CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 236

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Benjamin Stevenson “Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”

-Feltrinelli- euro 19,00

E’ brillante e ironica la scrittura del pluripremiato stand–up comedian e autore australiano Benjamin Stevenson che al suo attivo ha tre romanzi ed è anche agente letterario. La dimostrazione è racchiusa anche in queste 381 pagine che ispireranno una serie televisiva per HBO.

E’ con straripante sense of humor che Stevenson ci introduce nelle rocambolesche vicende della famiglia Cunningham, che non è come le altre. I suoi membri sono strampalati uno più dell’altro e ad unirli è il fatto che tutti hanno ucciso qualcuno, a volte anche ripetutamente.

Si riuniscono tutti in un resort in montagna per un fine settimana in cui dovrebbero festeggiare l’uscita dalla galera di uno dei figli, Michael, dopo tre anni di detenzione per omicidio. Tra le sbarre ce lo ha spedito il narratore, Ernest o “Ern”, che per mestiere scrive manuali tecnici e dopo la delazione del consaguineo è ovviamente diventato la pecora nera del clan.

In concomitanza della reunion familiare viene trovato morto (soffocato dalla cenere ma senza combustione) uno sconosciuto… e vai di indagini a cui si applica un imbranato poliziotto. Il primo sospettato finisce per essere l’ex galeotto. Poi nulla sarà come sembra. Il narratore ripercorre le vite dei vari familiari ed è uno scoppiettante avvicendarsi di altri morti, tanti cadaveri negli armadi del passato di ogni Cunningham.

Un giallo che viaggia tra dinamiche familiari borderline, imitatori di serial killer, attriti che si trasformano in moventi per uccidere, bare trafugate e corpi nascosti … e tante altre sorprese.

 

 

Julie Otsuka “Nuoto libero” -Bollati Boringhieri- euro 16,00

 

Questa raffinata scrittrice (nata a Palo Alto negli Stati Uniti nel 1962) è americana di origini giapponesi e l’abbiamo scoperta nel 2012 con la traduzione in italiano del suo “Venivamo tutte per mare”; in cui raccontava le vicende delle donne giapponesi sbarcate negli Stati Uniti a inizi 900 per sposare i connazionali già residenti in terra straniera.

Ora ci coinvolge in una storia ad alta tensione emotiva in cui affronta senza fare sconti il dramma della madre che, per una devastante malattia degenerativa, sta progressivamente perdendo la memoria.

L’avvio del romanzo ha luogo in una piscina sotterranea a San Francisco dove, bracciata dopo bracciata e virata dopo virata, un gruppo di nuotatori eterogeno stempera ansie, malinconie, dolori fisici e morali. Condividono la passione per l’acqua, per le regole e i rituali che li fanno volare sulla superficie della piscina.

Un giorno però compare una crepa nella corsia 4 e cambia tutto; soprattutto per la madre della narratrice che, da quando l’impianto viene chiuso, perde la comfort zone dell’acqua e precipita nello scompiglio interiore e mentale. Si chiama Alice, è una nuotatrice provetta e sta progressivamente e irreversibilmente perdendo la memoria.

Nella seconda parte del libro la parola passa a sua figlia, voce narrante che in modo quasi chirurgico racconta il dramma materno. Ricostruisce la vita della donna che l’ha messa al mondo, fa tesoro degli scampoli di memoria che via via si riducono a nebbia. Poi a un certo punto quella madre finirà per osservare, muta e lontana, la figlia che però non riconosce più.

Tornano a galla tasselli di un passato difficile; quello di Alice, figlia di immigrati giapponesi nella California del dopoguerra. Sposa fedele e madre di 4 figli; ma con la ferita della nascita di una di loro con una malformazione al cuore che l’ha uccisa 30 minuti dopo essersi appena affacciata al mondo. Poi il dolore per la morte della madre centenaria che ha lasciato un vuoto incolmabile .

Prepararsi a una lettura struggente ma veritiera che fa luce sul decadimento fisico, l’abbruttimento, l’angoscia e la degenza in clinica nel momento in cui la malattia diventa impossibile da gestire a casa. Un romanzo commovente che racconta l’amore tra una madre e una figlia, con tutto il bagaglio emotivo di un lento addio a chi ci ha dato la vita.

 

Elodie Harper “Le lupe di Pompei” -Fazi Editore- euro 19,00

E’ il primo volume della trilogia che la scrittrice inglese e giornalista televisiva (nata a Londra nel 1979) intende dedicare alla vita delle donne nella Pompei antica. Tra fiction e documentazione storica, il romanzo ruota intorno a 5 prostitute di Pompei.

Sono Cressa, Berenice, Vittoria Victrix, Didone e Amara; questi i loro nomi da schiave costrette a prostituirsi nel bordello del padrone Felicio.

Nel corso di una visita agli scavi pompeiani la Harper ha scoperto i loro nomi incisi sulle pareti delle celle e in lei è scattata l’idea di raccontarne le vite. Trovata vincente dal momento che questo suo libro di esordio è in via di traduzione in ben 16 paesi e in Inghilterra è stato subito un caso letterario in vetta alle classifiche.

La Harper è davvero bravissima a coinvolgere i lettori nel lupanare che a Pompei ha un’atmosfera tutta sua: 5 camere, praticamente delle celle dove le schiave-prostitute vivevano. Di loro non si sa nulla e la scrittrice eccelle proprio nell’abilità con cui immagina di entrare nella loro sfera più intima ed emotiva. Ognuna di loro ha una storia alle spalle e all’epoca estrazione sociale elevata o studi non ti mettevano in salvo; spesso bastava essere una straniera venduta come schiava, e di lì essere costretta a prostituirsi.

La vita nel bordello assume i contorni di una comunità in cui le ragazze si raccontano, si alleano, si proteggono l’un l’altra; la solidarietà è strategica per fronteggiare la brutalità dei clienti e degli uomini che vorrebbero saltare loro addosso senza neanche sborsare un soldo.

Seguiamo le 5 eroine, tutte schiave dello squallido Felicio. E appare subito chiaro che la vergogna della loro condizione ricade su chi le ha obbligate a una vita tanto infima. Le lupe sono costrette a procacciarsi i clienti per portare poi quanto miseramente guadagnato al tenutario che le considera solo carne da letto per far soldi.

Nonostante la sofferenza e il disgusto, le ragazze riescono a ritagliarsi sprazzi di infinitesimali piccole gioie, soprattutto tentano di non perdere le speranze di poter cambiare la loro condizione.

L’eroina che spicca tra le altre è soprattutto Amara. E’ straniera, arriva dalla Grecia dove era cresciuta in una famiglia colta e affettuosa; poi dopo la morte del padre medico erano precipitati nella povertà più fosca, e la madre era stata costretta a venderla. Amara è forte, determinata a sopravvivere e diventa spesso la roccia a cui si appoggiano anche le altre, nei momenti peggiori.

 

 

John Freeman “Racconti di due Americhe” -Mondadori- euro 22,00

In questo volume l’editor, saggista e critico letterario, Freeman ha raccolto le pagine di 36 tra i più importanti scrittori americani contemporanei che al loro affascinante e complesso paese hanno dedicato racconti e saggi. Risultato: un mosaico di realtà in cui emergono disuguaglianze, fratture, e infinite sfaccettature che ci danno l’idea di cosa sia oggi l’America, con tutte le sue contraddizioni.

Il curatore di questa antologia è uno scopritore di talenti e figura di spicco dell’olimpo letterario a stelle e strisce; è stato editor di “Granta” e uno dei padri fondatori della rivista letteraria “Freeman’s”. La materia la maneggia perfettamente e qui assemblea una polifonia di voci, accostando storie di scrittori come Joyce Carol Oates, Rebecca Solnit, Karen Russel a quelle di voci emergenti.

Tanti spaccati di realtà diverse e uno dei dubbi che sorge dopo questa lettura è che il sogno americano del self made man, per cui chi ha la volontà può sempre migliorare la sua condizione socioeconomica, non sia poi così veritiera. Da questa antologia a più voci sembra piuttosto che se sei povero è molto probabile che lo resterai per tutta la vita, ed oggi uno dei grandi obiettivi da perseguire è proprio l’uguaglianza.

Nei racconti del libro c’è anche tanta solidarietà contagiosa che spicca sullo sfondo delle mille sofferenze di quel paese spezzato che è l’America. Alle prese con povertà e divario sempre più stridente tra chi si bea nel superfluo e chi invece affonda nella miseria. Razzismo, politiche immigratorie, poliziotti pronti a esplodere, vere e proprie tendopoli e masse di homeless ci vengono raccontati con toccante verità.

 

Mauro Cenci “Biblioteche domestiche. Home libraries” -Metilene- euro 28,00

Dimmi che libri leggi e ti dirò chi sei, che tradotto potrebbe suonare così: potendo sbirciare nelle librerie delle case private si capisce molto dei padroni di casa. Allora entriamo nelle stanze e nelle biblioteche di architetti, scenografi, bibliotecari, pittori, interior design, psicoterapeuti, storici dell’arte, e tanti altri che ai loro scaffali hanno dedicato energie, finanze, cure.

Libro sul quale l’autore ha investito parecchio tempo, viaggiando per tutta Italia, da Nord a Sud, nell’intento di mettere a fuoco il rapporto che le persone hanno con la lettura, e decodificarlo attraverso le loro stanze ricolme di libri.

Librerie ospitate in case piccole o grandi, che incorniciano letti o divani comodi in cui sprofondare nella lettura che è uno dei grandi pregi della vita. Scaffali ricolmi di libri che rappresentano gli interessi dei padroni di casa; spesso contornati da suppellettili che tengono compagnia ai volumi e aggiungono ulteriori tasselli per decifrare le passioni di chi ama circondarsi di libri.

Alcune ordinatissime, altre meno, tutte con un fascino immenso e non vi resta che prendere anche spunti da questo libro per organizzare o riordinare anche le vostre.

Senza troppa convinzione lo “Sguardo” di Massimo Popolizio

Sino a domenica 19 febbraio al Carignano il testo di Miller

L’origine fu un fatto di cronaca che lo colpì profondamente, una vicenda familiare di torbidi affetti nata tra gli immigrati italiani di Brooklyn. Una vicenda che spinse Arthur Miller a trasportarla sul palcoscenico, “A View from the Bridge” arrivò a New York nel 1955 nella versione in un atto unico e l’anno successivo a Londra in quella in due atti, per la regia di un Peter Brook arrivato alla soglia dei quaranta.

Nel gennaio del 1958 Luchino Visconti ne fece con la coppia Stoppa/Morelli un capolavoro e nove anni dopo il mitico Raf Vallone accattivante e gioviale, che sembrava avere da sempre il personaggio di Eddie Carbone nel sangue e che in quelle stesse vesti aveva già affrontato i palcoscenici parigini (ancora Brook regista) e lo schermo (con la regia di Sidney Lumet), propose un’edizione italiana al fianco di Alida Valli. In tempi assai più prossimi a noi, lo Stabile torinese, Valerio Binasco regista e interprete, aveva messo in cantiere nel maggio 2020 una sua messinscena di “Uno sguardo dal ponte”, ma poi la pandemia azzerò tutto e lo spettacolo fu annullato e del tutto taciuto nelle successive stagioni dai responsabili. Oggi, con l’etichetta Compagnia Umberto Orini – Teatro di Roma Teatro Nazionale – Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale, Massimo Popolizio propone ancora una volta, nella doppia veste di regista e interprete, con la traduzione di Masolino d’Amico, la tragedia dell’”onesto” Eddie, del suo affetto innaturale verso la giovanissima nipote, dell’accoglienza a Marco e Rodolfo, parenti della moglie e immigrati irregolari, dell’astio e del rancore che giorno dopo giorno lo catturano, del cambiamento e del tradimento, della denuncia alle autorità, della vendetta finale immersa nel sangue.

Ad assistere allo spettacolo sul palcoscenico del Carignano (per la stagione del nostro Stabile, repliche sino al 19 febbraio), immerso nella scena poveramente stilizzata di Marco Rossi – un tavolo, qualche sedia e i semplici mobili di casa, più all’esterno reti metalliche e una gru sul fondo e un angolo per le apparizioni degli altri scaricatori di porto, tutto male utilizzato -, ti chiedi se abbia ancora senso portare allo spettatore degli anni Duemila un simile sanguinoso fatto di cronaca, se si possa ancora parlare di “grande affresco sociale”, se si voglia a ogni costo scomodare la tragedia greca: o se al contrario tutto quanto sia da ridurre ad una semplice, certo tragica, tragedia circoscritta nei contorni familiari. In scena un antieroe, ma solidissimo, continua ad apparire Eddie, innalzatosi a combattere contro la crudeltà del destino, morbosamente colpito dagli abiti e dal taglio di capelli e dal ballo di Caterina, offeso da una nuova morale che avanza, dall’amore tra due ragazzi che arriva a invadere un suo credo personale e una sua passione. Ne rimarrà schiacciato.

Popolizio guarda agli apporti del passato e altresì, in special modo con l’avanzare della tragedia, osserva con occhio cinematografico la vicenda, si rende perfettamente conto che “Uno sguardo” è già, sin dall’inizio, una sceneggiatura a pieno titolo, che ci sono scene concrete sfumate nel buio e stacchi precisi e “primi, secondi piani e campi lunghi”. Ma forse non è del tutto sufficiente il correre di un treno in quell’immagine/cinema in bianco e nero o il gran rumore dello sferragliare per vivacizzare un’azione, per renderla più vicina a noi, per portarla fuori dalle pareti di un palcoscenico: come non basta negli ultimi istanti il frammentarsi nervoso del racconto per affermare ancora una volta il precipitare cruento degli eventi e la loro tragicità. Con le canzoni ricostruisce le radici di quel gruppo di persone, con una certa buona dose di furbizia poiché parecchio si tinteggia di folclore a sottolineare un passato vissuto in terra di Sicilia. Quanto a Popolizio interprete – come regista (anche lui) “onesto” narratore, più disposto a badare alla fisicità che all’introspezione di alcuni interpreti, con qualche debolezza e linearità nell’immergersi nello sconcerto di tutti: che sono Valentina Sperlì, Michele Nani come avvocato Alfieri a commentare e a vivere l’intera storia, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli e Gaja Masciale, lei sì convincente Caterina – s’affida a certi sfilacciamenti del personaggio, a certe immagini da marionetta scomposta che dovrebbe ispirare ad una componente di debole divertimento: di rado ahimè arriva in platea il ritratto dell’artefice e della vittima unite insieme, la grandezza di un uomo e il suo completo sgretolarsi a terra. E pare che i 90’ della serata si snodino senza troppa convinzione. Anche il pubblico al termine si riduce a poche chiamate e ad applausi che per il testo di Miller e la sua storia ci saremmo aspettati ben più sonori e prolungati.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Yasuko Kageyama

Rock Jazz e dintorni a Torino: Sainkho Namtchylak e Fantastic Negrito

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Martedì. Al Jazz Club suona il quartetto Bassorilievo. Alla Cricca Mao reinterpreta le canzoni di Rino Gaetano.

Mercoledì. Al Jazz Club blues con Andrea Scagliarini e Fast Frank. Al Museo d’ Arte Orientale per il ciclo “Evolving Soundscapes”, arriva la cantante di Tuva (Siberia) Sainkho Namtchylak. Al cinema Massimo Fantastic Negrito presenta il film complementare al suo ultimo disco “Withe Jesus Black Problems”, dal vivo in  versione acustica. Al Blah Blah suonano gli Hellgeist.

Giovedì. Al Cafè Neruda si esibisce il quartetto di Riccardo Zegna e Sandro Gibellini. Al Blah Blah  sono di scena i The Wends. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Codice Ego. All’Off Topic si esibisce Zibba.

Venerdì. Al Magazzino sul Po si esibisce Caruccio. Al Folk Club suona il chitarrista Hamish Stewart accompagnato dal trio del batterista Enzo Zirilli. Al Cap 10100 sono di scena gli in Incognito Legno. All’Off Topic si esibiscono Sem&Stènn mentre al Blah Blah suonano i Girls in Synthesis.

Sabato. Allo Ziggy si esibiscono i Critical Jojo con gli Axe Blade. Al Magazzino di Gilgamesh è di scena Willie Nile. Al Blah Blah suonano i Senzabenza preceduti dai Coconut Planters. Al Magazzino sul Po si esibiscono i Jennifer Gentle  con i Animaux Formidables. Al Bunker è di scena il duo Atrice. Nella sede del Gruppo Abele per la rassegna “Black History Month”, si esibisce la cantante Kady Fitini Coulibaly.

Domenica. Alle OGR suonano gli Elephant Brain e Amalfitano. Allo Ziggy punk con gli Infa Riot e gli Middle Finger.

Pier Luigi Fuggetta

San Valentino, biglietti per coppie alla mostra “David Bowie / Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti”

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Dal 1° dicembre 2022 al 26 febbraio 2023

DAVID BOWIE

Steve Schapiro

America • Sogni • Diritti

Archivio di Stato
Piazza Castello 209 – Piazzetta Mollino. Torino
giovedì e venerdì dalle 15 alle 19
sabato e domenica dalle 11 alle 20

 

martedì 14 gennaio dalle 10 alle 18
per San Valentino
apertura straordinaria
1 biglietto per 2 innamorati
Nella giornata del 14 febbraio 2023 la mostra “David Bowie | Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti” (1° dicembre 2022 – 26 febbraio 2023, Archivio di Stato, Torino) sarà aperta straordinariamente dalle 10 alle 18, con un biglietto offrendo 2 ingressi al costo di uno per le persone che si presenteranno, innamorati e in coppia.
La promozione è valida per ogni tipo di coppia!Una bellissima occasione per conoscere il momento clou della carriera di David Bowie attraverso gli scatti del leggendario fotografo americano Steve Schapiro.

David Bowie a metà degli anni Settanta, dopo essere divenuto icona culturale in Inghilterra – suo paese di origine – riesce ad imporsi anche nel mercato più ampio e difficile da conquistare di sempre: gli Stati Uniti. L’album Diamond Dogs, e il relativo tour promozionale in Nord America, anticipano di qualche mese il suo trasferimento a Los Angeles. Nella città californiana Bowie, per sua stessa ammissione, vivrà uno dei periodi più bui della sua vita. Tra l’abuso di cocaina e l’ossessione per l’occultismo, Bowie rischiò di implodere. Ma nonostante la sua salute fisica e mentale fosse stata messa a dura prova, trovò il modo per uscire da quel tunnel che lo stava portando alla morte.Fu in quel periodo, infatti, che iniziarono le riprese di un film che lo avrebbe visto come protagonista, il primo della sua carriera. Grazie a “L’Uomo che Cadde sulla Terra” Bowie dovette imparare a gestire sé stesso in modo da essere professionale sul set. Musicalmente parlando invece, scrisse alcuni brani che avrebbero dovuto essere inclusi nella colonna sonora del film: si trattava perlopiù di musica strumentale che non venne utilizzata per lo scopo che per il quale fu prodotta. Quei landscape sonori divennero però poco tempo dopo il tema principale di due dischi fondamentali come Low e Heroes, dischi che segnano il ritorno di Bowie in Europa e la sua rinascita come artista precursore e innovatore. Ma prima di lasciare definitivamente Los Angeles, Bowie sotto le spoglie del suo nuovo personaggio, The Thin White Duke, registra il suo nono album in studio ovvero Station to Station.

In tutte le fasi dell’avventura americana di Bowie è presente, nei momenti salenti e cruciali, Steve Schapiro, che sarà fotografo di scena di “L’Uomo che Cadde Sulla Terra” e autore degli scatti che compaiono sulla copertina sia di Station to Station sia di Low. Schapiro, nato a Brooklyn nel 1934, è già considerato uno dei maggiori fotografi dell’epoca nonché uno dei più influenti nella storia della cultura popolare americana. Schapiro ha testimoniato con la sua macchina fotografica i momenti salienti della società americana della seconda metà del XX secolo: dall’avvento dei Kennedy passando per l’epopea pop di Andy Warhol e la Factory, dai movimenti per i diritti civili di Martin Luther King Jr. a personaggi dello sport come Mohammed Alì, fino al cinema d’autore per il quale ha lavorato come fotografo di scena in pellicole senza tempo come Il Padrino, Taxi Driver, Un Uomo da Marciapiede (Midnight Cowboy) e Apocalypse Now.

Bowie e Schapiro si incontrano per la prima volta 1974, in un pomeriggio anonimo in uno studio fotografico di L.A. Una delle ragioni di questo servizio era provare diverse idee e personaggi che Bowie avrebbe potuto sviluppare nelle sue performance live o nella sua musica. Il cantante per questo scopo portò con sé dei costumi da provare, la responsabilità di Schapiro fu quella di portare l’immaginazione di David alla luce del sole, tradurla in realtà. Nulla di quel primo servizio era stato preparato in anticipo… Tutte le idee messe in scena sul set nacquero spontaneamente dalla mente eclettica del cantante stimolata da quella del fotografo. Durante quel pomeriggio tra i due nasce una immediata sintonia nutrita dalle reciproche passioni e lavori – che finirono per influenzarsi l’uno con l’altro – e una collaborazione che durerà fino alla fine degli anni ’80.
Grazie ad uno straordinario mosaico di immagini, Schapiro racconta la società americana della seconda metà del secolo scorso, in maniera più chiara, diretta e allo stesso tempo poetica, di tanti romanzi, saggi, canzoni o opere d’arte siano state prodotti per decifrare uno dei periodi più complessi della storia recente. Questa storia, che si interseca con la storia biografica di David Bowie, uno dei grandi protagonisti e mente creative del ‘900, è ripercorsa nella mostra “David Bowie | Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti”.

Attraverso la capacità di Schapiro di cogliere l’umanità dei suoi soggetti, il visitatore potrà riscoprire quindi non solo l’aspetto più personale di uno dei grandi miti della cultura popolare del XX secolo ma anche addentrarsi e respirare il clima culturale in cui Bowie creava la sua opera. Entrambi gli artisti, infatti, condividevano una particolare sensibilità per quelli che erano i temi sociali dall’epoca, a cominciare dalle lotte per diritti civili degli afroamericani, delle donne e delle persone queer. Schapiro che queste lotte -importanti allora come oggi – non solo le aveva documentate con la sua macchina fotografica ma anche sostenute di persona, ne fece spesso argomento di conversazione con Bowie, che dal canto suo le aveva sempre sposate, collaborando con molti musicisti di colore e denunciando apertamente MTV colpevole di non trasmettere abbastanza artisti di colore in un momento storico nel quale nelle strade di molte periferie americane stava nascendo l’Hip Hop.

A cura di ONO arte, la mostra è prodotta da Radar, Extramuseum e Le Nozze di Figaro, rappresenta un’anteprima nazionale e si compone di 70 scatti che partendo dal lavoro di Schapiro con David Bowie portano il visitatore a scoprire anche il suo lavoro di fotoreporter e fotografo di scena.

Steve Schapiro (1934 – 2022) scopre la fotografia all’età di nove anni durante un campo estivo. Eccitato dal potenziale della fotocamera, trascorse i decenni successivi aggirandosi per le strade della sua città natale, New York, cercando di emulare il lavoro del fotografo francese Henri Cartier Bresson, che ammirava molto. Dalla pratica dilettantistica passa agli studi al fianco del fotoreporter W. Eugene Smith, la cui influenza su Schapiro fu grandissima. Al fianco di Smith oltre alle competenze tecniche, Schapiro sviluppa la sua cifra artistica.
Durante gli anni Sessanta in America, definito “l’età d’oro del fotogiornalismo”, Schapiro ha prodotto saggi fotografici su temi diversi tra cui la dipendenza da stupefacenti, la Pasqua ad Harlem, l’Apollo Theater, Haight-Ashbury, i movimenti di protesta politica o la campagna presidenziale di Robert Kennedy. Attivista e documentarista, Schapiro ha raccontato con i suoi scatti, molte storie relative al movimento per i diritti civili degli afroamaericani, tra cui la marcia su Washington, le proteste per la registrazione degli elettori e la marcia da Selma a Montgomery. Chiamato dalla rivista Life a Memphis dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr, Schapiro ha prodotto alcune delle immagini più famose di quel tragico evento.
Negli anni ’70 Schapiro spostò la sua attenzione sul cinema. Con le principali compagnie cinematografiche come suoi clienti, Schapiro ha lavorato sul set di film come “Il Padrino”, “Come eravamo”, “Taxi Driver”, “Midnight Cowboy”, “Rambo”, “Risky Business” e “Billy Madison”. Ha anche collaborato a progetti con musicisti, come Barbra Streisand, David Bowie e i Velvet Underground per copertine di dischi e opere d’arte correlate.Con il patrocinio di Regione Piemonte
Media partner Radio Veronica One
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Archivio di Stato
Piazza Castello 209/Piazzetta Mollino
Dal dicembre al 26 febbraio
Giovedì e venerdì dalle 15 alle 19
Sabato e domenica dalle 11 alle 20
8 dicembre, 26 dicembre, 1 e 6 gennaio dalle 11 alle20
ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
25 e 31 dicembre chiusoBiglietteria:
intero 12€ | ridotto  9€
Riduzioni: U18, O65, tesserati AICS, possessori abbonamento annuali o plurimensili  GTT , abbonamenti Musei Piemonte e Valle D’Aosta, Abbonati Teatro Concordia

Cristiani sotto la Mezzaluna, musulmani sotto la Croce

Nella copertina del libro il sultano Maometto II concede a Gennadio II la carica di Patriarca ecumenico di Costantinopoli, il primo patriarca sotto la dominazione turca.
L’arcivescovo e teologo bizantino fu ben accolto dal sultano che ne fece il capo della popolazione greco-ortodossa. Sembra quasi un gesto di pace e di buon augurio ma ciò avvenne pochi mesi dopo la conquista ottomana della capitale bizantina nel 1453 che si concluse con un bagno di sangue. Si salvò il Patriarca e pochi altri. Il sultano conquistatore infatti lasciò ampia libertà alle sue truppe di uccidere e saccheggiare per le strade della città sul Bosforo e la maggior parte della popolazione civile fu massacrata. Allo stesso modo, beninteso, si comportarono i crociati cristiani nella Prima Crociata dopo la presa di Gerusalemme il 15 luglio del 1099. Nell’Antico Testamento, osserva Luigi Andrea Berto, studioso di storia medievale e autore di “Sudditi di un altro Dio, cristiani sotto la Mezzaluna, musulmani sotto la Croce”, Salerno editrice, si raccomanda di uccidere tutti gli uomini e di ridurre in schiavitù donne e bambini se gli abitanti di una città si erano rifiutati di arrendersi subito e si erano difesi tenacemente.
Questa fu in pratica la linea di condotta seguita per secoli da musulmani e cristiani dopo l’occupazione di un centro abitato. Sovrani e sudditi si sono trovati spesso a praticare fedi diverse, ma quali sono stati i piani messi in atto dalle élite nel corso dei secoli per governare questo avvicendamento di fedi e popoli? Come vivevano i cristiani sotto i musulmani e, viceversa, come se la passavano i musulmani nei Paesi cristiani? Quale era la condizione delle minoranze religiose nei regni cristiani e in quelli islamici? Il libro dello storico Berto indaga i complessi rapporti tra sovrani e sudditi di religioni diverse osservandone l’evoluzione in un ampio periodo che va dalle prime conquiste degli Arabi nel Vicino Oriente nel VII secolo fino allo scambio nel 1923 tra Turchia e Grecia dei cristiani e musulmani residenti nei loro territori. Furono mille anni di guerre ma anche dieci secoli di convivenza e relativa tolleranza. Tra il settimo e il sedicesimo secolo i musulmani conquistarono vaste aree delle regioni mediterranee e dell’Europa centro-orientale abitate prevalentemente da cristiani. Alcuni di quei territori, la cui popolazione nel frattempo era divenuta in maggioranza musulmana, furono riconquistati dai cristiani tra l’XI e il XV secolo. “Sia i musulmani che i cristiani, spiega Berto, consentirono ai sudditi appartenenti alla religione dei dominati di continuare a praticare la propria fede a condizione che essi accettassero la loro inferiorità. Tuttavia i dominatori “crearono sistemi diversi basati su differenti forme di legittimità”. I credenti islamici seguivano il Corano, il Libro sacro, mentre nei regni cristiani i sudditi musulmani erano considerati “servi del re” sotto la protezione dei sovrani e totalmente dipendenti dalla loro volontà. Per molto tempo i rapporti tra cristiani e musulmani furono pacifici ma, sottolinea lo scrittore, “non si può parlare di un mondo di pacifica convivenza e di proficua multiculturalità. Nelle fasi storiche caratterizzate da forti crisi i sudditi di religione diversa venivano spesso sottoposti a violente persecuzioni. “Pur rimanendo rilevanti differenze di trattamento e un certo grado di sdegnosa superiorità dei dominatori sui dominati”, i divieti e le discriminazioni riguardanti i “sudditi di seconda classe” non ebbero un forte impatto sulla vita di tutti i giorni. “Consolidate le conquiste, scrive Berto, i musulmani seguirono il precetto del Corano di attribuire ai sudditi cristiani ed ebrei lo status di “dhimmi”, protetti, assicurando loro libertà di culto e protezione.
I dhimmi maschi dai dieci anni in su dovevano versare una tassa chiamata “giza” la cui entità dipendeva dal reddito mentre i regnanti cristiani imposero una tassa simile ai sudditi islamici ai quali era vietato rubare le loro proprietà. Chi lo faceva doveva pagare il doppio del valore di quanto aveva portato via”. I musulmani inoltre erano considerati proprietà del sovrano e chiamati “servi regis” che li poneva in una condizione tra la servitù e la schiavitù. Essi comunque erano sotto la protezione speciale del re e ben determinate pene furono stabilite per chi li attaccava. Inoltre non potevano essere arrestati e condannati a morte senza il consenso del sovrano.
Filippo Re

I 50 anni degli Abba al Teatro Colosseo

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Stagione 2022-2023

Domenica 12 febbraio ore 21
ABBA SYMPHONIC
Real Tribute Show
poltronissima € 57,35 | poltrona A € 50,45 | galleria € 45,85 | galleria B € 40,10
In tutto il mondo si sta celebrando il 50esimo compleanno degli ABBA, la leggendaria band svedese che ha scritto alcune tra le pagine più significative e indimenticabili nella storia della musica pop e della disco music di tutti i tempi, vendendo più di 400 milioni di album in soli dieci anni e battendo molteplici record mondiali.
ABBA SYMPHONIC è uno spettacolare concerto sinfonico dedicato a celebrare uno dei più importanti gruppi di sempre: da Waterloo a Chiquitita, passando per Mamma MiaKnowing Me Knowing YouFernandoDancing QueenSuper TrouperGimme Gimme e tantissimi altri, ABBA SYMPHONIC propone al pubblico un viaggio potente, emozionante e coinvolgente attraverso i grandi successi della leggendaria band svedese, riarrangiati in maniera magistrale per orchestra sinfonica e band.
Non un semplice tributo, ma uno show a 360 gradi, una vera e fedele riproduzione dei dettagli che hanno caratterizzato e contraddistinto gli ABBA: dai costumi pittoreschi ai video psichedelici, passando per una produzione luci altamente scenografica e spettacolare; tutto è più che perfetto, anche la passione che esce dal palco e si respirerà in teatro.

In scena al Regio l’Aida ispirata alla regia del Premio Oscar Friedkin

E’ iniziata giovedì 9 febbraio la prevendita per l’anteprima giovani de L’Aida di Giuseppe Verdi, riservata al pubblico under 30, in scena venerdì 24 febbraio alle ore 20:00. I biglietti sono disponibili anche online e in biglietteria.

Reduce dal successo dell’anteprima del “Barbiere di Siviglia”, che ha visto protagonisti Rossini e gli Eugenio in Via di Gioia in una serata magica, il Teatro Regio è pronto a condividere una serata di musica, questa volta nel segno di Verdi, e dei torinesi Atlante & Baobab! Ospiti speciali del secondo appuntamento con Contrasti, progetto realizzato dal Teatro Regio e da The GoodnessFactory.

Venerdì 24 febbraio prossimo, il Teatro Regio aprirà le porte a partire dalle ore 19:00, condividendo un aperitivo nel foyer e permettendo di assistere a una breve presentazione spettacolo per entrare nel mondo di Aida, la più celebre storia d’amore ambientata al tempo dei faraoni. Alle ore 20:00 avrà inizio l’Anteprima Giovani di Aida, nel grandioso allestimento del regista William Friedkin, già Premio Oscar per “Il braccio violento della legge”. Si tratterà di un viaggio nel tempo capace di condurre il pubblico nell’antico Egitto. Al termine dell’opera, nel Foyer del Toro, “Contrasti” darà il benvenuto ad Atlante & Baobab, una band torinese formata da Claudio, Andrea e Stefano, capaci di unire l’alt rock all’elettronica, in un vortice febbricitante e introspettivo di suoni che si fonderanno con il pop languido e psichedelico, tipico della sonorità soul & rythm & blues di Gaia, alias Baobab!,cantautrice ventunenne. I primi trecento under 30,che acquisteranno il biglietto per l’anteprima di Aida, potranno assistere anche a “Contrasti”. L’ingresso per l’Anteprima Giovani è riservato agli under 30 e ai minori di 14 anni, accompagnati da un maggiorenne under 30.

L’Aida di Verdi sarà in scena per dieci recite dal 25 febbraio all’8 marzo prossimo. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio salirà Michele Gamba, quarantenne direttore milanese, molto applaudito per la sua sensibilità dimostrata nella direzione delle opere verdiane e pucciniane.

Michele Gamba affronterà l’imponente partitura di Verdi nel celebrato allestimento del regista William Friedkin, la cui regia è stata ripresa da Riccardo Fracchia. Il cast vede protagonisti artisti italiani e stranieri di livello internazionale, tra cui Angela Meade e Erika Grimaldi, che si alterneranno nel ruolo di Aida; Silvia Beltrami e Anastasia Boldyreva in quello di Amneris; Stefano La Colla e Gaston Rivero in quello di Radames. Il Coro del Teatro Regio è preparato dal Maestro Andrea Secchi.

Negli ultimi dieci anni, in Italia, l’Aida di Verdi è stata allestita più di cento volte, andando in scena in ben 40 teatri di città grandi e piccole, spesso anche all’aperto, nelle piazze, negli anfiteatri e perfino in una cava, in un minuscolo comune della Val d’Ossola. 184 rappresentazioni sono state eseguite all’Arena di Verona, dove fu proposta per la prima volta nell’agosto 1913. La terz’ultima opera di Verdi gode di una popolarità consolidata. La sua prima rappresentazione avvenne al Cairo il 24 dicembre 1871, anche se Verdi considerò la sua vera prima di Aida la prima rappresentazione italiana e europea, che ebbe luogo al teatro La Scala l’8 febbraio 1872.L’opera fu commissionata al compositore da Ismail Pascià, Viceré d’Egitto, per celebrare l’apertura del Canale di Suez. Il soggetto originale fu scritto dal grande egittologo francese e primo direttore del Museo Egizio del Cairo Auguste Mariette.

Gli spettatori si emozionano e si commuovono per l’amore infelice e, alla fine, tragico del protagonista con il prode guerriero Radames, e attendono il kolossal nella “Scena del trionfo”, sfolgorante di tube egizie, fatte costruire apposta come desiderava il compositore, nella “Marcia” che tutti conoscono.

Si tratta della parte che Verdi chiamava, con la ruvida franchezza che gli era solita, “Bataclàn .

Gli amanti della lirica si lasciano avvolgere dalla sontuosità melodica che ha pochi eguali nell’intera produzione per il teatro di questo compositore.

Alla “prima” milanese il successo fu uno dei maggiori ottenuto da un musicista che, da tempo,era considerato una gloria nazionale e fra i più grandi protagonisti a livello mondiale. Julian Budden ricorda, nella sua monografia intitolata “Le opere di Verdi”, come l’attesa per l’Aidafosse talmente febbrile da determinare speculazioni in borsa sul prezzo dei biglietti. Verdi ebbe più di trenta chiamate e, alla fine del secondo atto, gli venne consegnato uno scettro d’oro tempestato di gemme.

Nonostante sia stata accusata da alcuni critici di essere un’opera diseguale e di “wagnerismo”, al centro dell’interesse di Verdi nel comporre l’Aida vi fu l’elemento che egli da tempo riteneva fondamentale: “la parola scenica”, che scolpisce e modella l’azione, determinandone essa stessa il dramma.

Forte di questa concezione, Verdi esercitò un controllo ravvicinatissimo sul lavoro di Ghislanzoni, il librettista, spesso stravolgendone le intenzioni originarie, piegando il testo all’urgenza drammaturgica che lo animava. Aida risulta un’opera eterogenea,divisa tra la magniloquenza del grand-opéra alla francese, con i suoi balli e le sue grandiose scene d’insieme, e l’eloquenza intima e bruciante delle storie private, che si agitano nel contesto politico, religioso e guerresco, sovrastandolo e rendendolo decorazione.

Sulla scena domina il confronto tra due donne: la schiava etiope Aida e la principessa egizia Amneris, accomunate dall’amore per lo stesso uomo e costrette a un confronto disperato e perdente, seppur diverso. Dal punto di vista drammaturgico e espressivo, la protagonista autentica è Amneris, in virtù del percorso psicologico che compie all’interno della storia. L’eroina eponima rimane un’icona patetica e sentimentale, dall’inizio alla fine uguale a se stessa, anche se più caratteristica dell’eroico Radames, il suo amato, che diversi critici hanno considerato generico e sbiadito, anche se Verdi ha a lui riservato alcune delle pagine vocali più celebri di tutta l’opera. Il momento più alto dell’opera rimane il terzo atto, grazie alla sintesi delle ragioni drammatiche e di quelle dell’espressione del sentimento, in cui compare il fiero Amonasro, il padre di Aida. Straordinaria è la pittura strumentale con la quale Verdi riesce a tratteggiare il notturno sul Nilo, in cui si svolge l’azione.

 

In occasione della messinscena di Aida, Teatro Regio e Museo Egizio hanno stretto un accordo per rendere più accessibili le proprie offerte culturali. Il Museo Egizio offrirà un ingresso scontato a 15 euro anziché 18 ai possessori del biglietto per lo spettacolo “Aida” o di un abbonamento al Teatro Regio che lo includa. Il Teatro Regio offrirà uno sconto del 10% sui biglietti delle recite di “Aida” a tutti i visitatori del Museo Egizio.

Il Teatro Regio devolve l’incasso della prova generale di “Aida” al sostegno del programma “Viva Verdi”, ricco di iniziative straordinarie in tutta Italia, al fine di acquisire e valorizzare la casa-museo di Giuseppe Verdi a Sant’Agata di Villanova sull’Arda.

MARA MARTELLOTTA

Ex Nihilo Nihil Fit di Alessia Savoini allo Spazio Musa

Mercoledì 15 febbraio 2023, alle ore 19.00, lo Spazio Musa di Torino sarà sede e luogo della parola,  dell’orecchio che si accosta al labbro e della voce che diviene tempo e spazio. Accoglierà la narrazione poetica di Ex Nihilo Nihil Fit, testo di Alessia Savoini, prodotto di mesi trascorsi tra la camera da letto e il Day Hospital, in chemioterapia, tra la cura e la spina.

Trascuro la portata delle cose flessibili,

riordino

su ogni vertebra spezzata

l’intera misura dell’onda

e dall’orecchio

il guaito della conchiglia.

L’evento prevede una presentazione della raccolta, performance di reading poetico e a seguire dibattito, dove sarà possibile esporre ed esporsi al luogo fertile della domanda, alla possibilità dell’incontro e del confronto, all’interno di Spazio Musa, che attualmente ospita la mostra “Babele”, del curatore Caspar Giorgio Williams.

Saranno inoltre rese disponibili copie per l’acquisto della raccolta Ex Nihilo Nihil Fit.

Ad una sola azione tende,

che fu il primo

o che sia l’ultimo

con in distinzione, mors –

ne cancella il volto.

E allor se da principio timor di quel che viene ha mosso,

non so consolare

l’animale che piange il morto.

Concept e voce: Alessia Savoini

Sound e chitarra: Nico Tommasi

Ex Nihilo Nihil Fit è un processo ancora in fase di inseminazione, la parola che svela la parola e ne osserva il dispiegamento, la paura, l’accettazione, l’abbandono, il ritrovamento. La malattia è un accesso a uno sguardo differente e se tutti gli eventi sono neutri, lo spazio interpretativo è l’unico versante in cui scorgere il sintomo della risposta.

Desiderai tentare la lingua,

gustai

e mordicchiai

il fiore nella mia bocca:

dunque da due dei miei sensi,

queste grandi aperture dell’anima

venne a me tutto il mondo.”

Alessia Savoini, Borgomanero, 1994. I suoi incipit si situano sulla soglia, ogni volta che la parola è stata come sete una promessa del labbro, lingua sul taglio, la sua voce rimarcava presenza. Per dieci anni ha vissuto a Torino, città dove ha sedimentato la conca e conosciuto la prefazione dell’orlo, quello che a maggio 2022 ha costituito una massa d’ombra nel torace e l’ha portata a scrivere Ex nihilo nihil fit. Nel 2010 riceve la sua prima proposta di pubblicazione come vincitrice al premio selezione opere inedite della casa editrice Aletti Editore, con la quale si è aggiudicata i primi posti in classifica in diversi concorsi. Nel giugno 2019 collabora con la rivista filosofica Sovrapposizioni al progetto Eros, nel marzo successivo contribuisce all’uscita del secondo numero cartaceo della stessa, per il progetto Deserto. Nel novembre 2020 la rivista online di poesia Poesiainverso pubblica alcuni suoi frammenti, in seguito cui la rivista d’arte greca Εξιτήριον ne propone una traduzione.

Nico Tommasi, Trento, 1995. La passione per la musica lo accompagna dagli albori, il suo incipit è al clarinetto, “volevo suonare il sax ma non c’era…”. Durante il periodo della scuola media si appassiona di chitarra elettrica e avvia i primi studi con la scuola Lizard Academy, a cui seguirono numerosi concerti all’attivo con band rock e metal. Con il tempo la passione attecchisce e prende la forma delle cose che restano: a quindici anni si incammina nel lungo percorso del conservatorio e della chitarra classica, inizialmente a Riva del Garda, concludendo gli studi a Torino.

Attualmente esibisce un format, Food for fish (cibo per pesci), un progetto in solo che ha la volontà di adattare la musica classica “seriosa” a contesti più abituali e meno formali, “letteralmente dandomi in pasto al pubblico”.

Cancro ascendente sagittario, affianca la passione per la musica a quella del fonico, per cui ha studiato presso la scuola APM di Saluzzo, riuscendo in tal modo a “sopravvivere di arte e mangiando aria per ora”.

La relazione con l’“Altrove” nella plastica installazione di Leonardo Devito

“Ghost Dance”, in esposizione ad “Osservatorio Futura”

Fino al 20 febbraio

Di primo acchito, non appena varcata la soglia del piccolo spazio espositivo al civico 20 di via  Giacinto Carena (zona piazza Statuto – San Donato) a Torino, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un’essenziale, non vistosa– nei mezzi e nei passi della narrazione – scenografia teatrale. Essenziale, non vistosa, ma certamente intrigante.

E inquietante, anzichenò. Libere, in una sorta di esoterica propiziatoria danza circolare, figure misteriose a-corporali, tessuti intinti di gesso dal color giallo tendente al verdastro, manichini o “fantasmi” benevoli svolazzanti uniti a semicerchio, nell’angolo a prima vista dello spazio d’ingresso di “Osservatorio Futura”, l’Associazione Culturale – raccoglitore e intelligente divulgatore di giovani libere e futuribili proposte artistiche – creata, per passione e per sfida, nel 2020 da Francesca Disconzi e Federico Palumbo, in comune la subalpina “Accademia di Belle Arti”, poi percorsi diversi ma, sempre, attaccata addosso la grande passione per l’arte declinata al futuro. A terra, la figura bianca (altrettanto a-corporale) di un giovane ragazzo dormiente – il viso in calco gessato – su cui svolazza il birbante “fantasmino” dall’aria ironica che pare volerlo destare – braccia e mani aperte – con il suo inatteso e fastidioso “cù – cù”– Dopo il primo, brusco incontro, l’“installazione site-specific” del giovanissimo Leonardo Devito, ti spinge a girarle intorno, a meglio osservarla, a cercare di capirne genesi e senso. Fiorentino, classe ’97, Leonardo vive e lavora a Torino.

Studi all’“Accademia di Belle Arti” di Firenze e all’“Akademie der  Bildenden Künste” di Vienna, attualmente è iscritto al biennio di pittura dell’“Accademia Albertina” di Torino e la sua formazione è fortemente legata all’“arte urbana”, che ha praticato negli anni utilizzando lo pseudonimo di “Mehstre”. “Quando ho proposto la mostra a Leonardo Devito – spiega Federico Palumbo, che dell’esposizione è anche curatore – gli ho lanciato immediatamente la suggestione di pensare insieme un progetto espositivo che non avrebbe proposto in nessun altro spazio. E questa, in realtà, più che una suggestione è dalle origini il mantra di ‘Osservatorio Futura’, che proponiamo a tutti gli artisti che lavorano con noi: valorizzare il nostro spazio al suo valore fisiologico di ‘project room’, tenendo astutamente a bada la voglia di scimmiottare gli spazi canonici e/o commerciali, tanto cari al mondo dell’arte più ‘classica’. Da qui è nata l’idea di proporre un’installazione scultorea e, più in generale, di ricerca, rivolta esclusivamente ad essa. Non abbiamo esposto la parte più iconica della produzione di Devito: le opere bidimensionali”. Che sono dipinti e sculture di egregia formazione accademica, dove il “valore” fondamentale della “scuola” si riflette tutto e bene nell’arte del giovane Leonardo. A dimostrazione un piccolo “ben compiuto” bassorilievo in argilla. “love in progress” amore che è dolcezza vitale contrapposta all’installazione ( nata da sogni e filosofie brumose ) e tesa ad “alleggerire – sia visivamente che concettualmente – il ‘mood’ generale dell’opera performativa: due innamorati al parco”. Un esempio chiaro della sua formazione classica di base. Su cui l’artista lavora di testa e di visionaria immaginazione. Illuminante la sua attrazione (non facile a crederci!) per quel Niccolò Dell’Arca (Bari, 1435 – Bologna, 1494), fra i grandi protagonisti della scultura dell’Italia settentrionale del XV secolo, autore del grandioso “Il compianto sul Cristo morto”, custodito nella Chiesa di “Santa Maria della Vita” a Bologna, con le sette “Marie”, maschere atroci di dolore intorno al corpo del Cristo, cui forse ha voluto pensare, non per blasfemia ma per seguire l’istinto di libera anarchia pop – new age, il nostro Devito nella sua “Ghost Dance”. Dove pur anche ritornano memorie legate all’omonima espressione rituale del movimento religioso diffuso fra gli Indiani d’America nella seconda metà del XIX secolo, realizzata nella tradizionale danza a cerchio annunciante “la fine del mondo, il ritorno dei morti e dei bisonti, la scomparsa dei bianchi e l’avvento dell’età dell’oro”.

Nella circolarità di “presenze” e misteriche “assenze”, in cui passato e futuro si annunciavano e fra loro comunicavano attraverso i suoni e i ritmi del presente. Sfuggenti filosofie, fatte proprie anche nei versi della “Ghost Dance” (1978, in “Easter”) cantata-recitata dalla “sacerdotessa maudite del rock” Patti Smith: “Eccoci qui, Padre, Signore, Spirito Santo/Pane del tuo pane, fantasma del tuo ospite/ Siamo le lacrime che sono scese dai vostri occhi/ Parola della vostra parola, pianto del vostro pianto. Vivremo ancora, vivremo ancora/Vivremo ancora”. Versi ben noti al giovane Devito e forse “traccia” non da poco al suo lavoro.

La mostra è visitabile solo su appuntamento tramite mail o sui social di “Osservatorio Futura”: www.osservatoriofutura.it o info@osservatoriofutura.it

Gianni Milani

“Ghost Dance”

“Osservatorio Futura”, via Giacinto Carena 20, Torino. Fino al 20 febbraio

Nelle foto di Davide D’Ambra: Federico Palumbo in una fase dell’allestimento, particolari da “Ghost Dance” e “Due innamorati al parco”, bassorilievo in argilla”.

La città dei vivi Nicola Lagioia in scena con il suo romanzo