CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 15

Al  Gobetti “L’origine del mondo, ritratto di un interno”

Debutta al teatro Gobetti martedì 22 ottobre alle 19.30 la pièce teatrale “L’origine del mondo, ritratto di un interno”, scritto e diretto da Lucia Calamaro, che ne ha curato anche le scene, i costumi, il disegno e le luci.

Lo spettacolo indaga la coscienza di una persona in lotta con la depressione, ed è prodotto dal Teatro di Roma, Teatro Nazionale, è interpretato da Concita de Gregorio, Carolina Rosi e Mariangeles Torres.

“L’origine del mondo, ritratto di un interno” rimarrà in scena al teatro Gobetti per la stagione in abbonamento dello Stabile di Torino fino a sabato 26 ottobre prossimo.

Fin dagli esordi la scrittura di Lucia Calamaro ha infranto diversi tabù. A quindici anni dal debutto “L’origine del mondo” si conferma un classico teatrale dei nostri tempi, uno di quei testi intorno al quale si sono addensati un immaginario e un riscontro fortissimi.

“Di fronte al tempo- racconta la regista Lucia Calamaro- alle crisi, alle mutazioni esistenziali. Magari sotto pressione, impotente, spesso isolato. Comunque inadeguato al rapporto, ma lo stesso presente. Decisamente depresso e si vede, uno fa fatica, però vive, trova strategie, si inventa. Si tratta di reagire. O al meglio adattarsi. Come si sta si fronte alle cose, quando peggio del rapporto con Uno, c’è solo il rapporto con gli altri? Lo sappiamo? Lo possiamo sapere? Esiste un Io generico guida? Non so, non mi pare. Da qui non mi azzardo alla teoria. Passiamo allo studio di un caso. Concita vive in un temporaneo autoricovero, lo ha scelto e non esce più. Da qui, dalla tana constata che lei di umano ne conosce veramente solo uno, convivono nello stesso corpo e a volte si distrae anche da lui. Se lo perde non lo capisce. Questa relazione fluttuante e disattenta spesso fa sì che non si ritrovi a essere contemporanea neanche a se stessa. Un convivente, anche lui familiarizzante con l’umano di Concita, la richiama a lei e al tempo, la figlia Alice, che rappresenta il suo Atlante domestico. Tanto che a volte uno si chiede chi ha messo al mondo chi. Nella casa in cui si muove con sua figlia, temporaneamente rinchiuse in cerca di un senso latitante, appaiono figure della soglia, abitanti del dentro-fuori che irrompono e agiscono. Figure queste tutte animate dalla stesa volontà, tirarla fuori. Si avvicendano sulla scena, strappando alla loro intimità duettistica, l’analista di Concita e sua madre Lucia. Gente che sta più fuori che dentro, ma a volte anche troppo dentro troppo fuori.

Ma che ne sanno loro della fatica necessaria a sondare gli intrecci traumatici nascosti nelle geometrie del profondo? Indago la coscienza di una persona in lotta con la depressione. Ne uscirà ma non sarà facile. […] Esploro gli stati d’animo mortificati di una figlia adultizzata, la sua assenza di modelli, la sua tenacia, tratteggio l’indifferenza, la rabbia e l’impotenza di tutti gli altri, di quelli che si trovano a gestire una persona depressa ma non si sa come. Intanto diversamente, ma certo si vive. In fondo da cosa è composta la vita di un essere umano? Un corpo e il suo andazzo, una mente e i suoi rovelli, le cose e la necessità di gestirle e poi gli altri, tutti gli altri, sotto forma di affetti , rivali, problemi, salvezza, ristoro, legami, vantaggi, limiti”.

Gobetti, via Rossini 8 Torino

Teatro di Roma, Teatro Nazionale

Orario spettacoli martedì giovedì e sabato ore 19.30, mercoledì e venerdì ore 20.45.

Mara Martellotta

Gli “Uomini invisibili” attraverso le strade della città

Nella Galleria Umberto I (Porta Palazzo) sino al 3 novembre

ClocharDomus” è una mostra ideata da Raffaele Palma per il CAUS (Centro Arti Umoristiche e Satiriche) giunto ai suoi quarant’anni di attività, quarta espressione in campo artistico rivolta ai senzatetto (“agli autentici clochard e non ai finti clochard”, ci tiene a precisare Palma, accompagnando le parole a precisi gesti di separazione). Il luogo scelto per l’esposizione è la Galleria Umberto I a Porta Palazzo, costruzione di fine Ottocento nata dopo varie ristrutturazioni sull’area di quello che fu il primo ospedale della città, un variopinto ambiente che invita alla scoperta e al passeggio tra caffè e botteghe e gallerie d’arte, sino a domenica 3 novembre, con ampi orari, dal lunedì al sabato dalle 7,30 alle 23,30 e la domenica dalle 9,30 alle 20.

Quarantatré gli artisti partecipanti con le loro opere pittoriche allineate agli altrettanti lampioni della galleria, acrilici su telo in PVC di un metro per un metro, a ricreare ognuno con il proprio personale sguardo il mondo di chi ha bisogno di un bene materiale e di un affetto, di chi a volte cocciutamente e pericolosamente continua a vivere per la strada, di notte e di giorno, di chi ha fatto di un angolo della città il proprio ricovero, di chi ha accettato di servirsi delle strutture che il Comune da anni mette a disposizione. È un’osservazione dal vero, guardando ai diversi habitat, sui marciapiedi, sulle panchine di un giardino, le file che si formano davanti a quei centri che possano garantire un pasto caldo a pranzo e a cena, siano San Vincenzo o Cottolengo o l’uscita secondaria di una qualche struttura militare dove gli avanzi del rancio della giornata possono essere più abbondanti. È l’osservazione dei tanti oggetti che formano le “domus” dei tanti clochard che vediamo fermi, al riparo tra le vie del centro, o spinti a girovagare per le strade; sono i carrelli che trasportano ogni cosa, la casa di ognuno, sono i cartoni e le coperte non poche volte sudicie, le stuoie e le bottiglie e le lattine, i barattoli e le confezioni di cibo che qualche passante offre, sono quei piccoli cani che li accompagnano, anch’essi intontiti in condizioni sempre più precarie.

Il tema del barattolo può essere considerato un po’ il marchio della mostra, l’elemento primo di riferimento, riprendendo dalla memoria – come ha fatto Giancarlo Laurenti, con quell’uomo privo di tratti ma da tutti identificabile, abituato a spingere il suo carrello, in direzione di un altro simile, più bisognoso di lui – quei “barboni” – un tempo li chiamavamo così – che si portavano appresso, e si presentavano alle mense, il contenitore fuori uso di pelati ed erano più o meno affettuosamente chiamati “brigata Cirio”: per quel “barachin” che aveva contenuto, in tempi migliori, il contenuto della famosa casa torinese. “C’è chi ricorda – sottolinea Palma, presentando la manifestazione – che anche la minestra distribuita in queste strutture fosse rossa perché cucinata con il pomodoro pelato donato dalla Cirio.”

Immersi in vite dignitose e in altre decisamente disperate, le psicologie colte precise in brevi tratti, fierezza e rabbia, solitudine e paura, gli artisti hanno saputo ricreare differenti mondi. Cristina De Maria allinea su colori verdi l’uomo e i suoi cani, nello scorcio geometrico della città si nasconde quasi a raggiungere l’invisibilità l’uomo di Pippo Leocata, a ricordare (a reclamare?) con la casa una cucina e un letto, i suoi effetti e i suoi affetti, mentre un dito indica con timidezza il contenitore delle elemosine sotto lo sguardo affettuoso di un cane. Nella limpidezza della tela la palese chiarezza e la signorilità di una piccola opera d’arte. Luigia Moriondo con le due scarpe in primo piano pare rimandare al caravaggismo di un tempo, rinfrescato di aria attuale, Rosa Maria Lo Bue trova un bello scorcio di un’immagine che abbraccia allo stesso tempo l’uomo il cane e la mano antica, ritorna ai piedi nudi e, con un bellissimo particolare, alle mani a scodella Vinicio Perugia, mentre appare come un’isola sospesa nel vuoto del mondo che lo circonda tutto quanto il clochard di Nicoletta Nava possiede. L’angolo che Pinuccia Cravero ha immaginato ha le sembianze di una casa intera, Angela Betta Casale mette in bocca al suo soggetto raggomitolato a terra la triste realtà di “io sono nessuno”, Franco Negro avvolge ogni cosa nel blu intenso della notte, Adelma Mapelli scolpisce uno dei tanti uomini invisibili della mostra contro il muro imbrattato della città, definendolo con autentica bravura in un momento di disperata stanchezza.

Elio Rabbione

Nelle immagini, le opere di Pippo Leocata, Adelma Mapelli e Giancarlo Laurenti, tra gli altisti che partecipano alla mostra “ClocharDomus” ideata da Raffaele Palma.

Pinerolo, i tesori nascosti del Fai

Sono arrivate a piedi o a dorso di mulo dal Monastero della Visitazione di Annecy e di Embrun nel 1634. Un lungo tragitto per una decina di suore visitandine che attraverso il colle del Monginevro sono scese a Sauze di Cesana e da qui hanno raggiunto Sestriere, Pragelato, Fenestrelle e Pinerolo. A Pinerolo si sono sistemate in una casetta del borgo in affitto dove ora si trovano la chiesa e il monastero della Visitazione, sulla collina della cittadina. Il monastero della Visitazione sorse nel 1643 al posto del Palazzo dei Conti Porporato. Ogni pietra del monastero e della chiesa parla di San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e, giova ricordarlo, patrono dei giornalisti, che dopo aver fondato il convento di Annecy, di passaggio a Pinerolo, durante una funzione religiosa preannunciò, pochi mesi prima di morire, l’arrivo in città delle suore visitandine e l’edificazione del complesso religioso.
La vita del convento iniziò effettivamente con l’arrivo delle suore nel 1634 quando Pinerolo era sotto la dominazione francese. Il monastero e la vicina chiesa sono due dei tanti “tesori nascosti” che il Fai, Fondo ambiente italiano, ha aperto al pubblico in occasione delle Giornate Fai d’autunno. Da quattro secoli la vita delle monache è intrecciata con la vita di Pinerolo, un legame fatto di storia, di preghiera e di ringraziamenti a Dio. Le suore visitandine erano povere e gli aiuti non tardarono ad arrivare. Ottennero donazioni importanti da persone facoltose del territorio e anche dal re di Francia, Luigi XIV, e dal governatore di Pinerolo Antonio Brouillez che consentirono di costruire parte del monastero. Pinerolo era a quel tempo la Pignerol francese essendo occupata dai sovrani d’Oltralpe che occuparono la città altre volte tra il Seicento e l’inizio dell’Ottocento.
Oggi le suore di clausura sono otto e, attraverso un ingresso interno, accedono alla chiesa della Visitazione costruita alla fine del Seicento, un piccolo gioiello del barocco piemontese, con una tela del torinese Claudio Francesco Beaumont, regio pittore. A poca distanza da Pinerolo, nella frazione Baudenasca, il Fai, d’intesa con i proprietari della tenuta, ha spalancato le porte del complesso delle Cascine Nuove che comprende la residenza nobiliare con una meridiana del 1763, la cappella del Settecento, la casa del pane con l’antico forno, la cucina con un grande camino del Seicento, le cascine agricole, l’orto, la scuderia e il giardino trasformato nel 1800 a pianta ovale. Una dimora storica vissuta e abitata tuttora che ha mantenuto intatto il fascino di una casa d’altri tempi.
Filippo Re
nelle foto:

Baudenasca la villa del complesso delle Cascine Nuove, il Monastero della Visitazione, la Chiesa del convento a Pinerolo.

Langa terra del Tartufo Bianco sul grande schermo

Langa terra del Tartufo Bianco scenario del film drammatico che sarà nelle sale di tutta Italia dal 17 ottobre. Il regista Gabriele Fabbro ha lavorato con un cast d’eccezione con Umberto Orsini Margherita Buy e Ydalie Turk per raccontare la storia di una famigli , il suo ricongiungimento alla ricerca delle proprie radici, confronto generazionale
Un nonno, una nipote, un cane , la terra, la natura.
Un film che fa ripensare sulle potenzialità delle nostre terre e delle nostre radici, della transazione generazionale.
Il film realizzato con il contributo di Film Commission Piemonte e la collaborazione degli enti territoriali langaroli mette in vetrina la Langa di solito apprezzata per i suoi prodotti enogastronomici, mettendo in rilievo paesaggi incantevoli narrando una storia che scopre nervi delicati come la demenza senile, le difficoltà economiche, l ‘incertezza dei giovani, la delinquenza, l’abbandono,la leggenda, la mortificazione, la realtà .
Triste realtà e l’infinita bellezza del territorio piemontese.

GABRIELLA DAGHERO

“Bon Bon Fabrique”. Un viaggio tra musica, cultura e parole su Sestarete, Canale 16

 

Venerdì 18 ottobre alle ore 21 debutterà Bon Bon Fabrique, un nuovo programma dove cultura, pensieri e musica si fondono in una narrazione coinvolgente e ricca di emozioni. La trasmissione sarà condotta da Paola Carmella, accompagnata dai suoi compagni di viaggio: Andrea Terranova, esperto di cinema e comunicazione, e il talentuoso fisarmonicista Luca Zanetti. Alla regia e montaggio, il poliedrico Angelo Ieva.
Ogni puntata offrirà musica dal vivo, ospiti speciali e reading culturali, creando un luogo di riflessione e intrattenimento per tutti gli amanti dell’arte e della cultura.
Nella puntata d’esordio, si parlerà del Tango, recentemente riconosciuto come patrimonio UNESCO, esplorandone la storia, l’anima e la passione che lo hanno reso un fenomeno culturale mondiale.
Non perdetevi questo appuntamento con Bon Bon Fabrique, una serata tra parole, musica e pensieri in compagnia di chi ama raccontare e far vivere la cultura in tutte le sue forme.

Bon Bon Fabrique – Venerdì 18 ottobre, ore 21, solo su Canale 16.

“Rocky”, una storia d’amore e rivincita, ben oltre l’aspetto sportivo

Sul palcoscenico dell’Alfieri, da venerdì 18 ottobre

Fabrizio Di Fiore è orgoglioso di averne acquistato i diritti e di poter portare per la prima volta in Italia, a Torino in prima nazionale – “per mantenere quella promessa fatta un paio d’anni fa di fare della città un punto d’eccellenza del musical e di tenere su di essa i riflettori sempre accesi” – sul palcoscenico dell’Alfieri, quel (primo) “Rocky” che nel 1977 si portò a casa inaspettatamente tre premi Oscar (Sylvester Stallone rientrò nelle cinquine e fu ad u passo dal vedersi assegnati quello per il miglior attore protagonista e quello per la miglior sceneggiatura originale), scommessa vinta di un giovane attore che fino a quel momento non aveva ancora trovato la sua giusta occasione.

Dopo i successi di Broadway e di Berlino, “faremo rivivere una storia che va ben oltre l’aspetto sportivo. È una grande storia d’amore, è la storia di un uomo che diventa campione non soltanto sul ring ma anche nella vita. Con la caparbietà e la determinazione. Un’orchestra dal vivo, la bellezza della colonna sonora di Tom Conti, delle musiche e delle canzoni, un cast d’eccezione fatto di attori, alcuni usciti dalla nostra scuola, selezionati con grande fatica: certamente il musical più complicato da mettere in scena, per i 31 cambi di scena che prevede, per le aspettative che il pubblico ha verso un film che è diventato un cult, per la necessità di intervenire su simulazioni che a ben vedere sono più cinematografiche che teatrali.”

Luciano Cannito, coreografo e regista di questa grande macchina teatrale che prenderà il via venerdì 18 (le repliche torinesi termineranno domenica 27, poi si proseguirà sino ad aprile 2025 per Trieste e Milano, Roma e Bari, Bologna e Napoli, piazze annunciate per ora), ribadisce che “non è stato facile confrontarsi con un titolo così famoso, è stata l’occasione per andare alla scoperta di nuovi talenti, cosa che certi produttori teatrali ancora fanno, a differenza del cinema che vede sempre più la presenza degli stessi nomi.” Il lavoro è stato tanto, durante l’estate (“mentre voi ve ne stavate al mare”, scherza Cannito con la compatta platea di giornalisti torinesi e non soltanto raccolta in una delle salette del teatro dal nuovo ufficio stampa, seduti in comodi banchi ben allineati sembriamo anche noi degli scolari al primo giorno di scuola), non solo la definitiva scelta dei protagonisti per cui c’è voluta l’approvazione dei responsabili americani, ma anche la preparazione delle scenografie dovute a Italo Grassi (pronto da ieri a buttarsi in un’opera lirica in Giappone, lui già applaudito frequentatore del Comunale di Bologna o del Maggio fiorentino) e dei costumi di Veronica Iozzi (“tutti rigorosamente anni Settanta, in un numero indescrivibile, ogni personaggio ne ha almeno sette”), l’adattamento e la traduzione delle canzoni, sempre di Cannito con la collaborazione di Laura Galigani, dovute a Stephen Flaherty e Lynn Ahrens  (chi abbia per anni, in passaggi televisivi o in rassegne macinato quella storia non potrà ancora commuoversi nel riascoltare “”Eye of the Tiger” o “Gonna Fly Now”), la direzione musicale di Ivan Lazzara e Angelo Nigro e gli arrangiamenti di quest’ultimo chiamato pure a dirigere l’orchestra.

 

Flaherty e Ahrens dovrebbero essere presenti in sala venerdì prossimo: e c’è chi spera anche nel mitico Sly (“non è facile raggiungere personaggi di questo calibro, noi l’invito glielo abbiamo fatto, una risposta dovrebbe arrivare nelle prossime ore e noi ci speriamo ancora”). Dopo i miti americani raccolti di recente dal Museo del Cinema, sarebbe un’altra fascinosa presenza in città.

Il giovane pugile di Philadelphia chiamato a combattere contro Apollo Creed avrà il viso piuttosto d’angelo e i tatuaggi (d’obbligo) che compaiono (per ora) dietro l’orecchio e alla base del collo e tutta l’agilità di Pierpaolo Pretelli. Anche lui scolaretto disciplinatissimo che, ricorda Cannito, “se ne è arrivato alle prime prove già con l’intero testo imparato a memoria”, dice di essere felice e orgoglioso di questo spettacolo “che mi vede coinvolto in prima persona, non è facile incarnare un mito, recito canto e ballo e ne sento tutta la responsabilità. Non ci dormo la notte, mi sveglio con le battute che mi girano in testa, è un’esperienza che ti mette i brividi, anche Fiorello mi ha detto che l’emozione che ti dà il teatro non te la dà nessun altro. Lo sto provando nelle tantissime prove. E poi è un ruolo veramente complesso anche a livello fisico.”

La sua Adriana avrà gli occhi ancora stupefatti, dolcemente meravigliati di Giulia Ottonello, arrivata in questo gruppo senza conoscere nessuno e immediatamente ambientata per quell’aria di famiglia che circola sin dal primo giorno. Calata con passione nel personaggio (fu nel film della bravissima Talia Shire, sorella di Francis Ford Coppola, che aveva sempre pensato a lei per il ruolo di Connie Corleone per la saga del “Padrino”), confessa “di avere parecchi punti in comune con Adriana, non ultimo quello di tenermi dentro un’indole introversa e questo mi ha aiutato anche se come attrice ho fatto di tutto per aggiungere al personaggio molto altro.” Come ognuno sa, il punto cruciale di tutta la vicenda sarà il combattimento finale traRocky e Apollo Creed, un altro momento che ha richiesto una preparazione non indifferente, il risultato che vedremo non potrà che essere pieno di emozioni e di perfetto realismo.”

Elio Rabbione

Nelle immagini, i protagonisti Pierpaolo Pretelli e Giulia Ottonello con il regista e coreografo Luciano Cannito; e ancora Pretelli davanti al guantoni indossati da Sylvester Stallone in “Rocky”, ora alla Mole per la mostra “Movie Icons: oggetti dai set di Hollywood”.

Teresa Maresca, “Il primitivo del sogno” 

Domenica 3 novembre verrà presentato l’evento dal titolo “Rock Art- Il primitivo del sogno” in cui Teresa Maresca, l’artista e autrice del libro intitolato “Il primitivo del sogno”, dialogherà con il poeta Gian Giacomo Della Porta sui temi della sua opera.

L’appuntamento avrà luogo alle ore 19, presso Diagon Hall, in via San Domenico 47 a Torino, e prevederà anche l’esposizione di alcune opere pittoriche e materiche di Teresa Maresca.

Teresa Maresca vive e lavora a Milano. Dopo gli anni di formazione a Roma, dal ’92 ha iniziato ad esporre in mostre collettive e personali presso istituzioni museali e gallerie in Italia e all’estero. La sua pittura figurativa e visionaria è stata accostata a maestri come Munch, Nolde, De Pisis e Carrà. Ha esposto alla Biennale d’Arte di Venezia, alla Galleria d’Arte Moderna di Genova, al Museo Diocesano di Milano, al Museo Marino Marini di Pistoia, in ex fabbriche come la Falk di Sesto San Giovanni e i Musei dell’Industria e del Lavoro di Brescia. Da tempo lavorava a un progetto sulla Rock Art del Paleolitico Superiore.

Teresa Maresca, originale e libera pittrice, dà vita a quadri di ammaliante bellezza misterica, ed è un’artista di colta sensibilità antropologica, orientata sulla perpetua e ipnoticamente enigmatica energia degli archetipi. In questo suo libro rivolge i propri sentimenti ai miti, alle visioni del mondo, ai riti delle popolazioni indigene polinesiane e di alcune etnie nordamericane (struggente la sua devozione a Wounded Knee) amazzoniche. Con frequenti richiami alla poesia, non solo di Whitman, ma anche, tra gli altri, di Byron, Kinsella e altri artisti della scena contemporanea, Teresa Maresca ha scritto un libro dedicato alla natura ed esalta la dimensione del sogno, scorrendo in essa, sciamanicamente, l’essenza inspiegabile dell’umano, e affidandosi alla sequoia di Whitman vede una campaniana prateria senza fine dove le orme dei bisonti sono le tracce dell’assoluto.

Rock Art – Il primitivo del sogno

3 Novembre, ore 19

Diagon Hall, via San Domenico 47, Torino

Per prenotazioni: infoeventi@larteficio.com

 

Mara Martellotta

Castello di Miradolo. “Storia di una rinascita”

Nuovo make-up al Castello di San Secondo di Pinerolo e, da marzo a giugno, “Erbari d’autore”

San Secondo di Pinerolo (Torino)

Ha più di duecento anni di storia il “Parco” del “Castello di Miradolo”, dal 2007 sede della “Fondazione Cosso”. E, vista l’età, un buon maquillage non era di troppo. Maquillage quasi compiuto, poiché, annunciano dalla “Fondazione, nella  primavera del 2025 si concluderà il progetto di “rinnovamento e manutenzione” straordinaria con cui la “Fondazione Cosso” ha ottenuto i fondi del “PNRR” del bando del “Ministero della Cultura”, finanziato dall’“Unione Europea” attraverso i fondi “NextGenerationEU”: ottavo nel centronord primo in Piemonte nelle graduatorie degli investimenti dedicati alla valorizzazione di parchi e giardini storici. A San Secondo di Pinerolo sono arrivati più di 1milione e 800mila Euro investiti in azioni di “manutenzione ordinaria e straordinaria” della “componente vegetale e del “disegno storico”, oltre che di restauro delle “componenti impiantistiche”, di “ricerca storico-paesaggistica” e di “rinnovamento dei servizi” per i turisti ed i visitatori. Lavori essenziali per un’immagine ancor più fruibile e suggestiva del “Parco storico”, dal 2008 oggetto di particolare attenzione (all’interno di un sapiente progetto di “sostenibilità ambientale”) da parte di PaoloPejrone, uno dei più rinomati paesaggisti italiani, che (al fianco di Elettra Bordonaro“architetto della luce” che ha invece firmato il magico progetto di illuminazione) dopo aver disegnato e progettato l’“Orto”, ha ridisegnato anche la “Corte aulica” del Castello e la zona antistante la “Serra”, con il rinfoltimento della collezione botanica, il ripristino delle antiche “Vaserie” e la selezione di arbusti idonei ad attrarre gli insetti “pronubi”, preziosi per la loro attività di impollinatori.

A fianco degli imponenti lavori incentrati sul progetto di “rinnovamento” del “Parco”, al “Castello” di via Cardonata (dove fino al prossimo 25 dicembre è visitabile la mostra “Giorgio Griffa. Una linea, Montale e qualcos’altro” che coinvolge tutti gli spazi del “Castello” e del “Parco”) già si sono accesi i motori per l’organizzazione della grande mostra primaverile “Di erbe e di fiori. Erbari d’autore. Da Bessler a Penone, da De Pisis a Cage”, a cura della “Fondazione Cosso” e di Roberto Galimberti, con la consulenza di Enrica Melossi e in programma da sabato 22 marzo a domenica 22 giugno del prossimo anno.

“Il percorso della mostra – spiegano gli organizzatori – intende costruire un confronto ‘impossibile’ tra alcune pagine di erbari storici con la visione di alcuni artisti che attorno alla riflessione sulla materia e sugli elementi della natura hanno costruito opere che sono specchio del proprio tempo e del presente”.

L’esposizione sarà, inoltre, accompagnata da un’inedita installazione sonora, a cura del progetto artistico “Avantdernière pensée, dedicata al brano “In A Landscape” di John Cage del 1948. Una lenta sequenza al pianoforte di note “omoritmiche”, separate tra loro dallo stesso intervallo, sembra sottolineare la possibilità di ascoltare e, insieme, di essere “dentro” l’ascolto, in un paesaggio sonoro da osservare con attenzione, da vicino, come un quadro o le pagine di un erbario. “Il sistema di diffusione del suono progettato per le sale espositive – spiega Roberto Galimberti – costruisce lo spazio, ne muta i confini percettivi e dialoga con la dimensione visiva, in un continuo controcanto in cui la cadenza dei suoni sembra confondersi con l’incedere dei passi di chi osserva”.

Parallelamente alla mostra si articolerà il progetto Da un metro in giù: un percorso didattico per i visitatori di tutte le età per imparare, con gli strumenti del gioco, a osservare le opere d’arte e la realtà che ci circonda.

Per info: tel. 0121/502761 o www.fondazionecosso.com

Gianni Milani

Nelle foto: Castello di Miradolo, “Serra neogotica”; Paolo Pejrone; Maria Luisa Cosso e Paola Eynard, presidente e vicepresidente “Fondazione Cosso”

“Se i pesci notassero fuori dall’oceano…”

MUSIC TALES LA RUBRICA MUSICALE

Se i pesci notassero fuori dall’oceano

avessero le gambe e iniziassero a camminare

e le scimmie scendessero dagli alberi

crescessero e iniziassero a parlare

e le stelle cadessero dal cielo

e le mie lacrime finissero nell’oceano

e ora sto cercando la ragione e le cui

hai messo il mio mondo in azione”

Johnny Manuel è di Flint, Michigan. Da bambino non riusciva a staccarsi dalla radio e iniziò rapidamente a imitare ogni nota che sentiva uscire dagli altoparlanti. Dopo aver presentat alcune cover ha firmato un contratto discografico all’età di quattordici anni con il soprannome di Lil’ Johnny. Era entusiasta di registrare negli studi e di andare in tournée con artisti famosi. Un paio di anni dopo, però, venne abbandonato dalla stessa casa discografica come spesso accade.

A 17 anni si chiuse in una stanza, depresso. Ha iniziato a lavorare nel settore della vendita al dettaglio e in altri lavori di ordine comune. Ora spera di tornare sotto i riflettori per una seconda possibilità mentre presenta se stesso e la sua musica al mondo attraverso i talent.

In questo brano lo vediamo insieme ad un Guy Sebastian, australiano, classe 1981 Vincitore di Australian Idol nel 2003 che ha conquistato immediatamente un enorme successo ottenendo svariate certificazioni platino con tutti i suoi album e mettendo a segno svariate collaborazioni con artisti internazionali, il che gli ha permesso anche di entrare nella top 20 della Billboard Hot 100.

““Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme un successo.””

Meraviglia in pochi minuti, spero piaccia anche a voi

https://www.youtube.com/watch?v=oPfmUhbx20g

 
 
 

 

Chiara De Carlo

Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Raffaella Bona e Diego Dominici in “Sentenze”

Sentenze è stato il titolo di una mostra ospitata ai Docks Dora, una riflessione sulla libertà e l’accettazione della complessità umana da parte di due artisti Raffaella Bona e Diego Dominici, che si esprimono rispettivamente attraverso i progetti “Pene capitali” e “Parafilia”.

Raffaella Bona e Diego Dominici condividono numerosi punti in comune, pur affrontando tematiche diverse. Entrambi esplorano la complessità della condizione umana, ponendo al centro delle loro opere una riflessione critica sulle norme sociali, sugli stereotipi e sulle dinamiche di potere che influenzano l’identità e la sessualità. Utilizzano le loro opere come strumento di critica verso le convenzioni e i ruoli sociali imposti. Bona affronta la condizione femminile trasformando la violenza in un’ironia liberatoria. Dominici utilizza la maschera per rappresentare la dualità tra l’apparenza esterna e la realtà interiore, esplorando la frammentazione dell’individuo e la repressione dei desideri più intimi.

Un tema centrale nei due progetti è quello della libertà individuale e collettiva. Bona invita a superare i ruoli di genere tradizionali per una società più equa e priva di violenze di genere; Dominici propone una visione di accettazione della diversità sessuale e della complessità umana andando oltre il concetto di devianza. L’obiettivo, in entrambi i casi, è liberare gli individui dagli stereotipi e dalle costrizioni sociali.

Sono queste, opere che non temono di essere provocatorie. Bona utilizza immagini forti come quelle del pene impiccato o ghigliottinato per evidenziare l’oppressione femminile, mentre Dominici si avventura in territori tabù, come la parafilia, per stimolare una riflessione sulle norme sessuali e sociali. Si sfida il pubblico a considerare prospettive alternative e a riflettere sulle convenzioni. Nonostante la diversità dei temi, entrambi i progetti promuovono un messaggio di eguaglianza. Bona cerca una parità autentica tra i generi, dove le donne non siano più relegate a ruoli marginali, mentre Dominici, attraverso l’uso della maschera come simbolo universale, suggerisce che tutti condividano fragilità e luoghi comuni, desideri comuni, eliminando le barriere tra normalità e devianza.

Entrambi gli artisti cercano di abbattere gli stereotipi e di proporre nuovi modelli di identità. Bona immagina un futuro in cui gli uomini siano finalmente liberi da ruoli di potere imposti e dalle gabbie del maschilismo, mentre Dominici propone una visione in cui l’identità sessuali siano fluide e accettate nella loro complessità, libere da giudizi morali.

Sia Raffaella Bona sia Diego Dominici utilizzano l’arte per indagare e sfidare le strutture di potere e controllo che governano le dinamiche di genere e sessualità, proponendo una visione più libera, inclusiva e consapevole dell’identità umana.

Raffaella Bona, architetto e talentuosa ceramista, attua una costante sperimentazione attraverso la trasformazione della materia (grès e porcellana) abbinata all’uso del metallo (ottone e bronzo) e di altri elementi. L’espressione della forma, esaltata e vivificata dalla materia stessa, così come l’interesse tattile dei materiali, si traduce nella creazione di pezzi unici realizzati esclusivamente a mano.

Nella sua collezione “Penelope” affronta il tema della condizione femminile, intrecciando una visione duale che ruota attorno alla rappresentazione del pene, simbolo della mascolinità. Il titolo “Le Pene capitali” gioca con le parole, invitando lo spettatore a cogliere ironia e leggerezza che permeano le sue opere, in netto contrasto con la sofferenza femminile legata a un ruolo sociale ancora marginale rispetto alla libertà e al potere.

Attraverso immagini potenti come il pene impiccato, ghighiottinato o impalato l’artista stabilisce per contrasto un’analogia con la condizione della donna.

Il linguaggio forte e al tempo stesso provocatorio diventa strumento di comunicazione di un messaggio di liberazione e compassione, invitando a sconfiggere i mostri interiori e a immaginare nuovi modelli maschili.

Il progetto ‘Parafilia’ di Diego Dominici, fotografo, esplora in profondità la complessità della condizione umana attraverso una lente provocatoria e riflessiva, concentrandosi sui comportamenti che la società considera devianti o patologici, in particolare legati alla sessualità. Il termine “parafilia” deriva dal greco “para” (oltre) e filia( amore) e diventa un punto di partenza per affrontare la tensione tra desideri intimi e normatività sociale.

Attraverso le sue opere Dominici cerca di rappresentare le dinamiche nascoste della psiche umana, mettendo in luce i desideri e impulsi che spesso vengono repressi o stigmatizzati. Le parafilie, considerate come espressione di devianza, vengono qui individuate quale riflesso della complessità e della pluralità dell’espressione umana, offrendo una prospettiva alternativa e più inclusiva sulla sessualità e le sue sfaccettature.

Uno dei simboli centrali del progetto rimane la maschera, che Dominici utilizza come metafora della dualità tra l’apparenza esteriore e la realtà interiore. La maschera diventa un veicolo attraverso cui l’artista rappresenta le emozioni e gli impulsi nascosti, che spesso devono essere celati a causa di convenzioni sociali o per paura del giudizio. Questo crea una potente dicotomia tra l’immagine pubblica e la dimensione privata dell’individuo, evidenziando la frammentazione dell’essere umano, costretto a dividersi tra il sé che mostra agli altri e il sé autentico.

L’opera di Diego Dominici invita il pubblico a riflettere sul valore della diversità e a riconoscere che la autentica libertà nasce dall’accettazione della complessità che ci caratterizza come esseri umani.

 

Mara Martellotta