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CULTURA E SPETTACOLI - Page 3

Senza far nomi, la Spoon River di Giulio Martinoli

Sabato 1 aprile , alle ore 17, la Biblioteca Civica di Omegna Gianni Rodari ospiterà la presentazione del libro “Senza far nomi (Storie di famiglia)”  di Giulio Martinoli.

L’evento, a cura dell’associazione I Lamberti, è patrocinato dalla città di Omegna. Dopo l’introduzione vi saranno le letture dell’attore Giuseppe Maranta e un commento dello psicoterapeuta Mauro Bozzola. Dal 1885 ai nostri giorni, attraverso i ricordi e dove i ricordi non arrivano, con l’aiuto dell’immaginazione, Giulio Martinoli prova a stabilire i nessi tra le vite dei famigliari che lo hanno preceduto, a Jersey, i laghi d’Orta, di Como, di Lugano, Omegna, attraverso una ridda di costumi, lingue e dialetti. Un album di fotografie di famiglia e molto più di questo perché quell’album restituisce, oltre alla memoria, anche le atmosfere e quasi gli odori di un tempo passato. Attraverso una narrazione piacevolissima, l’autore porta per mano il lettore alla ricerca di qualcosa che si cela proprio nelle pieghe di tante biografie intrecciate, divise, coerenti con l’andamento di una storia collettiva. Senza far nomi è un romanzo, un libro sulla memoria, una biografia di persone che non sono più. Carlo Carena, grande traduttore e critico letterario, ha definito il libro “un raro esempio e insegnamento di pietas filiale, che delinea una storia secolare tramandata o documentata, e la ricrea sorreggendola e integrandola con una brillante immaginazione”. Aggiungendo di riconoscere tra le pagine “l’autenticità dei personaggi, delle vicende, dei paesaggi e degli ambienti; famiglie numerose, donne e uomini che penarono e sacrificarono la loro esistenza per i familiari  o furono protagonisti di grandi avventure, artigiani e operai nel loro piccolo lago o migranti nel grande Nord, coinvolti in brutte guerre o seduti attorno a una buona tavola allestita dalla massaia”. Lo sguardo dell’autore sembra indugiare su vecchie foto in bianco e nero o virate color seppia che svelano vicende ormai lontane, racchiuse in un tempo dilatato che parte dall’infelice inizio del 1885 quando morì il bisnonno in Valle Strona, a Sambughetto, fino al doloroso racconto della scomparsa dei genitori. Come un cronista d’antan, Giulio Martinoli intinge la penna nell’inchiostro del calamaio, descrive e ricostruisce facendo leva sull’immaginazione, vecchie carte e documenti, testimonianze riportate o dirette, il complesso filo invisibile delle relazioni di una vicenda corale e originale, per lunghi tratti comune a molte altre così da contribuire per propria parte a quella storia con la esse maiuscola che è poi la somma delle vicende di collettività e generazioni, paesi e nazioni. Anche i luoghi e i viaggi contano, e contano molto. Legami di famiglia che si intrecciano sulle sponde del Cusio, Lario e Ceresio, tra le vie di Omegna e i sentieri della valle dei gratagamul, sapienti artigiani del legno; durante gli anni passati sulla più grande delle isole del Canale della Manica ( Jersey, a una ventina di km dalla costa della Normandia, dove nel 1942 è nato l’autore); i viaggi marini e transoceanici del padre maître che si ribellò giovanissimo al destino di diventare operaio per forza; le vecchie e sbuffanti locomotive su rotaie in parte oggi in disuso e i battelli che procedevano a zig zag tra i vari scali lacustri mentre gli ingranaggi “facevano mulinare le grandi ruote laterali a pale dipinte di rosso”. Nelle storie i luoghi, i viaggi, gli incontri sembrano avvolti da un alone d’avventura che rimanda ai racconti di Salgari, Conrad o Melville anche se non è davvero necessario scomodare troppo l’immaginazione o fare ricorso ai sotterfugi dell’abbellimento ai sotterfugi della potenza creativa considerando che si tratta pur sempre della semplice verità. I tempi difficili, le scelte che potevano imprimere svolte improvvise nella vita e segnare i destini dei singoli e di interi rami della grande famiglia allargata (la principale protagonista della storia), i drammi e le gioie, le avarizie di affetti e gli sconfinati amori, gli immancabili diverbi e i dispetti narrati con puntuta ironia, le grandezze e le miserie, i rovesci e le fortune ci conducono all’incontro con altre vicende – dalle più grandi alle meno note – che a loro modo contribuirono a fare epoca. Gli scorci sui costumi, le abitudini, i mestieri del tempo (operai e cavallanti, cuochi e modiste, camerieri e barcaioli, artigiani e bottegai) restituiscono dettagliati fotogrammi di vita vissuta dove si delineano caratteri e personalità di donne e di uomini per certi versi originali, sia che fossero remissivi o indisciplinati, spesso ribelli nello spirito e ben disposti verso il rischio e l’avventura, affrontando l’ignoto senza indulgere però nell’azzardo. Dei periodi che intercorrono tra le due guerre mondiali fino ai concitati anni del dopoguerra, dopo aver vissuto gli ultimi mesi del conflitto tra i due laghi, quelli d’Orta e di Como , e in valle, nel paese natale della nonna, si intuisce perfettamente lo spirito di quei tempi che furono tutt’altro che facili. Nell’incedere dell’esposizione l’equilibrato uso delle parole rende scorrevole e avvincente la lettura, senza tralasciare il giusto riferimento ai termini dialettali con la gamma vasta delle “lingue popolari” infarcite dalle inflessioni ticinesi e dell’alto Piemonte che si mescolano con le asprezze fonetiche valstronesi. Ai suoi genitori dedica le ultime pagine, tra le più belle e difficili, senza necessariamente far torto alle altre. Lì si riannodano vicende e sentimenti, segnati dalla prematura scomparsa dell’amatissimo padre (morì il 15 settembre del 1973, a nemmeno 65 anni, “quattro giorni dopo Salvador Allende, che era suo coetaneo, più anziano di lui di qualche mese”) e alla tragica fine della madre. Scrive, Giulio Martinoli: “Aveva vissuto tutta una vita votata al sacrificio, si era sempre donata, ora che non aveva più nulla da dare aveva forse pensato che fosse meglio troncare, che Dio l’avrebbe comunque perdonata..”. In conclusione del racconto, nonostante fosse partito con l’intenzione di non fare nomi, offre in appendice a chi legge un elenco di persone e di luoghi, “più o meno in ordine di apparizione”. Nel racconto, in parte autobiografico, i legami di un gruppo famigliare si intrecciano con la storia d’Italia sotto un profilo nuovo. Le memorie private, singole e personali, diventano storie universali, collettive, scritte “dal basso”. In fondo quella raccontata in “Senza far nomi” è a tutti gli effetti parte integrante della storia di un Paese e aiuta, senza retorica e in maniera schietta e onesta, a comprendere il mondo dove viviamo, la nostra società, noi stessi.

Marco Travaglini

Villa Cimena, una bellezza nascosta

È un classico gioiello del nostro patrimonio artistico, poco conosciuto e inaccessibile, ma grazie ai volontari del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, ha aperto le sue porte al pubblico per la prima volta con le tradizionali giornate Fai di primavera.
È Villa Cimena, perla del Seicento nascosta tra alberi secolari e nobili aiuole sulla collina di Castagneto Po, a pochi chilometri da Torino. Solenne si presenta la facciata della dimora con un doppio portico che fa pensare alle ville palladiane con il particolare che le colonne hanno il capitello ionico in basso e quello corinzio nella parte superiore. Da là si gode uno splendido panorama sulle colline, sulle Alpi e sulla pianura segnata dal Po tra Gassino e Chivasso. Un’occasione speciale per conoscerla e visitarla. Circondata da un grande parco e dal bosco, la Villa, anticamente chiamata il “Palazzo”, fu edificata nel 1663 dai marchesi Turinetti di Priero come residenza di campagna e conobbe il suo massimo splendore alla metà dell’Ottocento quando venne completamente ristrutturata dai marchesi Thaon di Revel che la trasformarono in una villa neoclassica, così come la vediamo oggi. I lavori per la progettazione furono affidati alle mani sapienti di Carlo Sada di Bellagio, l’architetto di spicco del tempo e fedelissimo di re Carlo Alberto. Allievo di Pelagio Palagi, Sada lavorò a Racconigi e a Pollenzo realizzando in particolare opere neoclassiche in Piemonte. Il magnifico parco con i giardini all’inglese fu disegnato nel 1847 dal torinese Marcellino Roda, geniale architetto del paesaggio italiano. Le sale della villa padronale sono distribuite su tre piani e ospitano manufatti di ebanisti piemontesi e opere di importanti pittori quali Francesco Beaumont e Vittorio Amedeo Cignaroli, bronzetti di Pierre Philippe Thomire e arredi dello scultore ed ebanista astigiano Giuseppe Maria Bonzanigo.
La Villa e il suo parco sono talmente incantevoli da essere utilizzati sovente come set cinematografico. Più volte si sono visti nelle scene di diversi film e serie televisive come “La donna della domenica”, Cento Vetrine e La Traviata. I marchesi Thaon di Revel vissero nella tenuta fino al 1969 quando fu venduta a un industriale che restaurò e arricchì gli interni con preziose opere. Nel 2015 Villa Cimena fu ceduta ad una società commerciale che l’affitta per matrimoni e ricevimenti, una classica location. É quindi aperta al pubblico soltanto in particolari occasioni o su prenotazione.
Filippo Re

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Jodi Picoult “Vorrei che fossi qui” -Fazi Editore- euro 19,00

E’ intrigante e sorprendente l’ultimo romanzo della scrittrice americana 56enne, e pare che Netflix abbia già comprato i diritti per trasformarlo in un film.

Al centro della storia c’è una coppia di giovani newyorkesi, Diana e Finn; lei è esperta di arte e lavora per Sotheby’s, lui è specializzando in chirurgia e lavora presso il Presbyterian Hospital. Stanno insieme da tempo, il loro rapporto sembra perfettamente collaudato e avviato verso un rassicurante futuro.

Diana sta per compiere 30 anni e i due hanno programmato un viaggio alle Galápagos; dove lei si aspetta che lui colga l’occasione della romantica cornice tropicale per chiederle di sposarlo.

Fin qui il progetto, poi però dilaga il virus assassino e Finn resta relegato in ospedale per far fronte all’epidemia che scopriamo presto essere di Covid.

Finn incita Diana a partire lo stesso sebbene senza di lui, che pensa magari di raggiungerla appena possibile.

Ma la pandemia sta uccidendo persone in massa, nessuno la conosce bene e nemmeno sa come fronteggiarla; le scene assumono i connotati che ormai conosciamo e Finn non può lasciare l’ospedale.

Diana parte lo stesso e arriva a Isabela, dove però sta chiudendo tutto: niente hotel o ristoranti, lei si ritrova sola e pure senza i bagagli che sono andati smarriti.

Di fatto resta bloccata e isolata in un paradiso dal mare cristallino che cerca di difendersi dal virus con una serrata generale.

Riesce a trovare ospitalità presso una donna del luogo, poi fa la conoscenza di una ragazzina problematica e di suo padre. Buona parte del romanzo racconta la forzata lontananza dagli affetti più cari e dalle certezze in cui Diana si era cullata prima che tutto venisse stravolto.

Le comunicazioni con Finn sono stentate e sporadiche. Lui è costretto a turni massacranti per aiutare i moribondi e nelle sue email c’è tutta la tragedia vista dal versante di chi la combatte in prima persona in corsia.

Intanto Diana va alla scoperta della splendida natura del luogo, tra immersioni memorabili e una forzata solitudine che diventa occasione per ripensare ai suoi progetti, alle priorità, agli affetti e ai dolori. Allontanarsi da tutto per riconsiderare la vita da una prospettiva nuova.

Però ovviamente la trama non finisce qui, e non anticipo di più, se non che la Picoult stupirà in modo repentino ed imprevisto con un colpo di bravura spiazzante per i lettori. E non è solo un romanzo sul Covid, col suo bagaglio di sofferenza e lutti; ma una storia che parla di capacità di adattamento e della necessità di fare il punto sulle nostre vite.

 

 

Eve Babitz “La mia Hollywood” -Bompiani- euro 20,00

Eve Babitz e’ stata un’icona: artista, giornalista, musa, it girl, party girl, autrice di copertine di album rock. Nata nel 1943 a Hollywood, figlia del primo violinista dell’orchestra della 20th Century Fox e di un’artista, è morta nel dicembre 2021. Suo padrino fu Stravinskij, Jim Morrison per lei scrisse “L.A. Woman”, fu fotografata mentre giocava a scacchi nuda con Duchamp, e visse gli anni d’oro di una Hollywood che non c’è più.

Questo è il primo dei suoi libri, uscito nel 1974, quando aveva 30 anni, e lo definiva ironicamente “romanzo confessionale”. E’ una raccolta di saggi autobiografici che ripercorrono la sua infanzia e giovinezza alle prese con un mondo bizzarro e affascinante.

Ci sono gli incontri con personaggi eccentrici, a tratti quasi paradossali.

Tra i ritratti, a volte racchiusi in pochissime righe, emergono la figura di Vera Stravinskij, il bizzarro mecenate inglese dei surrealisti Edward James, attori, avventurieri, musicisti e rockstar, surfisti e perdigiorno, in un caleidoscopico racconto di Los Angeles.

Emblematica la frase scritta nel libro da Eve Babitz in merito agli anni della Depressione in cui «le persone intelligenti se ne andavano a New York, quelle belle venivano sulla West Coast».

Lei a New York ci andò giovanissima come segretaria di redazione in una rivista underground e fu sempre contro il luogo comune per cui Los Angeles sarebbe stata una “Terra desolata” culturalmente parlando.

Fu una gran lettrice curiosa di tutto, e descrisse benissimo la Hollywood dell’arte e della boheme; assetata di esperienze e vita, si mosse vorticosamente tra amanti, alcol e droghe, in un susseguirsi di party ed avventure sopra le righe. Un libro ricco di aneddoti e spaccati di vita che rimandano al fascino anche un po’ perverso della Hollywood tra anni 50 e 60, raccontati da chi c’era e se la viveva a piene mani.

 

Emma Straub “Domani a quest’ora” -Neri Pozza- euro 19,00

Emma Straub, 42 anni e due figli, non è solo una scrittrice di bestseller (5 tradotti in più di 20 lingue), ma anche libraia; proprietaria insieme al marito, il graphic designer Michael Fusco, della libreria indipendente “Books are magic” al 225 di Smith Street, a Brooklyn.

Nel 2016 dopo la nascita del secondo figlio la coppia si trasferì a Coble Hill, vicino a una libreria che amavano, “Book Court”. E quando i proprietari decisero di vendere, Emma e Michael la comprarono.

Questo per dire che la Straub ha anche l’occhio allenato alle ultime novità e tra gli scaffali della sua “Books are magic” ha spesso l’occasione di conoscere altri scrittori e confrontarsi con il pubblico.

In “Domani a quest’ora” (che facilmente diventerà un film e la Straubb sta lavorando alla sceneggiatura), la protagonista Alice Stern, che è alla soglia dei 40 anni, una mattina si risveglia adolescente negli anni 90.

Il romanzo è ambientato nella New York tanto amata dalla scrittrice. Alice è una donna indipendente, newyorkese purosangue che vive nello stesso appartamento di quando era studentessa ed ha una vita tranquilla, senza la foga della carriera, ma in grado di consentirle alcune certezze nella confort zone che si è ritagliata.

La sera del suo 40esimo compleanno, dopo una notevole sbronza, si risveglia nel corpo di una 16enne; è perfettamente consapevole di quello che le sta capitando ed ha intatti i ricordi e la realtà dei suoi 40 anni…. solo che è tornata al tempo del liceo. Allora molte cose erano diverse, a partire dal padre che all’epoca stava benissimo, mentre ora si ritrova in ospedale per i suoi ultimi giorni. E’ Leonard Stern, scrittore di fantascienza, ispirato al padre della scrittrice Peter Straub, che è stato un autore di libri horror e se n’è andato poco tempo fa per le complicanze di una frattura del bacino.

Tutto il romanzo è giocato sull’alternanza dei pensieri di Alice 16enne il cui un futuro deve ancora essere scritto e, dall’altra, la consapevolezza della donna matura che sta affrontando la malattia e la morte del padre al quale avrebbe tanto voluto salvare la vita.

Se lei potesse davvero tornare indietro cosa cambierebbe? Quali decisioni hanno finito per rivelarsi davvero decisive per la sua vita? Se avesse cambiato qualcosa, per esempio il fidanzatino del liceo o scelto un altro lavoro o ancora aiutato il padre a smettere di fumare……quante cose sarebbero andate diversamente?

Un romanzo che invita a farsi domande anche profonde, così come se le è poste la Straub in queste pagine che ha iniziato a scrivere nel 2020 in piena pandemia. Alice non è esattamente lei, ma molti sentimenti sono i suoi ed oltre all’amore per New York che traspare in ogni pagina, ci sono sensibilità e profondità di pensieri che non lasciano indifferente il lettore.

 

A cura di Nadia Fusini e Luca Scarlini “Virginia Woolf e Bloomsbury inventing life” -Electa- euro 29,00

Questo volume è il catalogo della mostra allestita a Roma in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra, per celebrare lo spirito che animò il gruppo di Bloomsbury, enclave di grandi menti artistiche (e non solo) che sperimentarono idee e opere, nonché un nuovo modo di convivere che scardinava i rigidi principi vittoriani.

Rimasti orfani nel 1904, Virginia Stephen (non ancora sposata con Leonard Woolf) e i fratelli Vanessa, Thoby e Adrian lasciano la casa paterna nell’altolocato quartiere di Kensington e si trasferiscono nel quartiere più bohémienne di Bloomsbury. E’ lì che imprimono un nuovo significato alla convivenza, alla vita artistica e intellettuale ed aprono le porte agli amici, tutti intellettuali di altissimo ingegno e livello. L’esposizione capitolina ha voluto raccontare proprio quel nuovo modo di concepire l’amicizia intellettuale e i suoi corollari attraverso dipinti, foto, libri, parole ed oggetti appartenuti al gruppo.

Nelle stanze di Gordon Square a Bloomsbury nasce un nuovo concetto di coabitazione, tra libertà totale e fervore creativo, pittura, lettere, studi e amicizia. Le sorelle Stephen riescono così a dare libero sfogo ai loro talenti; Virginia scrivendo, Vanessa dipingendo, e in un certo senso quella fu la loro università. Nell’ampio soggiorno del primo piano tutto è concepito per ospitare gli amici delle sorelle e dei fratelli Stephen.

A Bloosmbury transitano e si soffermano personaggi che diventeranno poi economisti, storici, filosofi ed artisti famosi; condividono motivazioni sociali, idee artistiche innovative, teorie rivoluzionarie e relazioni romantiche, tra discorsi, analisi profonde ma anche scherzi giocosi.

Tra i nomi di spicco, John Maynard Keynes che rivoluzionerà il pensiero economico mettendo le basi del welfare state; Lytton Strachey che inventerà un nuovo modo di scrivere e raccontare storia e biografie, sarà il biografo per eccellenza in terra britannica, autore di due strepitosi ritratti delle vite delle sovrane Elisabetta I e la Regina Vittoria.

E ancora, il futuro marito di Virginia, Leonard Woolf che sogna una società nuova e con la scrittrice fonderà la casa editrice Hogarth Press; Clive Bell che sposerà Vanessa; il pittore Duncan Grant e il critico Roger Fry che svelerà oltre Manica le nuove tendenze artistiche parigine.

E le donne nel gruppo faranno la loro parte dando un nuovo peso alle loro intelligenze.

A Bloomsbury transitano Vita Sackville –West, Dora Carrington, Lady Ottoline Morrel, Katherine Mansfield. Ma sono molti di più i personaggi che incroceranno Bloomsbury e li trovate tutti nel libro della mostra che dedica ad ognuno un capitolo, tra foto d’epoca, quadri, disegni e materiali inediti.

 

 

Il pane di Predrag Matvejević

Pane nostro, libro di Predrag Matvejević, è stato il frutto di un lavoro lungo vent’anni.

Quella del pane è una grande storia che viene da lontano, scorrendo dal tempo in cui i nostri antenati si stupirono per la simmetria dei chicchi sulla spiga fino a oggi, dove miliardi di esseri umani ancora soffrono la fame e sognano il pane mentre altri lo consumano e lo sprecano nell’abbondanza. Nato migliaia di anni fa in Mesopotamia, nominato con molteplici nomi fin dall’antichità, riportato nelle memorie incise sulle tavolette di terracotta, scritto sulle pergamene, nei poemi orali e nei testi religiosi, il pane è l’architrave del Mediterraneo. Per secoli è stato l’unico contraltare a carestie, epidemie, alle morti per inedia, l’unico elemento ( tra l’altro, comunitario) in grado di separare la sopravvivenza dal baratro della fame. Per questa ragione è stato anche uno straordinario simbolo in tutte le religioni. Ha accompagnato, assumendo la forma e la sostanza della galletta, della focaccia o del biscotto, innumerevoli viaggiatori e pellegrini, marinai e nomadi. Si è ritrovato, suo malgrado, al centro di dispute sanguinose e interminabili: le guerre per procacciarsi il cibo, ma anche le lunghe controversie sul pane lievitato oppure azzimo, da usare per la comunione. E’ stata una disputa inevitabilmente infinita perché il pane è anche un simbolo posto al centro del rito eucaristico. Lo si ritrova, nelle sue mille varietà, in molte opere d’arte dall’antico Egitto fino alla pop art. Raccontando questa saga sul pane, Matvejević  ( uno dei più grandi intellettuali balcanici, nato nel 1932 a Mostar e morto sei anni fa a Zagabria) ci parla di Dio e degli uomini, della storia e dell’antropologia, della fame e della ricchezza, della guerra e della pace, della violenza e dell’amore. Un libro importante, denso di significati, dove la saggezza spesso è temprata nel dolore ma è pur sempre piena di speranza. Con la prefazione di Enzo Bianchi e la  postfazione dello scrittore Erri De Luca, Pane nostro è una opera ricchissima di riferimenti storici e letterari, di citazioni. Un libro potente che rappresenta un omaggio poetico all’alimento più semplice inventato dall’uomo.

Marco Travaglini

L’Orchestra Polledro festeggia dieci anni di attività con il secondo concerto della stagione

Presso  il Teatro torinese Vittoria

 

L’Orchestra Polledro prosegue i festeggiamenti per i primi dieci anni di attività 2012-2022 con il secondo concerto della stagione 2022/23.

Martedì 28 marzo prossimo al teatro Vittoria, in via Gramsci 4, alle 20.30 sul podio il maestro Federico Bisio e oboe solista il maestro Carlo Romano, già primo oboe dell’orchestra Nazionale della RAI.

Il programma prevede la Sinfonia in do maggiore di Marianna Martinez, vissuta negli anni 1744-1812, il Concerto per oboe e orchestra in Sol maggiore di Paul Wranitzky, solista il maestro Carlo Romano, e la Sinfonia in re maggiore op. 3 n.1 B 126 di Ignaz Pleyel, direttore il maestro Federico Bisio.

Marianna Martinez, nata a Vienna il 4 maggio 1744, quinta figlia del maestro di cerimonie della nunziatura apostolica, il napoletano Nicolò, crebbe all’interno di una famiglia agiata che conobbe un’ascesa sociale alla corte degli Asburgo. Se a Vienna una donna apparteneva ai ceti alti, era prassi che si dedicasse ai rapporti sociali e a patrocinare le arti. La famiglia Martinez viveva in un edificio nella Michaelerplatz e, come era frequente prima dell’invenzione degli ascensori, i piani dei palazzi corrispondevano alla classe sociale dei loro abitanti.

Questa convenzione sociale consentì a Marianna di avere uno spazio vitale tale da dedicarsi alla musica con impegno e dedizione. Protetta e seguita nei suoi studi dal celebre vicino di casa Pietro Trapassi detto il Metastasio, poeta cesareo, poté vantare tra i suoi insegnanti il giovane Franz Joseph Haydn e, in particolare, l’anziano maestro italiano Nicolò Porpora, insegnante di canto e compositore molto noto. In un attico freddo e umido, viveva un giovane compositore, Joseph Haydn, che stava tentando di intraprendere la carriera di musicista.

Questa felicissima combinazione fece sì che Marianna potesse diventare, in un breve periodo, la donna compositrice più prolifica della città. Divenuta nel 1773 Accademica Filarmonica onoraria della prestigiosa Accademia Filarmonica di Bologna, per la quale scrisse un Dixit Dominus, la Martinez vide consolidato il suo ruolo nel mondo musicale viennese, grazie a un catalogo di opere comprendenti musica sacra, una Messa e un oratorio.

Dei suoi lavori di più ampia scala ricordiamo la Sinfonia in Do maggiore, di straordinaria vivacità, per un organico di oboi e due corni.

Composta in tre movimenti secondo lo schema dell’Ouverture, il primo e quello finale sono contrassegnati come Allegro Spiritoso e Allegro con spirito, incarnando la vivacità e la grazia dell’autrice.

Il manoscritto rivela il rigore dell’autrice e l’orgoglio che ne traeva.

Marianna dimostrò di avere un buon talento per la composizione, quindi iniziò a prendere lezioni con Johann Adolf Hasse e con il compositore della corte imperiale Giuseppe Bonno.

Ricevette un’ottima educazione, di molto superiore a quella che veniva offerta a donne della sua classe sociale.

Era madrelingua italiana e tedesca e, in una lettera autobiografica scritta a Padre Martini, riferiva di avere una buona conoscenza della lingua francese.

Il programma prevede anche il concerto per oboe e Orchestra in Sol maggiore, di Paul Wranitzky, solista il maestro Carlo Romano e la Sinfonia in Re maggiore op.3 n.1 B. 126 di Ignaz Pleyel.

Pleyel nasce a Ruppersthal in Austria, figlio di Martin, maestro di scuola, e studiò musica prima presso il compositore Johann Baptist Vanhal e, a partire dal 1772, fu allievo di Joseph Haydn ad Eisenstadt.

Trasferitosi in Francia dove assunse il nome francese di Ignace, lavorò a partire dal 1797 come editore musicale e a lui si deve la prima edizione dei quartetti per archi del suo maestro Haydn.

In seguito divenne uno dei maggiori e più famosi costruttori di pianoforti francesi del XIX secolo, facendo concorrenza anche ad altri grandi artigiani quali Sebastien Erard.

La Sinfonia in Re maggiore fu composta quando il maestro Haydn era già impegnato nella prima delle sue tre Sinfonie di Parigi.

Pubblicata per la prima volta nello stesso anno, esiste in varie copie manoscritte nelle biblioteche dall’Italia alla Svezia.

A differenza di Haydn che, a partire dalla metà del Settecento, aggiunse i fagotti e poi i flauti agli strumenti orchestrali richiesti per le sue Sinfonie, nella Sinfonia in re maggiore nel 1785, quando il suo maestro Haydn era impegnato nella prima delle tre Sinfonie di Parigi Pleyel rimase fedele alla strumentazione con archi, oboi e corni, che era la forma consolidata sin dalla metà del Settecento.

Fu pubblicata per la prima volta nello stesso anno e esiste in copie manoscritte nelle biblioteche dall’Italia alla Svezia.

A differenza di Haydn che, a partire dalla metà degli anni Settanta del Settecento, aggiunse i fagotti e poi i flauti agli strumenti orchestrali richiesti per le sue Sinfonie, nella Sinfonia in re maggiore e nella maggior parte delle sue Sinfonie Pleyel rimase fedele alla strumentazione standard con archi, oboi e corni che era la forma consolidata sin dalla metà del Settecento.

Questa Sinfonia rivela già una fantasia formale e una perfezione nel trattamento delle tecniche compositive sinfoniche tali da rendere comprensibile la popolarità di cui godono le sue Sinfonie presso il pubblico contemporaneo.

Il primo movimento, Allegro assai, inizia senza un’introduzione lenta; il suo tema principale si sviluppa in due sequenze fino a un possente tutti orchestrale.

Questo tema principale è seguito da due temi sussidiari nella tonalità dominante di La maggiore, il secondo dei quali si espande con un tono in scherzando.

Un ulteriore tutti dell’Orchestra con una reminiscenza del tema principale e una formulazione cadenzale che si dissolve nel piano del primo e del secondo violino, concludono la presentazione del tema nell’esposizione del movimento.

La sezione di sviluppo inizia con un forte all’unisono degli archi e conduce il movimento iniziale del tema principale nelle tonalità più lontane, in discesa cromatica.

Passaggi poco specifici dal punto di vista tematico enfatizzano il processo di modulazione, avventurandosi fino alle regioni di fa maggiore e fa diesis minore, per poi esaurirsi in un esteso pedale sul fa diesis.

La ricapitolazione del tema principale inizia nella tonalità sottodominante di sol maggiore e la sua brusca interruzione da parte di una serie di cadenze per quinte su larga scala porta al ritorno finale della tonalità principale di re maggiore.

Dal punto di vista tematico la ripresa inizia con il secondo tema sussidiario e, nelle misure successive, guida il tema principale nel basso verso un climax dinamico analogo al primo orchestrale.

Il secondo movimento riserva anch’esso delle sorprese con i suoi elementi formali insoliti.

Un tema iniziale di ampio respiro narrativo e una sezione minore carica di emozione sono seguiti da un Allegro 3/8 che ristabilisce la tonalità principale in sol maggiore del tema in scherzando.

Il tema del minuetto (Minuetto, Allegretto) si presenta con una frase iniziale musicale rustica che ricorda un Landler e una conseguente frase che sfuma verso il piano, molto simile al modello di Haydn. Il trio con due violini solisti si contrappone al minuetto nel tono e nel carattere della melodia.

Il tema del finale, Rondò Allegro, ricorda il tema principale del quarto movimento della Sinfonia n. 39 di Mozart. Il tema del ritornello che si sente tre volte nel corso del movimento è contrastato da due episodi.

Il primo ha un tema leggero nella tonalità dominante in la maggiore, il secondo entra con l’incedere emotivo di un episodio minore e poi, nella tonalità parallela in fa maggiore, ritorna al tema leggero del primo episodio.

Il maestro Carlo Romano nasce a Roma nel 1954 e compie gli studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia, studiando pianoforte, armonia e diplomandosi in oboe con il massimo dei voti nella prestigiosa scuola di Giuseppe Tommasini.

Il maestro Federico Bisio ha seguito un doppio percorso di studi, sia universitario sia frequentando i corsi di Composizione sperimentale presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.

 

Mara Martellotta

 

Rock Jazz e dintorni a Torino: i Modà e i Morlocks

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al Cafè Des Arts si esibiscono gli AljazZeera. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Emilia Gaia.

Martedì. Al Blah Blah suona suonano i Morlocks. Al Teatro Colosseo canta Albano.

Mercoledì. Sempre al Blah Blah è di scena il quartetto punk Gentilesky.

Giovedì. Al Cafè Neruda suona il trio del chitarrista Max Carletti. Al Magazzino sul Po si esibisce Rares. Al Jazz Club è di scena il quintetto della vocalist Mirella Gallo. All’Hiroshima Mon Amour rap con MxRxGxA. Nel foyer del teatro Regio in coda a “Il flauto magico” di Mozart si, esibisce Napoleone.

Venerdì. Al Blah Blah suonano Starving Pets e Tree Horn. Allo Ziggy sono di scena i Breathe Me In. All’Hiroshima si esibisce il rapper Murubutu. Al Bunker suonano i Salò per il “RatFest”. All’Off Topic è di scena Francesco Di Bella. Al Cap 10100 si esibisce Bassi Maestro.

Sabato. Al Jazz Club suona il trio del pianista Dario Yassa. Allo Ziggy sono di scena i Little Pieces of Marmelade. Al Magazzino sul Po si esibiscono i Cado nello Specchio. Al Folk Club è di scena Eleonora Bordonaro. Al Blah Blah suonano gli Ash Code. Allo Juvarra è di scena Bungaro con Marco Passarani.

Domenica. Al Jazz Club suona in versione acustica la Momo Rock Band. Al teatro Colosseo festa per i 20 anni di carriera per  i Modà in concerto con orchestra.

Pier Luigi Fuggetta

La versione del professore

Che cosa unisce Tiziano Sclavi e Michele Paolino?

Il primo ha creato un mito fumettistico e poi cinematografico: DYLAN DOG.
Il secondo sta producendo un genere letterario che il lettore divora in pochissime ore. Romanzi gialli, noir, thriller ricchi di emozioni e suspense. Tieni costantemente il fiato sospeso perché, fino all’ultima riga, non sai come va a terminare l’intricata vicenda. Michele Paolino si supera ogni volta, appena fa nascere un nuovo libro.
Questa volta tocca a “La versione del professore”, tantissimi colpi di scena con protagonisti il professor Gilberto Ferrony, insegnante (in pensione) di letteratura slava, già addetto culturale presso un’ambasciata italiana in un Paese dell’Est, traduttore, curatore di una biblioteca privata, che vive in una casa circondato da migliaia di libri e poi c’è l’avvelenamento di un opinionista televisivo, simpatizzante No Vax ed anche di una influencer marketing? chissà!!!Ad indagare ci sono Serena Valente, luogotenente del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, e l’ispettore capo Domenico Pescatore della Questura di Torino.  Ne siamo certi che presto li vedremo in azione anche in TV ed al cinema!

Enzo Grassano

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

Alessandro Campi – Il giardino di Palazzo Cisterna – Lettere


Alessandro Campi

Alessandro Campi alla guida dell’Istituto Nazionale per la storia del Risorgimento è una garanzia di ripresa dell’Istituto che ha sede al Vittoriano e da cui dipende il Museo centrale del Risorgimento. L’incuria e la colpevole disattenzione da parte dei Governi precedenti hanno portato l’Istituto alla paralisi. La nomina di un Prefetto come commissario poteva anche portare a chiudere l’Istituto. L’arrivo del prof. Alessandro Campi, studioso di vaglia, fa ben sperare che anche l’aria quasi irrespirabile di certi ambienti stantii  possa cambiare nell’ Istituto,  finora feudo incontrastato di una certa politica. Sono troppe le persone abbarbicate da troppi anni in quell’Istituto. In effetti i problemi ci sono perché la soppressione delle cattedre di storia del Risorgimento impedisce un ricambio. Ma voglio anche citare Campi per il suo nuovo libro  Il fantasma della Nazione. Per una critica del sovranismo, edito da Marsilio . Campi esamina con il piglio dello storico di razza non ideologizzato “L’idea di Nazione“, per dirla con Federico Chabod, a partire dal Risorgimento, per analizzarla  poi nel clima nazionalista e fascista del Novecento dove lo Stato finì di prevalere sulla Nazione. Esamina il rifiuto di ogni idea nazionale dopo la guerra che aveva portato l’Italia alla tragica sconfitta non solo militare. La prima Repubblica, salvo pochi casi come Craxi e Spadolini e il Presidente Ciampi , si distinse per il suo disinteresse per il patriottismo,  anzi per la sua ostilità anche da parte del mondo cattolico sensibile solo all’ Universalismo. Anche la seconda Repubblica non è stata meglio, se pensiamo a Berlusconi che sa poco o nulla di storia. Lo stesso Fini, per dare credibilità alla sua svolta .finì per accantonare i temi della destra che Meloni sta riproponendo anche lei, da quando è al Governo, in modo abbastanza guardingo. Belle le analisi sul sovranismo che meritano da sole una grande attenzione. Farò una recensione accurata del libro, ma ho voluto anticipare qualcosa su un volume che non si può ignorare.

 

Il giardino di Palazzo Cisterna
Il giardino  dello storico palazzo dei principi Dal Pozzo della Cisterna, prima residenza dei Duchi d’Aosta e poi sede storica della Provincia di Torino e ora sede aulica della Città metropolitana di Torino, si apre  al pubblico. Una scelta davvero apprezzabile  nel pieno  centro della Città. Quel giardino diventa così  un patrimonio dei torinesi. E’ bello che sia stato inaugurato con i celebri  tulipani della contessa Soleri Pralormo. Un tocco di grazia che rende lieto l’ evento per cui credo si debba anche ringraziare Carla Gatti da sempre impegnata nel rilancio del Palazzo che gronda una storia torinese e nazionale molto importante, a partire dai moti carbonari del 1821 di cui il Principe fu protagonista e vittima.

 

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L’addio a Picchioni
Ho letto sui giornali dei necrologi piuttosto agiografici  su Rolando Picchioni. Lei cosa ne pensa?     Adele Immordino
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Picchioni con Amos Oz

Ho conosciuto Picchioni  fin da quando era assessore provinciale alla cultura negli Anni 70 ,ma non l’ ho mai  frequentato assiduamente . Ci si vedeva alla Farmacia  “ Solferino “ dove la  titolare dottoressa Anna Ricotti era amica di entrambi. Era una persona colta, cosa rarissima nella Dc, capace di idee originali come gli Stati Generali del Piemonte quando fu presidente del Consiglio Regionale. Fu un ottimo presidente del Salone del libro rimasto ineguagliato. Lui Presidente, la Parigi non poté egemonizzare il Salone. Io lo ricordo con riconoscenza  perché, unico tra i politici, sostenne con i fatti il centenario della nascita di Mario Soldati. Chiamparino fu totalmente assente. Se non si fosse trovato  tra i piedi  la questione della P2 massonica che si rivelò un’accusa falsa, sarebbe diventato ministro dei Beni culturali  e sarebbe stato un ottimo ministro.

Garibaldi nel basso e medio Monferrato

Il ruolo di due donne importanti di fine ‘800: Francesca Armosino in Garibaldi e Giuseppina Sannazzaro in De Maistre

Armano Luigi Gozzano ripercorre il passaggio casalese del generale all’inizio della II° guerra d’indipendenza e nel luogo d’origine astigiano della terza moglie. La via centrale di Casale che da piazza castello conduce alla chiesa di S. Ilario fu intitolata a Garibaldi e a ricordo fu installata una lapide marmorea sul palazzo al numero 45 che in passato era proprietà dei Billioni, signori di Viarigi e Terranova. Il loro casato é raffigurato dagli stemmi applicati a pastiglia sui pannelli del portone d’ingresso.
Il palazzo passò in comproprietà al conte Placido De Maistre (1751-1814) infeudato nel 1780 di Castelgrana di Mirabello, capitano del corpo reale degli ingegneri di Torino, fratellastro di Barnaba (1744-1812) procuratore generale di Torino nel 1779. Originari di Nizza in Provenza, i De Maistre (Meystre) discendevano da una famiglia di magistrati. Il loro padre Giovanni Francesco
(1698-1760) conte di Caraz in Savoia era presidente della regia camera dei conti di Torino nel 1756, procuratore generale negli anni 1730-1760 di Carlo Emanuele III° e giurista ed economista del ministero G.B.L. Bogino durante il regno sardo-piemontese.  Favorì molto l’assunzione del cugino di 1° grado Francois – Xavier De Maistre (1705- 1789) come avvocato fiscale a Nizza, in seguito senatore e presidente del senato nel 1764 a Chambéry, padre del famoso Xavier (1763-1852) generale, pittore e scrittore diplomato all’accademia Albertina, autore del famoso “viaggio attorno alla mia camera” pubblicato a Torino nel 1794. Anne Constance, figlia del filosofo Giuseppe governatore di Sardegna e ambasciatore per i Savoia presso lo zar a S. Pietroburgo, ereditò dal marito duca Laval la villa del ‘700 a Borgo Cornalese di Villastellone. Lo stemma di questo comune reca le calendule dorate simbolo dei De Maistre, famiglia sussistente della nobiltà sabauda.
All’arrivo di Garibaldi a Casale, il palazzo  apparteneva a Giovanni De Maistre (1813-1876) componente della guardia d’onore reale, figlio del conte Luigi (1781-1852) riformatore delle scuole nel 1822, decurione e direttore dell’ospedale S. Spirito di Casale e di Giuseppina Gozzani di Luigi Gaetano marchese di Treville e Odalengo. Giovanni era sposato con Giuseppina Sannazzaro (*1812 Casale +1886 Torino in S. Francesco) figlia di Giovanni Battista conte di Giarole e di Giulia Callori contessa di Vignale. In vista dell’imminente pericolo austriaco, il re Vittorio Emanuele II° sistemato con il comando di stato maggiore a S. Salvatore, invitò Garibaldi di portarsi in città, lasciando una compagnia a protezione del porto di Pontestura, proprietà dal 1850 al 1861 di Felice Carlo Gozzani marchese di San Giorgio. In seguito il Gozzani ospitò il re Vittorio nel proprio palazzo S.Giorgio Gozzani, ora municipio di Casale, per meglio controllare la situazione. I De Maistre ospitarono il generale nella loro dimora casalese il giorno 3-5-1859, si pensa per la loro origine nizzarda.
Nonostante fosse costretto a letto per un forte dolore alla schiena, consigliato dal dott. Agostino Bertani chirurgo del corpo dei volontari, Garibaldi ripartì alle 4 del mattino del giorno 6-5-1859 verso Terranova con i  Cacciatori delle Alpi per presidiare la testa di ponte sul fiume Sesia. Malgrado la differenza di idee politiche, il generale rimase molto colpito dalla cortesia e ospitalità dei coniugi e con una lettera esposta nel 2009 nell’archivio di stato di Torino ringraziò la contessa. I De Maistre abitarono a Torino al n. 21 di via Po. Nel 1836 la contessa fu ammessa a corte. In seguito abitarono a  Cereseto nella grande villa barocca del ‘700 acquistata dal cugino Giuseppe Ricci 4° marchese di Cereseto, marito di Teresa Visconti di Luigi Emanuele conte di Ozzano e Giuseppina Gozzani di Giovanni Battista marchese di San Giorgio. La villa fu venduta da Giovanni De Maistre insieme al castello di Motta dei Conti e all’intero patrimonio, poi riscattati dalla moglie Giuseppina che passò la vita a pagare i debiti del marito. Ultimo discendente della nobile casata di Giarole é il conte Giuseppe Sannazzaro (*1962 Genova)
figlio di Ranieri e Maria Luisa dell’armatore genovese Alberto Ravano.
Le palazzine e il terreno circostante al castello di Giarole erano proprietà di Giuseppina Gozzani marchesa di Treville, suocera della contessa Sannazzaro. La dimora di Casale venne ereditata dalla figlia Giulia De Maistre (1835-1901) moglie del  cav. Giuseppe Lovera dei marchesi di Marie nella contea di Nizza (Alpi marittime), futuro vice ammiraglio. Alle ore 11.40 del giorno
23-10-1880 l’eroe dei due mondi giunse in treno alla stazione di S. Damiano D’Asti e alle ore 14 alla borgata Saracchi di Antignano per conoscere i familiari della terza moglie Francesca Armosino. Erano  accompagnati dai loro figli Clelia e Manlio unitamente a Teresita, figlia di Anita, con Stefano Canzio e il loro figlioletto. Il generale, ormai malato, era adagiato sul solito lettino e venne portato su una grande carrozza trainata da due cavalli. Al seguito altre carrozze con diverse autorità si diressero verso S. Martino al Tanaro attraversando il nuovo ponte sul torrente Borbore, inaugurato  dal passaggio dell’illustre ospite, in seguito detto ponte Garibaldi. Alla borgata Saracchi Garibaldi fu accolto da festeggiamenti con  musiche, archi trionfali, applausi, spari di mortaretti e bandiere. Pranzò nella villa Armosino da lui stesso fatta costruire ai cognati, poi detta palazzo Garibaldi, dove soggiornò fino al 1° novembre 1880. Grazie alla volontà del generale, la borgata fu staccata dal comune di Antignano e annessa al comune di S. Martino al Tanaro, ora Alfieri,
con decreto del re Umberto.
Francesca Armosino (*1848 Perosini di Antignano +1923 Caprera) discendeva da una nobile famiglia armena emigrata in Italia per sfuggire alle persecuzioni dei turchi contro i cristiani. Si trasferì a Caprera nel 1865 per diventare la balia di Teresita, primogenita di Garibaldi. Nonostante la differenza di età (58 lui e 17 lei) ebbero tre figli: Clelia, Rosa e Manlio tutti nati a Caprera prima del loro matrimonio avvenuto nello stesso anno 1880. Francesca fu sepolta accanto al marito e ai figli Rosa e Manlio. Antonella Armosino (*1960) discendente dai parenti di Francesca é creatrice di originali presepi natalizi. Utilizza fiammiferi, iuta, cera d’api e bottiglie di vetro ricoperte di creta. Unica rappresentante del Piemonte ad esporre il presepio in Vaticano per il S.S. Natale 2019, espone costantemente dal 2010 nella basilica Maria Ausiliatrice di Torino, santuario voluto da Don Bosco. Per il S.S. Natale 2021, su richiesta dell’antropologo astigiano Piercarlo Grimaldi, ha presentato a Cocconato il nuovo lavoro sul 4° re magio, ispirato dalle ricerche del drammaturgo astigiano Luciano Nattino. Il prozio paterno di Antonella fu chiamato Manlio, figlioccio della antenata Francesca, la quale trovò occupazione ai propri familiari come giardinieri e nelle scuderie di Caprera. Un componente monferrino dei mille garibaldini fu Giuseppe Moscheni (1836-1904) antenato dei proprietari della tenuta Gambarello di Mombello.
Giuliana Romano Bussola