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Il mestiere della giornalista nello sguardo di Stefania Battistini e Serena Danna

Primo incontro di “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo” al Circolo dei lettori

Al Circolo dei lettori è ripartito il ciclo “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo”, ideato da Annalisa Camilli. Un omaggio alle voci femminili del giornalismo – del presente e del passato – che sanno e hanno saputo raccontare il proprio tempo attraverso parole e immagini, da davanti o dietro un obiettivo. Un viaggio tra testimonianze dirette, documenti d’archivio e memorie personali, per restituire frammenti di mondo e offrire nuovi sguardi sulla realtà.

Nel primo incontro di mercoledì 7 maggio Stefania Battistini, inviata speciale del TG1 in dialogo con Serena Danna, vicedirettrice di Open, ci hanno aiutato a capire come si spiegano i conflitti e il mondo che cambia così velocemente, in un periodo storico in cui si fa fatica a rincorrere le guerre.

Il mestiere dell’inviato di guerra

Durante uno degli episodi più delicati del conflitto in Ucraina Stefania Battistini si è trovata nuovamente sul campo, testimone diretta di un momento che segnava un cambio di strategia da parte di Kyiv. Era agosto del 2024, quando le forze ucraine tentarono per la prima volta in due anni e mezzo un’incursione oltre il confine russo, con l’obiettivo dichiarato non di conquistare dei territori, ma di guadagnare una posizione di forza in vista di eventuali negoziati di pace.

“Gli ucraini non hanno mai detto: invadiamo la Russia per prenderci un pezzo di territorio. Hanno puntato a un obiettivo strategico, la centrale nucleare di Kursk, per cercare di ottenere indietro città come Zaporižžja,” ha spiegato Battistini. Il suo lavoro, come sottolinea, è stato quello di ogni cronista: verificare con i propri occhi, essere presente e raccontare.

La giornalista ha ribadito come, nel mestiere del reportage di guerra, sia fondamentale trovare un equilibrio tra l’emozione, inevitabile di fronte al dolore e alla morte, e la lucidità analitica. “C’è chi lavora dal desk, chi corre sul posto. Ma alla fine il punto d’incontro dentro una redazione nasce proprio da questa osmosi tra chi analizza e chi vive sul campo.”

Un esempio emblematico di quanto sia complesso e delicato il ruolo del giornalista nei teatri di guerra si è verificato durante la liberazione della città di Kherson, nel sud dell’Ucraina. Le immagini di cittadini in festa che sventolavano la bandiera ucraina, hanno smontato la narrazione russa secondo cui gli ucraini avrebbero accolto con favore l’occupazione. Tuttavia, le autorità ucraine decisero di limitare l’accesso alla stampa internazionale in quel momento cruciale, bloccando anche giornalisti accreditati, a differenza di colleghi della BBC e della CNN che riuscirono comunque a entrare, pur con grande rischio. per la prima volta i cittadini che erano finiti sotto occupazione potevano raccontare delle cose e sarebbe stato un momento di propaganda fortissimo, che però gli ucraini non si sono voluti giocare.

Secondo Battistini, la decisione di Kyiv fu dettata dalla paura di eventuali incidenti ai danni dei giornalisti occidentali e dalle conseguenze diplomatiche che ne sarebbero potute derivare. “Temono che un morto tra i reporter possa essere visto come una strumentalizzazione a fini di propaganda. C’è una grande attenzione verso la sicurezza degli inviati, un’attenzione che raramente si vede in altri conflitti,” ha affermato.

Il mestiere del giornalista di guerra, specie per chi lavora per la televisione, impone una certa vicinanza alla scena. “Un fotografo deve vedere con i propri occhi, un reporter della carta stampata può anche rimanere un po’ più distante, ma chi lavora per la TV deve poter mostrare.” E raccontare la guerra in Ucraina è vero che puoi farlo dalle città perché è un conflitto che non risparmia i centri abitati, dove vengono colpite scuole, case e ospedali, con i civili che pagano il prezzo più alto.

Ma qualche volta bisogna anche uscire dalle aree urbane per documentare ciò che accade lungo le linee di contatto tra gli eserciti, dove l’accesso è strettamente controllato. “Il primo posto di blocco puoi raggiungerlo da solo, ma per avvicinarti davvero al fronte servono i mezzi militari. A volte sono semplici jeep verdi, che non garantiscono alcuna protezione reale.” E ogni volta che un giornalista viene portato su quei percorsi, aggiunge Battistini, c’è il rischio concreto di diventare un bersaglio.

Una realtà dura, che trova conferma anche in altri teatri di guerra come Gaza: “Il giornalista non è protetto dalla Convenzione di Ginevra. E gli ucraini, questa responsabilità, se la sentono tutta.”

Il giornalista come bersaglio

Dal confronto tra Serena Danna e Stefania Battistini emerge con forza un problema cruciale del nostro tempo: il progressivo screditamento dei giornalisti, in particolare di chi lavora sul campo in contesti di conflitto. Quello che un tempo era considerato un mestiere di testimonianza e servizio pubblico, oggi viene spesso messo in discussione, attaccato, persino ridicolizzato.

Serena Danna sottolinea un trend globale: i giornalisti non sono più visti semplicemente come osservatori, ma sempre più spesso come pedine di propaganda o, peggio ancora, come nemici da smascherare. In un clima di crescente sfiducia, ogni narrazione che non si allinea alle aspettative di una parte viene accusata di parzialità o manipolazione, come nel caso degli attacchi ricevuti da alcuni inviati italiani o americani. Danna parla di un vero e proprio “rogo pubblico” che colpisce il singolo cronista, trasformando l’informazione in campo di battaglia.

Dal canto suo Stefania Battistini racconta quanto questi ultimi tre anni siano stati i più difficili per chi, come lei, lavora nei teatri di guerra. Non solo per il pericolo fisico, ma per il dubbio sistematico che grava sul loro lavoro. Il cuore del problema è che viene costantemente messo in discussione non solo ciò che si racconta, ma il principio stesso della realtà osservata. Anche di fronte a un cadavere, anche con prove documentate, c’è chi nega, chi insinua, chi distorce la realtà.

Battistini rivendica con fermezza la verità dell’esperienza diretta. Ha sempre descritto con lucidità le città ucraine sotto assedio, i civili colpiti durante la fuga, esattamente come i colleghi stranieri provenienti da tutto il mondo, che hanno documentato le stesse cose. Eppure, di fronte a questa coralità di testimonianze, la contro-narrazione negazionista o complottista – spesso formulata da chi è lontano dal fronte– diventa strumento di delegittimazione. E spesso a screditare la fonte sono proprio altri giornalisti che seguono le notizie dal divano di casa.

Ed è proprio qui che si apre la frattura più pericolosa della nostra epoca: la trasformazione della verità in opinione, del giornalista in bersaglio. In un clima di “post-verità”, la realtà non è più ciò che accade, ma ciò che conviene pensare. E il giornalista, anziché essere ponte tra fatti e cittadini, diventa figura scomoda, da smentire o zittire.

Nel proseguire il dialogo, Serena Danna solleva una domanda cruciale: perché chiunque oggi si sente legittimato a mettere in discussione la testimonianza di un giornalista che lavora sul campo? Dai profili anonimi dei social media a colleghi che osservano i conflitti dal divano di casa, il lavoro dei cronisti viene costantemente sottoposto a un giudizio superficiale, spesso strumentale.

Stefania Battistini risponde sottolineando una frattura sistemica nel mondo dell’informazione. Le testate giornalistiche tradizionali, come quelle del servizio pubblico o quelle considerate “mainstream”, sono vincolate da regole stringenti: ogni errore ha conseguenze legali e reputazionali, ogni querela può trasformarsi in una sentenza che pesa anche sul piano economico. La credibilità va difesa con rigore, perché la responsabilità di chi raggiunge milioni di spettatori è enorme.

Al contrario, alcuni spazi televisivi – in particolare i talk show – non sono testate giornalistiche e non sono tenuti a rispettare gli stessi standard. Battistini critica apertamente l’abitudine di invitare ospiti che, consapevolmente, distorcono la verità o negano fatti storici documentati. La responsabilità editoriale si dissolve in nome dello spettacolo e del “pluralismo”, ma il risultato è una continua erosione del confine tra informazione e opinione.

Preoccupa, dice la giornalista, la sovrapposizione tra certe narrazioni di analisti italiani e quelle dei media russi: quando i messaggi coincidono, a distanza di pochi giorni, diventa lecito chiedersi se ci sia solo ingenuità o una deliberata regia del racconto. Continuare a ospitare chi mente, su fatti presenti e passati, è una scelta editoriale che chiede spiegazioni.

In un’epoca di disinformazione diffusa, il rischio è che il giornalismo venga delegittimato non per ciò che dice, ma per ciò che rappresenta: una voce scomoda, un testimone in più. E difendere la sua integrità significa difendere la possibilità di comprendere il mondo.

L’esperienza più paurosa per Battistini

Durante l’incontro con il pubblico, qualcuno ha chiesto a Stefania Battistini quale sia stata la volta in cui ha avuto più paura. La giornalista, con semplicità, ha risposto: “Non sono una persona paurosa”. Eppure, un episodio le è rimasto dentro.

È accaduto quando i droni, utilizzati per documentare il fronte, hanno iniziato a essere dotati di granate. Da quel momento, per motivi di sicurezza, i movimenti si facevano solo di notte. Gli appuntamenti erano fissati per mezzanotte, con l’obiettivo di raggiungere le zone di combattimento sotto la copertura del buio.

Quella notte, la Battistini era sola, senza operatore, i militari l’accompagnano in un territorio aperto e gelido, una pianura spoglia. Le vecchie trincee sono state sostituite da “tane del coniglio”, piccoli rifugi interrati dove si pilotano i droni. Ma la prima tana è già occupata, bisogna raggiungerne un’altra, a piedi. Intorno, solo luci lontane: “Quelli lì sono i russi, quelli lì pure, e anche lì”, le dicono. L’ansia inizia a sovrastarla. Nella nuova tana si entra in quattro, ma c’è posto solo per tre. Un militare resta fuori al freddo. Dentro, si accende una candela, ognuno con la testa china sul proprio schermo. La tensione è palpabile. Lei guarda Twitter, scorre notizie per distrarsi e poi, all’improvviso, si addormenta per lo stress. “Mi sono addormentata per la fatica di gestire l’attesa, lo stress. Ad un certo punto il cervello si spegne, un po’ per darti una via di fuga.”

“Mai più una tana del coniglio”, dice oggi. Ma da quell’esperienza ha capito cosa significa davvero la guerra vissuta da vicino: giovani che fino a ieri lavoravano all’università o nella tecnologia e oggi, obbligati, si ritrovano in prima linea a combattere e sopravvivere.

Una testimonianza cruda, che scava nella carne viva del mestiere e nella verità del conflitto.

Come nasce una vocazione

Un’altra domanda arriva dal pubblico, questa volta da una giovane universitaria: “Come ha iniziato a fare la giornalista?”

Stefania Battistini sorride. Racconta che sì, il giornalismo è sempre stato un sogno. Ma il suo ingresso nella RAI è stato anche un colpo di fortuna supportato dall’ostinazione ostinazione. È successo quando venne aperto un nuovo canale sul digitale terrestre. “Sono entrata così, quasi per caso. Ma poi è iniziata la lunga trafila del precariato. Dieci anni di contratti a tempo: tre mesi, poi due, poi un altro breve rientro. Il “club dei precari”, lo chiama con ironia. “Un girone infernale: precario uno, precario due… e uno solo assunto.” Ma grazie anche al lavoro sindacale e a un cambio di approccio interno, la regola dell’anzianità è stata finalmente rispettata. E così, dopo dieci anni, è arrivato il contratto stabile.”

La carriera è proseguita con la cronaca nera, poi quella locale “lì ho imparato tanto, mi sono formata.” Ma la passione per gli esteri era sempre lì, viva: “durante le ferie andavo in Siria. Un classico per noi giornalisti: investiamo tutto quello che guadagniamo per inseguire ciò che ci muove davvero.”

Poi, un po’ di fortuna, un po’ di contingenze e il coraggio di offrire la propria disponibilità nei momenti in cui nessuno voleva partire. Così è cominciato il suo viaggio da inviata per raccontare il mondo da vicino e da dentro.

Per i prossimi appuntamenti di “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo” consultare il programma al seguente link https://torino.circololettori.it/giornaliste2025/

GIULIANA PRESTIPINO

Smog, Comitato Torino Respira: “normativa non permette di individuare responsabilità”

“Facciamo fatica a comprendere le motivazioni che hanno indotto la Procura Generale a rinunciare all’impugnazione presentata da un altro Ufficio che per anni si è occupato di approfondire, sotto un profilo tecnico e giuridico, la tematica del grave inquinamento che affligge la nostra Città” commenta l’avvocato Marino Careglio, tra i difensori del Comitato Torino Respira.

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Smog, Comitato Torino Respira: “la normativa italiana non permette di individuare chiaramente le responsabilità per la morte prematura e le malattie di migliaia di cittadine e cittadini a causa dell’inquinamento atmosferico. C’è una tendenza di parte della magistratura di proteggere i “colletti bianchi” e di perseguire chi cerca di proteggere l’ambiente”.

 

Processo Smog. La decisione del Procuratore Generale di rinunciare all’appello presentato dalla Procura della Repubblica, a firma delle figure apicali di questo Ufficio – rappresentate dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Aggiunto, oltre che dal Pubblico Ministero -, impedisce alla Corte di Appello di Torino di effettuare una nuova valutazione della vicenda.

L’atto di appello della Procura della Repubblica, a cui era stata allegata una memoria tecnico-giuridica del Comitato Torino Respira, era molto ben motivato e sussistevano tutti i presupposti affinché fosse accolto, in modo da consentire che l’ipotesi di accusa venisse sottoposta al vaglio del dibattimento.

“Facciamo fatica a comprendere le motivazioni che hanno indotto la Procura Generale a rinunciare all’impugnazione presentata da un altro Ufficio che per anni si è occupato di approfondire, sotto un profilo tecnico e giuridico, la tematica del grave inquinamento che affligge la nostra Città” commenta l’avvocato Marino Careglio, tra i difensori del Comitato Torino Respira.

Nel frattempo la Commissione Europea ha messo in mora lo Stato italiano per la mancata esecuzione della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di Giustizia Europea del 10 novembre 2020 per il “superamento sistematico e continuato dei valori applicabili alle microparticelle (PM10) in determinate zone e agglomerati italiani”, tra cui quello di Torino.

“Questo esito conferma dal mio punto di vista due cose. La prima è che la normativa italiana non permette di individuare chiaramente le responsabilità degli amministratori pubblici per la morte prematura e le malattie di migliaia di cittadine e cittadini a causa dell’inquinamento atmosferico. La seconda è la tendenza di parte della magistratura di sminuire il rilievo dei reati anche gravi commessi dai “colletti bianchi” e di perseguire invece con tenacia chi cerca di proteggere l’ambiente. Faremo una riflessione sui prossimi passi, perché, paradossalmente, questa decisione apre altre possibilità di azione legale anche a livello europeo”, commenta Roberto Mezzalama, presidente del Comitato Torino Respira.

L’impegno del Comitato Torino Respira, inoltre, non si ferma qui, perché l’inquinamento dell’aria è ancora un problema sanitario, sociale e ambientale per la nostra città.

Il Comitato continuerà a studiare e portare avanti altre azioni legali, come il sostegno alla causa di Chiara, e azioni per sensibilizzare la popolazione e per chiedere a chi ha responsabilità in materia di qualità dell’aria di agire per la tutela della salute delle persone.

Proprio la prossima settimana, martedì 13 maggio, inizierà il ciclo di incontri di divulgazione sull’inquinamento “Aria pulita: conoscere, misurare, agire” e per cinque settimane insieme ad esperte ed esperti si approfondiranno cause, analisi dei dati, aspetti legali, effetti sulla salute e sociali, ma anche proposte, campagne di monitoraggio civico e azioni per contribuire a rendere l’aria che respiriamo migliore.

Cristò Chiapparino alla Libreria Belgravia con “Penultime parole”

Nell’ambito del Salone del Libro OFF, domenica 18 maggio alle ore 17  il suo ultimo romanzo edito da Mondadori

Il libro “Penultime parole”(Mondadori, 2025) di Cristò Chiapparino verrà presentato in unica sede domenica 18 maggio alle ore 17 presso la Libreria Belgravia di via Vicoforte 14, a Torino, nell’ambito degli eventi del Salone del Libro OFF. L’incontro sarà moderato dal poeta Gian Giacomo Della Porta.

A margine del libro, abbiamo incontrato il suo autore, che ci ha svelato alcuni aspetti della sua esperienza professionale e umana.

“Ho fatto il libraio per più di vent’anni ma, da circa un anno, ho deciso di concentrarmi maggiormente su tutto ciò che riguarda più direttamente la scrittura – ha dichiarato Cristò- Quindi, principalmente, leggo, scrivo e cerco di portare l’esperienza maturata in questi anni di pubblicazioni in corsi di lettura e scrittura, due attività per me indivisibili, per ragazzi e per adulti”.

“In me è presente anche l’amore per la musica, che nasce contemporaneamente a quello per la scrittura – continua Cristò – La composizione musicale e la letteratura sono due linguaggi diversi che sicuramente possono influenzarsi a vicenda, persino compenetrarsi, ma che tengo in qualche modo separati. Non è un caso, forse, se tendo a scrivere musica senza parole, non canzoni, ma brani strumentali. Sin da bambino ho amato molto la lettura e iniziato i miei primi esperimenti di scrittura con brevi racconti. Poi, crescendo, è arrivata la consapevolezza che per scrivere cose belle come quelle che amavo leggere, sarebbero stati necessari studio e metodo. È stato, quindi, nel periodo degli ultimi anni di liceo che ho iniziato a fare sul serio”.

“Penso che ogni scrittore abbia due temi principali, gli stessi per tutti: l’amore e la morte – sostiene Cristò – Credo sinceramente che qualsiasi romanzo, poesia, pagina di diario o lista della spesa, in fondo, sia un tentativo di risolvere questi due temi. Non ho ancora trovato un testo che smentisca questa mia convinzione”.

“La mia ultima fatica letteraria, ‘Penultime parole’, edito da Mondadori, parte principalmente da una riflessione personale sul cosiddetto rapporto tra uomo e natura. Credo che in realtà questo rapporto non esista se non sottoforma di rapporto di appartenenza: l’essere umano è una delle specie animali che popolano il pianeta e pertanto fa parte della natura. Parlare di un rapporto, invece, implicherebbe una supposta superiorità dataci dall’uso che facciamo del linguaggio. In ‘Penultime parole’ ho provato a smontare l’illusione di questa di differenza”.

“Quest’anno vengo al Salone del Libro OFF, presso la Libreria Belgravia di Torino, a presentare il libro in un’unica data – conclude l’autore – Frequento il Salone del Libro regolarmente da più di vent’anni. Ne ho visto tutte le trasformazioni e ho imparato a conoscerne i riti. Ormai per me è un appuntamento imperdibile anche solo per il fatto che mi consente di incontrare molti amici sparsi per l’Italia e che amano le stesse cose che amo io”.

Mara Martellotta

 A Venezia il  progetto del Politecnico “Constructing la Biennale”

Il dipartimento di Architettura e Design dell’Ateneo torinese ha progettato l’installazione all’ingresso del padiglione centrale ai Giardini della Biennale, in collaborazione con Barabasi Lab e Center for Design di Northeastern University di Boston, con il sostegno Fondazione Compagnia di San Paolo, Camera di Commercio di Torino, Reply e Secap Spa.

La Biennale di Venezia, che si tiene dal 10 maggio al 23 novembre 2025, è un luogo fondamentale per la cultura architettonica, una piattaforma per il dibattito, la critica e la visibilità a livello globale. Cosa c’è dietro le quinte di un evento così complesso ? Le dinamiche curatoriali, l’articolazione del processo curativo che ne determinano i risultati spesso sfuggono alle narrazioni internazionali.

Attraverso un approccio interdisciplinare che unisce network sciences, information design, data visualisation e etnografia dell’architettura, il progetto speciale “Constructing la Biennale” racconta il processo tramite il quale si è giunti alla prossima Biennale di Architettura “Intelligens. Natural. Artificial. Collective” curata da Carlo Ratti, allievo dell’Ateneo torinese. Il progetto aiuta il visitatore a comprendere meglio la complessità di eventi di questa portata: partendo dai dati raccolti e elaborati sulla storia della Biennale, l’installazione approfondisce il processo curatoriale come impresa collaborativa. Seguendo il lavoro del team curatoriale, e utilizzando sia big data sia strumenti etnografici, cattura la complessità che sta dietro la costruzione di una Biennale. Una cordata tutta torinese sostiene il progetto, che ha visto anche il contributo dei Department of Network and Data Science della Central European University. L’installazione “Constructing la Biennale” è collocata nel luogo più significativo e visibile della manifestazione, la facciata del padiglione centrale ai Giardini: l’edificio, attualmente in restauro, è stato mascherato con una “controfacciata” che accoglie i visitatori con una nuvola di punti larga 30 metri a tracciare la storia della Biennale Architettura (1974 – 2023). I nodi rappresentano progettisti e collaboratori, aggregati ai loro progetti in forma di collettivo. Tramite i colori si ottiene una vivida rappresentazione del modo in cui le idee riaffiorano nel tempo, e costruiscono una narrazione sul progetto di architettura contemporaneo.

A partire da questa ricerca condotta sull’evoluzione storica della Biennale Architettura e la sua intricata ecologia, i dati dell’edizione attuale, per esempio il numero degli architetti partecipanti, le dimensioni e la provenienza del team, i progetti e i loro temi sono stati elaborati in cluster di dati, mappe e diagrammi. Un’altra parete di 23 metri offre infatti una visualizzazione critica della mostra di quest’anno, intitolata “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”. Il ventaglio delle proposte e dei progetti selezionati approfonditi dal punto di vista etnografico: il team curatoriale e i tanti altri attori che stanno contribuendo a questa edizione sono stati intervistati, seguiti e filmati. Il risultato è una inedita rappresentazione di una rete complessa di persone, opere e temi che si sono coagulati, stratificati e dissipati nel tempo.

“La presenza del Politecnico di Torino alla Biennale di Venezia testimonia la grande attenzione dell’Ateneo al tema delle costruzioni e dell’innovazione tecnologica nell’ambito di questo settore, fondamentale per fornire risposte complete alle sfide poste alla transizione ecologica ed energetica e dalla sostenibilità – commenta il Prorettore del Politecnico Elena Baralis – il nostro Ateneo ha coordinato quattro contributi che convergono nell’installazione della Biennale, quello della Network Science, con il Barabasi Lab di Boston, quello dell’Information Design, della Northeastern University, quello Etnografico di Albena Yaneva, e infine, la progettazione architettonica curata dai progettisti stessi del Dipartimento di Architettura e Design, un gruppo d’eccellenza dal punto di vista accademico, che utilizza metodi quantitativi tecnologici basati su big data e reti, e qualitativi umanistici propri della etnografia dell’architettura”.

“Se nelle scorse Biennali era la figura del curatore ad attirare l’attenzione – ha dichiarato Michele Bonino, Direttore del Dipartimento Architettura e Design e curatore del progetto – questa volta si dichiara esplicitamente la presenza di una macchina complessa, composta da oltre due mila persone, tra chi partecipa, chi cura, chi costruisce e chi promuove. Questa intelligenza collettiva viene rappresentata il più fedelmente possibile dalla nostra installazione”.

La presenza alla Biennale sarà un’occasione di visibilità non solo per l’Ateneo, ma anche per la Città di Torino e la sua tradizione nel settore dell’architettura e delle costruzioni. In questo anno che vede per la prima volta un architetto torinese, Carlo Ratti, come curatore della mostra (dal 2000, quando fu curatore della mostra l’architetto Massimiliano Fuksas).

“Grazie al Politecnico e a Carlo Ratti, primo curatore torinese dell’evento, ci sarà molta Torino in occasione della prossima Biennale – afferma Guido Bolatto, Segretario Generale della Camera di Commercio di Torino – attraverso un’installazione del progetto speciale ‘Constructing la Biennale’: un portale di grande visibilità all’ingresso della mostra, che metterà in luce le nostre eccellenze di progettazione, design e ricerca scientifica, raccontando il dietro le quinte di un evento così complesso e il valore delle persone che ci lavorano”.

Gian Giacomo Della Porta

Rapporto Save the Children: bassa fecondità in Piemonte

Il tasso di fecondità in Piemonte  è inferiore alla media nazionale di 1,14 figli per donna. Lo rileva il rapporto “Le Equilibriste, la maternità in Italia” curato da Save the Children, giunto alla decima edizione.  Contiene un “Indice delle madri” per ogni regione, frutto della  collaborazione scientifica con l’Istituto nazionale di statistica (Istat) e  di un’analisi di 7 dimensioni: demografia, lavoro, rappresentanza, salute, servizi, soddisfazione soggettiva e violenza. In tutto 14  indicatori del sistema statistico nazionale.

“Maidan: la strada verso la guerra”

IL DOCUFILM PIÙ CENSURATO IN ITALIA ARRIVA A TORINO

La tragica situazione ucraina, nonostante qualche passata stanchezza comunicativa (unitamente alla sempre più imponente tragedia umanitaria di Gaza) ha finalmente ripreso ad essere seguita dai media occidentali e soprattutto europei. Ma quanto siamo in grado di ricostruire i fatti e gli antefatti di questa ‘operazione speciale’ russa?
Chi erano gli ‘omini verdi’ senza distintivi nazionali che facevano esercitazioni militari fra il 2021 e il 2022 alle frontiere ucraine, quanto pesano politicamente le formazioni para-naziste del Reggimento Azov nel Paese affacciato a nord di Sebastopoli, chi si nasconde dietro i Presidenti delle due nazioni in conflitto e con quali interessi, quanto contano gli Stati Uniti e la stessa Europa su questo scacchiere?
Tanti sono gli interrogativi a riguardo di una realtà difficilmente ricostruibile senza approfondimenti che cerchino l’obiettività. Non sappiamo se la proiezione prevista il prossimo sabato sarà in grado di chiarire i nostri interrogativi e se sarà neutrale e veramente oggettiva.
Il documentario “MAIDAN: LA STRADA VERSO LA GUERRA” cercherà comunque di fornire ulteriori informazioni su questa tragedia, una tragedia che continua – con pochi spazi di trattativa da entrambi le parti – e che resta perciò innervata da prospettive affatto rassicuranti per il nostro comune, immediato futuro.
Chiaramente l’informazione per una nazione democratica come la nostra deve essere plurale. Il dichiararci apertamente di appoggiare una bandiera o l’altra, non aiuta la ricostruzione dei fatti.
La dichiarata obiettività del documento offrirà quindi solo uno strumento aggiuntivo per considerazioni che dovranno poi rimanere personali.
Dato però oggettivo è che la crisi fra le due nazioni non è del 2022 ma è iniziata nel lontano 2014, diventando scontro aperto solo otto anni dopo.
In tanto tempo, gli Organismi Internazionali tanto avrebbero forse potuto fare. Poco è stato però fatto e probabilmente è stato costellato da numerosi errori, speculazioni, inconfessate politiche ciniche da entrambe le parti.
A detta degli organizzatori, questa iniziativa sarebbe stata vittima di numerosi tentativi di censura, anche se nella maggior parte dei casi le proiezioni si sono comunque svolte. Per quanto riguarda la nostra città, il primo appuntamento era calendarizzato per il 18 gennaio ma con permesso poi sospeso. Per dovere di informazione, l’ente organizzatore riferisce una totale censura da parte degli organi preposti avvenuta a Udine il 5 aprile 2025. Il fatto è segnalato perché si tratterebbe della violazione dell’art. 21 della Costituzione.
La proiezione del documentario sulle origini della guerra in Ucraina vedrà un dialogo tra Vincenzo Lorusso, da remoto, giornalista Donbass Italia, Fiammetta Cucurnia, giornalista e moglie di Giulietto Chiesa, Paolo Borgognone, storico e saggista, Ugo Mattei, giurista dell’Università di Torino e Presidente di Generazioni future, Ugo Rossi, consigliere comunale di Trieste Insieme liberi. La proiezione avverrà sabato 10 maggio alle ore 17.30 nella sede dello Sporting Dora, in corso Umbria 83.

PRENOTAZIONI: 3937914755 o 3475754129 o lavariantetorineseac@proton.me

Ferruccio Capra Quarelli

In memoria di Eugenio Maccari

In apertura di seduta l’Aula di Palazzo Lascaris ha commemorato Eugenio Maccari, consigliere regionale nella quarta e nella quinta legislatura, nonché assessore regionale nelle giunte Beltrami e nella prima giunta Brizio, scomparso il 6 dicembre scorso all’età di 86 anni.

“Nato il 15 marzo 1938 a Torino, laureato in scienze politiche, imprenditore di professione, si dedicò con impegno alla politica nelle file del Partito Radicale e poi del Partito Socialista, percorrendo un cursus honorum di prestigio e accumulando una vasta esperienza amministrativa a livello locale”, ha ricordato il presidente del Consiglio, Davide Nicco.
Protagonista della vita politica pinerolese e torinese, fu per diversi mandati sindaco di Pramollo, poi presidente della Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca e, nei primi anni ’80, presidente della Provincia di Torino.
Eletto per la prima volta in Consiglio regionale nel 1985 e riconfermato nella successiva legislatura, fu componente di numerose commissioni consiliari ed entrò a far parte della prima giunta Beltrami in qualità di assessore all’Ambiente, per poi essere investito dell’importante delega alla Sanità nella seconda giunta Beltrami e nella prima giunta Brizio. “Un ruolo nel quale – ha continuato Nicco – diede impulso al settore dei trapianti e portò la Regione Piemonte nel 1989 ad essere la prima a coprire il territorio con il servizio dell’elisoccorso”.
A nome dell’Assemblea e prima di chiedere un minuto di raccoglimento, il presidente ha rinnovato le più sentite condoglianze ai nipoti Luisa e Filippo.

Euro 5, Ravinale (Avs): “Manca piano per avvisare i cittadini”

I Comuni di Torino, con l’assessora Foglietta, di Grugliasco e di Venaria avevano sollevato il tema nel corso del tavolo della Città Metropolitana sulla qualità dell’aria del 4 aprile scorso: mancano quattro mesi all’entrata in vigore del divieto strutturale per la circolazione delle auto diesel Euro 5, disposto con il DL 121/2023, ma non ci sono ancora i provvedimenti per l’applicazione della misura da parte della Regione, che aveva anzi lasciato intendere che fosse possibile una proroga ulteriore da parte dello Stato.
La Giunta Regionale ha invece confermato oggi, rispondendo a un mio Question Time, che dal 1° ottobre 2025 per Torino e tutti i comuni con più di 30mila abitanti scatterà il divieto di circolazione per le auto a diesel euro 5, così come previsto dalla norma.
Ma di adottare i provvedimenti attuativi e informare la cittadinanza coinvolta ancora non se ne parla: nella risposta l’assessore Marnati menziona unicamente il progetto Move-in, già in essere, e generiche campagne di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza, senza però comunicare quando partiranno.
La necessaria transizione ecologica va accompagnata e programmata, non fatta subire ai cittadini. Ci apprestiamo invece a rivivere il penoso film del settembre 2023, quando migliaia di piemontesi scoprirono con tre settimane di anticipo che i loro veicoli non sarebbero più stati utilizzabili: quella volta, la Giunta Cirio se la cavò con l’intervento in extremis del Governo, che diede la proroga che scadrà appunto ad ottobre 2025.
Il problema resta che in questi due anni non sono state fatte azioni di sorta per consentire ai cittadini di ricorrere ad altri mezzi di trasporto, visto che la rete di trasporto pubblico piemontese è totalmente inadeguata, né di poter cambiare i propri mezzi con auto meno inquinanti, mentre l’aria delle principali città del Piemonte – in particolare Torino, Novara, Asti e Alessandria – è nociva per la salute dei cittadini e sfora ampiamente i parametri di sicurezza per il particolato e il biossido di azoto.