Sugli schermi “L’ombra di Caravaggio” di Michele Placido
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Tanti sono i momenti e le componenti che convincono dell’”Ombra di Caravaggio” (coprodotto tra Italia e Francia) che Michele Placido ricava oggi da un vecchio progetto teatrale dei lontani anni Sessanta. Un film riuscito, che forse avremmo voluto andasse più in profondità, al di là di quel che già non abbia fatto, all’interno della tragedia intima e umana, della torbida mescolanza tra “alto” e vita votata alla malvivenza, di colui che più di chiunque altro ha impresso una direzione nuova all’arte pittorica, ma che certo riempie gli occhi quanto a “ricostruzione” e ha tutte le carte in regola (con “La stranezza” di Roberto Andò) per correggere e dare una bella spinta ad un problema che sta diventando sempre più preoccupante, la affievolita presenza del pubblico nelle sale cinematografiche. Visto che ci stiamo ripetendo che il problema è dovuto anche alla presenza di operine mediocri, dei troppi che finora hanno trovato soldi facili per produrre “cose” che non vanno al di là del solito “spazio di un mattino”, allora afferriamole, in fretta, quelle opere che sembrano riconciliarci con un mondo che continuiamo ad amare ma da cui abbiamo in tempi recenti poche soddisfazioni.
Lo scorrere narrativo dentro il primo decennio del XVII secolo, altalenante tra date e luoghi, in un movimento continuo e febbricitante e ossessivo come solo le ossessioni sanno essere, i dialoghi che non poche volte gli sceneggiatori (Sandro Petraglia e Fidel Signorile con il regista) s’ingegnano a riformulare in una lingua seicentesca, gli apporti tecnici eccellenti, i costumi di Carlo Poggioli e le scenografie di Tonino Zera, sopra tutti la fotografia di un ispirato Michele D’Attanasio che costruisce immagini sghembe o sfuggenti, fluide, che reinventa con un preciso linguaggio le luci e le ombre del pittore inviso e maledetto, è sufficiente lo spalancarsi di una finestra, lassù in alto, perché il caos dello studio di Caravaggio si animi come per incanto, perché lo sguardo dello spettatore si posi sulla caduta di San Paolo; non ultimi i tanti vIsi scoperti per ridare vita alle corti dei miracoli napoletane e romane, al ricovero raccolto attorno alla figura di Filippo Neri, negli ambienti di Santa Maria in Vallicella, fatto di mendicanti (il cameo impagabile di Alessandro Haber, usato a far da San Pietro nella ”Crocifissione” di Santa Maria del Popolo) e prostitute, un mondo senza sfreni e vitale, visi e corpi denudati, messi o schiacciati in primo piano, in tutta la carnalità giusta e sfacciata che Placido pone come ossatura del suo ultimo film, come il sangue (sin dalle prime scene, Caravaggio assalito e trafitto nella guancia da un colpo di pugnale) e le torture (la morsa di ferro a squarciare la bocca di Giordano Bruno, con un Gianfranco Gallo che dà vita estrema, con grande convinzione, agli ultimi istanti di un martire e ad una delle scene più convincenti del film) e le violenze, verbali e fisiche.
Attraverso le immagini, come in un film d’investigazione, serpeggia l’Ombra, un religioso, in rigoroso abito nero (Louis Garrel), un misterioso inquietante inquisitore a cui Paolo V (Maurizio Donadoni), auspice non della verità ma del conforme, ha dato incarico di comprendere, negli interrogatori subdoli o violenti che avrà con quanti lo hanno conosciuto e frequentato, se nell’artista si nasconda il genio o l’uomo blasfemo, l’impudico e l’assassino, in lotta con le leggi di una Chiesa uscita dal Concilio di Trento, che auspica Madonne angelicate e santi ispirati e l’azzurro dei cieli, un uomo da perseguitare anche in quell’abitudine di raffigurare la Vergine con il viso e le forme di quelle prostitute che ha incontrato in strada ed elette al ruolo di amanti, Lena Antonietti (Micaela Ramazzotti) e Anna Bianchini Lolita Chammah) che la Storia ci ha tramandato. Da perseguitare per quell’uccisione del giovane Ranuccio Tomassoni, per cui è in attesa della grazia, nel suo girovagare tra il sud italiano e Malta e le coste laziali, dove verrà emessa la parola fine, mentre come in un baratto si suggerisce all’artista di abbandonare la propria arte: credo con un falso storico, anche alla luce degli ultimi studi e dei più recenti ritrovamenti. A lato la simpatia di quanti lo appoggiano e lo proteggono, Costanza Colonna (Isabelle Huppert) e il cardinal Dal Monte (lo stesso Placido) e Scipione Borghese, il nipote del pontefice (Gianluca Gobbi); pregio poi non ultimo del film, la “ricostruzione” di tante tele del Caravaggio, da quelle di san Matteo ad Anna come Maddalena o interprete della “Morte della Madonna” (al Louvre) dove ancora una volta è presa a prestito, lei suicida nel Tevere, il ventre gonfio, e circondata dagli apostoli, dalla “Madonna dei mendicanti” dove campeggiano le sembianze di Lena o alla “Madonna dei palafrenieri”, dove Sant’Anna ha il viso ricorrente di una popolana incontrata in altre occasioni e ancora Lena sfida il peccato con il suo prorompente seno che certo non poteva essere accettato su di un altare in San Pietro.
Placido non ci fa mai vedere il suo Caravaggio mentre dipinge le sue tele, sono già lì, concluse, a testimoniare una grandezza, ne ricostruisce come un maestro la storia, ci spinge ad uscire dalla sala per correre a casa a sfogliarci un volume e assaporare quei capolavori una volta ancora, a studiarlo ancora di più, magari a spingerci domani tra le chiese e i musei romani a riempirci gli occhi. E ogni cosa sarebbe un bel traguardo. E Riccardo Scamarcio è estremamente convincente, padrone del proprio corpo, spavaldo nel metterlo in mostra, capace di abbracciare appieno le luci e le ombre, il successo e la disfatta del suo artista, il sublime e la violenza entro cui Caravaggio visse.