagliato anche con riferimenti all’arte, letteratura, cinema…vita.

Le vostre foto. Un viaggio tra gli sfarzi di Palazzo Reale

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Dallo scalone monumentale che accoglie i visitatori con imponenza, si accede agli ambienti sontuosi, come la sala da pranzo, perfetta testimonianza della magnificenza regale.


L’Armeria Reale è una delle collezioni di armi e armature più ricche e antiche al mondo.

La Cappella della Sindone, capolavoro del Guarini, affascina per la sua straordinaria architettura barocca.


Un percorso che intreccia arte, storia e bellezza.

(Le foto sono della nostra lettrice Alessandra Macario)