CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 324

“La Bellezza Ritrovata”

 

All’“Imbiancheria del Vajro” di Chieri oltre quaranta opere raccontano la creatività e la magia del processo di riuso nella “Fiber Art”

Fino al 15 settembre

Chieri (Torino)

La mostra, ospitata nei suggestivi spazi della chierese “Imbiancheria del Vajro” rappresenta il quarto appuntamento del progetto “RestART! Museo relazionale Imbiancheria del Vajro”,  il cui obiettivo è raccontare, attraverso cinque mostre nell’arco di due anni, la preziosa “Collezione Civica” di “Fiber Art” del Comune di Chieri, “Trame d’Autore”, che con oltre 300 opere realizzate da artisti di tutto il mondo costituisce un patrimonio di valore e di rilevanza internazionale. Dopo le mostre “I introduce myself” (giugno 2021), “Un grande Abbraccio al Mondo” (marzo 2022) e la quarta edizione di “Tramanda” (settembre 2021), ora “La bellezza ritrovata” propone fino al 15 settembre una selezione di 47 opere di 35 artisti, che evidenziano lo spirito pionieristico e originale del processo di riuso nella “Fiber Art”.

Che, più d’ogni altra espressione artistica, dimostra particolare sensibilità verso il recupero di materiali dismessi, dagli object trouvé ad altri ascrivibili al ready made fino ad oggetti di uso quotidiano trasformati in assemblages. In un processo creativo di intensa suggestione, teso al recupero di “bellezze” trascurate o ignorate. Ciò che l’attuale rassegna all’“Imbiancheria” intende al contrario evidenziare. In un percorso giocoforza complesso “attraverso – sottolinea Silvana Nota, direttrice artistica di ‘RestART’ – un multiforme susseguirsi di visioni: dalla ‘Recycling Art’, ai ‘Combines’ di materiali apparentemente incompatibili tra loro, dalle morbidezze dei fogli per imballaggio alle lamiere intrecciate a fili colorati, dai detriti lasciati dal mare ricomposti in magnifiche sculture aeree per arrivare a soluzioni quasi impensabili di ‘Soft Sculpture’ che si abbarbicano duttili sulle superfici nelle quali vengono appoggiate”. Di particolare interesse, i tre focus site specific pensati per la mostra da Teresa Musolino (sua l’installazione realizzata con materiali di imballaggio e avanzi di nastri e merletti per riportarci con alta adesione storica ai complessi abiti di Sei e Settecento), da Erika Dardano con la sua opera che – attraverso auto rottamate, fili di paracadute e rotoballe di fieno – ci parla del cavallo “Nublado” e dall’installazione di Raffaella Brusaglino che mirabilmente intreccia letteratura e teatro. E di qui ai “Libri d’Artista Tessili” il passo è breve. In questa sezione scopriamo il meraviglioso mondo che viaggia fra illustrazione e fiaba di Daniela Pitton, i “Libri poetici” con inserti di elementi boschivi di Gina Morandini, il “Libro morbido” di Domenico Zanello o ancora il “Libro scultura” di fili ramati e calcografia della “maniera a zucchero” di Paki Paola Bernardi, accanto alla scultura di Fabio Celestre e al libro di Raffaella Baldassarre, pagine che rendono omaggio alle tante persone cui il mondo da tempo non dà voce. Come le parole nascoste dentro l’installazione tattile a muro di Isabella Paris, mentre su un vecchio lenzuolo di cotone, nel quale interviene con stampe laser e altri materiali, Margherita Fergnachino si interroga sugli sbarchi e l’inferno vissuto da persone non più persone, che ci portano al Libro di Raffaella Simone, incentrato sul concetto di empatia, di accoglienza, di multiculturalismo e amore per il nostro pianeta. La calcografia ibridata al tessile, sulla quale scorrono testi letterari di autori diversi, diventano invece pagine del libro di Elisabetta Viarengo Miniotti per arrivare al soave “Libro/spartito” di Clotilde Ceriana Mayneri e all’ “arazzo/quilt” non convenzionale della tedesca Margit Kupsch o al “Libro/non libro”, risultato di un’azione di “Arte Collettiva”, di Giustino Caposciutti. Immagine gioiosa di ballerine in fila nell’atto della danza, l’opera di Giulia Carioti che mi piace ricordare accanto a quella di Eva Basile che riprende e recupera esempi di tessiture del passato “per evidenziarne la bellezza attraverso l’ottica del modulo che, nel ripetersi, crea un tutto in continua variazione”.

Svariati e molteplici (dalla salvaguardia della Natura e dell’Ambiente all’ascolto concreto della Memoria) gli altri temi su cui s’incentrano i lavori dei restanti artisti presenti in mostra. Tanti. Fra i quali ricordiamo ancora, solo per citarne alcuni, la norvegese Siri Gjesdal, pioniera nel campo dell’Ambiente, insieme ad Annamaria Fricano e a Luisa Pozzo. Suggestivo l’“abito/scultura indossabile” di Lucia Gatti, affiancato allo scialle e guanti vintage di Teodolinda Caorlin e alla ricerca dell’“anima racchiusa nelle stoffe” di Gaia Lucrezia Zafferano e di Tiziana  Contu. In chiusura, Fiorenzo Tiberio raccoglie nella sua installazione piccoli segmenti di prototipi presentati dagli artisti nelle quattro edizioni delle “Biennali Chieresi” di “Fiber Art”. Voce unica  “che unisce luoghi e persone sparse nel mondo che a Chieri hanno portato un sogno e ricevuto casa”.

Per info: “Imbiancheria del Vajro” (via Imbiancheria 12, Chieri – Torino; tel. 011/5211788 o www.comune.chieri.to.it; sab. e dom. dalle 15 alle 18).

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Teresa Musolino: “Imballaggio artistico”

–       Giulia Carioti: “Campionario di ballo”

–       Eva Basile: “Repeat”

Pilar Fogliati madrina del 40° Torino Film Festival

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Torino, 25 novembre – 3 dicembre 2022

Sarà Pilar Fogliati la madrina della 40ma edizione del Torino Film Festival, diretto da Steve Della Casa.

Attrice poliedrica per il grande e piccolo schermo, oltre che conduttrice in tv e in radio, Pilar Fogliati è uno dei volti più sorprendenti degli ultimi anni. Nella sua carriera ha sempre scelto progetti in grado di coniugare la qualità con il gusto pop, tra cui la serie di successo targata Rai1 Cuori o la commedia di Riccardo Milani Corro da te.

Tra i suoi impegni cinematografici più recenti ci sarà il suo esordio alla regia con il film Romantiche, prossimamente in sala per Vision Distribution, che la vedrà anche protagonista.

La cerimonia di apertura condotta da Steve Della Casa con Francesco De Gregori si terrà venerdì 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Pilar Fogliati come madrina dichiara:

“La violenza sulle donne è una forma di barbarie che non fa onore a nessuna civiltà umana. Quindi l’obiettivo è puntare sull’educazione delle nuove generazioni, narrando gli episodi di violenza sulle donne non come momenti di “raptus emotivi” ma di deficit culturali. Quando sento di donne che non vengono credute mi vengono i brividi. Anche questo è un deficit culturale. Per questo bisogna sostenere sempre di più quelle che hanno il coraggio di denunciare.”

Pilar Fogliati si diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico. Dopo l’esperienza a teatro inizia a recitare per il piccolo schermo in varie serie televisive tra cui Un passo dal cieloMai scherzare con le stelleExtravergine e Cuori e al cinema con Forever YoungCorro da te.

Oltre all’esperienza come attrice lavora come conduttrice dell’Extrafactor, il dopo X Factor, insieme ad Achille Lauro, in radio insieme a Steve Della Casa nel programma Hollywood Party e con Giovanni Veronesi nel programma Non è un paese per giovani. Con quest’ultimo ha scritto la sceneggiatura della sua opera prima dal titolo Romantiche, una commedia che uscirà sul grande schermo a gennaio 2023.

Il Torino Film Festival è realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino

Ezio Gribaudo, artista e uomo libero

Di Pier Franco Quaglieni 

La morte di Ezio Gribaudo rappresenta una grave perdita per Torino perché la sua figura, apprezzata a livello internazionale e dai più importanti e famosi  artisti, rappresenta nell’ambito della vita culturale italiana e torinese in particolare un unicum. Gribaudo e’ sempre stato un artista libero rispetto alle consorterie politiche, un esempio di indipendenza rispetto alla liturgia ideologica che è stata egemonica e soffocatrice.
Se Daverio e’ stato l’anti Argan, Gribaudo è stato l’anti Guttuso. Tanto impegnato,  schierato supinamente il secondo  nei confronti del partito comunista, tanto disorganicamente libero il primo.
Avevamo una profonda comunanza di ideali,  anche se Gribaudo è stato  spesso più intransigente di me. In una Torino dominata dalla feroce egemonia gramsciana fin dai tempi in cui un noto pittore si rifiuto’ di fare lezione perché voleva imporre all’Accademia Albertina una giornata di lutto per la morte di Stalin, Gribaudo ha saputo mantenere le distanze, resistendo alle lusinghe e alle minacce, forte dell’apprezzamenzo nazionale e internazionale della sua opera.  Ricordo perfettamente il conformismo plumbeo del mondo artistico torinese, malgrado lo storico Circolo  degli artisti, presieduto dall’avv. Forchino e poi dall’avv. Tartaglino, fosse una realtà aperta davvero unica. Gribaudo ha saputo steccare nel coro. Ricordo due episodi : la candidatura in Forza Italia nel 1994 non coronata dall’elezione in Parlamento che va a disdoro di un partito che a Torino non ebbe mai la più piccola attenzione per il mondo della cultura, se si eccettua l’assessore regionale Giampiero Leo. E ricordo che per aver concesso l’Aula Magna dell’Accademia Albertina per ricordare Oriana Fallaci fu di fatto rimosso dalla prepotenza sindacale della CGIL dalla carica e sostituito con il solito funzionario del vecchio PC. Gribaudo e’ stato davvero un chierico che non ha tradito.  Ed è di conforto che la figlia Paola, così vicina a suo padre intellettualmente e non solo affettivamente, sia oggi Presidente di quell’Accademia che la presidenza di Ezio aveva onorato facendola uscire dal tunnel di un eterno Sessantotto.

Lo stambecco prim’attore al Forte di Bard

Re salva Re. Arriva il “25° Gran Paradiso Film Festival”

Fino al 9 ottobre

Bard (Aosta)

Re salva Re. Pochi sanno, infatti, che a salvare dal pericolo di estinzione la specie dell’animale simbolo, ufficialmente riconosciuto come il Re del “Gran Paradiso”, sua maestà lo Stambecco, fu proprio un altro Re, nientemeno che Re Vittorio Emanuele II che, nel 1856, fece proteggere gli ultimi esemplari (quando ormai, per la caccia smodata e senza regole dell’uomo se ne contavano solo poche centinaia nelle Alpi italiane e francesi) in una riserva privata in Valsavaranche dove, per suo ordine, un gruppo speciale di guardacaccia li proteggeva da altri cacciatori.

Da allora la Capra ibex (suo nome scientifico), le cui origini ci portano indietro nel tempo fino al “Paleolitico”, a 100mila anni fa, quando lo stambecco viveva in tutte le regioni rocciose dell’Europa centrale (come testimoniano ancora oggi le pitture rupestri rinvenute nelle grotte di Lascaux in Francia), il magnifico animale ha ripreso nuova vita diventando veramente il Re incontrastato del “Parco Nazionale del Gran Paradiso”. A celebrarne la forza, l’agilità e l’eleganza è oggi (e fino al 9 ottobre) il valdostano “Forte di Bard” che, ospitando il progetto espositivo del “25° Gran Paradiso Film Festival”, “GPFF in mostra – Il Gran Paradiso e il suo Re” ( ideato da “Fondation Gran Paradis” e co-prodotto dall’“Associazione Forte di Bard” con la collaborazione del “Parco Nazionale Gran Paradiso”) ne traccia un sorprendente doppio ritratto attraverso gli scatti del fotografo romano Giorgio Marcoaldi – tratti dal volume “Il Re, lo stambecco del Parco Nazionale del Gran Paradiso” – e le immagini cinematografiche dei registi francesi Anne ed Erik Lapied, in cui “si racconta una storia di equilibrio fra uomo e natura e di reciproca salvezza, nel primo Parco Nazionale d’Italia”.

Ricordano gli organizzatori: “Nel 2022 la Valle d’Aosta celebra la concomitanza di due ricorrenze dal forte valore simbolico: il 100° anniversario dell’istituzione del ‘Parco Nazionale Gran Paradiso’ e la 25^ edizione del ‘Gran Paradiso Film Festival’ (principale evento culturale dell’area del Gran Paradiso), che, iniziata l’11 luglio scorso, si terrà fino al 6 agosto nelle tre valli valdostane dell’area protetta e la cui sezione ‘GPFF in mostra’ sarà visitabile per tutta l’estate al ‘Forte di Bard’, con uno ‘spin off’ nel Gran Paradiso”. Il progetto espositivo (inaugurato il 16 luglio scorso, alla presenza degli stessi Giorgio Marcoaldi e Anne ed Erik Lapied, insigniti nell’occasione del titolo di “Grand Paradiso Ambassador”) “si snoda attraverso la storia, i luoghi, le caratteristiche ed il valore simbolico dello stambecco alpino, offrendo ai visitatori vari spunti e suggestioni per avvicinarsi alla realtà unica del Gran Paradiso”. Sempre sabato scorso, 16 luglio, è stato anche proiettato il film “Le Temps d’une Vie” di Anne, Erik e Véronique Lapied, la cui trama ruota intorno alla vita di uno stambecco, con straordinarie riprese girate all’interno dell’area protetta. La pellicola verrà ancora proiettata all’interno dell’Auditorium dell’“Opera Mortai” del Forte, in altre tre date: sabato 13 agosto, sabato 3 settembre e sabato 8 ottobre, alleore 16.

Lo “spin off” della mostra “Il Gran Paradiso e il suo Re” é invece allestito outdoor nelle stesse date presso il “Villaggio Minatori” di Cogne, sede di “Fondation Grand Paradis”, ed espone una diversa selezione di scatti di Giorgio Marcoaldi, sempre dedicati alla Capra ibex, che riportano il progetto nei luoghi che racconta. Lo “spin off” sarà visitabile gratuitamente ogni giorno a qualsiasi ora.

Maggiori informazioni sono disponibili sui siti: www.gpff.it  e www.fortedibard.it

g.m.

Nelle foto:

–       Giorgio Marcoaldi: “Stambecco”

–       Giorgio Marcoaldi

–       Anne ed Erik Lapied

Quella spada crociata in fondo al mare…

Da Sidone, fortezza crociata in Libano, al Guado di Giacobbe, dalle sorgenti dell’antica Seforia a Tiberiade, l’archeologia delle crociate non finisce di stupire ricercatori, storici e archeologi.

Le ultime scoperte sono eccezionali e hanno messo al lavoro interi team di specialisti giunti anche dall’estero. Dal mare e dai campi di battaglia della storica Terra Santa dove cristiani e e musulmani si combatterono con ferocia continuano ad affiorare importanti reperti come resti di scheletri, frecce, utensili, monete e spade, come quella riemersa nello scorso autunno al largo di Haifa in Israele. Scrivevamo allora, con tanta immaginazione e non poco entusiasmo, che poteva trattarsi della spada di Corrado, il celebre marchese del Monferrato, uno dei protagonisti più illustri di tutta la storia delle Crociate nonché il piemontese che sconfisse in battaglia nientemeno che il Saladino. Ebbene, dopo lunghe e meticolose analisi, il Dipartimento israeliano per le Antichità è giunto alla conclusione che si tratta di un’arma assai rara poiché finora le spade ritrovate risalenti a quell’epoca sono pochissime. Quest’ultima, rinvenuta nelle acque di Haifa, è sicuramente appartenuta a un cavaliere crociato del XII secolo. Quale cavaliere non si saprà mai anche se il prode Corrado è passato proprio da quelle parti. Giaceva sul fondale da secoli, coperta dalla sabbia e incrostata da organismi marini. Con la lama lunga circa un metro, quasi del tutto intatta, la spada si presenta in ottime condizioni, impugnatura compresa. Se ci spostiamo all’interno di Israele, a nord del lago di Tiberiade o Mar di Galilea, incontriamo il Guado di Giacobbe che alla fine di agosto del 1179 fu teatro di uno scontro armato tra l’esercito crociato del regno di Gerusalemme e l’armata musulmana comandata dal Saladino che vinse la battaglia. Il condottiero curdo attaccò il castello al Guado di Giacobbe (Vadum Jacob), che sorgeva sul Giordano nell’alta Galilea, fatto costruire da Baldovino IV, re di Gerusalemme, e dai Templari, e dopo un assedio di cinque giorni lo conquistò. I difensori cristiani vennero tutti uccisi e il castello fu distrutto. Della fortezza, nell’odierna Ateret, rimane solo il muro perimetrale: le rovine che vediamo sono lì da più di otto secoli, nelle stesse condizioni lasciate il giorno della caduta del castello nelle mani delle truppe di Saladino, il 30 agosto 1179. I resti di molti crociati caduti per difendere il castello sono venuti alla luce insieme a ossa di cavalli e pezzi di frecce e lance. Secondo le analisi condotte da due gruppi di studiosi inglesi e israeliani si trattava proprio di una guarnigione di crociati. Ma non è l’unico ritrovamento crociato che ha fatto scalpitare gli archeologi. Nei pressi di Zippori, città israeliana nella Galilea centrale, lungo la strada che conduce a Tiberiade, sono stati trovati i resti di un probabile accampamento crociato. Qui sono riemersi, durante gli scavi per realizzare un’autostrada, scheletri, monete, frecce e oggetti personali. Secondo il Dipartimento israeliano per le antichità, a Zippori, l’antica Seforia con le sue preziose sorgenti, c’era un campo militare con una fortezza crociata, oggi restaurata, che fu abbandonata nel luglio 1187 appena il Saladino assediò e conquistò Tiberiade, poco prima del trionfo musulmano ad Hattin. I crociati si accamparono a Seforia perché c’era acqua in abbondanza e buoni pascoli per i cavalli. Partirono da lì per la decisiva battaglia di Hattin dove furono sconfitti dall’esercito del Saladino che poco dopo si impadronì di Gerusalemme. Anche nel vicino Libano non mancano ritrovamenti di notevole valore storico. Un’equipe di archeologi impegnati in scavi attorno al Castello del Mare a Sidone, roccaforte dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e in seguito dei Templari, hanno rinvenuto cumuli di ossa, non di civili ma di soldati, gettate in alcune fosse comuni insieme a frecce in lega di rame, monete d’argento risalenti a Federico II di Svevia, anelli, fibbie di cintura e altri oggetti. Anche questo recupero, come quelli al Guado di Giacobbe e a Zippori, riporta alla luce uno dei tanti massacri compiuti al tempo delle crociate.                                     Filippo Re

Distretto Reale Stupinigi, 21 milioni di euro per la valorizzazione del complesso urbano e rurale

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Sette anni dopo il Protocollo d’Intesa stipulato nel 2015, i sei Comuni di Nichelino, Candiolo, Orbassano, Beinasco, None, Vinovo firmano lunedì 18 luglio l’accordo attuativo del protocollo di valorizzazione del complesso urbano e rurale di Stupinigi.

Una firma che mette in moto una serie di attività condivise e coordinate per lo sviluppo culturale, ambientale e socio-economico per complessivi 21 milioni di euro. All’accordo attuativo hanno aderito la Regione Piemonte, la Città Metropolitana, la Città di Torino, il Consorzio Residenze Reali, l’Ente di gestione delle Aree Protette dei Parchi Reali, la Fondazione Ordine Mauriziano.

La prima azione è la creazione del “Distretto Reale Stupinigi”, un logo che diventa un vero e proprio marchio di qualità per il riconoscimento dell’intero territorio e delle attività finalizzate al recupero urbanistico, architettonico, culturale, paesaggistico e naturalistico. L’istituzione della de.co (denominazione comunale) “Distretto Reale Stupinigi” permetterà di tutelare e valorizzare le tipicità tradizionali locali, agro-alimentari, artigianali, turistico-ricettive e culturali.

Per quanto riguarda le infrastrutture, sono ripresi i lavori della variante di Borgaretto che consentirà di collegare, entro la fine del 2022, la SP 174 a Borgaretto, dalla rotatoria Palmero, con la SP 143 a Tetti Valfrè nel comune di Orbassano. Saranno completati i percorsi ciclabili che partono da Vinovo, Orbassano e parco Sangone, fino al polmone verde di Stupinigi, grazie al bando Next Generation We – Competenze, strategie, sviluppo delle pubbliche amministrazioni, promosso dalla Fondazione Compagnia di San Paolo. In programma anche il progetto di prolungamento della linea 4 dal fondo di corso Unione Sovietica ai poderi settecenteschi che fanno da preludio alla Palazzina. La progettazione preliminare dell’opera sarà realizzata con i fondi del PUMS – Piano Urbano della Mobilità Sostenibile, ottenuti dalla Città Metropolitana di Torino.

L’accordo attuativo del protocollo di valorizzazione riguarda anche il restyling dei poderi San Carlo e San Raffaele e la riqualificazione del giardino storico della Palazzina di Caccia di Stupinigi. Il progetto di recupero dei poderi riguarda una porzione già parzialmente utilizzata dell’antico complesso agricolo denominato “concentrico” che costituiva il cuore pulsante del borgo di Stupinigi. Il piano, completamento autofinanziato dagli operatori economici presenti nei poderi per circa 1 milione 860mila euro, è stato curato e diretto da Coldiretti Torino e prevede il recupero delle strutture storiche e il loro rilancio in ambito commerciale e ricettivo con la creazione di nuovi servizi legati ai prodotti e alle tradizioni locali, tra cui anche il ripristino del servizio di noleggio bici.

Con il progetto di restauro del Parco Storico della Palazzina di Caccia di Stupinigi, invece, la Fondazione Ordine Mauriziano ottiene i fondi del PNRR tramite il bando del ministero della Cultura dedicato ai parchi e ai giardini storici, finanziato dall’Unione Europea attraverso i fondi NextGenerationEU. Il finanziamento di 1.983.083,33 euro (pari al 100% della somma richiesta) consentirà di coniugare il recupero del disegno caratteristico del giardino, unico nelle sue forme e configurazione ed espressione della genialità di Filippo Juvarra, e la sua componente botanica originale con le esigenze di tutela ambientale presenti.

A livello operativo, con la firma dell’accordo attuativo sono stati definiti i ruoli e quantificate le quote economiche di compartecipazione a carico di ciascun ente, è stato attivato un “fondo cassa” comune annuale di 30.500 euro per la realizzazione di alcune attività condivise di valorizzazione ed istituita una segreteria tecnico-amministrativa. Il Comune di Nichelino è stato individuato come Ente capofila, le quote di competenza sono state definite su base demografica: 40,22% Nichelino, 19,94% Orbassano, 15,16% Beinasco, 13,03% Vinovo, 6,79% None, 4,87% Candiolo.

Tutti i progetti sono raccolti nel Masterplan “Azioni per la valorizzazione e lo sviluppo del Distretto dei Comuni del Protocollo” condiviso con la Regione Piemonte e costantemente aggiornato. Il Masterplan quest’anno sarà digitalizzato, grazie al finanziamento di Fondazione CRT, così da rendere interattiva la conoscenza e la partecipazione di tutti i cittadini.

Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour

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Torino e la Scuola

1. “Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
2. Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
3. Le riforme e la scuola: strade parallele
4. Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
5. Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
6. Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
7. Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
8. Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
9. UniTo: quando interrogavano Calvino
10. Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

8  Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour

Il problema è che spesso quello che si studia a scuola ci sembra così lontano da noi, troppo affinché ci possa effettivamente essere utile. A che cosa potrebbe mai servirci conoscere le “Rime petrose”? Qual è l’utilità di saper eseguire la parafrasi di un testo poetico o di riuscire a comprendere le cosiddette “lingue morte”? Ci fermerà mai qualcuno per strada chiedendoci il calcolo del “pi-greco” ( π ) con il metodo di Newton? E allora che ce ne facciamo di tutte queste “nozioni”? La domanda rimane sempre la stessa: a che cosa serve andare a scuola? E purtroppo ancora non riusciamo a trovare una risposta abbastanza convincente per motivare i nostri giovani a studiare e ad ascoltare con attenzione le lezioni dei docenti.
Nel nostro “lato del mondo che in fondo in fondo è perfetto” sono molti i diritti sottovalutati o dati per scontati, uno di questi è proprio il diritto all’istruzione. Già, perché di “diritto” si parla, ossia qualcosa che si è conquistato, per cui si è combattuto, e che ora quasi ci scoccia avere, poiché comporta impegno e dedizione e soprattutto ci obbliga a spendere tempo, proprio quello che ci manca in questa società dell’immediato, dell’ “ok Google”, della spunta blu di “WhatsApp”. È ovviamente sbagliato generalizzare, “fare di tutta l’erba un fascio”, quindi mi scusino quei ragazzi che prendono appunti, che seguono con assiduità le spiegazioni, che svolgono gli esercizi e che partecipano attivamente alle lezioni, proprio per crescere intellettualmente. Al contrario si sentano presi in causa quei giovani studenti svogliati che amano poco la scuola e che magari preferirebbero andare subito a lavorare.

Una delle grandi problematiche del moderno Duemila è la dispersione scolastica, fenomeno complesso e articolato, e di non facile soluzione. I fattori che comportano l’abbandono dell’istruzione sono diversi, tra di essi la spendibilità del titolo di studio in ambito lavorativo e la conseguente mancata motivazione dello studente che per forza di cose si domanda: “e poi?”
E mentre gli adulti si ostinano a considerare le aule scolastiche come fucine per creare “lavoratori”, un topolino in completo scozzese prova a convincere i bambini che ricevere un’istruzione serve a formare dei “cittadini” consapevoli in grado di vivere nel mondo, con determinati diritti e doveri. “Andare a scuola è un’occasione per imparare a “vivere” bene con gli altri e a risolvere i problemi di tutti i giorni.” (Geronimo Stilton). Chissà se prima o poi impareremo la lezione. Mi sento in ogni caso di dire che la comunità scolastica è forte, e continua “a combattere contro l’ignoranza” – come dice sempre mio padre prima di incominciare una lezione. Proprio la nostra Torino può vantarsi non solo di ospitare delle ottime scuole, ma anche del fatto che una di queste sia annoverata tra le migliori istituzioni della Penisola. Si tratta del Liceo Classico Cavour.

Il “Regio Liceo-Ginnasio Camillo Benso Conte di Cavour”, insieme al Liceo Classico Vincenzo Gioberti, è uno degli Istituti scolastici più antichi d’Italia. Le due istituzioni così rinominate risalgono al 1865 a seguito del Regio Decreto 229 che istituisce i primi Licei del Regno d’Italia. Le origini del Cavour in verità si possono fissare intorno al 1568, all’inizio l’istituto è conosciuto con il nome di Collegio dei Nobili di Torino, e tale rimane fino al 1805, quando viene convertito in Liceo, pur mantenendo la medesima sede. Con la Riforma Boncompagni diviene Collegio-Convitto Nazionale di Educazione, infine, con la Legge Casati, vengono istituiti il Liceo, il Ginnasio e il Convitto nazionale. Pochi anni dopo, tali istituzioni vengono titolate a Cavour, con il decreto che denomina con il nome di italiani illustri tutti i più antichi istituti superiori. Nel 1900, con altri celebri licei italiani, il Cavour partecipa all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1931 la sede della scuola viene trasferita dall’originale indirizzo a quello attuale, ossia Corso Tassoni 15. A partire dalla fine degli anni Ottanta viene aperta una succursale in via Tripoli 82. Nel corso degli anni, il liceo ha ospitato allievi che si sarebbero poi distinti in diversi ambiti, e illustri docenti: ricordiamo l’italianista Augusto Monti, i latinisti Ettore Stampini e Augusto Rostagni, lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan e il matematico Giuseppe Peano. Furono altresì studenti “cavourrini”, seppure solo per i due anni del ginnasio, Guido Gozzano e Cesare Pavese. Per quel che riguarda la politica, figura rilevante è Luigi Einaudi, ex “cavourrino” divenuto Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955; allievi del Cavour furono anche i sindaci di Torino Grosso e Cardetti. Il Cavour merita di essere citato anche per lo sport: una squadra di calcio dell’Istituto si distingueva a livello giovanile all’inizio del Novecento, ed ex allievo è stato l’olimpionico Livio Berruti. Attualmente l’ex- allievo più conosciuto è Alessandro Barbero, Ordinario di Storia Medioevale presso l’Università del Piemonte Orientale.
Tra i tanti nomi indicati ed ex allievi del Cavour, chi scegliere come “studente torinese” da approfondire per la mia rubrica su Torino e la scuola? Con l’augurio di avere presto l’occasione di scrivere anche degli altri, ho deciso di dedicare questo mio pezzo a Cesare Pavese, autore che ho sempre molto amato, anche per quel malinconico “mal di vivere” che caratterizza le sue opere e la sua biografia, figura di intellettuale che ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura del dopoguerra, attento alla realtà popolare e contadina, aperto agli aspetti della cultura europea e americana. La sua vita è una continua e tormentosa analisi di se stesso e dei rapporti con gli altri; un ossessivo scavo interiore che alla fine lo porta al suicidio, un percorso seguito con ostinata analisi nel suo diario, intitolato “Il mestiere di vivere”, iniziato il 6 ottobre 1935 e chiuso il 18 agosto 1950, poco prima della morte, con le drammatiche parole: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paesino in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. La famiglia si trasferisce poi nel capoluogo piemontese, il ragazzo rimpiangerà sempre i paesaggi delle Langhe, che eleggerà a simbolo di spensieratezza e serenità. Poco dopo il trasferimento, il padre muore; l’infausto avvenimento segna l’intera esistenza del futuro scrittore, che già da bambino dimostra un’indole introversa e riservata. Egli ama rifugiarsi nei libri e fare lunghe passeggiate solitarie nei boschi, piuttosto che giocare con i coetanei. La madre reagisce al lutto irrigidendosi e rifugiandosi nel proprio dolore, mostrando nei confronti del figlio freddezza e riserbo e attuando un ferreo sistema educativo che di certo non è d’aiuto allo sviluppo emotivo del ragazzo. Tutta l’esistenza di Cesare è segnata da tormentose e drammatiche situazioni e lui rimarrà sempre quell’adolescente silenzioso e introverso, forse non del tutto in grado di affrontare le difficoltà che il destino decide di porgli innanzi.

Cesare compie gli studi a Torino, frequenta il biennio ginnasiale presso il Liceo Classico Cavour e termina la sua formazione al Liceo D’Azeglio, dove ha come professore di italiano e latino Augusto Monti, grande studioso e figura prestigiosa della Torino antifascista. Determinante per Pavese l’insegnamento di Augusto Monti, crociano, amico di Piero Gobetti e ammiratore di Antonio Gramsci: il rapporto tra Maestro e allievo si trasforma presto in profonda amicizia e “comunione spirituale”, tanto che così afferma lo stesso Monti di Cesare: “il primo dei miei scolari, il primo che, uscito dalla mia scuola, abbia voluto entrar nella mia amicizia, il primo quindi anche cronologicamente dei miei scolari più miei”.
Al D’Azeglio Cesare è iscritto all’indirizzo moderno, il greco lo studierà da solo, nelle vacanze successive alla licenza liceale (che conseguirà nel 1926 con ottimi voti), “per potere un giorno ben conoscere anche la civiltà omerica, il secolo di Pericle, e il mondo ellenista”.

Al liceo D’Azeglio, importante è la frequentazione di amici come Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Einaudi.
Cesare si iscrive alla Facoltà di Lettere, mette a frutto i suoi studi di letteratura inglese e si dedica ad un’intensa attività di traduzione di scrittori americani. Si laurea nel 1932 con una tesi sul poeta americano Walt Whitman. Continua negli anni seguenti un intenso lavoro di traduttore delle opere di Defoe, Dickens, Melville, Joyce.
Il 4 novembre 1931 la madre di Cesare muore, un grave lutto che il giovane tenta invano di rielaborare: “Se nascerai un’altra volta dovrai andare adagio anche nell’attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci”, scrive. Dopo tale triste avvenimento rimane a vivere presso la sorella Maria, il cognato e le nipotine. Nel 1932 si dedica all’insegnamento in scuole private e serali (Carmagnola, Bra, Saluzzo, Vercelli, Torino).

Nell’inverno del 1932, attraverso Leone Ginzburg, incontra un’insegnante di matematica di cinque anni più vecchia, militante comunista, e tra i due nasce l’amore (una delle tante difficoltose esperienze d’amore di Pavese). Si tratta di Battistina Pizzardo (Tina) che così descrive lo scrittore: “ Cesarino: a quei tempi era un bel ragazzo alto, snello, un gran ciuffo sulla fronte bassa, il viso liscio, fresco, di un leggero color bruno soffuso di rosa, i denti perfetti. Mi piacevano i suoi occhi innamorati, le sue poesie, i suoi discorsi tanto intelligenti che diventavo intelligente anch’io, mi piaceva il senso di fraternità, che ci veniva dalla stessa origine bottegaio-contadina, da un’infanzia vissuta nei nostri paesi delle Langhe, e per tanti versi simile”.
Sono anni difficili per il giovane, e poi egli non è iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa è decisamente altalenante.

Nel 1934 sostituisce Leone Ginzburg, arrestato dai fascisti, nella direzione della rivista “La cultura” e inizia la sua collaborazione alla casa editrice Einaudi. Per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato nel 1935 processato e inviato al confino a Bracalone Calabro fino alla fine del 1936, anno in cui esce il suo libro di poesie “Lavorare stanca”, una poesia realistica e simbolica, caratterizzata da una lunga cadenza del verso, quasi un verso narrativo, un verso libero. Egli stesso aveva precisato già nel 1928: “in mezzo alla vita che ci circonda, non è più possibile scrivere in metro rimato come non è lecito andare in parrucca e spadino”. L’arresto avviene di mattino (il 15 maggio 1935), proprio il giorno in cui avrebbe dovuto sostenere il concorso generale per i licei e istituti magistrali. Al momento dell’arresto era supplente al liceo D’Azeglio e, di sera, presso gli istituti privati Bertola e Dainotti. Quando è al confino, scrive alla sorella facendo riferimento agli attacchi d’asma (ne soffriva fin da ragazzo): “L’asma qui viene così forte che non basta fare il fumo prima di coricarsi, ma bisogna ripeterlo alle tre di notte, dopo un doloroso risveglio per soffocamento”, e intanto sollecita l’invio di libri da parte della famiglia e degli amici per poter leggere e tradurre, soprattutto dal greco, Omero e Platone.

Il 13 marzo 1936 ottiene il condono e il 19 marzo ritorna a Torino e apprende che Tina è prossima al matrimonio. Ne rimane colpito e cade in una profonda crisi depressiva. Continua a tradurre scrittori inglesi e americani e a collaborare attivamente con la casa editrice Einaudi, un impegno senza orari né risparmio di energie. Tra i tantissimi lavori da cui è sommerso, (dice egli stesso che “nel caldo bestiale di agosto”, “gira per le grandi stanze solo come Bellerofonte nel campo Aleio”), merita ricordare il suo consistente intervento di revisione di un saggio di traduzione da Omero di Rosa Calzecchi Onesti, una delle versioni omeriche che diverranno classiche, e che egli giudica fin da subito “notevole”. Nel periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la sua produzione letteraria è ricchissima. Ma le delusioni della vita e soprattutto del cuore sono troppo pesanti. Alla fine della guerra si iscrive al partito comunista e pubblica sull’Unità “I dialoghi col compagno” (1945); seguono anni di intenso lavoro, in cui egli scrive le sue opere di maggior successo, e approfondisce studi sul mito e sul folklore. Nel 1950 pubblica “La luna e i falò”, e nello stesso anno vince il Premio Strega con “La bella estate”. La vita sembra aver preso la piega giusta, Cesare è circondato da intellettuali con cui passa gradevolmente il tempo e i suoi scritti circolano senza difficoltà. Eppure Cesare non riesce a vincere quella pesantezza del cuore, convinto della insuperabile falsità nei rapporti umani, a cui si aggiunge l’amarezza della sua difficoltà a vivere i rapporti amorosi, e decide che il mondo non è più il suo posto. Nonostante il successo e la mondanità egli è profondamente solo e disincantato.

Nella sua Torino, in una camera dell’hotel Roma di Piazza Carlo Felice, nella torrida notte tra il 26 e il 27 agosto 1950, Cesare si toglie la vita con una eccessiva dose di sonnifero, compiendo il gesto definitivo del suicidio che lo aveva ossessionato fin dall’adolescenza.  Un proposito divenuto un “vizio assurdo” in seguito al progressivo disadattamento esistenziale. Sul comodino, una copia dei “Dialoghi con Leucò” su cui scrive: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Particolarmente significativo il giudizio di Calvino sulla figura di Pavese: “Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio di idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna”.

Alessia Cagnotto

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Brigitte Riebe “Il tempo della speranza” -Fazi Editore- euro 18,50

E’ il capitolo finale della trilogia che narra le vicende delle sorelle del Ku’damm: saga iniziata con tre giovani a Berlino costrette a ripartire dalle macerie della guerra e dai grandi magazzini di famiglia rasi al suolo dalle bombe. Le abbiamo seguite mentre diventavano donne più sicure e padrone dei loro destini. Dopo “Una vita da ricostruire” e “Giorni felici” (che hanno ripercorso la crescita di Rike e Silvie) ora l’epilogo è negli anni Sessanta ed ha come protagonista Florentine la più piccola delle sorelle Thalheim.

L’avevamo conosciuta nel primo capitolo quando era una bambina vivace e curiosa; adesso la ritroviamo nel 1958, al ritorno da Parigi dove ha studiato arte e fatto esperienze, inclusa una storia d’amore dal sapore bohemienne.
Dopo una fase di smarrimento ha capito che la cosa migliore era tornare nella bella villa di famiglia.
Il padre vorrebbe che lavorasse nei grandi magazzini di famiglia, i più prestigiosi di tutta Berlino.
Ma Florentine ha altri piani ed una sola certezza: sa che solo quando inizia a dipingere si sente felice e realizzata, tuttavia deve ponderare bene che direzione prendere nel suo futuro.

Florentine è molto diversa dalle sorelle.
Rilke, assennata e concreta, era stata l’artefice della rinascita dei magazzini a partire da una sfilata tra le macerie che aveva decretato la ripresa.
Silvie, sensuale, estroversa e affascinante ha trovato il successo con il suo programma alla radio.
Rispetto a loro, Florentine è la meno simpatica; umorale, capricciosa, egoista convinta che il mondo giri intorno a lei.
Però in questo romanzo la Riebe la fa crescere nel corso degli anni e quando nel 1961 Florentine ha 27 anni e viene eretto il muro che trancerà in due Berlino (fino al 1989) la troviamo più equilibrata e matura.
Si iscrive all’Accademia d’Arte, però a complicarle la vita sarà il suo insegnante, e seguiremo da vicino l’evolversi della storia.
Intanto sullo sfondo c’è la Berlino divisa tra Est e Ovest, emblema della Cortina di Ferro che segnerà 28 anni complessi e difficili, fatti di tensioni e cambiamenti, anche nel mondo della moda.

 

Nancy Mitford “Rincorrendo l’amore” -Adelphi” euro 18,00
E’ stato pubblicato nel 1945 e fu subito best seller questo che è il primo romanzo della scrittrice inglese (nata a Londra nel 1904 e morta a Parigi nel 1973), famosa per i suoi romanzi che raccontano luci ed ombre dell’alta società. Senza dimenticare che è stata anche un’abile ed importante biografa; ha ricostruito le vite di Luigi XIV di Francia, di Madame de Pompadour, di Voltaire e di Federico II di Prussia.
E’ la primogenita delle 6 famose e scandalose sorelle Mitford, figlie del barone Redesdale e di Sydney Bowles figlia dell’editore e giornalista proprietario di un’agenzia di stampa che pubblicava, tra gli altri, “Vanity Fair” e “Lady”.
Questo romanzo in parte è autobiografico, nel senso che la Mitford conosce bene il mondo che romanza, e tratteggia un quadro irriverente che porta a galla anche gli aspetti meno nobili delle famiglie blasonate inglesi nella prima metà del secolo scorso.
Lei -figlia primogenita di un proprietario terriero e di una madre erede di un importante agenzia di stampa- era cresciuta tra ricchezze e privilegi, balie, bambinaie e governanti, poi aveva studiato in un eccellente istituto privato per giovani donne di ottima famiglia.

Protagonisti del romanzo sono i Radlett, signorotti di campagna che ospitano per lunghi periodi di vacanza la nipote Fanny. La piccola è stata cresciuta dalla zia Emily che lei riconosce come la sua unica e vera madre, dal momento che l’ha accolta, allevata e guidata.
Dunque molto più responsabile della madre biologica – in famiglia era chiamata “La Fuggiasca”- sorella minore delle zie che non si era mai accollata la responsabilità di quella figlia messa al mondo a 19 anni. Era scappata abbandonando il marito e la piccola quando aveva appena un mese di vita; non si era mai più voltata indietro.
A Fanny non era andata meglio con la seconda moglie del padre che non aveva avuto nessuna intenzione di occuparsi di lei ed insieme al marito si teneva ben lontana.

Nel romanzo Fanny ricorda i periodi della sua infanzia e adolescenza trascorsi ad Alconleigh con i cugini. Soprattutto con Linda, bella, appassionata, considerata molto intelligente dai familiari, coraggiosa e anche un po’ sventata. Al centro c’è soprattutto la vita sentimentale dell’inquieta e capricciosa Linda, le sue avventure amorose, e per molti aspetti la sua vacuità.
Si illuderà di aver incontrato l’amore in due occasioni, confondendo idee romantiche (quelle di una fanciulla che l’amore più che altro lo sogna e lo insegue) e passione; salvo poi incontrare l’uomo che le fa perdere davvero la testa. Peccato sia un nobile e ricchissimo seduttore seriale, fonte di amarezza e delusione.

In senso più ampio il romanzo ritrae con toni spesso umoristici l’ambiente in cui Linda è vissuta.
A partire dal burbero zio Matthew, Lord Alconleigh: insopportabile, uso a memorabili sfuriate che poi sfumano nel nulla, particolarmente attaccato alla sua terra, dalla quale non si allontana quasi mai e nella quale investe tutte le sue risorse.
Poi c’è zio Davey, fidanzato e in seguito marito di zia Emiliy, ossessionato dal timore delle malattie e dalla mania di una perfetta forma fisica.

Un ruolo particolare è quello delle zie Sadie ed Emily che sono la quinta essenza dell’amore materno (quello che a Fanny è mancato). Poi ci sono gli aneddoti legati ai cugini, le loro discussioni, gelosie, bravate ed imprese.
La Mitford è stata maestra nel raccontare gli anni di crescita e formazione dorata nella campagna inglese; tra pettegolezzi, balli, cacce, cene, tè pomeridiani e cambi d’abito continui, a seconda degli impegni nell’arco della giornata.
In luce viene messo anche il rapporto tra proprietari terrieri e banchieri, il nuovo modo di inseguire il denaro. Tutto soffuso di abile ironia….

 

Miranda Cowley Heller “Il palazzo di carta” -Garzanti- euro 17,90
Svetta in cima alle classifiche americane questo romanzo di esordio di Miranda Cowley Heller, nata a New York nel 1962, per molti anni autore capo delle serie televisive drammatiche di Hbo.
C’è chi ha definito il libro una sorta di thriller sentimentale con al centro una questione parecchi spinosa, il ritorno di fiamma tra due protagonisti che in un attimo combinano il fattaccio e spalancano la voragine sull’ipotesi di lasciare la famiglia per vivere la rinverdita passione.

La vicenda è ambientata nel Massachussetts, a Cape Cod ( luogo caro alla scrittrice che lì trascorre parte del suo tempo, diviso anche tra Los Angeles e Londra). E’ li che la protagonista Elle Bishop -50 anni, un marito affettuoso e tra figli- trascorre l’estate fin da bambina, nella zona di Back Woods, dove si trova il buen retiro di questa famiglia che non si fa problemi a passare dall’Upper East Side di New York alla vita spartana e un po’ selvaggia nell’accampamento messo su anni dietro da un estroso nonno scultore.
Lì si è creata una conclave di famiglie che vanno d’accordo e condividono le vacanze insieme, tra barbecue, bevute e tantissime nuotate.
Proprio durante una cena tra amici con alto tasso alcolico ad allentare freni inibitori, Elle si assenta da tavola e si apparta con Jonas, il marito dell’altra coppia, ed è un’esplosione che affonda radici nell’adolescenza dei due, quando la reciproca attrazione serpeggiava ma era stata tenuta a freno.

Bel dilemma che ora avanza nell’anima di Elle che ha poco tempo, 24ore, per decidere che direzione dare ai suoi sentimenti: di fare l’amante segreta di Jonas non s e ne parla perché il loro legame viscerale pretende di più.
D’altro canto c’è la sua famiglia costruita nel tempo e il dubbio è molto più che amletico.

La bravura della Cowley sta nel suo ripercorrere il passato, condurci al cospetto di due ragazzi che, se le cose fossero andate in un certo modo, e non si fosse verificato un certo evento, avrebbero potuto camminare insieme nella vita.
Se la trama può sembrare da romanzo rosa, ad aggiungere valore a queste pagine è la narrazione acuta dei dubbi e tormenti di Elle. Poi il dosaggio calibrato di flash-back del passato, con la ricostruzione della storia della famiglia Bishop, tra segreti, consuetudini, stili di vita, separazioni, vizi, rancori e confusione.

 

Marta Sanz “Piccole donne rosse” -Sellerio- euro 15,00

La scrittrice Marta Sanz insegue da sempre la verità e dedica il suo lavoro al complesso tentativo di salvaguardare la memoria e rendere onore ai tanti desaparecidos del franchismo; vittime della dittatura di tutte le età, compresi i bambini, i cui resti giacciono in tombe improvvisate e fosse comuni dimenticate.
La protagonista di questo romanzo – che sta tra lo storico, il politico e l’orrore- è la giovane Paula Quiñones, ispettrice del fisco che decide di trascorrere le ferie in un paesino del nord della Castiglia, e lì si dedica anima e corpo al complesso e triste compito di trovare i resti dei desaparecidos.
Scava le fosse per riesumare i corpi delle vittime della guerra civile, in quel paesino immaginario ma che potrebbe essere identificato in qualunque luogo della “Meseta” del nord della Spagna.
Vuole dare un nome ai desaparecidos, portare alla luce le loro ossa e ricostruire le storie delle loro vite interrotte.

Tra le tante vittime ci sono un’infinità di donne e dalle fosse si leva la potente voce delle “vinte” che sembrano stringere una sorta di alleanza con le donne che oggi camminano sulla terra in cui sono state gettate e sepolte.
Paula alloggia nell’albergo di una numerosa famiglia capeggiata dal patriarca centenario Jesùs, accudito dalla nuora Analía, madre dell’affascinante David. Da lui è attratta Paula e tra i due nasce una relazione.

Un legame fatto anche dei racconti di David che ricostruisce il passato della sua famiglia e racconta a Paula pagine della storia dei suoi antenati, tra i membri più importanti della comunità. Le loro vicende sono anche specchio della storia più ampia; ed ecco tornare a galla segreti, misfatti, risentimenti, delazioni, arricchimenti illeciti, cadaveri antichi e più recenti.
Un romanzo intricato, nero e profondo.

Rock Jazz e dintorni: Ben Harper e Les Nègresses Vertes

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Nell’Anfiteatro di Cervere Elio interpreta Jannacci.

Martedì. Peppe Voltarelli si esibisce nel Sound Garden dell’Hiroshima Mon Amour. Al Sonic Park di Stupinigi è di scena Ben Harper.

Mercoledì. Nel cortile dell’Hiroshima suona il pianista jazz Giovanni Guidi. A Mondovì si esibisce Morgan con la Filarmonica Bruno Bartoletti. A Stupinigi è di scena Sara Mattei  e Carl Brave.

Giovedì. Inaugurazione  a Condove di “Due Laghi Jazz Festival” con Emanuele Cisi che rende un tributo a Charlie Parker. A Pianezza sono di scena Le Vibrazioni. A Vialfrè comincia “Apolide” con protagonisti i Subsonica ed Epoque.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Giuda. Ad “Apolide” arriva Cosmo. All’Osservatorio Astrofisico di Pino Torinese Max Casacci presenta “Earthphonia”. Per “Monfortinjazz” è di scena Vinicio Capossela. A Biella si esibiscono i Tre Allegri Ragazzi Morti e Cor Veleno. Ad Avigliana per il “Due Laghi Jazz Festival”, suona il sestetto dei fratelli Stèphane e Lionel Belmondo. L’Opera “The Witches Seed” scritta da Stewart Copeland per “Tones Teatro Natura”, con Irene Grandi, viene eseguita per due sere consecutive a Oira.

Sabato. Alla Tesoriera per “Evergreen Fest” si esibisce il rapper Ensi.A Gavi per il Festival “Attraverso” Alice canta Battiato. Per “Apolide” è di scena Venerus. Per “Reload Sound Festival” a Biella arriva Max Gazze. Ad Avigliana per “Due Laghi Jazz Festival” suona il quartetto di Tino Tracanna.

Domenica. Per “MonfortinJazz” son di scena Les Nègresses Vertes.Chiusura di “Apolide” con il tributo a Morricone reso dai Calibro 35. Per “Monferrato On Stage” a Basaluzzo si esibisce Eileen Rose con The Legendary Rich Gilbert.

Pier Luigi Fuggetta