CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 35

Al Museo MIIT la mostra dell’artista indiano Holle

Riprendono, dopo la pausa estiva, le mostre al Museo MIIT di Torino in corso Cairoli 4, sotto la guida del  curatore Guido Folco.

Venerdi 30 agosto alle ore 18 si inaugurerà  la personale dell’artista indiano R. B. Holle intitolata “Infinity”. Sarà  visitabile fino al 5 settembre prossimo.

La mostra prosegue la collaborazione tra il maestro e il museo MIIT di Torino che, nel 2018, aveva ospitato la sua prima personale italiana. È comunque dagli anni Novanta che Holleespone in tutto il mondo i suoi lavori, che spaziano dalla grafica alla pittura, dalla scultura alle installazioni.

Nell’ambito della piccola, ma preziosa mostra presentata al Museo MIIT, R. B. Holle farà conoscere meglio al pubblico italiano le sue opere di grafica, dalle incisioni ai disegni.

Si tratta di una selezione di una ventina di lavori che ben  testimoniano la sua sperimentazione artistica  e visiva e la sua ricerca basate sulla percezione di forma e spazio, sulla loro complementarità e, in altri lavori, sul loro dinamismo cromatico del segno e del gesto, quasi una citazione  del dripping alla Jackson Pollock”.

“Le parole del grande poeta e drammaturgo, filosofo indiano Rabindranath Tagore – spiega il curatore della mostra Guido Folco – riassumono perfettamente l’essenza dell’arte di Holle, pervasa di immaginifico mistero e struggente emozione. Holle è maestro indiscusso dell’arte contemporanea internazionale e la sua poetica si nutre della perfetta armonia dell’universo, di quell’ordine cosmico e spirituale che affascina e rende attoniti al cospetto del creato.

La sua arte vive di ricordo ed emozione, di memoria e speranza, nascendo dalle esperienze formative della sua infanzia e dell’adolescenza, quasi una scuola di iniziazione dell’anima, fino alla modernità e alla sperimentazione su forma, luce, sogno e colore.

Holle ha compreso ben presto che l’arte è prima di tutto specchio dell’Io, della nostra essenza e, quindi, nei suoi dipinti, come nelle sue sculture e nei suoi disegni, nella grafica,  genera bellezza, sogno, eternità.

L’arte diventa per Halle lo strumento primario per estraniarsi dalla quotidianità,  per immergersi nella delicata e sorprendente bellezza della natura, piuttosto che nella infinita misura del Cosmo. Le sue opere sono ritmate da segni e colori, come il respiro lento o accelerato del cuore del mondo. La spirale, il segno dell’infinito, le cifre totemiche divenute graffiti incisi sul supporto, stelle e galassie come puntini iridescenti e cromatismi pulsanti  inondano le tele e i fogli dell’artista  tra monocromi raffinati e composizioni eleganti, quasi una danza della luce, un evocativo vibrato musicale.

Dall’action painting Holle eredita l’energia e quell’inarrestabile flusso  cromatico  e segnico che non intende rappresentare il reale, ma l’inesprimibile dell’anima e l’ordine nel caos tipico dell’Universo. La sua pittura si nutre della lezione dell’astrattismo e dell’informale, che l’artista interpreta in maniera assolutamente personale e nuova, scandagliando la profondità del suo cuore e delle sue emozioni più intime e intense, mentre nella terza dimensione sa esprimere con coerenza l’idea di spazio e tempo. Holle percorre le strade più  note al suo cuore e alla sua anima, quelle della sua infanzia, di quel desiderio mai sopito di libertà e perfezione che solo la natura o l’arte riescono a donare”.

“Indipendentemente dal fatto che l’artista Holle ci presenti dipinti, sculture o disegni, il suo universo personale è  costantementepresente e globale – precisa Patricia Alonso Arroba-

La sua arte astratta ci conduce in un’altra dimensione,  sempre cosmica e piena di sfumature cromatiche in grado di coinvolgere e stupire lo spettatore. L’artista, che attualmente vive e lavora  a Mumbai, è uno dei più giovani talenti emergenti dell’India, ha esposto in due gallerie veneziane in cui ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica.

Le sue opere trasmettono una sintonia armoniosa tra arte, musica, ritmo, natura e spazio, si tratta di un’enigmatica composizione di tutti questi componenti materici che, attraverso il colore e la distribuzione dei segni grafici, offrono un’esperienza visiva ricca e stimolante agli occhi dello spettatore. Un riflesso dell’anima dell’artista che, attraverso il solo movimento del pennello, riesce a trasmettere i suoi pensieri più cosmici.

Per lui lo spazio diventa infinito e, per questa ragione,  è sia capace di realizzare uno spazio tridimensionale,  sia di rappresentarlo in due dimensioni, il disegno e la pittura. Tutto merito della sua maestria nell’uso della giustapposizione di  colori che donano alle opere questo senso di profondità.  Concludendo possiamo affermare che il lavoro di Holle sia una sintonia perfetta tra paesaggi sonori pieni di colori, che si mescolano e si fondono con l’armonia cosmica capace di trasportare lo spettatore in altre realtà dove natura e musica possono incontrarci dal punto di vista visivo”.

 

Mara  Martellotta

Nei castelli della Valle d’Aosta tra dame e cavalieri

Sembra una fortezza inespugnabile il castello di Fénis con la doppia cinta muraria merlata e le torrette di guardia munite di feritoie ma in realtà non è mai stato assediato e mai si sono visti eserciti nemici attaccare le sue mura.

Non è stato costruito come centro difensivo ma piuttosto per essere una residenza sfarzosa e ben protetta: così volle la nobile famiglia Challant che visse per tanti anni al suo interno. Avvicinandosi al castello colpisce il fatto che, contrariamente a tanti altri castelli eretti per scopi difensivi, quello di Fénis non si trova su un monte o su un’alta collina ma su una lieve altura circondata da prati e vigneti. È un gran bel castello medievale, uno dei più belli d’Italia, che ogni anno viene visitato da oltre 80.000 persone. Lasciarselo sfuggire transitando per la Valle d’Aosta sarebbe un vero peccato. Più che ad arcieri e soldati dobbiamo immaginare un via vai di cavalieri, dame e principesse nelle sale del castello fino al cortile affrescato con San Giorgio che uccide il drago, tra preziosi affreschi, enormi camini, scaloni e simboli del potere.
Ma è anche l’incredibile storia di un castello che a un certo punto viene abbandonato e trasformato perfino in una stalla prima di essere sottoposto a un lungo e accurato restauro. Il castello di Fénis, a 17 chilometri da Aosta, fu sia fortificazione sia residenza signorile: i Challant, oltre a rafforzare l’apparato difensivo, abbellirono il maniero con eleganti decorazioni pittoriche, aggiunsero una sala d’armi e i dipinti dell’Annunciazione e di San Cristoforo attribuiti a pittori della bottega del torinese Giacomo Jaquerio e datati 1425-30. C’è il refettorio per soldati e servitori, la cucina e la dispensa mentre al primo piano si trovano la cappella, la sala da pranzo dei signori e la sala di giustizia. Nel 1716 il castello, appartenuto fino a quell’anno ai Challant, fu ceduto ai conti di Saluzzo Paesana. Fu in questo periodo che ebbe inizio il degrado del castello che divenne un edificio agricolo con stalle, depositi e magazzini per i viveri. Alfredo d’Andrade lo riportò all’antico splendore. L’architetto portoghese, naturalizzato italiano, acquistò il castello di Fénis alla fine dell’Ottocento e lo donò allo Stato dopo averlo restaurato. Oggi è di proprietà della Regione autonoma Valle d’Aosta.
Tra feste e tradizioni locali il piccolo comune di Fénis,1700 abitanti, offre ai turisti un calendario ricco di eventi anche dopo l’estate. A fine settembre “Castello in fiera” con mercatini, musica e intrattenimenti all’esterno e all’interno del maniero e a ottobre sarà la volta della rassegna dedicata alla castagna. Gli Challant conducono le danze anche al castello di Aymavilles, a dieci chilometri da Aosta, su una collina circondata da vigneti in Valle Cogne. Imponente, elegante e torreggiante, domina dalla sommità di un’altura la valle centrale e da lassù si ammirano il castello reale di Sarre, residenza di caccia dei Savoia, e il fiabesco castello di Saint-Pierre che aprirà al pubblico il prossimo anno. In origine Aymavilles era circondato da una cinta muraria, oggi scomparsa e sostituita da giardini e aiuole fiorite. Assoluta novità di quest’estate, il maniero è stato aperto al pubblico a maggio dopo oltre dieci anni di restauri. Il primo riferimento storico del castello risale al 1207 e dal Trecento, con il passaggio dai Savoia agli Challant, nobile famiglia della Valle d’Aosta, l’edificio subisce, tra medioevo e barocco, grandi trasformazioni. Il nuovo maniero, realizzato all’inizio del Quattrocento, fu sopraelevato, ai quattro angoli furono costruite delle torri semicircolari e fu scavato un fossato ma è nel Settecento che il castello venne trasformato in una residenza. Tutto fu ristrutturato e rinnovato, sia all’esterno che all’interno. Del vecchio castello rimase ben poco e l’edificio perse il suo antico aspetto difensivo medievale. Oggi ci troviamo davanti a una moderna residenza signorile immersa nel verde che negli ultimi due secoli ha avuto diversi nuovi proprietari, liguri e piemontesi, che hanno più volte modificato gli interni, utilizzando il castello come museo e poi come luogo di villeggiatura estiva. Nelle sue sale, oltre alla storia del castello, si può ammirare la raccolta d’arte e archeologia dell’Académie Saint-Anselme. Nel 1970 il castello di Aymavilles è stato acquisito dalla Regione autonoma Valle d’Aosta. Per contatti e informazioni telefonare al castello di Fénis 0165-764263. Per il castello di Aymavilles telefono 0165-906040. E’ consigliabile la prenotazione online.         Filippo Re
Nell’ordine foto del Castello di Fénis, Castello di Saint Pierre, Castello di Aymavilles

L’ultimo romanzo di Cesare Pavese

Il 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si toglieva la vita nella stanza 346 dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino. Il suo ultimo romanzo La luna e i falò, uno dei capolavori della letteratura del ‘900 e libro di formazione per intere generazioni, rappresentò per più versi il viaggio dello scrittore alla ricerca di se stesso e delle proprie origini. Fu il suo testamento letterario, composto in meno di due mesi, tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949, e dato alle stampe nell’aprile del 1950. Pavese scrisse in proposito: “È il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. E non solo gli dei, se Pavese scelse di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero”, come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza era posata una copia dei Dialoghi con Leucò su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione: “Non fate troppi pettegolezzi”.
Un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. Settantaquattro anni dopo la sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.

Marco Travaglini

Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

7  Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

C’era una volta una ragazzina che aveva capito che cosa le sarebbe piaciuto fare da grande. Un giorno la piccola tornò da scuola e disse ai genitori: “io voglio andare al liceo artistico!”, ma i due adulti presero la sua affermazione come una barzelletta, si misero a ridere e replicarono: “tanto tu andrai al classico”. Una storia breve, triste e autobiografica.
Difficile, se non impossibile, per me è scrivere questo articolo mantenendomi “narratore esterno”, senza raccontare della mia personale esperienza “giobertina” e senza ricordare gli aneddoti di quegli anni che, come mi è già capitato di dire, si vuole che passino in fretta mentre li si vive e li si rimpiange quando poi sono trascorsi.

Del “mio” Gioberti (ho conseguito la maturità classica nel 2009) ricordo le aule prive di LIM, odorose di gessetto da lavagna, rammento le pareti smunte, sulle tinte dell’ocra, i banchi rettangolari dotati di sottobanco, ossia quegli spazi perennemente ricolmi di fogli piegati, di carta delle merendine, di bigliettini dimenticati che mamma mia se fossero caduti all’improvviso! E poi l’armadio di classe, strabordante dei libri che non sempre riportavamo a casa e i grandi finestroni che si affacciavano sul cortile quadrato, che dall’alto mi ricordava quello di una prigione e ancora i lunghi corridoi e i caffè presi sul suono della campanella. “E”, “e”, “e” tante congiunzioni per un’infinità di momenti che non so se posso descrivere così apertamente.
Ma continuiamo con la storia della ragazzina inascoltata. La sventurata non rispose alla replica di mamma e papà, perché a tredici anni non è facile né essere presi sul serio, né rendersi conto di quanto sia importante la scelta della scuola superiore. L’ignara ragazzina obiettò che almeno voleva scegliere in quale liceo classico si sarebbe iscritta e, dopo qualche litigata, riuscì ad avere la meglio almeno su questo punto. Dopo un’attenta analisi di mercato l’inconsapevole tredicenne si convinse che il Gioberti sarebbe stata la sua opzione definitiva: scuola “politicizzata”, di fronte all’Università e le leggende che lo definivano “il più leggero tra i classici”, in cui si facevano autogestioni e manifestazioni a non finire. Così alla domanda: “Allora hai scelto il Gioberti?”, “la sventurata rispose”, e disse “si”.

Il liceo Gioberti è una delle più antiche istituzioni scolastiche presenti a Torino, la storia della scuola si intreccia non solo con quella del capoluogo piemontese ma anche con le trasformazioni politiche, sociali e legislative del Regno d’Italia. L’istituto nasce grazie alla politica sull’istruzione pubblica che prevede l’apertura di Ginnasi e Licei “governativi” o “regi”.
Per essere più precisi è utile ricordare la Legge Casati, che, nel 1859, codifica l’educazione umanistica in due successivi e distinti corsi di studi: il Ginnasio, corso inferiore della durata di cinque anni, detto di “Grammatica”, ed il Liceo, ossia un corso superiore triennale detto di “Filosofia”. Il 4 marzo 1865, sotto il Ministero Lamarmora, viene pubblicato il Regio Decreto n°229, con tale documento vengono istituiti i primi sessantotto licei classici del Regno d’Italia e ad ognuno di essi è assegnato il nome di un grande personaggio italiano. Tra questi sessantotto istituti compaiono il Liceo Cavour e il Liceo Gioberti, la cui denominazione celebra due eminenti protagonisti della nostra storia.

Le cose non accadono mai per caso: lo “spaventoso” Liceo Cavour nasce (almeno come titolazione) in contemporanea al Liceo Gioberti, un po’ come i “Sith” di Guerre Stellari che sono sempre in due.  La nascita dei Licei di Stato risponde al desiderio di favorire una convergenza di intellettuali intorno al nuovo Regno italiano; a sostegno di tale intento è anche istituita una “Festa Letteraria” da tenersi annualmente ogni 17 di marzo in tutti i Licei del Regno, con il nome di “Solennità Commemorativa degli illustri Scrittori e Pensatori Italiani.”
Una festa antica, forse col tempo caduta in disuso, almeno, da che ne so io, il 17 marzo noi “giobertini” non abbiamo mai festeggiato nulla, anzi, non ricordo che le feste fossero ammesse a scuola: comportano inutile dispersione d’energia e sottraggono tempo utile ai compiti in classe!

È opportuno precisare che le due istituzioni scolastiche prese in esame in realtà esistono già anche prima del 1865, ma sono conosciute con un altro nome. Il Liceo Gioberti è in origine il Regio Collegio di San Francesco da Paola, con sede nel complesso conventuale dei Frati Minimi, edificato a partire dal 1627 in Contrada Po, grazie alle ingenti donazioni di Maria Cristina di Borbone-Francia, (moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia), e diretto a partire dal 1821 dai Gesuiti. Il Cavour, invece, in origine conosciuto come Collegio dei Nobili, è un’istituzione risalente al XVI secolo un tempo situato presso il convento del Carmine. Tra i licei, secondo quanto riportato nei documenti storici, il Gioberti è sempre stato l’istituto più frequentato. Chissà se tale moltitudine di scolari ha commesso un “errore di valutazione” simile a quello iniziale della ragazzina? E chissà quanti ignari studenti ancora si lasceranno ingannare dalle malelingue, iscrivendosi ad una scuola che per anni -proprio quelli in cui l’ho frequentata io- è stata considerata pari al Liceo Cavour, emblema assoluto della severità e del rigore?
Vorrei altresì ricordare, prima di proseguire con la storia della nostra fanciulla, che nel 1969, proprio il Liceo Gioberti, è stato sede della prima “Commissione Fabbriche” mai costituita in una scuola superiore italiana, anche citata nel film “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard.

Torniamo a noi. La ragazza ben presto si rese conto che quella scuola non le calzava proprio a pennello, ma era anche evidente che non le sarebbe stato permesso cambiare corso di studi, quindi era meglio rimboccarsi le maniche e tapparsi il naso. “Tyche” venne in soccorso della studentessa e la inserì nel miglior gruppo classe che avrebbe mai avuto anche in futuro. I compagni erano proprio quelli “giusti” per affrontare quell’avventura. Con il tempo l’amicizia e la complicità limarono gli sforzi dello studio e le risate sommesse – mai durante l’ora di greco- resero la prova sopportabile. Ma voi che siete lettori curiosi vorrete sapere qualche dettaglio in più. Da narratore onnisciente posso dirvi che c’era un’insegnate temutissima, che si mostrò per la primissima volta a noi studenti durante un intervallo, asserendo che già tutti dovevano sapere chi fosse e che il giorno dopo si sarebbero corretti i compiti delle vacanze. Va da sé che in quelle ore di lezione a stento si respirava. Vi era poi un’altra docente, tanto preparata ma non sempre precisa, che alla lavagna era solita scrivere “parola importante” anziché il termine o il nome che sarebbe stato meglio ricordare. Vi posso dire che alla spocchia del primo anno corrisposero altre interrogazioni svoltesi in clima più disteso, addirittura mangiando caramelle e “chupa-chups” oppure versioni così commentate: “bella storia ma non è quella che c’è scritta qui”.

Vi posso raccontare di un “maiale volante” appeso al soffitto, comprato grazie ad una colletta di classe proprio come “mascotte” porta fortuna. E quanto ci sarebbe ancora da dire. Quanti pianti fece la mattina la ragazzina mentre andava a scuola, quante notti passò a studiare per poi prendere talvolta solo delle misere sufficienze, quante sconfitte ma anche quante vittorie. E quante rinunce: inconciliabile con l’intensità dello studio la scuola di danza, che ha dovuto lasciare proprio quando stava imparando a ballare sulle punte. Le scarpette rosa rimasero un ricordo riposto in solaio.

Ma noi abbiamo anche un altro discorso da portare avanti, quello degli storici studenti torinesi: tra i tanti coraggiosi che affrontarono i temibili professori del Gioberti (allora Ginnasio San Francesco da Paola di Torino) ci fu niente meno che Giovanni Giolitti (1842-1928), il grande politico italiano, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel 1901, Vittorio Emanuele III affida l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli, uno dei principali esponenti della Sinistra; nel 1903 Zanardelli, dopo aver concesso un’amnistia ai condannati politici e aver ristabilito una libertà di associazione, seppur limitata, si ritira dall’incarico a causa di una malattia. Nello stesso anno viene chiamato a capo del governo Giovanni Giolitti, ministro dell’interno; egli tiene la carica per quasi dieci anni, periodo comunemente definito “età giolittiana”. Giolitti, liberale ed esponente della Sinistra Costituzionale, si preoccupa di unire gli interessi dei proletari con quelli dei borghesi e degli operai, a tal proposito si dimostra abilissimo nel riuscire a trovare un neutrale equilibrio tra le varie forze in gioco, infatti da una parte favorisce l’industria e dall’altra promuove la legislazione sociale. Giolitti sostiene che lo Stato deve essere “super partes” rispetto agli interessi delle varie fazioni. Non a caso si può definire la parentesi giolittiana democratica e liberale.  L’intelligente perizia politica, nonché la dirittura morale, dello statista è testimoniata anche dall’ampio spazio che egli concede alla libertà di sciopero e dal modo in cui riesce a mantenere l’ordine pubblico durante le varie manifestazioni, in modo perentorio e vigilato, ma sempre evitando repressioni violente.

Nel corso del decennio dell’”età giolittiana”, egli perfeziona la legislazione in favore dei lavoratori più anziani e degli invalidi, emana nuove norme sul lavoro per le donne e per i lavoratori giovanissimi, inoltre estende l’obbligo dell’istruzione elementare fino al dodicesimo anno d’età. Giolitti favorisce poi l’attuazione di migliori retribuzioni stipendiarie, accrescendo così le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici. Da ricordare anche gli interventi nel campo sanitario, come la distribuzione gratuita del chinino contro la malaria, e l’intenso programma di lavori pubblici, che comporta la nazionalizzazione della rete ferroviaria. Uno dei provvedimenti più importanti del governo Giolitti è l’estensione del diritto di voto: secondo la nuova legge del 1912 vengono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile purché abbiano compiuto 21 anni, se in grado di leggere e scrivere e con servizio militare svolto, o 30 anni, se analfabeti e non chiamati sotto le armi. Il numero degli elettori sale così da tre milioni e mezzo a otto milioni e mezzo su un totale di 36 milioni di persone.

Mi sento di poter dire che forse un po’ dell’integrità d’animo di Giolitti derivò sicuramente dai suoi studi liceali, anche se non fu proprio uno scolaro modello, come racconta egli stesso.
Ho voluto un po’ ironizzare in questo articolo che più di altri sento “mio”, ma ora siamo seri: la formazione che ho ricevuto è senza dubbio impareggiabile, quegli anni di duro lavoro, di sforzi e di rinunce e di crescita intellettuale mi hanno aiutato ad affrontare le prove successive e mi hanno effettivamente dato quella “formazione classica che apre tutte le porte”.
Com’è finita la storia della ragazzina? Beh ora la fanciulla (è ormai chiaro che sto parlando di me) è cresciuta, ha realizzato il suo sogno di frequentare l’Accademia di Belle Arti e ricorda un po’ in filigrana i bei momenti passati, quelli che l’hanno aiutata a superare le difficoltà che all’epoca sembravano così insormontabili. La ragazza ancora pensa a quel laboratorio liceale pomeridiano che l’ha portata a fare teatro di strada a Mentone e che in un qualche modo l’ha supportata nella scelta del percorso universitario. Pensa alla cara insegnante di educazione fisica che dirigeva il corso, che spesso sul palco la prendeva in braccio e la faceva volare come “Il Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach. Il “mio” Gioberti è sempre lì, in centro, con le pareti tappezzate di manifesti politici rattrappiti dall’umidità, e ora ammetto che l’unico modo che ho trovato per superare i miei traumi adolescenziali è stato quello di intraprendere, a mia volta, la bella carriera di insegnante.

Alessia Cagnotto

Tarocchi e creature fantastiche nella mostra di Susanna Viale

Creature fantastiche e del mondo dei Tarocchi in mostra nella personale di Susanna Viale negli spazi di Open Ada a Torre Pellice

 

Inaugurazione sabato pomeriggio del 24 agosto, a Torre Pellice, negli Spazi Espositivi di Open Ada, in via della Repubblica 6, della personale di Susanna Viale, curata da Monica NuceraMantelli, dal titolo “Fantastic & Spiritual Creations”. Il termine espositivo è  stato prorogato dal 5 ottobre al 19 ottobre, con orario 15-19.

L’esposizione ‘Fantastic & Spiritualità Creations’ verte sulla rappresentazione allegorica e figurativa di creature fantastiche e immaginarie tra Cielo, Acqua, Aria, Terra ed Etere, ispirati parzialmente agli Elementi. Si richiamano al potere del femminile degli archetipi più  antichi, creati da Susanna Viale, artista potente e multiforme, capace di destreggiarsi abilmente tra pittura e muralismo, scultura e mosaico, come dimostra la sua casa a Pino Torinese nota come “La casa dei sette colori”.

“Le nuove opere esposte in Fantastic & Spiritual Creations- dichiara la curatrice della mostra, Monica Nucera Mantelli – sonocreature inconsuete, che pare vengano avvistate fantasmagoricamente quando si assottiglia il velo tra il mondo fisico e quello spirituale.  Sono rappresentazioni  evocative e coloratissime, che offrono l’opportunità di connettersi con le forze superiori e di ricevere messaggi e segnali da altri regni”.

“Questa ventina di lavori di grandi dimensioni e prettamente realizzati con tecnica mista su tela grezza riciclata – aggiunge Monica Nucera Mantelli – sono stati appositamente prodotti da Susanna Viale per questa esposizione. Una sezione di retrospettiva è, invece, dedicata alla sua ventennale ricerca tarologica, con un allestimento da terra dei suoi 22 Arcani Maggiori (misure 90×150cm) estratti dagli originali 78 Tarocchi, realizzati ad olio su tela di canapa e declinati in chiave alchemico-psicologica.

Oltre a qualche citazione dei suoi mosaici più recenti e piccole sculture, l’allestimento propone, a corredo del magico mondo di Viale, annesso alla natura e ai suoi codici di svelamento, slideshow di immagini sulle Alebijes dell’artista messicano Mario Alva, suo collega di esperienze artistiche in America Latina”.

In occasione dell’inaugurazione  di “Fantastic & Spiritual Creations”,  vi è stata sabato 24 agosto la presentazione ufficiale alla presenza dell’artista, del critico, e del curatore dell’esposizione.  A completamento del vernissage è stato svelato l’antico potere di alcune piante dal sapiente intervento dell’etnoantropologa Tania Re, autrice del volume di ricerca “Stupefacenti e proibite, le Piante Maestre”, edizioni Amrita.

L’inaugurazione è proseguita domenica 25 agosto, alla presenza dell’artista e della curatrice Monica Nucera Mantelli, con apertura dalle 15 alle 18. Un appuntamento assolutamente speciale è  stato quello con il sound healing, o bagno sonoro ( aperto a tutti) curato  e condotto dalle 16 alle 18 da Gabriella Irtino e Guido Battistin. Si è trattato di un’immersione con le opere nei suoni armonici delle campane tibetane antiche, campane di cristallo a 432 Hertz monocorde Pitagora o Ocean Drum. Con la propria stuoia ci si siede e ci si lascia immergere dal potere benefico di queste sonorità.

Durante il periodo espositivo la mostra sarà arricchita da ulteriori appuntamenti tra cui due di  carattere scientifico, che si  terranno nel mese di settembre, con lo studioso e conferenziere Roberto  Mussa, fisico astroparticellare dell’Istituto Nazionale di  Fisica Nucleare, presentato dall’associazione Temporeale TV lab. Due gli appuntamenti sabato 14 settembre, dalle 17 alle 19, con “Pillole di cromodinamica quantistica”, e il secondo sabato 28 settembre dalle 17 alle 19 con la conferenza dal titolo “Strane luci nel cielo: dalle aurore boreale ai fulmini ionosferici”. Le conferenze sono a ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili.

In occasione del Solstizio autunnale tornerà in galleria il Sound healing curato da Gabriella Irtino e Guido Battistin, come complemento del messaggio delle opere d’arte dell’artista Susanna Viale. Vi sarà una nuova immersione nei suoni armonici delle campane tibetane antiche, campane di  cristallo a 432 Herz, monocorda pitagorico, Ocean Drum. Gratuito e aperto a tutti.

L’artista Susanna Viale sarà presente in galleria domenica 15 settembre, sabato 21, domenica 22, sabato 28 e domenica 29 settembre.

La mostra è visitabile tutti i venerdì pomeriggio dalle 15 alle 18 e, sempre dalle 15 alle 18, sabato pomeriggio. La domenica, tranne quelle in cui sarà presente l’artista, su appuntamento.

Mara Martellotta

Forte di Bard Incontri “Le Grand Continent. Tra Gaza e Kiev”

Che cosa significa vivere la guerra dall’interno a Gaza o in Ucraina? Che cosa vogliono Trump, Elon Musk e Xi Jinping?  Che cosa può fare l’Europa? Cosa succederà nel nuovo ciclo politico? In un evento esclusivo, aperto a tutti e a tutte, la rivista di riferimento Le Grand Continent presenterà nel pomeriggio di sabato 31 agosto 2024, dalle 17.30, il suo ultimo volume Fratture della guerra estesa (LUISS University Press), con una serie di tre dialoghi di alto livello organizzati al Forte di Bard che riuniranno alcune delle più prestigiose firme della rivista e del giornalismo italiano.

 

Protagonisti degli incontri saranno Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera), Alessandro Aresu (Limes), Mario De Pizzo (Rai1), Lucia Annunziata (eurodeputata), Federico Fubini (Corriere della Sera), Alessandra Sardoni (La7). Le diverse sessioni saranno moderate a turno da Gilles Gressani, direttore Le Gran Continent, Mathéo Malik e David Allegranti (Le Grand Continent). Il pomeriggio sarà aperto dai saluti della presidente del Forte di Bard, Ornella Badery.

 

 

 

MODALITA’ ADESIONE

. Ingresso gratuito: prenotazione sul portale Eventbrite
. Coloro che sono in possesso della Membership Card del Forte di Bard avranno in omaggio la pubblicazione Fratture della guerra estesa (LUISS University Press)
. Possibilità di sottoscrivere la Membership Card il giorno dell’evento.
Info. T. 0125 833811

Il castello di Agliè, una residenza sabauda nel Canavese

Bellezza, arte, poesia e un po’ di cinema

Eretto nel XII secolo dalla famiglia dei conti San Martino nell’omonimo borgo, uno dei più famosi del canavese, fino al 1600 il Castello di Agliè mantenne l’aspetto di un forte con tanto di muraglia difensiva e fossato.

I primi interventi per renderlo dimora furono fatti a fine secolo dal Conte Filippo che affidò il progetto all’architetto Amedeo di Castellamonte: venne rivisitata la facciata interna, creata la cappella e le due gallerie. Nel 1764 fu venduto al re Carlo Emanuele III dando inizio così alla prima epoca sabauda e divenendo una delle residenze estive reali. Vengono ricavati nuovi appartamenti, edificata la chiesa parrocchiale della Madonna della Neve, collegata al castello così che i membri della famiglia potessero raggiungerla senza essere visti, ampliato il giardino in stile italiano, costruita la fontana dei Fiumi, Dora Baltea e Po, con le belle sculture dei fratelli Collino. Durante il governo di Napoleone venne ceduto perdendo così il tono regale e sontuoso e venendo utilizzato invece come ricovero per i poveri.

Carlo Felice a inizio del 1800 lo rivolle fortemente e gli ridiede un aspetto sfarzoso grazie anche all’intervento dell’architetto Michele Borda che introdusse gli arredi in stile Carlo X, costruì un teatro gioiello e inserì una bella collezione di opere d’arte. Nello stesso periodo vennero introdotti diversi reperti relativi a vari scavi archeologici che Maria Cristina di Borbone, moglie di Carlo Felice, aveva seguito personalmente nel Lazio.

Nel 1939 il castello fu venduto allo Stato con la gestione della Soprintendenza ai Monumenti e dei Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che ancora oggi si occupano del suo mantenimento e della sua salvaguardia. Dal 1997 è parte del Patrimonio Unesco e del circuito dei Castelli del Canavese.

Grazie alla sua bellezza ed eleganza i visitatori sono in costante aumento, la varietà di stili architettonici che si sono susseguiti storicamente e i diversi spazi interni ed esterni da visitare: i saloni, la biblioteca, il teatro, la cappella, i giardini pieni di alberi secolari e serre, attraggono turisti e curiosi da tutta Europa.

Al Castello di Agliè furono dedicati alcuni versi dal poeta Guido Gozzano che durante le sue vacanze di bambino giocava sul piazzale antistante ed è stato un meraviglioso sfondo cinematografico dove sono state ambientate alcune fiction come Elisa di Rivombrosa e Maria José, un luogo dunque dove la magia dell’arte, le storie legate alle famiglie reali, la grandiosità architettonica e la bellezza nella natura si intrecciano conferendogli lo status di meraviglia non solo piemontese ma del mondo intero.

Maria La Barbera

Il Piemonte Documenteur Film Fest nella cornice delle Langhe

Dal 24 al 31 agosto

Dal 24 al 31 agosto torna il PDFF, Piemonte Documenteur Film Fest, una manifestazione pronta a dare il ciak ai nuovi aspiranti registi provenienti da tutta Italia per girare le loro storie nella splendida cornice delle Langhe.

Si tratta del primo festival europeo sul genere del falso documentario, nato nel 2009 da un’idea di Carlotta Givo e realizzato grazie al contributo dei cinque Comuni ospitanti (Monforte d’Alba, Murazzano, Novello, Roddino e Treiso), oltre a quello di RECTV Produzioni srl, della Fondazione Sviluppo e Crescita CRT e co- finanziato attraverso il portale di crowdfunding eppela e Banca Azzoaglio e patrocinio della Regione Piemonte.

“Abbiamo messo a disposizione dei partecipanti uno sceneggiatore e uno scrittore, Pino Pace – spiega la direttrice Ilaria Chiesa – e ci piaceva l’idea di aiutare chi non avesse mai partecipato al PDFF per evitare di uscire troppo dal genere del falso documentario, e per questo abbiamo scelto un ex vincitore come supporto”.

A giudicare l’operato degli aspiranti filmmakers sarà una giuria composta da Sergio Troiano (Cinema Ambrosio), Fabrizio Dividi ( Corriere della Sera, Torino), Daniela Scavino ( La Stampa, Cuneo) , Elena Ciofalo ( Centro Nazionale del Corto) e Lucilla Riggio ( ShortsFit Distribucion).

 

Mara Martellotta