CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 15

“Istantanea”. E’ qui il Circo

Ritorna a Cavallermaggiore, nel Cuneese,  il Festival di “Circo contemporaneo” organizzato da “Cordata FOR”

Sabato 31 maggio e domenica 1° giugno

Cavallermaggiore (Torino)

Per gli appassionati del “Circo contemporaneo”, quello più “strano” e variegato, dal video mapping alla musica, dalla clownerie al cabaret, dal teatro alla giocoleria e al brivido che ti lascia senza fiato dell’acrobazia, l’appuntamento da non perdere, per il fine settimana, è nella cuneese Cavallermaggiore, “città” (titolo conferitole da Vittorio Emanuele II, il 13 settembre del 1863) dove sabato 31 maggio e domenica 1° giugno sarà di gran scena la quinta edizione di “Istantanea”, il Festival circense organizzato dall’Associazione “Cordata FOR” (network torinese di “circo contemporaneo”), all’interno del bando “Corto Circuito” di “Fondazione Piemonte Dal Vivo” e sostenuto da “MIC – Ministero della Cultura”, “Regione Piemonte”, “Fondazione Cassa di Risparmio di Torino” e “Fondazione Cassa di Risparmio di Savigliano”, con il patrocinio del “Comune di Cavallermaggiore”.

“Saranno due giorni – assicurano i responsabili – di spettacoli di qualità, per pubblici di tutte le età, che trasformeranno Cavallermaggiore in un palcoscenico all’aperto per artisti emergenti e affermati, un luogo di scoperta, gioco e divertimento nel segno del ‘nouveau cirque’”.

Due le “arene” allestite, come da tradizione, in piazza Baden Powell“Arena Antilia”, chiusa, in cui saranno ospitati gli spettacoli da sala e “Arena Parade78”, l’arena aperta che ospiterà “Play_Giochi di una volta”, dedicata ai più piccoli con grandi giochi in legno rivisitati decine di anni dopo la loro creazione “attraverso il ‘fil rouge’ della luce, così da rendere ogni gioco un’installazione luminosa, un luna park dove grandi e piccini si possano divertire insieme” (sabato alle 19 e domenica alle 15).

Sottolinea, in proposito, Giuseppina Francia di “Cordata FOR”: “Istantanea arriva alla quinta edizione e punta su un programma variegato e moderno che mescola teatro di strada, video mapping e musica dal vivo, insieme a tip tap, ad accompagnare la tecnica circense a quella teatrale. Vogliamo far divertire tutte le generazioni”. E non abbiamo dubbi che ci riusciranno.

Imperdibile la prima serata di sabato 31 maggio che, alle 21, in “Arena Antilia” propone “Devualè”, un cabaret unico ed elettrizzante tra clown, circo e musica dal vivo, con Giulio Lanzafame, Mario LeviS, Silvia Martini e Simona Mezzapesa (“Cordata FOR”) che “man mano che il sipario si aprirà sveleranno le loro capacità artistiche e personalità uniche, mescolando momenti di comicità esplosiva a momenti di silenziosa poesia”.

Non meno coinvolgenti gli spettacoli “About” (domenica 1° giugnoore 17,30, sempre in “Arena Antilia”) con il “DUOPADELLA” (Giuliano Garufi e Isaac Valle) impegnati in spettacoli di “bicicletta acrobatica” e “giocoleria”, così come “Cà mea” (spettacolo di chiusura, domenica 1° giugnoore 19,30, in “Arena Antilia”), spettacolo di “acrobatica, filo teso, sfera d’equilibrio e verticali” con la “Compagnia AGA” di Gaia Cafaggi, Alessandra Ricci ed Agnese Valentini: tre artiste impegnate a raccontare, attraverso il circo (con ironia, dolcezza e crudeltà) la storia di una convivenza casalinga. Eh sì, perché “la costante ricerca di armonia casalinga – dicono – può forse farci ricordare la costante ricerca dell’equilibrio circense”. Buona e condivisibile intuizione.

Per infowww.cordatafor.com

g.m.

Nelle foto: “Devualé”, “About” e “Cà mea” (ph. Camilla Poli)

“Solness”, la tragedia di un uomo potente

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Al Carignano, sino a domenica 8 giugno

Presentando “Solness” – spettacolo di chiusura della stagione dello Stabile torinese, in attesa che siano svelate il 6 giugno prossimo le carte di quella 25/26 -, Andrea Tarabbia ricorda come ci siano scrittori riccio e scrittori volpe, prendendo a prestito un’affermazione di Isaiah Berlin, pensatore liberale di origini lettoni, che nel suo lungo cammino di vita ricevette tra l’altro il “Jerusalem Prize” in onore delle sue opere concepite e scritte intorno alla libertà individuale nella società, parole a loro volta ricavate da un frammento di Archiloco, “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Per insegnarci che sono volpi quanti abitano tante forme, da Balzac a Puškin a Joyce, aggiungendoci Cechov e il nostro Pirandello, ricci tutti quelli che formano nella loro scrittura un unico punto centrale, un’unicità di visione attorno a cui costruire la propria poetica, da Lucrezio a Proust a Dostoevskij. A Henrik Ibsen, un gran bel riccio di Norvegia, chiuso nel suo teatro e nei suoi drammi, che per una vita intera ha puntato al dramma, soltanto, personaggi forti e granitici i suoi, pronti a prendere forma esclusivamente sulle tavole di un palcoscenico. Tarabbia parla di “ossessione: ma allora, “benvenuta ossessione”.

Solness” è il vecchio, da sempre collaudato “Il costruttore Solness” (1892), a cui Ármin Szabò-Székely adattandolo e Kriszta Székely – che ha già scandagliato i drammi di Nora e di Hedda – formandolo registicamente hanno sottratto il termine d’attività, ampliando nelle intenzioni e nella mente all’Uomo – ottocentesco e nostro contemporaneo – ogni morbosità, sporcata forma d’affermazione, tratto misogeno, la pretesa di qualsiasi falsa apparenza e l’annientamento di quei segreti e le tragedie che abbiano attraversato l’esistenza di Halvard Solness (la morte dei due gemelli e il distacco dalla moglie Aline, una tragedia che Ibsen poeta aveva già anticipato: “Stavano seduti, quei due, in una casa tanto accogliente / nei giorni d’autunno e d’inverno. / Poi la casa bruciò. Tutto giace in macerie. / Quei due possono solo rovistare tra le ceneri.”): salvo poi, giustamente, ad apertura di sipario, metterci davanti agli occhi l’archistar, una sorta di Citizen Kane dell’architettura, quel modellino illuminato che è un po’ il logo della premiata ditta, ma la nostra visione s’è già allargata su un più ampio orizzonte. Nella “tragedia” di quest’uomo – falsamente e scorrettamente superuomo, che s’è costruito momento dopo momento, azione dopo azione, un ego abnorme, che ha allineato ogni essere umano attorno a sé, nella sfera privata come in quella pubblica e lavorativa, che ha messo alle corde quanti nella sfera giovanile abbiano tentato e tentino di sopravanzarlo, mettendo del proprio o rivisitando progetti suoi, con la risposta del più totale dominio, che ha costruito un mondo di bellezza ma altresì di distruzione, lucidamente ricercata, che ha azzerato la sessualità e gli affetti – la vita muta drasticamente con l’arrivo, improvviso ma pure (avremo modo di scoprire) congegnato, della giovanissima Hilde, forse una simbolica coscienza, certo un essere umano che pretende una confessione e il confronto con un passato di colpe, dove lei stessa è stata offesa. Con il tempo che ha Székely di metterci di fronte all’abuso sessuale, al filo rosso del Me too, in un sopruso che non è certo saltato fuori dal nulla in tempi vicini a noi e che s’allarga al tema del potere. Tema che si focalizza, all’interno dello spettacolo (che rimarrà al Carignano sino a domenica 8 giugno), nell’intuizione di mutare il vecchio originale Knut Brovik, nella cui ombra Solness s’è formato, in un personaggio, femminile, quello di Frida, che qui ha le note sincere e disperate di Laura Curino.

Correttamente ambientato (sono di Botond Devich le scene, un tavolo che è luogo di lavoro ma anche di confessioni, un sovrabbondante parco luci – di Pasquale Mari – ampie come un tetto di chiarificazione e di tribunale, e laterale, che è pronto a restringersi nei momenti più intimi) in un’epoca che è la nostra, senza forzature di comodo, “Solness” è uno spettacolo forte, compatto, di piena e stimolante meditazione, audace in certi suoi approfondimenti, pienamente concentrato nella propria attualizzazione, innalzato a una specifica “monumentalità”, ogni passaggio retto da Székely con fermezza e calibratura d’intenti, salvo – m’é parso, vedendo lo spettacolo all’indomani della prima e ponendo alcune incertezze nella scusante del rodaggio – inciampare qua e là nella parte finale, non distribuendola appieno, nel passaggio tra un più pronunciato realismo a una metafisicità, che coinvolge anche certi faticosi meccanismi e che – inavvertitamente – “sporca” il messaggio che il testo ibseniano ci lascia.

Lisa Lendaro come Kaja e Marcello Spinetta come Ragnar sono le prime costanti vittime del costruttore, d’eccellenza le apparizioni di Mariangela Granelli come Aline, chiusa nella torre del suo risentimento e nello sguardo verso un passato che non può essere che di dolore, ragazza ribelle e vendicativa la Hilde di Alice Fazzi, la più sfacciatamente moderna ed emblematica della intera operazione. Tra tutti i suoi compagni si muove in pose tiranniche, con una assai efficace bravura, il Solness di Valerio Binasco, in abiti scuri o in piena libertà tra mutande e accappatoio, concentratissimo e solido, battagliero a rivendicare il suo status vitae e i rapporti bacati con gli altri, la verità che è all’interno del proprio premierato, specchio della forza che distrugge ma anche di quella debolezza, con rarissime luci di umanità, che una ragazza comparsa (quasi) dal nulla gli ha fatto scoprire, mettendolo in un angolo, per sempre.

Elio Rabbione

Le foto di “Solness”, prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale con la regia di Kriszta Székely, sono di Luigi De Palma.

Guglielmo Caccia e l’iconografia Mariana

Sino al 14 settembre 2025, è in corso “Una Mostra”, duplice esposizione di opere di Guglielmo Caccia, uno dei massimi manieristi secenteschi, che si svolge contemporaneamente in due sedi diverse (ma legate dallo stesso intento) il Palazzo Mazzetti di Asti attraverso la Fondazione Asti Musei in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio, e il Museo Civico di Moncalvo con A.L.E.R.A.M.O. Onlus. È disponibile un prezioso esauriente catalogo, ideato da Giancarlo Boglietti, a cura del direttore scientifico Alberto Cottino e del conservatore di Palazzo Mazzetti Andrea Rocco, con i contributi critici di Giuliana Romano Bussola e Carlo Prosperi.

Proponiamo un breve commento sull’evoluzione dell’iconografia Mariana, della collaboratrice del “Il Torinese”, Giuliana Romano Bussola. 

Per celebrare i quattrocento anni dalla morte di Guglielmo Caccia, quale sede più consona del Museo civico di Moncalvo situato nell’ex Convento delle Orsoline, da lui fatto costruire per collocarvi le figlie monache ed in particolare Orsola che avviò la sua scuola di pittura.

Massimo esponente del Manierismo piemontese durante la Controriforma, il Moncalvo proseguì il movimento sorto nel 1510, ancor vivo Raffaello, che diede artisti dallo stile personalissimo sfatando il malinteso che il termine Manierismo sia da associare all’accademismo ripetitivo come mera imitazione di illustri formule precedenti..

Se altri piemontesi, come il superbo Tanzio da Varallo e il casalese Nicolò Musso, si ispirarono alla drammaticità caravaggesca, al contrario Guglielmo si nutrì piuttosto di armoniose reminiscenze raffaellesche, di delicate suggestioni fiorentine, di insegnamenti della scuola dei figli di Bernardino Lanino, guardando alle morbidezze tonali del Correggio, alle luminosità carraccesche e alle trasparenze madreperlacee di Gaudenzio Ferrari.

Fu facile per lui, di temperamento mite, pietoso e sinceramente religioso, inserirsi nei dettami dell’arte tridentina improntati alla pittura decorosa, escludendo atteggiamenti considerati immorali e nudità provocanti, propagando le sacre scritture di forte presa sulle masse popolari, senza ne venisse soffocata la libertà stilistica.

I bellissimi dipinti con madonne dai delicati colori e i tenui atteggiamenti presenti in mostra, sono conferma di come il Caccia prediligesse il culto mariano nelle varie tipologie, rifiorito dopo le ostilità della riforma protestante.

L’arte tridentina, perdurata per l’intero seicento, iniziò ad affievolirsi con l’avvento della filosofia dell’illuminismo che contribuì alla crisi dell’arte sacra per cui si passò dalla trascendenza all’immanenza.

Con il Preromanticismo iniziò l’arte moderna portando una nuova sensibilità che, priva del sostegno divino foriero di certezze e verità assolute, provocherà la cosiddetta “infelicità romantica” e la disperata solitudine di molti artisti, basti pensare a Caspar Friedrich che, nello sperduto Crocifisso invocato nel “Mattino sul Riesengebirgen” simboleggia, attraverso la poetica del Sublime, la nostalgia dell’Infinito a cui si aspira ma che mai più si potrà raggiungere.

Per tutto l’ottocento e una parte del novecento si vedono ancora madonne di stampo raffaellesco e una invasione di oleografie a basso costo ma si muovono anche importanti artisti che propongono nuove iconografie.

Spesso sono la donna amata o una figura femminile appartenente alla famiglia  che danno il proprio volto alla Vergine, come Teresa moglie di Giuseppe Pellizza da Volpedo che diventa madonna laica mentre Gala, ritratta da Salvator Dalì in “Madonna di Guadalupe” mantiene un forte sentimento religioso pur in atmosfera surreale.

Paul Gauguin in “Orana Maria” ritrae la compagna Pahura in abito taytiano interpretando il bisogno di religiosità polinesiana primitiva e incontaminata.

Dante Gabriel Rossetti invece demitizza la sorella Cristina in veste di madonna mentre rannicchiata su un umile lettuccio indossando una semplice camiciola, spaventata, accoglie l’angelo annunziante.

Van Gogh si serve della sorella Willemein dandole il ruolo di Madonna dolorosa con in braccio il Cristo, dal suo stesso volto, per simboleggiare la propria sofferenza.

Sconvolgente nel 1895 la Madonna del grande simbolista Edward Munch che, rappresentandola come perversa femme fatale, seminuda e seducente ammaliatrice, tra Eros e Tanathos anticipa l’espressionismo.

Ancor più dissacrante la litografia contornata da spermatozoi per negarne la verginità; al contrario di Gaetano Previati che nella “Vergine dei gigli” la avvolge in un clima di misticismo visionario esaltandone la purezza.

Più semplici le madonne di Fernando Botero che, tra ricordi rubensiani e realtà colombiane, si diverte e ci diverte rendendole voluminose.

Il massimo della demitizzazione iconografica sarà però attuato da Andy Warool con la serigrafia di Jakee Kennedy come madonna resa icona della cultura di massa del consumismo Pop Art alla stregua delle lattine di soup Campbell e della Coca Cola.

 

Giuliana Romano Bussola

L’Unione Musicale celebra Fryderyk Chopin

L’Unione Musicale celebra Fryderyk Chopin con un Festival interamente dedicato alla sua musica, in cui verranno eseguiti integralmente valzer, ballate, scherzi e mazurke. Si tratta di un’immersione totale nell’universo del compositore polacco attraverso quattro diversi concerti distribuiti in due giornate con un doppio appuntamento al Teatro Vittoria, il 27 e 28 maggio, alle 17.30 e alle 20.

Protagonisti tre talenti del Conservatorio di Torino: David Irimescu, Matteo Buonanoce e Maria Josè Palla. Irimescu è un pianista torinese di origine rumena, talento fuori dal comune, vincitore nel 2018 di Amadeus Factory, primo talent di musica classica in Italia. Nel 2023 si laurea con lode e menzione al Conservatorio di Torino con Claudio Voghera e riprende ad esibirsi in concerto. Nel 2024 ha la possibiltà di frequentare l’Università della Georgia come miglior allievo del Conservatorio, e alla borsa Open Source, seguendo il corso di Enrico Pace all’Accademia di Pinerolo. Di recente ha vinto il primo premio allo Scarlatti di Trapani. Maria Josè Palla, cagliaritana, si è avvicinata allo studio del pianoforte a 11 anni e ha completato gli studi con il massimo dei voti tra il Conservatorio di Torino e altre istituzioni internazionali, come l’Hemu di Losanna. Attualmente fa parte del trio Hieracon. La sua ricerca sonora è raffinata, rendendola un’interprete versatile. Ultimo interprete Matteo Buonanoce, che ha già collezionato numerosi premi internazionali e ha scoperto lo strumento a soli 6 anni. Grazie alla loro sensibilità multiforme potranno evidenziare le diverse sfaccettature espressive della poetica di Chopin.

Mara Martellotta

Torino, la città più magica

 

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticcima ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

8.Torino, la città più magica

Torino è magica. Nel vero senso del termine.
Lo testimonia anche il celebre medicoe astrologo Michel de Nostredame: Nostradamus ha alloggiato qui, dove c’è il Paradiso, lInferno e il Purgatorio. Io mi chiamo la Vittoria, chi mi onora avrà la gloria, chi mi disprezza avrà la rovina intera.
Sembra infatti che il popolare uomo la cui fama lo precede tuttora, dal nome italianizzato in Michele di Nostradama, meglio noto con lo pseudonimo di Nostradamus, abbia soggiornato intorno al 1556 a Torino, presso Cascina Morozzo conosciuta anche come villa Vittoria, poiché proprietà della principessa Vittoria, della casata Savoia-.
Tali parole erano state incise su una lapide custodita presso lo stabile in cui l’uomo aveva pernotatto, quando la Villa viene demolita anche quest’unica testimonianza tangibile del passaggio di Nostradamus a Torino scompare nel nulla, fino al 1967, quando viene ritrovata e donata a Renuccio Boscolo, uno dei maggiori interpreti degli scritti del chiaroveggente, per essere custodita in sicurezza.
Secondo alcuni studiosi la “Vittoria” indicata dall’importante ospite sarebbe la principessa Savoia, anche se le interpretazioni rimangono aperte a differenti ipotesi.
Quello che non cambia è l’alone di mistero che avvolge l’affermazione, impressione che si ripresenta in realtà di fronte a tutte le sentenze espresse dal “sapeinte” francesce.

Daltronde il capoluogo pedemontano è così: insolito e curioso, a tratti misterioso.
La città dai diversi primati, ne colleziona ancora uno, dopo essere stata la prima capitale italiana, in seguito al riconoscimento ottenuto grazie allaltura della Mole Antonelliana, oltre allinvenzione del primo cioccolatino, ecco lulteriore record tutto nostrano da aggiungere allelenco: Torino è considerata una tra le metropoli più magiche del mondo, nel bene e nel male perdonatemi il gioco di parole.-
Secondo gli esperti in materia infatti confluiscono sul territorio cittadino i vertici di due triangoli esoterici, quello di magia bianca (insieme a Praga ed a Lione) e quello di magia nera (insieme a San Francisco e Londra), fatto che tramuta la località in una sorta di mappa energetica costellata di zone buonee altre dove non parrebbe consigliabile trascorrere troppo tempo.
Per non sbagliarci vediamo di scendere più nel dettaglio.

Iniziamo dai luoghi da evitare.
Il punto energeticamente più ostile della città è di sicuro Piazza Statuto: qui, secondo la tradizione esoterica, si trova la porta degli Inferi, un vero e proprio passaggio tra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti; il punto preciso è situato in corrispondenza dellantica porta Decumana, uno degli ingressi delloriginario accampamento romano e luogo ahimè– dedicato alla sepoltura dei cadaveri. Latmosfera inquieta della piazza è resa ancora più sinistra dalla presenza di due monumenti assai particolari: quello eretto per commemorare gli operai deceduti durante la costruzione del Traforo del Frejus e lObelisco Geodetico. Il primo rappresenta unimmensa piramide di massi, da essi spuntano alcuni corpi di titani abbattuti dallo stesso genio alato che svetta sulla sommità della piramide, egli ha sul capo una stella a cinque punte a cui sono attribuite diverse simbologie magico-rituali; invece, la seconda costruzione, nota anche come Guglia Beccaria, è sormontata da un astrolabio e si erge esattamente a 5.000 km dal Polo Nord ed altrettanti dallEquatore. Non stupisce che sempre nei dintorni della piazza si trovi lappena citata Domus Morozzo, decisamente ledificio più appropriato per accogliere un altrettanto losco figuro.
Altro sito da evitare è Palazzo Trucchi di Levaldigi, oggi sede della Banca Nazionale del Lavoro, stupendo edificio dalle finiture seicentesche che ospita su una delle sue facciate il cosiddetto Portone del Diavolo, il cui batacchio rappresenta niente meno che il volto di Lucifero.
Nel 1675 Giovanni Battista Trucchi di Levaldigi, conte e generale delle Finanze di Carlo Emanuele II, richiede ad una manifattura di Parigi di realizzare un portale in legno e il risultato del lavoro è più che sbalorditivo: la soglia è riccamente intagliata e adorna di fiori, frutta, animali e amorini, ma ciò che stupisce gli spettatori è il batacchio centrale, un volto mostruoso che scruta minaccioso i visitatori che bussano alla porta. Ultimo dettaglio, la parte che viene presa in mano per battere è composta da due serpenti che si uniscono con la testa. Da questi dettagli derivano le storie spaventose ambientate in questo posto. Prima leggenda fra tutte è quella del mago insistente: si narra di uno stregone eccessivamente ostinato che provò ad invocare Satana, forse con troppa enfasi, difatti il povero Lucifero non propriamente noto per la dote della pazienza- infastidito dalla nenia incalzante, costruì un portone nel suddetto edificio, mise allinterno lincauto mago e lì lo imprigionò .
Altre vicende però contribuiscono a rendere questo stabile un luogo davvero misterioso. Si narra ad essempio di Melchiorre Du Perril, un soldato francese in possesso di documenti segreti che entrò allinterno dello stabile e non si ripresentò più al suo cocchiere; c’è poi la storia della ballerina che, invitata ad una delle tante feste volute da Marianna Carolina di Savoia, venne aggredita e assassinata allinterno di una delle sale della lussuosa palazzina.
Inoltre, ancor prima di tutte queste vicissitudini, nel 1600, ledificio viene scelto come sede di una fabbrica di tarocchi, e anche in questo caso le coincidenze non hanno fine: allepoca il numero civico del fabbricato era il 15, il medesimo numero dellarcano corrispondente alla carta del Diavolo.


E se proprio dovete raggiungere questa banca, indovinate il numero del tram da prendere?
Cari lettori, ma proprio qui dovete venire a prelevare?
Lasciamoci alle spalle i fantasmi che ovviamente si aggirano nei dintorni dellimmobile infernale e avviamoci in unaltra zona perturbante, ossia via Lascaris (angolo Via San Francesco dAssisi), a pochi passi da Piazza Solferino, dove ci si può imbattere nellennesimo dettaglio folklorìstico. Proprio ai piedi di un casamento – oggi sede di una banca, ma in passato dimora di una Loggia Massonica- si dischiudono a terra delle strane fessure a forma di occhi. Qualcuno ci osserva, ma per la serie mai una gioiaa tenerci sotto controllo non è un bellangelo alla Der Himmel über Berlin, bensì niente meno che il Principe delle Tenebre, da qui la dicitura di questi spiragli: gli occhi del Diavolo.
Bene, ora che abbiamo capito dove non fermarci per i prossimi pic-nic autunnali, vediamo insieme quali sono i luoghi in cui possiamo indugiare per una pausa rigenerativa.
Uno dei siti a più alta concentrazione di energia positiva della città è il luogo di confluenza tra il Po e la Dora Baltea, i due fiumi torinesi che rispettivamente simboleggiano il Sole e la Luna, lenergia maschile e quella femminile, il principio vitale e quello del sonno eterno.
Un altro posto consigliato è la Chiesa della Gran Madre, le cui statue erette allingresso della grande scalinata raffigurano la Fede e la Religione, due emblemi rassicuranti e potenti; le due personificazioni sono poste anche a guardia del Sacro Graal, una delle reliquie cristiane più ricercate di tutti i tempi e guarda caso- celata nei meandri dellenigmatica Torino, città dai mille volti.
Anche Piazza Castello è una località benevola, è opportuno passeggiarci soprattutto se si rasenta la cancellata di Palazzo Reale e ci si sofferma sotto le statue equestri dei Dioscuri, guardiani ufficiali posti al confine tra la zona di magia bianca e quella nera.
Se poi ci si sentisse particolarmente stanchi, è consigliabile dirigersi verso la Mole Antonelliana, Museo del Cinema per alcuni, per altri una grande antenna che irradia nel mondo energia positiva.
Gli intellettuali e i radical chic si appropinquino invece verso Piazza Solferino, nei pressi della Fontana Angelica, monumento pregno di simbologie nascoste: le statue della Primavera e dellEstate si contrappongono a quelle dellAutunno e dellInverno, mentre lacqua che scorre rappresenta il Sapere e la Conoscenza.
Che dire ancora? Alla fine è sempre la stessa storia, è leterna sfida tra il Bene e il male, che si tratti di Sith e di Jedi, di Merlino, di Morgana e della magia del fareo dellimpresa per sconfiggere Sauron la questione è resta la medesima: la scelta.
Cari lettori, e voi da che parte state?

ALESSIA CAGNOTTO

Benvenuta “Invasione”… se è “invasione” di libri!

A Ivrea compie 13 anni il “Festival della lettura”, che, dopo Aosta, coinvolgerà quest’anno anche Chieri

Dal 30 maggio al 2 giugno

Ivrea (Torino)

Tre città unite in un’unica comunità di lettrici e lettori, “declinando in ogni incontro il verbo ‘leggere’ in tutte le sue forme possibili: narrativa e saggistica, fumetto e giornalismo, illustrazione e teatro, musica e poesia, fotografia e cinema”. Ancora una volta sarà Festival del “Bengodi” per tutti gli appassionati di lettura, “La grande invasione”, nata tredici anni fa ad Ivrea e che, quest’anno, si terrà per la prima volta anche a Chieri (in collaborazione con il Comune), mentre ad Aosta giunge alla sua seconda edizione, sempre in collaborazione con il Comune, con la grande “libraia” Romaine Pernettaz e Corrado Ferrarese, critico letterario. Sotto la curatela organizzativa generale di Marco Cassini e Gianmario Pilo, con Marianna Doria e Ludovica Giovine per la “Piccola invasione” (dedicata ai lettori più giovani e che si terrà solo ad Ivrea e ad Aosta), “La grande invasione” prende il via venerdì 30 maggio per concludersi domenica 1° giugno a Chieri e ad Aosta, mentre ad Ivrea durerà un giorno in più, fino a lunedì 2 giugno. L’immagine ufficiale del Festival porta la firma del fumettista veneziano (da anni residente a Parigi) Piero Macola che, in collaborazione con la Galleria “Caracol” di Torino, sarà anche protagonista di una mostra nei giorni della Festa eporediese.

Procedendo a grandi balzi, data l’enorme vastità del programma (per cui si rimanda al sito: www.lagrandeinvasione.it ) ricordiamo che a Chieri, il Festival partirà, venerdì 30 maggio, con incontri ospitati dalle “Librerie” della Città collinare. Dopo il momento inaugurale, all’“Auditorium Leo Chiosso”, il giornalista Stefano Nazzi chiude il primo giorno di Festival con l’appuntamento “Perugia, 1° novembre 2007: le indagini, i media, il processo”, dedicato all’omicidio indimenticato di Meredith Kercher, studentessa inglese in Italia per il programma “Erasmus”, per cui vennero coinvolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, insieme a Rudy Guede, condannato in via definitiva come autore del crimine. La giornata di sabato sarà dedicata alle “lezioni” e alla “presentazione” di romanzi, che vedranno come ospite internazionale la scrittrice statunitense Jessica Anthony, tradotta in più di dodici paesi, che presenterà il suo ultimo lavoro “Il colpo segreto”, in cui viene condensata, nel racconto di una sola giornata, la storia di un matrimonio (e di un’epoca) la cui perfezione si sta incrinando per sempre. Ruotano intorno al mondo dei libri anche altri eventi come “Un incipit è per sempre”, tappa del tour del primo “talent letterario itinerante” per aspiranti scrittori, e il reading poetico musicale “IoDrama”. A Chieri il Festival si chiude con “Case, libri, tv, viaggi, fogli di giornale” in cui Gianmario Pilo intervista Gabriele Romagnoli e Paola Saluzzi. Tutti gli eventi sono gratuiticon ingresso libero fino a esaurimento posti.

Ivrea (casa editrice ospite, “Adelphi”) grande attesa per sabato 31 maggio, con Roberto Saviano, che, al “Teatro Giacosa”, racconterà la storia della vittima di mafia Rossella Cassini, a partire dal suo ultimo libro “L’amore mio non muore”. Da non perdere anche l’incontro “Simenon racconta Simenon”, nel quale, in dialogo con Filippo Battaglia, John Simenon ricorderà il padre Georges, grande inventore del commissario Jules Maigret. Insieme a nuovi format (come “La nostra carriera di lettori”) non mancheranno anche gli spazi dedicati ai “podcast”, tutti prodotti da “Rai Play Sound”, e alle presentazioni di autrici ed autori esordienti italiani ed europei, organizzate, per questi ultimi, in collaborazione con “Scuola Holden” nell’ambito del “Cela (Connecting Emerging Literary Artists)”, progetto internazionale di “sviluppo talenti” cofinanziato dal programma “Europa Creativa” dell’Unione Europea. Per un totale di sette ospiti internazionali, il Festival si prepara ad accogliere quest’anno, oltre alla statunitense Jessica Anthony, anche il britannico William Atkins, presente con “Tre isole”, in cui si raccontano tre storie di esilio e la colombiana María Ospina Pizano, con “Qui solo per poco”, una storia sulla vita come viaggio attraverso il punto di vista degli animali. Inserite nel folto programma saranno anche “otto mostre”, ospitate in altrettanti spazi d’arte cittadini e ben 51 “lezioni” curate da 17 ospiti su temi quali la “crisi climatica”, la “fragilità”, l’“immaginazione” e il “design”.

Largo spazio, come sempre, sarà dato anche a “La piccola invasione”, rivolta ai più piccoli e alle loro famiglie. Casa editrice ospite, “Topipittori”, nata a Milano più di vent’anni fa e specializzata in libri illustrati per bambini e ragazzi, presente con otto incontri. Appuntamenti da non perdere, sabato 31 maggio, i due con Bruno Tognolini, scrittore e autore televisivo di programmi come “L’albero azzurro” e “La melevisione” e quello con Martina Russo su “Cosa leggo quest’estate?”, ricco di numerosi consigli di lettura sotto l’ombrellone. La chiusura della “Piccola invasione”, lunedì pomeriggio 2 giugno, è affidata allo spettacolo teatrale “Di mare, di terra e di altri incantesimi”, scritto e interpretato da Manuela Celestino e Umberto Poli.

Per info su programmalocation e orariwww.lagrandeinvasione.it

g.m.

Nelle foto: Pietro Macola “Immagine guida”; immagini di repertorio; Jessica Anthony

Goliarda, la ricerca della ribellione e della felicità

Sugli schermi arriva da Cannes “Fuori” di Mario Martone

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

L’ultimo istante è uno sguardo in macchina, pensoso e dolente, a testimoniare una vita difficile, una tempesta di sentimenti, l’alternarsi caotico dei rapporti, le scorribande e i momenti intimi, il “dentro” e il “fuori” che abbiamo attraversato lungo i 117’; lo ha preceduto una manciata di minuti di altissimo cinema, quando riusciamo finalmente a mettere a fuoco il personaggio di Roberta, una ragazza che da sempre entra ed esce dal carcere, la sua voglia di ribellione e di libertà, la sua inadeguatezza al mondo, le sue debolezze, le sue risate forse forzate ma liberatorie, con una valigia piena zeppa di lettere che ha tirato fuori dal deposito bagagli della stazioni Termini, legami con i compagni e un processo in pendenza per banda armata (siamo nel 1980, in una scena precedente un calendario aveva mostrato la data del due agosto), la sua lenta fuga e lo smarrimento della scrittrice Goliarda Sapienza a cui “Fuori” Mario Martone ha dedicato, unico rappresentante dell’Italia a Cannes e uscito a mani vuote.

Martone, con l’abituale collaborazione alla sceneggiatura della moglie Ippolita Di Majo, ha ricavato il film sulla base dei romanzi di Goliarda, di intima vena autobiografica, “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio” – riportati alla luce dal marito Angelo Pellegrino, caratterista della commedia all’italiana ma anche presente con Bertolucci in “Novecento” o con Tornatore in “Malèna”, come con grande fatica e accanimento pubblicò a sue spese il migliaio di copie dell’”Arte della gioia” due anni dopo la morte dell’autrice -, frutto sulla pagina dell’esperienza carceraria della scrittrice, dopo l’impulsivo furto di pochi gioielli nella casa di un’amica, un luogo – le mura e le celle del carcere – dove ha toccato con mano l’iniziale sospetto ma dove ha ritrovato egualmente se stessa, l’accoglienza e l’amicizia e la solidarietà, per guardare poi in faccia la difficoltà nel tornare alla vita di ogni giorno, “a un mondo che non capisce il diverso e non perdona gli errori”, quello che la obbligava a cercare l’occupazione di correttrice di bozze che le salvasse le bollette e lo sfratto. Più facile quel gruppo d’amiche insomma che i salotti della Roma bene. Più facile la quotidiana costruzione del “tempio dell’amicizia” che non rapporti non sentiti e indesiderati. Un’amicizia, una stretta sorellanza, una femminile complicità che nei giorni di piena libertà continuerà a fortificare con Roberta soprattutto e con Barbara, tra telefonate e appuntamenti e una allegra gita al mare (che certo avrebbe necessitato di una maggior estensione, magari senza spingersi in quella doccia a tre, tanto sottolineata nelle colonne dei giornali, che peraltro il regista filma con estremo pudore e delicatezza), occasioni a intonare con quelle che ancora stanno là “dentro” “Sinnò me moro”: un Rustichelli d’annata, dal “Maledetto imbroglio” di Germi, ieri come oggi nella voce di Luisa De Santis.

Martone, con l’aiuto eccellente del montaggio di Jacopo Quadri, non ha scelto la linearità del racconto ma ha saggiamente quanto nervosamente inquadrato, vivificandola, la vicenda di Sapienza – contrariamente a quanto scritto nei giorni scorsi da “Variety”, bibbia festivaliera: “ripetitivo e noiosamente non lineare, tenta qualcosa di più impressionistico ed espansivo, con risultati emotivamente muti e talvolta stranamente strumentali” – in un continuo passato e presente, in un frammentarsi e ricomporsi che rendono vitale ogni episodio, in un “dentro” e un “fuori” che sono l’anima della narrazione, in un andamento imprevedibile che a ogni passo irrobustisce l’azione senza relegarla mai in quella consequenzialità che avrebbe finito per renderla debole e anonima. Quello che semmai manca al film di Martone, nella sua scelta di scrittura e registica, è lo scavare a fondo nella descrizione, nel chiarire e nello scoprimento da parte dello spettatore quindi, dei sentimenti dei due principali personaggi soprattutto, Goliarda e Roberta, le rabbie e le riconciliazioni, i vuoti e i pieni ci verrebbe da dire di una relazione: ma forse, questa, una imposizione a se stesso, un raccontare sfocato, considerato e lasciato, non allineato, affidato agli altri nelle sue conclusioni.

Barbara è Elodie, sempre più presenza cinematografica. Da applauso incondizionato le interpretazioni di Valeria Golino, una Goliarda catturata da un mondo che non ha mai pensato di considerare suo ma che è un panorama senza limiti e confini di amicizia e di libertà insperate, il suo mondo intero controverso (lo spezzone finale con Enzo Biagi è lì giustamente a spiegare i dissapori e i dubbi con la “normalità” che sta fuori), forte, umanamente sballottata, incredula a tratti; soprattutto la Roberta di Matilde De Angelis, una trentenne attrice che cresce a vista d’occhio, mostra tutta la ribellione del personaggio come pure le tante crepe, di vita e di affettività, in una maniera estremamente sincera, con il corpo e la mente e gli occhi, con la voce imperfetta, con i suoi improbabili tacchi a spillo, con il suo grande bagaglio di attrice pronta a prove sempre più ardite e alte.

Chi fece scomparire le memorie di Costantino Nigra?

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

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La digitalizzazione delle lettere di Costantino Nigra sono un grande contributo all’opera assai meritoria di storicizzare una figura non secondaria del Risorgimento di cui fu un protagonista nel campo diplomatico, alle dipendenze dirette del Conte di Cavour. Nigra ad unità d’Italia compiuta fu ambasciatore a Parigi, San Pietroburgo e Vienna in momenti decisivi della storia del nuovo Regno. Le opere  storiche scritte su di lui appaiono invece  poco interessanti, anche se uno dei nostri migliori storici, Federico Chabod, ne scrisse nella sua storia della politica estera italiana che lessi e studiai per sostenere un esame con Ettore Passerin d’Entreves che nel corso dell’esame mi interrogò su di lui. Resta ancora aperta la questione mai risolta della scomparsa delle sue memorie, che secondo alcuni furono bruciate dallo stesso Nigra, secondo altri si perdettero con la morte del figlio nel 1908, ad un anno di distanza dalla sua morte. C’è stato chi ha fatto molte e anche fantasiose congetture che non meritano di essere prese in considerazione perché Nigra fu vittima di “storici” dilettanti.
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Di fatto fu studiato seriamente come poeta piemontese ed amante della storia subalpina. Di lui mi parlò spesso l’amico Umberto Levra,  ultimo docente  di Storia del Risorgimento a Torino e presidente per lunghi anni del Museo Nazionale del Risorgimento. Nel nostro ultimo colloquio alla gelateria Pepino di piazza Carignano (ormai era stato defenestrato dal suo ufficio al Museo), Levra mi parlò della sua intenzione di scrivere su Nigra dopo essere stato l’estensore della voce sul dizionario enciclopedico degli Italiani Treccani. Anzi, mi propose di fare il lavoro insieme. In quell’occasione mi disse di aver accertato che fu Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon ad aver avuto per le mani le memorie di Nigra in occasione del centenario della sua nascita nel 1928. Levra aggiunse qualcosa di più e fece l’ipotesi della distruzione o dell’occultamento delle memorie di Nigra perché scomode ai Savoia per le pagine dedicate a Vittorio Emanuele II, che improvvisò una sua politica estera personale parallela a quella del governo.
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Con Levra non fu più possibile continuare il discorso perché incredibilmente  morì poche ore dopo il nostro incontro del  7 ottobre 2021. Ho sempre tenuto per me la chiacchierata con Levra che mi consegnò anche un suo vecchio saggio sui diari di guerra di Marcello Soleri.  Ho avuto altro da fare in questi anni, ma la tesi di Levra sulle memorie di Nigra andrebbe approfondita e verificata.
Il gerarca fascista De Vecchi era un monarchico sfegatato, anche se cercò di fascistizzare il Museo del Risorgimento, traducendo in termini museali  la tesi di Giovanni Gentile che vedeva nel fascismo il coronamento del Risorgimento.

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Marcelo Rubens Paiva “Sono ancora qui” -La Nuova Frontiera- euro 18,00

E’ uno dei libri più belli che abbia mai letto. Per la straordinaria forza della donna al centro del dramma che racconta.

Poco meno di 300 pagine che consentono più piani di lettura: quello storico-politico delle dittature militari, la tragedia dei desaparecidos; le battaglie di chi resta e vuole giustizia, il dramma dell’Alzheimer.

I fatti sono realmente accaduti. Li racconta Marcelo Rubens Paiva, (nato a San Paolo nel 1959) figlio di Rubens Paiva, deputato laburista che -dopo il golpe militare in Brasile- fu sequestrato nel 1971, torturato e ucciso.

Marcelo -scrittore e drammaturgo di successo- in “Io sono ancora qui” ha riunito pagine di memorie personali, familiari e collettive. Libro di una profondità che marchia l’anima; tanto più che nessuno ancora sa dove i carnefici abbiano gettato il corpo del padre e non ci sia una tomba su cui poter versare lacrime e rimpianti.

Questi i fatti. Di famiglia agiata, Rubens è ingegnere civile e deputato, impegnato a migliorare il suo paese. La moglie Eunice (origini italiane e una laurea nel cassetto) divora libri e cultura, manda avanti la casa e cresce 5 figli. Marcelo è il quinto (unico maschio) della coppia.

Tutto va in pezzi il 20 gennaio 1971 quando Rubens (ormai ex deputato laburista) viene prelevato dalla villetta davanti alla spiaggia, in una tranquilla zona residenziale di Rio de Janeiro. Non tornerà mai più.

Precipita nel gorgo di orrore della dittatura militare che si impossessò del Brasile dal 1⁰ aprile 1964 al 15 marzo 1985. Bilancio finale: centinaia di persone sparite nel nulla, per non parlare delle uccisioni.

All’epoca Marcelo ha 11 anni, poco dopo i militari sequestrano anche la madre e la sorella maggiore. Le due vengono rilasciate quasi subito, ma da quel momento tutti evitano i Paiva per paura di rappresaglie.

Inizia la via Crucis di Eunice che non si compiange, mai, neanche per un secondo.

Trasforma il dolore in energia e forza titanica.

Lotta come una leonessa per salvare il marito.

Non sa che, torturato e calpestato senza pietà, devastato da emorragie interne, risulta ucciso il 21gennaio 1971, giorno successivo al sequestro.

Poi contrasta le false versioni ufficiali che indicherebbero Rubens come fuggitivo.

Eunice rimane sola con 5 creature da sfamare e crescere.

Torna a studiare, la 2⁰ laurea è in Giurisprudenza; diventa uno dei più importanti avvocati per i diritti civili a livello mondiale.

Dedica la sua vita alla lotta per la democrazia e la ricerca della verità, offre supporto legale a personaggi famosi (tra cui Sting), a istituzioni come l’ONU e la Banca Mondiale; ma anche a cittadini comuni e comunità indigene.

Lotta perché lei -e chi condivide il suo stesso dramma- possano riavere i corpi dei desaparecidos e i relativi certificati di morte.

I Paiva si sono sempre definiti “una delle tante famiglie vittime delle tante dittature”; perché la loro era innanzitutto una tragedia di portata collettiva, insita nel DNA di ogni regime dittatoriale.

Ma il destino non ha ancora esaurito le randellate. Quando i figli sono grandi e sparsi con le famiglie per il mondo, Eunice è in pensione e con una certa sicurezza economica, viene aggredita dalla spietata, progressiva, distruzione della mente, con tutto il bagaglio di vita che racchiude. E’ il capolinea vigliacco dell’Alzheimer.

Può esserci finale più beffardo? Una donna così immensa, che ha aiutato un paese intero a ricordare… ora perde la memoria? Quando potrebbe tranquillamente riposarsi sulla spiaggia a leggere, circondata dall’amore di figli e nipoti…ecco, di nuovo la vita colpisce senza un’oncia di pietà!

Ancora una volta emerge l’Eunice che non si lascia andare del tutto. Tra le pagine più commoventi di Marcelo, quelle -grondanti stima, riconoscenza e amore- verso la madre che è stata a volte brusca, mai sdolcinata, ma non si è mossa dal suo capezzale quando un gravissimo incidente lo ha reso invalido.

Eunice è morta nel 2018, dopo una vita difficile e coraggiosissima, con i ricordi ghermiti dall’oblio, assistita dai figli fino all’ultimo. Nell’omonimo e pluripremiato film tratto dal libro, diretto da Walter Salles, Eunice rivive nell’interpretazione di una strepitosa Fernanda Torres.

 

 

Maylis de Kerangal “Giorno di risacca” -Feltrinelli- euro 17,00

10 anni dopo il successo di “Riparare i viventi”, de Kerangal, una delle principali scrittrici francesi contemporanee (nata a Tolone nel 1967), torna con questo romanzo dal tocco noir.

Figlia di un capitano di lungo corso, ha vissuto in Normandia: l’infanzia a Le Havre e gli anni del liceo a Rouen, per laurearsi poi a Parigi. Il romanzo si svolge nell’arco di una sola giornata ed è ambientato proprio nella città che l’autrice conosce a fondo.

Tutto ha inizio con la telefonata che riceve la protagonista, non meglio precisata. Di lei sappiamo solo che: vive nella capitale francese, ha 49 anni, di mestiere fa la doppiatrice di cinema, a Le Havre è nata, ma non è più tornata da almeno 20 anni.

La sua consolidata routine viene spezzata da una telefonata… non una qualunque. La polizia di Le Havre la convoca per interrogarla in merito al cadavere di uno sconosciuto ritrovato sulla spiaggia, privo di documenti, ma con il biglietto di un cinema ed un numero telefonico scritto a mano. Quello della protagonista.

Con questa pennellata di mistero scatta il romanzo. Quando le vengono mostrate le foto del corpo dell’uomo ucciso, non è certa di riconoscerlo, ma non può nemmeno escluderlo. E’ comunque l’innesco del racconto in cui l’autrice ricostruisce tanti flash del passato.

Centrale è la città portuale di Le Havre e la sua ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale.

Ma la trama scorre anche attraverso il ricordo di episodi significativi della giovinezza della donna.

Come l’intervista -che fece da ragazzina, per un progetto scolastico- ad una sopravvissuta ai bombardamenti: la 73enne Jacqueline, che rilasciò una toccante testimonianza. Pagine che lasciano letteralmente senza fiato e trasportano direttamente al centro della devastazione della guerra.

C’è di più…Perché De Kerangal -che ha iniziato a scrivere questo libro quando è deflagrato il conflitto in Ucraina- in queste pagine riflette anche sull’attualità, sui grandi temi scottanti di oggi e su alcuni bivi di fronte ai quali l’umanità si trova.

 

 

Cecile Baudin “La fabbrica dei destini invisibili” -NORD- euro 19,00

E’ il romanzo di esordio di Cécile Baudin (nata a Lione nel 1972) che si affaccia al mondo letterario con un corposo romanzo storico su un tema scottante, quello dello sfruttamento del lavoro minorile.

La storia è ambientata nella Francia di fine 800 e descrive, in base a una documentata e precisa ricostruzione storica, il funzionamento delle industrie dell’epoca.

Tanto per cominciare, Baudin ci conduce all’interno dei laboratori della fabbrica di seta di Madame Gromier, dove le 3 “lavoratrici ufficiali” si dichiarano tutte sorelle della titolare.

Excamotage che consentiva di escludere i “familiari” dalle leggi in vigore a tutela dei minori sul lavoro.

Le cose in realtà sono ben diverse. A sorvegliare che le leggi siano rispettate è stata da poco istituita la figura dell’ispettore del lavoro. Poiché è una professione ancora prevalentemente maschile, la giovane ispettrice Claude Tardy spesso si traveste da uomo per assolvere meglio il suo compito. Insieme al suo capo, l’ispettore generale del lavoro Edgar Roux, dovrà far luce su una serie di morti sospette e sfruttamento vario.

Un caso per tutti: nella sartoria di Madame Gromier dietro la facciata è nascosto un buio laboratorio segreto; lì, al freddo lavorano 8 operaie bambine tra gli 8 e i 12 anni, ininterrottamente dalle 6 di mattina fino ad oltranza alla sera.

Ed è solo l’inizio di vari scempi che portano a galla le varie distorsioni che sono state il lato oscuro della rivoluzione industriale.

Tra le tante, anche la connivenza degli orfanotrofi e di molti istituti di beneficenza che, col pretesto della formazione professionale, non esitavano ad impiegare bambini nelle fabbriche e nei laboratori. A tal punto che, alcune industrie, si lamentarono per la concorrenza sleale.

Preparatevi a una sorta di thriller storico.

 

 

John Grisham e McCloskley “Incastrati” -Mondadori- euro 23,00

10 storie vere di condanne ingiuste che hanno rinchiuso per anni dietro le sbarre persone innocenti, rovinandogli la vita. Ne raccontano 5 a testa e con cognizione di causa due autori di altissimo livello.

Non ha bisogno di presentazione il re del legal thriller John Grisham; dal ’92 in vetta alle classifiche (i primi di una ininterrotta serie di best seller furono “Il socio” e “Il rapporto Pelican”).

Jim McCloskey; attivista per i diritti dei detenuti innocenti e fondatore di “Centurion Ministries” che si occupa di condanne ingiuste ed ha contribuito a liberare decine di persone finite in galera al posto dei veri colpevoli.

Dunque un libro di non fiction, ma che appassiona anche più di un romanzo. Unisce il talento narrativo di Grisham all’esperienza sul campo di McCloskey ed esplora vari aspetti del fenomeno.

Tra gli argomenti trattati: le dinamiche psicologiche che spingono un innocente a dichiararsi colpevole; cosa comporti finire intrappolati in un incubo giudiziario che fa letteralmente a pezzi la vita di chi è rinchiuso dietro le sbarre (ma distrugge anche la sua famiglia).

Poi c’è la lotta, spesso eroica, di chi cerca di rendere giustizia, liberare gli innocenti ed individuare i veri colpevoli.

Da considerare che in molti stati oggi vige ancora la pena di morte alla quale possono andare incontro anche gli innocenti; dunque un’ingiusta condanna diventa omicidio e autentica tragedia.

Tra le molteplici cause degli errori giudiziari, nel libro vengono sottolineati: false testimonianze, errori investigativi, a volte corruzione delle forze dell’ordine e nel sistema giudiziario, spesso forti pregiudizi razziali.