Il giovanissimo Abdou Ngom, 13 anni ancora da compiere, non sarebbe sparito nel Tanaro, lo scorso aprile a Verduno, durante un bagno tra amici: sarebbe uno di questi ultimi, per un credito di poche decine di euro, a gettarlo nel fiume nonostante lui urlasse di non sapere nuotare. Omicidio volontario con dolo eventuale è l’accusa formulata dalla Procura dei minori di Torino nei confronti di uno degli amici, 15 anni, origine magrebina, agli arresti domiciliari in una comunità.
Metro, lavori notturni nel mese di agosto
Infra.To prosegue con le attività notturne di installazione e migrazione del nuovo sistema di segnalamento CBTC della metropolitana torinese. Nel corso del mese di agosto 2025 i lavori interesseranno le stazioni Paradiso, Marche e Bengasi.
I lavori si svolgeranno e si completeranno nell’arco di 4 notti, secondo il seguente calendario:
- tra l’11 e il 12 agosto
- tra il 12 e il 13 agosto
- tra il 25 e il 26 agosto
- tra il 26 e il 27 agosto
Normalmente le attività vengono svolte secondo programma e senza ripercussioni esterne; trattandosi di lavori particolarmente complessi, nel caso in cui dovessero subentrare difficoltà tecniche e gestionali tali da causare disservizi alla partenza del servizio nella tratta interessata è già stato predisposto da GTT un servizio sostitutivo di superficie con bus, pronto a subentrare per il tempo strettamente necessario e garantire il servizio.
Più precisamente, nel caso in cui dovessero sorgere difficoltà non immediatamente rimediabili nella/e:
- stazione Paradiso, il servizio metro sarà garantito nella tratta “Bernini – Bengasi”, con servizio sostitutivo bus nella tratta “Fermi – Bernini”
- stazione Marche, il servizio metro sarà garantito nella tratta “Bernini – Bengasi”, con servizio sostitutivo bus nella tratta “Fermi – Bernini”
- stazione Bengasi, il servizio metro sarà garantito nella tratta “Fermi – Porta Nuova”, con servizio sostitutivo bus nella tratta “Porta Nuova – Bengasi”
Intesa Sanpaolo apre al pubblico dall’11 settembre al 7 ottobre 2025 nella sua sede della Gallerie d’Italia, a Torino, la nuova mostra intitolata “ Erik Kessels. Un’immagine”, ultima opera dell’artista visivo olandese Erik Kessels che realizzerà un’installazione multimediale composta da oltre 60 mila immagini provenienti dall’archivio Publifoto di Intesa Sanpaolo. Le fotografie saranno tutte cucite e trasformate per formare un’unica immagine in continuo movimento grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale, da cui emerge un ritratto fluido dell’Italia i cui volti di persone, immagini di cronaca, di guerra, di lavoratori, di politica, di sport, di frammenti storici si compenetrano nello spazio l’una nell’altra.
La sala immersiva delle Gallerie d’Italia torinesi si trasformerà in un teatro visivo e strumentale, interrotto in cui il nostro presente, il passato, il mondo, la vita emergono attraverso una colonna sonora in cui il mistico e l’elettronico si alternano e si dissolvono.
Un tema musicale sarà realizzato appositamente dall’inglese Robin Rimbaud, in arte Scanner, e dall’italiano Stefano Pilia, musicisti elettronici d’avanguardia.
In questa originale esperienza visiva e sonora a 360 gradi, il pubblico verrà sorpreso dal contenuto mutevole e dalla possibilità di immergersi in un archivio umano proiettato in gigantografia.
Mara Martellotta
Oggi fra i più apprezzati e noti artisti – artigiani della Vallée
“Stele. Donato Savin” al valdostano “Forte di Bard”
Fino al 31 dicembre
Rocce allungate verso il cielo o verso cime più alte. “Stele” come divinità protettrici o guerrieri posti in difesa di mura e ardui luoghi fortificati o ancora (perché no?) presenze aliene, sicuramente pacifiche, radicate in costoni di pietra diventati ormai protettivo rifugio terreno. Da alcuni giorni, e fino a mercoledì 31 dicembre, chi è salito o salirà lungo l’ultima parte della strada interna che porta alla sommità del “complesso fortificato” di Bard, troverà lungo il cammino, a fargli buona e piacevole compagnia, le opere di Donato Savin (classe ’59), valdostano doc di Cogne, residente e operante in frazione Epinel. La mostra, curata da Aldo Audisio in collaborazione con l’“Associazione Forte di Bard”, presenta dopo una serie di importanti esposizioni in Italia e all’estero, una selezione di 30 opere del progetto “Stele” avviato dall’artista alcuni anni fa: si tratta di rocce posizionate su essenziali basi di ferro che ben si integrano con la maestosità delle grandi murature e creano un’inedita esposizione “en plein air”.
Gli inizi artistici di Savin risalgono piuttosto indietro negli anni, allorchè un bel giorno, visitando la celebre “Fiera di Sant’Orso” ad Aosta, scopre l’artigianato tradizionale, ricco di espressioni artistiche. Per Donato è un’autentica folgorazione. Alla vista di quelle opere che spesso é troppo riduttivo chiamare “artigianali”, gli si apre un nuovo entusiasmante mondo. Lì, sceglie un suo nuovo percorso di lavoro e di vita, avvicinandosi alla pietra che inizia a scolpire instancabilmente. Tanto che, nel 1987, partecipa lui stesso alla “Fiera” e vince uno dei più prestigiosi premi. È l’inizio della sua carriera, che lo vede scegliere definitivamente a materia del suo “produrre” le rocce delle sue montagne, tastandole, scolpendole, modificandone con avveduta oculatezza le forme, soffermandosi sui verdi acidi dei licheni mescolati alle venature del marmo o alla lieve porosità della pietra.
“L’idea della ‘Stele’ – racconta Savin – mi venne ad Aosta al ‘Museo Archeologico’. Vidi in quelle forme di rocce allungate ‘Dèi di Pietra’ e iniziai a cercare pezzi di scisti di quel tipo, cosparsi di licheni. Le mie opere restano aperte ad ogni interpretazione. Io ci vedo degli Dèi, specialmente femminili, che salgono verso l’alto; quando non ci sarò più, saranno i testimoni del mio passaggio nella vita terrena”. Un mondo di pietra, immobile, grandioso, fermato nel tempo a raccontare l’amore di Savin per la sua terra. Opere di pietra solide, dure, inamovibili ma palpitanti nel battere di un loro “cuore” che è il “cuore” dell’artista, che le rende ”uniche” ed “irripetibili”. Proprio come sono i frutti di un infinito amore.
“Toccare la roccia, sentirla con le mani e poi modificarla – sottolinea ancora Savin – è un modo per estraniarsi dal mondo. Liberarsi e sognare, far rivivere tante cose che ho appreso da bambino osservando i montanari. Un mondo di cui sono parte che, con le mie opere, cerco di perpetrare nel futuro, rinnovandolo”. Una sorta di “universo parallelo”, eppure così tenacemente radicato ad un paesaggio che ne è grembo materno, da cui prende vita e forma nella sua essenziale verticalità e in quel suo voluto, suggestivo gridare, di voce alta, al cielo.
Spiega la presidente del “Forte di Bard”, Ornella Badery: “Siamo lieti di presentare ai tanti visitatori che ogni giorno percorrono il camminamento interno del ‘Forte’ questo iconico progetto firmato da Donato Savin, maestro dell’artigianato contemporaneo che interpreta e rivisita le rocce delle sue montagne in modo essenziale. Le rocce di Savin creano un potente dialogo con le pietre del ‘Forte’ e si fondono con armonia nel paesaggio circostante creando un itinerario artistico ricco di suggestione”.
Arte, spiritualità e natura. I tre elementi che fanno da ideale collante alle “rocciose” opere dell’artista cogninese (o cougnèn, in patois valdostano), che sarà altresì presente, da lunedì 28 luglio e per tutta l’estate, a Cogne nella mostra diffusa “Donato Savin. La vita attorno a me”, organizzata da “Fondation Grand Paradis” nell’ambito del 28° “GPFF – Gran Paradiso Film Festival”.
Gianni Milani
“Stele. Donato Savin”
Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it
Fino al 31 dicembre
Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19
Nelle foto: Donato Savin: “Stele”
IN UN LIBRO LA STORIA
Genio incompreso, donna ignorata per scarsa fiducia nel suo lavoro, o per una diffusa misoginia? Sono alcuni degli interrogativi sorti intorno alla figura della scienziata lucana Filomena Nitti, figlia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, moglie di Daniel Bovet, Nobel per la medicina 1957, del quale fu indispensabile collaboratrice. Eppure lei dal Nobel rimase esclusa. Cosa la penalizzò?
La giornalista e scrittrice Carola Vai (nella foto), nel libro “Filomena Nitti e il Nobel negato” Rubbettino editore, realizzato con il contributo della nipote Maria Luisa Nitti, cerca di dare qualche risposta. Il volume, 200 pagine, 16 euro, in vendita nelle librerie, sul sito on line di Rubbettino e sui vari siti dedicati ai libri, narra per la prima volta l’intera vita della ricercatrice coetanea di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina 1986, della quale Carola Vai ha scritto quella che è ancora l’unica biografia completa sulla scienziata torinese: “Rita Levi-Montalcini una donna libera”, sempre per Rubbettino. Filomena e Rita, caparbie, ambiziose, instancabili, diversissime, incrociarono spesso le loro vite in pubblico e in privato, senza mai diventare amiche. Ma mentre Rita non si sposò, Filomena ebbe due matrimoni e tre figli. Con il secondo marito, Daniel Bovet, come lei biochimico, collaborò tutta la vita al punto da firmare tutti i lavori con i rispettivi nomi e cognomi. Eppure lui ottenne il Nobel, invece lei venne ignorata.
Filomena, nata il 10 gennaio 1909 a Napoli, ultima dei cinque figli di Francesco Saverio Nitti, meridionalista, ministro sotto il governo Giolitti e poi Presidente del Consiglio nel 1919-1920, e di Antonia Persico, figlia del giurista Federico, trascorse un’infanzia tranquilla con la sorella, Maria Luigia e tre fratelli, Vincenzo, Giuseppe e Federico tra Napoli dove viveva con i nonni, e Roma dove abitavano più stabilmente i genitori, con il quale si ricongiungeva soprattutto durante le lunghe vacanze estive nella casa di Acquafredda, in Basilicata. Anni felici. Fino quando la famiglia Nitti venne presa di mira, prima lentamente, poi in modo sempre più violento dagli attacchi delle squadre fasciste. Il liberale Francesco Saverio Nitti inizialmente sottovalutò gli eventi. Ma dopo l’assalto alla sua residenza romana con la distruzione di ogni cosa scelse, nel giugno 1924 di rifugiarsi all’estero con tutta la famiglia, escluse le sue due sorelle rimaste vedove, che con l’anziana madre, decisero di restare in Italia. Prima tappa in Svizzera, a Zurigo, dove la vita si rivelò presto troppo costosa. Così, dopo un anno e molte ricerche, venne deciso il trasferimento a Parigi. Seguirono vari traslochi finché la scelta definitiva cadde su un alloggio in rue Vavin 26, dietro Montparnasse, vicino ai giardini del Lussemburgo, al costo dell’affitto annuale di ottomila franchi. Qui i Nitti abitarono per quasi 20 anni, fino al ritorno in Italia. Nitti si tuffò nel lavoro di giornalista, scrittore, conferenziere guadagnando il denaro necessario per tutta la famiglia. Intanto Filomena, imparato il francese, si ambientò presto a Parigi, e finito il liceo, si laureò specializzandosi in chimica biologica. Contemporaneamente per guadagnare qualcosa accettò di fare alcune ricerche nelle biblioteche parigine. In questo periodo, lasciato il giovanissimo fidanzatino Giorgio Amendola rimasto in Italia, conobbe e si innamorò, ricambiata, di un giornalista polacco, Stephan Freund o Priacel. Francesco Saverio Nitti e la moglie contrastarono subito il legame dei due giovani convinti fosse un errore. Ma Filomena educata fin da bambina a diventare una donna indipendente attraverso lo studio e il lavoro, a vent’anni sfidò il volere della famiglia. Sposò Stephan; con lui ebbe due figli, poi lo seguì a Mosca quando decise di raggiungere la Russia. Nel Paese governato da Stalin la giovane Filomena lasciata spesso sola affrontò difficoltà di vario genere mai del tutto chiarite. Capì presto di aver sbagliato. Con coraggio lasciò Stephan, e con i due bambini tornò a casa dei genitori, a Parigi, ottenne il divorzio, riprese gli studi fino diventare una scienziata. Non aveva ancora trent’anni. Attraverso una borsa di studio entrò nel prestigioso Istituto Pasteur di Parigi dove già lavorava il fratello Federico Nitti, ricercatore scientifico, insieme al collega e amico Daniel Bovet, svizzero emigrato in Francia per motivi professionali. L’incontro tra Filomena e Bovet sfociò presto in un grande amore fatto di tante promesse e pure una stretta collaborazione scientifica. La coppia si sposò ed ebbe un figlio, il primo per Bovet, il terzo per Filomena. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, difficoltà di vario genere, l’arresto del padre Francesco Saverio Nitti da parte dei tedeschi e la sua lunga prigionia, complicarono, ma mai frenarono l’impegno scientifico, famigliare, materno di Filomena. A fine guerra i due coniugi lasciarono la Francia e si stabilirono a Roma, assunti dall’Istituto Superiore di Sanità, impegnati nello stesso laboratorio e nelle medesime ricerche al punto da firmare tutti i lavori con i nomi e cognomi di entrambi. Seguirono anni di enorme impegno e grandi successi. I due chimici nel settore scientifico divennero due star. I loro nomi finirono sulle più famose riviste scientifiche nazionali e straniere. Innamorati, sposati da quasi vent’anni, Filomena e Daniel vivevano tra scienza, famiglia, figli, viaggi. Nel mondo della scienza tutti, o quasi, sapevano che la coppia portava avanti ogni ricerca insieme. Fino all’ottobre 1957. In una tranquilla mattina autunnale, una telefonata proveniente dal Karolinska Institut svedese annunciò il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Daniel Bovet. A lui soltanto. Nemmeno un cenno a Filomena Nitti, sua insostituibile collaboratrice. Perché? Carola Vai nel volume “Filomena Nitti e il Nobel negato” nel narrare la sua storia tenta qualche risposta per togliere la scienziata dalla quasi invisibilità benché per anni impegnata professionalmente a fianco del collega-marito.
La vittoria del Nobel da parte di Bovet sconvolse i tempi di tutta la famiglia e solo dopo un periodo di caotica organizzazione, l’abilità di Filomena consentì il ripristino dei ritmi quotidiani. Bovet venne invitato dalle università e organizzazioni scientifiche di tutti i continenti. Con lui quasi sempre anche Filomena, nel ruolo di moglie, raramente in quello di scienziata.
Nonostante l’umiliazione Filomena mantenne ovunque il sorriso, rimanendo quasi sempre in silenzio durante le molte interviste a Bovet. Tuttavia in un incontro con dei giornalisti nel 1985 ammise con una certa ironia: “avendo sposato un genio, naturalmente ho fatto quello che fanno le donne, ho fatto tutto quello che serviva a lui per alleviargli la vita, Ma l’ho fatto con piacere”.
Dopo gli anni del successo, arrivarono gli anni della sofferenza. I Settanta furono contraddistinti prima dalla morte in un incidente stradale di Gian Paolo Nitti, il figlio maggiore di Filomena, e qualche tempo dopo dalla morte del secondo figlio, Francesco, per soffocamento durante un pasto. Seguì l’inizio della malattia con alti e bassi di Daniel Bovet che morì l’8 aprile 1992. Filomena affrontò il dolore raccogliendo tutte le testimonianze scientifiche che inviò all’Istituto Pasteur. Nel passato aveva già raccolto tutti i documenti del padre, Francesco Saverio Nitti, e della famiglia, consegnando il materiale alla Fondazione Einaudi a Torino. Lei che mai si era sentita solo una donna di scienza e anche senza praticare la politica attiva, mai se n’era distaccata del tutto, alla morte di Bovet ebbe l’impressione di non avere più nulla da dire.
Tanto più che l’Inail, l’Istituto fondato dal padre e dal quale lei e Daniel avevano affittato la casa romana di piazza Navona, consegnò alla ottantacinquenne Filomena lo sfratto. Davanti ad un presente doloroso, ed un futuro grigio, Filomena forse travolta da una forte depressione decise di andarsene.
Carola Vai nel libro ripercorre il cammino di una donna dalla volontà di acciaio, con un’esistenza influenzata da eventi storici come la realtà di milioni di persone. Una storia terminata bruscamente il 7 ottobre 1994 a Roma. Trent’anni dopo, nel 2024, il suo nome e cognome, Filomena Nitti, sono stati aggiunti nell’aula dell’Istituto Superiore di Sanità per decenni intitolata solo a Daniel Bovet. Un riconoscimento ufficiale ad una donna trascurata per decenni.
In Piemonte, entro pochi mesi, entreranno pienamente in vigore alcuni adempimenti previsti dal Piano Regionale per la Qualità dell’Aria (PRQA) che, secondo il mondo agricolo, rischiano di generare enormi difficoltà sia tecniche sia gestionali per le aziende, oltre a risultare in molti casi economicamente insostenibili.
Le misure più criticate da Confagricoltura riguardano la copertura degli stoccaggi di reflui zootecnici e la Comunicazione preventiva di spandimento. All’inizio del 2025, di fronte ai costi elevati e alle complessità costruttive delle coperture fisse, la Regione aveva affidato all’Università di Torino uno studio per valutare tecniche alternative di contenimento delle emissioni dai cumuli di letame. Sebbene siano già emerse indicazioni interessanti, i risultati completi richiedono almeno un anno di osservazioni: tempistica incompatibile con le scadenze fissate dal PRQA, soprattutto considerando la successiva fase di applicazione nelle aziende.
Anche la Comunicazione di spandimento, nella sua forma attuale, è considerata eccessivamente complessa sia per le imprese agricole sia per gli enti pubblici. La sua entrata in vigore è già stata rinviata più volte, ma le modifiche attese non sono ancora state definite.
“Siamo in una situazione di incertezza insostenibile – afferma Enrico Allasia, presidente di Confagricoltura Piemonte – le aziende esitano a mettere mano ad interventi strutturali dai costi elevatissimi, e in molti casi impossibili da sostenere, in attesa di quelle evoluzioni della normativa più volte sollecitate e mai introdotte”.
“Ora però il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo rapidamente – prosegue Sebastiano Villosio, allevatore della provincia di Torino – anzi, per gli interventi più complessi come le coperture dei cumuli di letame, le tempistiche necessarie per le autorizzazioni e per la costruzione vanno già oltre le scadenze attualmente imposte dal PRQA. Senza contare che gli agricoltori inadempienti rischiano di perdere i premi del primo pilastro della Pac per violazione della condizionalità. Occorre quindi avviare con urgenza una revisione delle norme per introdurre reali elementi di semplificazione degli interventi strutturali e di apertura a tecniche innovative di trattamento dei reflui, rivedendo nel contempo tutte le scadenze di applicazione degli adempimenti e le modalità di gestione della Comunicazione preventiva, anche per consentire alle aziende di utilizzare gli strumenti di sostegno e accompagnamento presenti nel Complemento di Sviluppo Rurale, così come prevede il PRQA stesso”.
Confagricoltura ricorda che il settore agricolo, pur contribuendo solo in maniera secondaria alle emissioni complessive del Piemonte, con il Piano Stralcio dedicato è stato tra i primi a fornire un contributo concreto al miglioramento della qualità dell’aria.
“Nel quadro globale di riduzione emissiva della nostra regione – conclude Allasia – occorre però bilanciare attentamente l’efficacia degli interventi con la loro sostenibilità economica, per non correre il rischio di danneggiare irreparabilmente uno dei settori produttivi trainanti del Piemonte anche se ciò dovesse andare a vantaggio di altri comparti. Infatti, nello scenario politico ed economico attuale, caratterizzato da forti elementi di instabilità, quali i dazi commerciali e i conflitti internazionali, la salvaguardia delle produzioni agricole e zootecniche locali non è solo più un fattore economico, ma anche strategico per l’intera nazione: occorre quindi mettere in atto tutte le azioni possibili per tutelarle e garantirne la continuità”.
Anche il Consiglio regionale sembra condividere questa impostazione: è infatti in attesa di discussione una deliberazione che andrebbe a modificare il PRQA introducendo le linee di applicazione indicate dal settore agricolo.
In sintesi, il mondo agricolo denuncia un clima di crescente preoccupazione e incertezza, che rischia di compromettere la continuità delle attività. Per questo viene chiesto un segnale immediato di disponibilità alla revisione delle norme, in un’ottica di realismo e fattibilità, al fine di evitare il peggioramento della situazione e l’innesco di dinamiche difficili da gestire.
Tutti pazzi per i Gofri a Sauze
Caldo da bollino rosso a Torino e in Piemonte
A Torino e in Piemonte il caldo estivo è tornato con un innalzamento delle temperature a tutte le quote e zero termico fino a 4.800-5.000 metri.
Il livello di disagio questa domenica sarà probabilmente rosso, il grado massimo, con temperature che potranno arrivare a 37 gradi e quella percepita a 40. Il livello di ozono è previsto arancione (sconsigliata l’attività motoria all’aperto) sul Piemonte centromeridionale e su quello centrosettentrionale, giallo altrove.
Foto Vincenzo Maiorano
Gramsci e gli alberghi a cinque stelle

Chi ha deciso di trasformare Botteghe Oscure, casa- madre del PCI di Togliatti e Berlinguer, in un grande hotel a 5 stelle nel centro della capitale, ha giocato di anticipo e su indicazione della Sovrintendenza romana, ha conservato due icone del disciolto partito dopo il crollo del Muro di Berlino: un tetro busto di marmo nero di Antonio Gramsci e la bandiera della Comune di Parigi del 1871 che i clienti dell’hotel potranno vedere e, forse, non venerare come reliquie di un passato che certo non appartiene alla clientela di lusso a cui è consentito pernottare in quella maison. Un destino cinico e baro, avrebbe detto Saragat, quello del “Bottegone” come lo definì non senza una profetica lungimiranza Pansa. In quelle stanze sono stati ospitati i ricordi dei comunisti italiani, i ricordi belli (fu persino alcova un po’ piccolo-borghese del Migliore) e quelli tragici durante i quali, ad esempio, essi furono complici dei sovietici negli anni dello stalinismo più feroce ed efferato e anche in quelli successivi, quando furono a fianco di Mosca durante l’invasione dell’ Ungheria nel 1956.Timidamente dissentirono sui carri armati a Praga nel 1969, ma si trovarono del tutto impreparati di fronte al crollo del Muro di Berlino che rischiava di ricadere sulle loro spalle. Il segretario particolare di Togliatti Massimo Caprara ed alcuni ricercatori hanno scritto che l’edificio romano fu acquisito anche con i soldi dell’oro di Dongo, trafugati dopo l’arresto di Mussolini in fuga nel 1945 sul lago Maggiore.

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PS
È strano che nessuno abbia ancora proposto una lapide sull’edificio che fu sede del PCI. Il sindaco Gualtieri forse ci sta già pensando. Una bella lapide celebrativa sarebbe quasi necessaria.
Nella foto di copertina l’hotel NH Carlina di Torino. Sopra, Botteghe Oscure