CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 280

“The Fabelmans”, una lettera d’amore al cinema e alla propria famiglia

Steven Spielberg si racconta

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era già un’intenzione e un progetto sul finire degli anni Novanta, si sarebbe dovuto intitolare “I’ll Be Home”, la scrittura originale quella della sorella Anne. Ma la storia era ancora di quelle che disturbano, che non si sa bene come verranno accolte, immatura, troppo privata, troppo personale. Oggi, prima che partano le immagini di “The Fabelmans”, suo trentaquattresimo film, dal prodigioso “Duel” in poi, Steven Spielberg è lì a ringraziare il pubblico di aver scelto la sua storia, “una lettera d’amore al cinema e alla mia famiglia”, e di averla scelta sul grande schermo. Un bel numero, se s’immagina oggi che il ragazzino Sammy (l’alter ego nitido e specchiante di Steven) a sei anni, nel ’52, aveva una paura folle ad entrare in un cinema. Sarebbero state le parole del padre Burt/Arnold, ingegnere informatico, tutto legato alla tecnologia e spinto a spiegargli in pochi attimi dei 24 fotogrammi al secondo, e della madre Mitzi/Leah Adler, pianista concertista che per i figli ha abbandonato la carriera, fantasiosa, pronta a sussurrargli che i film sono sogni che non avrebbe mai più dimenticato, a spingerlo a godersi “Il più grande spettacolo del mondo” di DeMille, affascinato e sbalordito, bocca e occhioni spalancati. Poesia e tecnologia che per l’autore oggi settantaseienne sarebbero state una vera bibbia, due mondi diversissimi pronti tuttavia a incontrarsi. Perché allora non provare, nel salotto di casa, a ripetere con i piccoli vagoni di un treno, con una macchina altrettanto piccola, e soprattutto con la cinepresa di mamma quel disastro ferroviario che lui ha visto sullo schermo?

È un personale amarcord (una dolce e affettuosa malattia che in questi ultimi tempi ha travolto parecchi registi, da Branagh al nostro Sorrentino, da Inàrritu a Cuaròn, da Almodovar a Bruni Tedeschi, raccontare al pubblico, svelarsi, esplorare quelle giovinezze che ti avrebbero segnato e accompagnato per la vita intera), che si dipana attraverso l’Arizona e l’Ohio sino alla California, mentre il fuoco sacro prende sempre di più e Sammy/Steven coinvolge famigliari e amici nella costruzione delle sue prime pellicole, ogni immagine rigorosamente in super8, divertimento sempre più incalzante che molti continuano a definire hobby ma che per il giovane autore è già un’esperienza seriamente intesa, che lo spinge a guardare ben oltre la propria età. Filmini girati nel deserto, piccole masse di comparse fatte muovere (“The Last Gun”, un western amatoriale della durata di 8 minuti è del ’59, due anni dopo girerà “Escape to Nowhere”, 40 minuti di ambiente bellico), carrellate mettendo la cinepresa su una carrozzina, gli scoppi, gli spari simulati, i piccoli trucchi: ogni cosa alla base di creature venute dallo spazio, di animali della preistoria che invadono nuovamente il nostro mondo, di squali che terrorizzano il mare e le spiagge, di archeologi impacciati ma sfacciatamente avventurosi, di terrore nei campi di concentramento e di ebrei salvati dalla lotta di un caparbio industriale tedesco, di una bambina con un cappottino rosso tra i rastrellamenti nel ghetto, di scambi di spie e di presidenti assassinati, di rifugiati a vita nel viavai continuo di un aeroporto, di ragazzi innamorati travolti dall’odio di due gang rivali.

Amore per il cinema ma anche immersione nella vita (nella limpida quanto coinvolgente scrittura del regista e di uno dei suoi abituali collaboratori, Tony Kushner, il mai troppo lodato autore teatrale di “Angels in America”), in quella vita che ti presenta il conto con il divorzio dei genitori e con lo choc procurato, che ti fa trovare dinanzi a te il bullismo e l’antisemitismo, tra le pareti di una scuola, dove la frequentazione è divenuta sinonimo di terrore (“avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano ‘sporco ebreo’”, ebbe a dire in un’intervista al “Corriere” poco più di una quindicina di anni fa). A rifugio non resta che la magia della pellicola, girare e tagliare e incollare, magia che è invenzione e realtà, magia che può anche ferirti, che ti lascia scoprire cose che non vorresti vedere (la gita tra i boschi, la sguardo sull’innamoramento di mamma Leah verso lo “zio” Bennie, qui dovuto soprattutto alle luci di Janusz Kaminski, la successiva divisione di una famiglia da sempre unita), che esalta ed emoziona, che muove sorrisi e drammi, che intravede e confonde,  che è pronta a tradire la visione di un personaggio, di un’eroe, come accade con il compagno di scuola, immortalato nelle gare della “marinata” finale ma che in quell’esaltazione non si riconosce. Spielberg – con la collaborazione dei “suoi” attori, da una entusiasmante Michelle Williams (nella prossima cinquina degli Oscar?) a Paul Dano alla felicissima sorpresa che è Gabriel LaBelle -, in estrema sincerità, si racconta, tra divertimento e commozione, spiega il proprio “orizzonte”, quello che un grande regista, uno di quelli che più lo hanno segnato, un giorno in modo burbero gli ha insegnato.

Due grandi figure del cinema si guardano, uno davanti all’altro in quell’ufficio degli studios, un inizio e un tramonto, due strade egualmente importanti. Tra i due quel filo che si chiama magia.

“C’è sempre un peccatore più peccatore di te”

Music Tales, la rubrica musicale 

E prendo quello che passa il convento

Non tengo fede mai a un giuramento

C’è sempre un peccatore

Più peccatore di te”

Si potrebbe pensare che il blues stesse nel patrimonio genetico di Pino Daniele: qualcosa di inseparabile da tutta la sua carriera d’artista.

Così è, in effetti.

Ma, a guardar bene, si scopre che nel suo primo album «Terra mia» (1977) di blues non c’è quasi traccia se non, a essere di manica molto larga, in «Che calore» (che l’anno prima era stato il singolo d’esordio) e negli accordi di settima di «’Na tazzulella ’e cafè».

Per essere ancora più puntigliosi, si potrebbe dire che in quel disco folgorante non c’è praticamente nulla di «americano».

Ma la canzone “Blues del peccatore” (con l’Art Lounge Ensemble) si trova nell’album “Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui” uscito nel 2006 per Sony BMG Records.

E questa si che porta le impronte del Blues.

Ma, come si sa, nel vasto repertorio di Pino Daniele figurano molti testi cui caratteristica prima è la mescolanza fra italiano o, per meglio dire, napoletano e inglese, operata su un piede di assoluta parità a partire dalla medesima attitudine ossitona delle due lingue.

In tal modo, il napoletano precede e completa l’inglese, e viceversa, secondo un procedimento che, timidamente già messo a fuoco da Renato Carosone, ha conosciuto in seguito singolari momenti di originalità: basti ricordare gli Shampoo, il gruppo che alla metà degli anni Settanta riuscì a rifare le canzoni dei Beatles con testi in napoletano che parevano calchi degli originali in inglese, da «Si ’e llave tu» («She loves you») a «Pep» («Help»), da «Tengo ’e uaie» («Tell me why») a «N’ommo ’e niente» («Nowhere man»).

Pino arricchisce questi meccanismi attraverso la sua particolarissima vocalità che, tendenzialmente afona, s’impone in virtù di un timbro singolare, diventando uno strumento musicale simile alla chitarra, e che del resto con la chitarra finisce sempre per duettare: svisando, distorcendo, arpeggiando, improvvisando, essendo sempre un «assolo». Napoletano e inglese soccorrono in maniera uguale.

Dal 1993 Pino ci tiene a sottolineare di essere un cantante Blues, e noi gli crediamo, da sempre, e godiamo all’ascolto di brani incantevoli come quello che ho scelto oggi per voi.

Il blues è verità, senza distinzione di colore.”

https://www.youtube.com/watch?v=jL7IL9bdhfs&t=62s&ab_channel=InsolitoIgnoto

CHIARA DE CARLO

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      Ecco a voi gli eventi da non perdere!
 
Capodanno al Prandi’s di Corso Savona 17 a Moncalieri, cenone e musica a € 75,00 – ultimi posti

I Natali di Mario Rigoni Stern

L’alba del 25 dicembre 1943, dopo una notte quasi insonne e molto fredda, fu molto strana perché in quell’aria lattiginosa e gelata si udì d’un tratto un chiaro suono di campane. Forse quel suono veniva dal campanile di legno? O dagli altoparlanti del lager? O dalla mia immaginazione? Insomma erano pur sempre campane che suonavano a festa”.

Mario Rigoni Stern racconta che “quel mattino divenne più silenzioso degli altri.. Mi alzai, accesi la stufa, scaldai l’acqua, con pazienza e con la lametta che non tagliava e con poca saponata mi tagliai la barba, e dopo, per quel giorno, mi passai sulle guance alcune gocce di acqua di colonia: pensando a quello che avrebbe dovuto essere il mio Natale, una settimana prima avevo scambiato con un marinaio di passaggio due lamette da barba nuove con un quarto di bottiglietta di acqua di colonia Prima di mezzogiorno la guardia venne a chiamarci per la zuppa; e fu allora che vidi scritto sulla neve lungo i reticolati, pestata con i piedi, questa frase.. Fröhliche Weihnachten (Buon Natale,ndr)”. E’ il secondo degli otto testi raccolti nel volumetto Quel Natale nella steppa, edito da Interlinea nella collana Nativitas. Scritti da Rigoni Stern tra il 1978 e il 2000, divisi in due parti ( Natali di guerra e Natali vecchi e nuovi) rappresentano una sintesi dei valori più autentici e genuini che il grande vecchio dell’altipiano di Asiago, il più grande scrittore di montagna del nostro secondo ‘900, attribuiva alla più importante delle festività di fine anno. Una sessantina di pagine dove la scrittura sobria, precisa e rigorosa di Rigoni Stern conduce il lettore alla scoperta o a un nuovo incontro con i valori di un mondo che sta irrimediabilmente scomparendo. L’intensità morale della sua narrazione trasforma la lucida testimonianza delle ultime disastrose guerre ( la ritirata di Russia, la prigionia nei lager) in una indimenticabile lezione civile, ricostruendo le ragioni profonde dell’essere uomini e dello stare insieme. Il Natale emerge come rappresentazione del mondo più autentico che l’autore porta con sé, custode di quei valori, delle tradizioni cerca di conservare e tramandare, e che rappresentano una formidabile e attualissima  chiave di lettura con cui leggere e interpretare la realtà di ogni giorno. La stessa breve autobiografia che chiude il libro riassume la sua straordinarietà e l’attualità di uno dei protagonisti del nostro migliore panorama culturale. Ha ragione da vendere lo storico Gianni Cerutti quando commenta che “resta la forza straordinaria, per chi li ha vissuti, di quei Natali bambini, trascorsi intorno a un focolare sempre acceso di legna secca, quando due mandarini, quattro datteri e un pezzo di cioccolata regalavano emozioni in grado di sorreggere una vita intera. La forza che questi racconti ci restituiscono, per accompagnarci nel nostro cammino”.

Marco Travaglini

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Tove Ditlevsen   “Gioventù”    –Fazi editore-   euro 15,00

E’ il secondo capitolo della trilogia autobiografica della poetessa e romanziera  più famosa della Danimarca, nata a Copenaghen nel 1917 e morta suicida nel 1976. Una bellissima riscoperta letteraria femminile quella della penna di Tove Ditlevsen, autrice della Trilogia di Copenaghen che è il resoconto della sua struggente esistenza, articolata in “Infanzia”, “Gioventù” e “Dipendenza” (di prossima pubblicazione, per la prima volta, in Italia)Il suo sguardo sulla vita è amaro e disincantato fin dall’inizio, come scriverà nel primo volume: «L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli….».  Racconta così i suoi stati d’animo, con frasi brevi, incisive, scolpite nel profondo del suo essere. Ha la capacità di trascinarci nel suo mondo, nel suo sentire e nella sua sofferenza con parole che ci afferrano e non ci lasciano più. Abilissima nel mettere nero su bianco la fragilità della condizione umana.Tove è nata in un quartiere operaio di Copenaghen, figlia di un uomo che ha perso il lavoro ed è scivolato nell’inferno della disoccupazione, una madre ottusa e grezza, incapace di comprendere e supportare la genialità della figlia. Tove avrà unavita difficile, breve e travagliata, con i sassi dell’esistenza che la ferivano continuamente.
Costante sarà il desiderio di scrivere poesie; le custodisce e nasconde in un album in cui riversa i suoi pensieri, la sua sensibilità, la difficoltà di crescere, il suo sguardo – lucido e spietato-sugli adulti.La prigione dell’infanzia lascerà il posto a quella dell’età adulta.Lei, che era uno spirito creativo e libero, non riuscirà mai a venire a patti con la vita; si sentirà sempre fuori posto ed affogherà il suo male di vivere in alcol e droghe. Fino al tragico epilogo: la morte per un’overdose di sonniferi che fermerà la sua vita a soli 58 anni.In “Giovinezza” la ritroviamo 14enne che ha appena finito le scuole medie, vive con i genitori che le impongono di andare a lavorare  per contribuire al bilancio familiare. Non importa se deve accettare mansioni squallide e umilianti, se viene pagata una miseria, se è infelice; basta che porti i soldi a casa. Eppure l’orizzonte che ha in mente sarebbe ben più ampio, e vorrebbe volare alto.

E’ questa la tristissima realtà in cui si consuma la sua giovinezza. L’unica cosa che per lei ha senso è la poesia; scrive versi di nascosto, la sera, dopo giornate grigie, faticose e deprimenti. In “Giovinezza” racconta anche degli incontri con persone che forse potrebbero aiutarla a pubblicare le sue rime, ma il destino avverso sembra tagliarle sempre la strada.

Fondamentalmente si sente trasparente, agli occhi dei ragazzi e della sua famiglia, dei conoscenti. Questo è il baratro su cui si affaccia quotidianamente, con qualche ventata che a volte le fa ben sperare in un futuro ritagliato in base alla sua sensibilità e ai suoi sogni.

Jackie Polzin   “Quattro galline”    -Einaudi-     euro   17,00

E’ il romanzo di esordio della scrittrice americana Jackie Polzin, che vive in Minnesota, ed ha avuto l’originalissima idea di imbastire la storia in un pollaio.Voce narrante senza nome è quella di una donna che dopo un aborto spontaneo al quarto mese di gravidanza inizia a prendersi cura di quattro galline, centrali nel racconto. Quello che accade nel pollaio ha la stessa dignità di quanto accade in casa dei personaggi

A fronte di un evento traumatico come una gravidanza tanto desiderata ma finita male, la donna riesce ad affrontarlo grazie anche alla cura che riversa sui suoi pennuti. Li ama, nutre,protegge, e conosce a fondo, diventano compagni di vita, ed è così che in qualche modo riesce a metabolizzare il dolore della sua perdita.

Le galline qui sono “persone”, hanno tutte un nome, storie personali, abitudini diverse e caratteristiche che le contraddistinguono, desideri, paure, modi vari di affrontare i pericoli a cui possono essere esposte (come il gelo e le intemperie).

C’è la gallina alfa, Miss Hennepin County, la più lesta a mangiare.

Gloria, invece, ha l’abitudine di covare anche le uova deposte dalle compagne con lo stesso impegno che riserva alle sue.

Testanera, la più casinista e la più abile a cacciare; non è la più intelligente né la più furba, ma semplicemente quella che riesce a vedere più lontano.Gam Gnam invece è sempre l’ultima ad arrivare alla greppia, pilucca appena ed è  la meno corazzata per affrontare la vita.

I vicini osservano con stupore la dedizione che la protagonista riversa sulle 4 creature. A loro si dedica anima e corpo, dopo aver lasciato l’umile lavoro come donna delle pulizie (anche perché convinta di aver perso il bambino a causa dei detergenti usati e della fatica).

Leitmotiv di queste pagine è il dolore di quella perdita, scandito però con ironia e alleggerito dalle vicende del pollaio, con tutto l’amore e  il senso di protezione verso quegli esserini che depositano uova, scorrazzano e a volte beccano chi non dovrebbero. Quando poi scoppia un’epidemia di influenza aviaria, la donna vive momenti di ansia come se fossero le sue bambine e tutto questo grande amore per le simpatiche pennute finisce per diventare catartico.  Una storia dolce e lieve che si porta dentro un profondo dolore.

Michael Cunninngham   “Carne e sangue”     -La nave di Teseo-     euro 20,00

Cunningham è il famoso scrittore e sceneggiatore americano 69enne, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 1999 con “Le ore” (dal quale è stato tratto il film “The Hours” del 2002 interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman).

In “Carne e sangue” narra la storia complessa della famiglia Stassos nell’arco di un secolo e si addentra in temi portanti come l’inseguimento del sogno americano, l’omosessualità, l’Aids, il melting pot newyorkese.

Tutto ha inizio nel 1935 con il piccolo Constantine Stassosemigrato con la famiglia di umili origini  dalla Grecia. A  8 anni, lavora nell’orto di casa, ma trafuga i semi, nasconde in bocca la terra che mischia alla saliva, e coltiva  in segreto un suo misero orticello in cima a un pendio roccioso.

Fin da piccolo accarezza il desiderio di indipendenza, che è metafora e anticipazione di tutta la sua vita. Ha sempre sognato in grande e, partito come semplice manovale, con il duro lavoro e un incontro fortunato, scala il successo e il benessere economico diventando imprenditore edile.  Ha sposato la giovane Mary, ragazza bella e solare di origini italoamericane; insieme mettono al mondo tre figli. Ma la moglie si trasforma via via nella classica casalinga frustrata degli anni Cinquanta, con un vizietto che esplode in crisi coniugale senza rimedio.

Al successo economico non corrisponde una vita familiare altrettanto serena, perché Costantine ha difficoltà nel rapportarsi con la prole.

Cunningham segue anche le vite dei figli; molto diversi tra loro, ognuno alla ricerca della propria strada e legato ai genitori darapporti complicati.

Susan è l’unica ad avere una vita normale, esteriormente irreprensibile; un marito di successo, una magnifica casa nel Connecticut, il figlio Ben che sembra quasi perfetto.

Bill, l’unico maschio della nidiata, è idolatrato dalla madre, incompreso dal padre che ha spesso atteggiamenti violenti nei suoi confronti; è soprattutto alla ricerca di un’identità sessuale e fatica ad accettare la sua omosessualità

Infine Zoe, l’ultimogenita sensibile e intelligente, ma ribelle e piena di contrasti interiori. La sua vita è scandita da cadute e scelte di rottura; dapprima come hippy, poi scivola nel girone infernale delle droghe, e nella girandola di rapporti promiscui. Dalla relazione con un uomo di colore che l’abbandona le rimane un figlio mulatto, Jamal. E altre disavventure seguiranno.

Cunningham scava a fondo nelle vite di ogni personaggio, portando alla superficie fragilità, irrequietezze, desideri e disfatte, tratteggiando a tinte forti una saga epica americana che non vi lascerà certo indifferenti.

Matteo Melchiorre   “Il duca”       -Einaudi-   euro  21,00

Matteo Melchiorre è un 41enne  di Feltre, direttore della biblioteca  del Museo e dell’Archivio storico di Castelfranco Veneto. Si occupa di storia socio-economica  del medioevo e della prima età moderna e di montagna, autore di vari saggi, “Il Duca” è il suo primo romanzo.

Mette in scena lo scontro tra due uomini sullo sfondo di una valle a ridosso delle Dolomiti; nell’immaginario paese di Vallorgana, al limite della Val Fonda, in un tempo indefinito che dà alla narrazione un sapore fortemente epico, in un non ben precisato punto temporale.

Lì si consuma l’aspra contesa tra l’erede di una dinastia in via diestinzione, il Duca, (l’ultimo dei nobili Cimamonte) e il vecchioMario Fastreda, possidente che si è fatto tutto da solo. La controversia  verte sul confine di terra tra i due possidenti, e pochi ettari di bosco diventano puntiglio della bega.

A scontrarsi sono soprattutto due modi opposti di considerare l’abuso. Il Duca vede in Fastreda  un potere esercitato con la prepotenza. Dall’altra invece Fastreda non perdona all’antagonista la  posizione e il vantaggio derivanti da un privilegio ormai obsoleto.

Il Duca  si è trasferito da 10 anni nella monumentale villa dove si aggira nelle stanze e  tra le  preziose boiserie, ossessionato dalla storia della sua famiglia;  casato blasonato ma con qualche segreto  ben  celato.  Una tenuta immensa composta anche da rustici che andrebbero restaurati, una cappella e tante altre meraviglie.

Fastreda è invece un coriaceo ottantenne solo all’apparenza mite, in realtà sa perfettamente quando è il caso di parlare e quando invece conviene stare zitto, è un personaggio influente nella comunità alpina e ama il conflitto, scovare ed attaccare nemici da battere.

Non resta che gustarvi i passi della contesa fino all’epilogo…

Alessia Gazzola  “La costanza è un’eccezione”   -Longanesi-   euro  19,00

E’ il terzo appuntamento con la nuova eroina di Alessia Gazzola, Costanza Macallè, giovane anatomopatologa imprestata alla paleopatologia, precaria e dalla vita piuttosto incasinata.

La talentuosa scrittrice siciliana al momento ha accantonato le avventure di Alice Allevi, la sua protagonista di maggior successo; giovane anatomopatologa pasticciona, con talento investigativo, e diventata anche una seguitissima serie tv interpretata da Alessandra Mastronardi.

Costanza nel primo romanzo della saga ha 29 anni, una laurea in medicina che vorrebbe mettere a frutto, magari all’estero, e la sua esistenza è stata diretta più che altro dal caso. Accidentalmente è finita a lavorare all’Istituto di Paleopatologia di Verona (lontana dalla sua natia e calda Sicilia), casualmente è rimasta incinta ed ora è madre multitasking della piccola Flora, fulcro del suo mondo.

Ad aiutarla nella gestione della piccola è la sorella Antonietta che a Verona ci vive. Costanza è riuscita a parlare con il padre della piccola, l’affascinante Marco, e a farlo entrare nella vita della bambina. Il ragazzo era fidanzato con un’altra ragazza –praticamente perfetta-  che però lascia quasi all’altare; solo che non l’ha fatto per stare con Costanza, ed il loro rapporto resta come sospeso, mentre prioritaria è la serenità di Flora.

Sul versante professionale la nostra protagonista si scopre brava nella paleopatologia che non è la sua scelta primaria e, proprio quando pensa di poter svoltare pagina, i colleghi le propongono un nuovo interessante progetto.

L’erede di un’altolocata famiglia veneziana, gli Almazan di origine spagnola e con un’oscura fama tramandata nei secoli, vuole che siano riesumati i resti dei suoi antenati.

Si vociferava che gli Almazan fossero addirittura dei vampiri, forse perché malvisti in quanto stranieri mercanti diventati “nobili per soldo”.

L’incarico è affascinante: entrare nelle tombe di famiglia, e analizzare i resti chiusi nelle bare per scoprire se dietro le morti misteriose di alcuni di lorocompresi due bimbi deceduti entrambi a tre anni– ci siano malattie genetiche o altro.

Inizia così la nuova avventura; responsabile del cantiere dei lavori di ristrutturazione della cripta in cui sono sepolti gli Almazan sarà proprio Marco. Un viaggio –tra giallo-rosa e romanzo storico- che vi condurrà nella Repubblica Serenissima di Venezia  nel lontano 1679 e dintorni; tra veleni, tare ereditarie, spie, raggiri il giallo sulla morte di una fanciulla della casata, Lucrezia, figlia di Giacomo Almazan.

Forse non tutti sanno che il Medioevo…

Forse non tutti sanno che il Medioevo è stato tutt’altro che un’epoca buia e oscura.

Si parla infatti di fase storica in cui dominavano magia e superstizione, le guerre distruggevano città e villaggi, le malattie e la peste sterminavano interi popoli e i sovrani dominavano i sudditi con il pugno di ferro.

Certamente il Medioevo è stato tutto questo ma anche molto di più e da alcuni anni viene studiato e presentato in un modo diverso, sotto un’altra ottica. Non è qui il caso di ricordare che nella Spagna dei cosiddetti secoli “bui” arabi, cristiani ed ebrei vivevano insieme ma forse non tutti sanno che nel Medioevo Roma viene saccheggiata sei volte, viene scritto il Corpus iuris civilis o Codice giustinianeo, si andava già a scuola, ci sono state una ventina di Crociate, è vissuta una donna che scriveva bestseller e ci sono stati tre Papi contemporaneamente. Ed è in questo periodo che vengono raggiunti importanti risultati nell’arte, nella scienza, nella filosofia e nella politica. Insomma, dai grandi avvenimenti alla vita quotidiana, nel libro “Forse non tutti sanno che il Medioevo…”, Newton Compton editori, la studiosa medievista Giulia Boccardi guida i lettori attraverso tutte le sfaccettature del Medioevo passando attraverso le fasi più violente e quelle più prosperose, dalla vita di tutti giorni degli uomini medioevali alle leggende e alle storie più famose. Un vero e proprio tuffo nell’ “Età di Mezzo”, un viaggio interessante e coinvolgente alla scoperta dei segreti di una delle epoche più affascinanti della storia. Ecco alcune storie curiose riportate nel libro. Forse non tutti sanno che… il simbolo del bluetooth sul nostro cellulare nasce proprio nel Medioevo e fa riferimento a un re di Danimarca vissuto nel decimo secolo soprannominato “dente blu” perché colorava i denti in battaglia per spaventare i nemici o forse perchè mangiava troppi mirtilli o forse non tutti sanno che dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente troviamo nel Medioevo ben tre altre civiltà, l’Impero bizantino, l’impero arabo-islamico e il Sacro Romano Impero. Ecco che allora il Medioevo non ci appare più così buio ma un mosaico di culture che finirono talvolta per mescolarsi. Nel Medioevo inoltre c’era una donna che scriveva bestseller. Si chiamava Christine de Pizan poetessa veneziana e scrittrice di corte che nel Quattrocento si trasferì in Francia. Nei suoi libri difese le donne e le loro virtù, quasi una femminista dell’epoca! Nel Basso Medioevo erano già in vigore forme di pedaggio, si pagava una tassa per attraversare una strada e, in cambio dell’imposta, si garantiva sicurezza a viandanti e commercianti. E che dire dei cosiddetti “re fannulloni” che in realtà erano tutt’altro che fannulloni? Per re fannulloni si designano gli ultimi re della dinastia merovingia dei Franchi poiché, si è sempre sostenuto, il potere del regno era in realtà nelle mani dei loro maestri di palazzo che guidavano anche l’esercito. Re solo di facciata mentre i maggiore gerdomi portavano avanti il lavoro? No, per niente, è un falso mito, avverte l’autrice, gli ultimi merovingi non erano dei buoni a nulla, fu una mossa politica dei Carolingi (il più famoso dei quali fu Carlo Magno) per screditare e gettare fango sulla precedente dinastia.
Ma il Medioevo è poi un’epoca di leggende, la stessa parola Medioevo evoca qualcosa di leggendario, di misterioso, dalla leggenda del Sacro Graal alle leggende di re Artù, dalla papessa Giovanna a Robin Hood. Nel Medioevo viene reintrodotto l’uso della moneta, il Papa aumenta il suo potere, i vescovi hanno anche autorità politica e militare, un’imperatrice bizantina, Irene d’Atene, sta per sposare Carlo Magno, è la culla del feudalesimo, i cavalieri galoppano alla ricerca del Santo Graal, spiccano donne con brillanti capacità politiche come Matilde di Canossa, è un’epoca assai superstiziosa, si festeggia il Carnevale, ci sono papi e antipapi. L’età di mezzo termina nel 1492 e nasce l’uomo moderno. Si potrebbe continuare ancora a lungo e, sottolinea la Boccardi, forse non tutti sanno che il termine Medioevo è un’invenzione degli uomini moderni, fu proprio nel Rinascimento che si scelse di definire i mille anni circa che andavano dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476) fino alla scoperta dell’America nel 1492, un periodo di mezzo tra l’Antichità e la Modernità. E tra le tante invenzioni risalenti al Medioevo una riguarda anche il Natale o meglio Babbo Natale. Anche il vecchio signore con barba bianca e vestito rosso che porta i regali ai bambini proviene dall’Età di mezzo. Era San Nicola, un vescovo del IV secolo che, non a caso, adorava i bambini.
              Filippo Re

Festività natalizie alla Reggia di Venaria

Sere di Natale e Concerto di Capodanno alla Reggia

In occasione delle festività natalizie, dal 26 dicembre all’8 gennaio (escluso il 31 dicembre) la Reggia di Venaria apre anche in orario serale a una tariffa speciale, per vivere l’atmosfera magica del Natale nell’incanto dei suoi ambienti barocchi, elegantemente allestiti per le festività.

Oltre alla suggestiva proiezione luminosa che anima la Torre dell’Orologio all’ingresso della Reggia, le eleganti architetture settecentesche ospitano a partire dalle 17.30 momenti musicali e animazioni teatrali legati al tema del Natale.

La sera di domenica 1° gennaio 2023 La Venaria Reale celebra il nuovo anno con il Concerto di Capodanno alla Reggia, un concerto corale di musica Gospel curato dal noto jazz club Blue Note Milano e ospitato nella Cappella di Sant’Uberto, che vedrà esibirsi Eric Waddell & The Abundant Life Gospel Singers: una formazione di voci e timbri dalle sfumature profonde e potenti, che raccoglie i migliori talenti della città di Baltimora negli Stati Uniti.

L’Imperatore e la contessina astigiana

Favola natalizia, leggenda, storia romanzata?

Nulla di tutto ciò, la storia è vera ma poco conosciuta. Il celebre Federico II, imperatore, re di Sicilia e amante dell’Italia, si innamorò perdutamente di una giovane nobildonna astigiana che si chiamava Bianca Lancia o Bianca d’Agliano. Un amore a prima vista che scoppiò ad Agliano Terme, appena i due si videro davanti al castello della famiglia Lancia. Non si poterono sposare perché lei apparteneva solo alla piccola borghesia ma il loro fu comunque un grande amore semi-segreto. O forse è stata l’ultima moglie dell’imperatore che egli sposò in punto di morte. Fra le tante donne di Federico, tra mogli e amanti, lo svevo-jesino scelse Bianca. Oggi Agliano d’Asti, piccolo paese di 1500 abitanti, è più noto per le terme e il suo barbera che per il passaggio dell’imperatore svevo. L’antico castello non c’è più, distrutto nel Seicento durante le guerre tra i Savoia e gli spagnoli, ma la torre è sopravvissuta, c’è ancora, è lì a ricordare l’incontro storico tra Federico e Bianca intorno al 1225. Fu un colpo di fulmine per entrambi. Ma cosa ci faceva il grande Federico II in un piccolo borgo a 20 chilometri da Asti? I Lancia erano conti piemontesi e hanno sempre avuto stretti legami con il casato svevo degli Hohenstaufen. Il capostipite della famiglia Lancia, il nobile Manfredi, aveva ottimi rapporti con il Barbarossa, nonno di Federico II. Sia i Lancia sia gli Agliano erano aristocratiche famiglie ghibelline del Piemonte, tra loro imparentati, e proprietari di castelli, palazzi, tenute e interi paesi del Monferrato. Un tal giorno Bonifacio di Agliano, cognato di Manfredi Lancia e vassallo dell’imperatore, ricevette un giovane Federico II che, in visita in Piemonte, tornava da una battuta di caccia e gli presentò la sua famiglia. Tra Bianca, appena sedicenne, e il trentenne Federico, fu subito grande amore. La castellana, secondo le fonti storiche, era molto bella, snella, bionda, elegante, una bellezza mozzafiato che fulminò Federico. Se ne innamorò alla follia e, nonostante fosse già sposato, la portò con sé nei suoi tanti castelli che ancora oggi si possono ammirare in Italia e da lei ebbe tre figli, Costanza, Manfredi, re di Sicilia, e Violante. Fu tuttavia una relazione semi-clandestina e secondo una leggenda, durante la gravidanza di uno dei figli, Federico, forse per gelosia, tenne chiusa l’amante in una torre del castello di Gioia del Colle nel quale erano soliti trascorrere lunghi periodi. Fu molto generoso con Bianca e le assegnò terre e proprietà. E bravo il nostro Federico, nostro perché in fondo è più italiano che straniero: nato a Jesi, morto in Puglia, sepolto a Palermo. Ma il racconto non finisce qui anche perché la storia di Bianca Lancia è circondata dal mistero. I due personaggi forse si sposarono nell’ultimo istante della loro vita. Federico fu costretto, per esigenze reali, a sposarsi per la terza volta e di conseguenza la bella amante fu allontanata. Ma non sparì mai dalla sua vita e si sostiene che il matrimonio fu fatto in punto di morte al capezzale di Federico nel 1250 o a quello di Bianca ma fu in qualche modo celebrato. Bianca fu l’unica donna che conquistò davvero il cuore di Federico II di Svevia. Né con le mogli legittime né con le amanti Federico ebbe mai una relazione così intensa e lunga. Pensando a Oria (Brindisi) dove ogni anno, pandemia permettendo, si rievocano con un corteo storico i fasti del matrimonio tra Federico II e Jolanda di Brienne, la seconda moglie, chissà se un giorno anche ad Agliano d’Asti sarà possibile organizzare qualcosa di simile, come si vede nel dipinto, per ricordare il grande amore tra Federico e Bianca?
                                                             Filippo Re

Spazio 44 for art lovers

Si è inaugurata a Torino ai primi di dicembre una nuova galleria d’arte nel quartiere di Borgo Nuovo, dal nome “Spazio 44 for art lovers”

È nato un nuovo luogo creativo nel centro storico torinese. Si tratta della galleria Spazio 44, pensato per l’arte e i suoi linguaggi. Si presenta in una dimensione accogliente e informale, nata in uno dei palazzi più caratteristici del quartiere Borgo Nuovo, cuore pulsante della vita culturale e sociale torinese.
Spazio 44, inaugurato venerdì 2 dicembre scorso, ha recuperato un locale da tempo inutilizzato con l’intenzione di rivitalizzare l’ambiente artistico torinese e le sue dinamiche, proponendosi come un salotto d’altri tempi che ospiterà esponenti dell’arte contemporanea riconosciuta sia a livello nazionale sia internazionale, promuovendo anche talenti e realtà emergenti e favorendo la circolazione di idee e dialogo fra gli artisti. Alla base di tutto questo vi è la profonda convinzione che l’arte possa contribuire a migliorare la qualità della vita, diffondendo sensazioni, riflessioni e spazi per uno sguardo nuovo.
Claudia e Angela dello Spazio 44 sono state felici di accogliere Edoardo Di Mauro, Direttore dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che è intervenuto in occasione della presentazione della prima mostra ospitata nella galleria, e dedicata all’artista Bruno Zanichelli.
La sua prolifica e promettente carriera artistica è stata tragicamente interrotta, ma ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario di chi lo ha conosciuto. Bruno Zanichelli ha rappresentato una delle figure di maggior spicco nella pratica artistica negli anni Ottanta, grazie alla sua capacità di azzerare, all’apparenza, ogni differenza tra gli elementi culturali cosiddetti “alti” e quelli “bassi”, dal fumetto all’illustrazione, fino alla pubblicità, sullo sfondo della seconda fase della postmodernità. Il suo primo periodo artistico si è sviluppato tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, un momento nel quale si andava esaurendo la carica propulsiva dell’avanguardia novecentesca e, dopo l’azzeramento linguistico del concettuale, gli artisti si impossessavano nuovamente di strumenti e tecniche tradizionali, in primo luogo in campo pittorico.
La seconda fase dell’opera artistica di Bruno Zanichelli si colloca tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, espressione di un eclettismo stilistico in cui convivono pittura, fotografia, installazioni e video, in un confronto continuo tra la tecnologia e i miti della creatività giovanile. Emergono in particolar modo la scena postpunk e new wave.
A partire dal 1986, l’artista ha dato corpo a una svolta stilistica repentina, caratterizzata da una sopraggiunta maturità. Nulla viene rinnegato delle fasi artistiche precedenti, ma le immagini assumono un rilievo a tutto tondo. La vivacità coloristica e la capacità di cogliere il dettaglio si mutano in una dimensione poetica, calando le immagini della comunicazione di massa su scenari senza tempo, pregni di un’atmosfera magica. Bruno Zanichelli, conscio della sua fine prematura a causa di una malattia incurabile, negli ultimi anni della vita si dedicò febbrilmente all’attività produttiva, volendo lasciare una traccia di sé il più possibile significativa.
La mostra in corso presso la galleria Spazio 44 presenta anche lavori inediti, dalle prime sperimentazioni al confine tra arte e illustrazione fino alle opere successive che raramente vennero esposte, fino a approdare ai lavori precedenti alla prematura scomparsa, avvenuta nei primi mesi del 1990.

Concerto di Natale “esperienziale” al Castello di Miradolo

Domenica 25 dicembre, ore 21.15

L’attesa

Le musiche di Arvo Pärt tra le opere di Christo e Jeanne-Claude per un coinvolgimento sensoriale totale e unico

Dopo l’esperienza del Concerto da Casa del 2020 e del Concerto nella corte rustica del 2021, torna il Concerto di Natale nelle sale espositive del Castello di Miradolo. Il concerto, a cura del progetto Avant-dernière pensée, indagherà quest’anno il tema della musica come sospensione del tempo, come spazio offerto all’ascolto: da qui, il suo titolo, L’attesa.
Nelle sale gli esecutori, tra le opere della mostra Christo e Jeanne-Claude. Projects eseguiranno  le musiche di Arvo Pärt senza vedersi, dialogando con l’architettura e tra loro, grazie a un inedito ed esclusivo sistema di ripresa e diffusione del suono in quadrifonia: il pubblico potrà muoversi attraverso l’esecuzione, scegliere punti di osservazione unici e personali, camminare nello spazio tra le grandi scenografie video, trasformandolo in un luogo, personale, di ascolto. Per citare le parole di Arvo Pärt: “Tutto ciò che è superfluo deve essere lasciato da parte per concentrarsi su ogni singolo suono, così ogni filo d’erba sarà importante come un fiore”. In scena, l’esecuzione ma, soprattutto, la partecipazione attiva degli spettatori all’esecuzione stessa: due prospettive, come due voci, una melodica e l’altra costituita sulle note della triade di un accordo, inscindibili come nello stile tintinnabuli (tintinnabulum, campana), che oscillano tra consonanza e dissonanza, componendo una monade in cui “uno più uno è uguale a uno”.
L’attesa contraddistingue il rapporto con la musica di Arvo Pärt ed è un tema racchiuso anche nei progetti di Christo e Jeanne-Claude, che nascono nei collages, nei disegni, negli appunti di un processo che si fa collettivo, partecipato, condiviso, reale o che, talvolta, resta sospeso, soltanto immaginato. Una partitura, come nei progetti della coppia, non è la musica, è il progetto di una possibile esecuzione: le note, i segni sono il pensiero di un’architettura, che occorre possa e sappia trasformarsi in suono, in gesto, in respiro e, soprattutto, in ascolto. “Un compositore deve spesso aspettare a lungo per la sua musica, è come un’anticipazione sublime”, scrive Arvo Pärt quando, dopo un silenzio durato oltre un anno, scopre il proprio stile compositivo, coniugando purezza e spiritualità. “Prima che si dica qualcosa, forse è meglio non dire nulla. La mia musica è emersa solo dopo che sono stato muto per un po’ di tempo, letteralmente muto”.
Prima del concerto, alle ore 20, è in programma una guida all’ascolto curata da Roberto Galimberti, ideatore del progetto artistico.
Dalle ore 15 alle ore 18.30 è visitabile la mostra Christo e Jeanne-Claude. Projects che espone disegni, collages, fotografie e video delle loro opere più famose, insieme ad opere di alcuni artisti del Nouveau Réalisme e della Land Art che hanno influenzato la loro produzione artistica e il loro pensiero. Curata da Francesco Poli, Paolo Repetto e Roberto Galimberti, con il coordinamento generale di Paola Eynard, la mostra, realizzata grazie alla collaborazione con la Christo and Jeanne-Claude Foundation di New York, presenta circa sessanta opere accompagnate da un’ampia sezione fotografica e dalla proiezione dei video che documentano la realizzazione delle monumentali installazioni artistiche.

Gli esecutori
Roberto Galimberti, violino e direzione
Laura Vattano, pianoforte
Marco Pennacchio, violoncello
I tecnici
Marco Ventriglia, audio e supervisione tecnica
Edoardo Pezzuto, luci
Allestimento e scenografia 
Avant-dernière pensée

INFO
Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (TO)
Prenotazione obbligatoria: 0121 502761 prenotazioni@fondazionecosso.it
www.fondazionecosso.com
Biglietti:
Intero euro 25, ridotto under 30 euro 15, ridotto possessori Abbonamento Musei 22 euro, gratuito bambini fino a 6 anni

Frida, la voce del Piemonte allo Zecchino d’oro

Il 22, 23 e 24 dicembre su Rai1 con FRANCESCA FIALDINI e PAOLO CONTICINI

Gran Finale la Vigilia di Natale con CARLO CONTI

22 dicembre 2022

Si chiama Frida e ha 8 anni la bambina di Moncalieri (TO) che parteciperà alla 65ª edizione dello Zecchino d’Oro, in onda su Rai1 giovedì 22 dicembre e venerdì 23 dicembre alle ore 17.05e sabato 24 dicembre alle ore 17.

Con il brano Mambo Rimambo, con testo e musica diGianfranco Grottoli, Andrea Vaschetti e Andrea Casamento, Frida ci insegna che, con un po’ di ingegno e allenamento, tutti possono imparare a cantare con le rime e a giocare con le parole.

A condurre le prime due puntate della trasmissione, dopo il successo dello scorso anno, tornano Francesca Fialdini e Paolo Conticini.

Per la finale, il pomeriggio della Vigilia di Natale, il padrone di casa sarà invece Carlo Conti, direttore artistico di Zecchino d’Oro. La regia è di Maurizio Pagnussat.

I conduttori non saranno soli sul palco dell’Antoniano, con loro:gli youtuber Ninna e Matti, che guideranno la Giuria dei Piccoli, giuria ufficiale dello Zecchino d’Oro composta da 20 bambini, e divertiranno grandi e piccoli; Cristina D’Avena che farà parte della Giuria dei Grandi durante la finale e porterà sul palco la sua musica; il Grande Mago, Alessandro Politi, con i suoi spiritositrucchi di magia; gli immancabili Buffycats della serie “44 gatti”.

Ospiti della prima puntata anche Giulia Ghiretti, nuotatriceparalimpica, Giorgio Minisini, atleta nuoto sincronizzato, Francesco Bocciardo, nuotatore paralimpico, campioni delle Fiamme Oro della Polizia di Stato, che canteranno il brano “Ognuno è campione” con il Piccolo Coro dell’Antoniano.

Protagonista assoluta la gara tra le canzoni:

giovedì 22 dicembre, ore 17.05 si inizia con l’ascolto delle prime 7 canzoni;

venerdì 23 dicembre, sempre alle 17.05 si prosegue con l’ascolto delle altre 7 canzoni;

sabato 24 dicembre, ore 17 gran finale con il riascolto di tutti i 14 brani e la proclamazione del brano vincitore.

Le 14 canzoni, interpretate da 17 bambini provenienti da 11 diverse regioni italiane insieme al Piccolo Coro dell’Antoniano diretto da Sabrina Simoni, cantano temi importanti e attuali: l’ambiente, la diversità, la famiglia. A firmarle 30 autori di musiche e testi, tra cui Checco Zalone, Enrico Ruggeri, Cesareo di Elio e le Storie Tese insieme a Filippo Pax Pascuzzi, Margherita Vicario, Eugenio Cesaro degli Eugenio In Via Di Gioia, Deborah Iurato e Virginio.

Tutti i brani sono già disponibili su tutte le piattaforme digitali e nei negozi di dischi all’interno della compilation del 65° Zecchino d’Oro, realizzata da Antoniano con la direzione musicale e artistica del Maestro Lucio Fabbri e distribuito da Sony Music Italia.

L’edizione numero 65 di Zecchino d’Oro sarà un’edizione speciale: in onda nei giorni dell’anno più amati dai piccoli, per ribadire il diritto di qualunque bambino di vivere i suoi anni più belli con gioia, serenità e spensieratezza. L’edizione 2022 di Zecchino d’Oro si intitolerà, infatti, Semplicemente bambino.

Torna anche quest’anno il gioco web per individuare la canzone preferita dalla rete: ognuno potrà esprimere la propria preferenza e provare a far vincere la propria canzone del cuore su www.zecchinodoro.org/il-mio-zecchino-2022/.

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Come da tradizione, lo Zecchino d’Oro si fa portavoce di Operazione Pane, la campagna di Antoniano che supporta 18 mense francescane in Italia e 5 nel mondo (in Ucraina, Romaniae Siria). Operazione Pane, con le sue storie, sarà protagonista delle tre puntate di Zecchino d’Oro e, durante la finale, potremo tutti sostenere le mense francescane con un sms o una chiamata da rete fissa al 45588.

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Quest’anno lo Zecchino d’Oro sarà non solo accessibile, ma veramente inclusivo grazie all’impegno di Rai Pubblica Utilità e alla pubblicazione in esclusiva su RaiPlay.

Tutte le puntate saranno come sempre sottotitolate su Rai UNO alla pagina 777 di Televideo, e la puntata finale di sabato 24 dicembre anche audio descritta per permettere proprio a tutti, di percepire ogni elemento visivo in grado di trasmettere al meglio l’atmosfera ed il clima della manifestazione – luci, colori, movimenti, sguardi – e di conoscere ogni minimo dettaglio in onda – dalla scenografia, agli abiti.  

Inoltre, per la prima volta, in virtù di un accordo di collaborazione tra Rai Pubblica Utilità e L’ISTITUTO STATALE PER SORDI DI ROMA ANTONIO MAGAROTTO, oltre 30 bambini – sordi e udenti, allievi dell’Istituto – interpreteranno in LIS, come solisti e in piccoli cori, ricreando le emozioni ed il ritmo dei piccoli cantanti e del Piccolo Coro dell’Antoniano, le 14 canzoni in gara dello Zecchino d’Oro 2022, dando vita a 14 emozionanti clip accessibili anche con i sottotitoli, e pubblicate in esclusiva su Rai Play.

Un progetto che ha impegnato a pieno ritmo sia Rai Pubblica Utilità, in particolare la Struttura Accessibilità, che l’Istituto Magarotto con mesi di prove, e che ha permesso alla manifestazione canora di diventare veramente non solo PER TUTTI, MA DI TUTTI.

Per conoscere i solisti, sempre in esclusiva su Rai Play, saranno inoltre disponibili delle brevi clip complete di sottotitoli, grazie alle quali ciascun bambino si presenterà nella Lingua dei segni italiana.

Un significativo passo in avanti verso una vera inclusione dedicata, questa volta, al mondo dei più piccoli.

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I bimbi del Piccolo Coro dell’Antoniano e i solisti vestono abiti Miss Grant, Paolo Pecora e Meilisa Bai, marchi di Follie’sGroup ed indossano scarpe Atlantic Stars.

Sabrina Simoni veste Angela Mele Milano.

Per ulteriori informazioni: www.zecchinodoro.org