redazione il torinese

LA SEZIONE DI VENARIA DELLA CROCE VERDE TORINO COMPIE 40 ANNI

La Pubblica Assistenza Anpas, Croce Verde Torino sezione di Venaria Reale presenta gli eventi in programma per festeggiare i 40 anni di attività.

Si inizia l’11 maggio con “Il miglio reale”, la corsa podistica organizzata dall’Asd Atletica Venaria Reale. Domenica 13 maggio si svolgerà la pedalata non agonistica per le vie cittadine organizzata dalla Asd Free Bike Venaria Reale con la partecipazione della Croce Verde Torino sezione di Venaria. Dal 18 al 27 maggio sarà aperta al pubblico, in via Mensa 34, la mostra fotografica e pittorica dal titolo “Croce Verde Torino e Circolo degli Artisti Torino, fiori all’occhiello della Venaria Reale”. Inaugurazione il 18 maggio alle ore 18. Sempre il 18 maggio, nei locali della Polisportiva Venaria in via Boccaccio 24, dalle ore 20 alle ore 23, si terrà il corso di primo soccorso alla popolazione. I posti sono limitati ed è necessaria l’iscrizione inviando email a corsi.croceverdevenaria@gmail.comDomenica 17 giugno si terrà il momento istituzionale delle celebrazioni per il 40° anniversario di fondazione della Croce Verde Torino sezione di Venaria Reale. Il programma prevede alle ore 9 il corteo dei volontari e mezzi per le vie del centro di Venaria con partenza dalla sede della Croce Verde, in via Sauro 18. Alle ore 10 si assisterà alla funzione religiosa nella Chiesa di Santa Maria e a seguire l’inaugurazione della nuova ambulanza per il soccorso. Alle ore 11.30 sono previsti i saluti istituzionali presso il Comune di Venaria e il rinfresco.

La Croce Verde Torino, associata Anpas, grazie ai suoi 1.316 volontari e 77 dipendenti effettua oltre 78mila servizi annui. Si tratta di trasporti in emergenza urgenza 118, prestazioni convenzionate con le Aziende sanitarie locali, assistenza sanitaria a eventi e manifestazioni sportive con una percorrenza di circa 1.300.000 chilometri. La Croce Verde dispone di 55 ambulanze, 4 mezzi attrezzati al trasporto disabili e 26 autoveicoli per servizi socio sanitari e di protezione civile.

L’eredità culturale e civile di Pannunzio

All’Auditorium “Vivaldi” della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (p. Carlo Alberto 5A)

 

Il Centro “Pannunzio” organizza una tavola rotonda su: “MARIO PANNUNZIO, IL SIGNIFICATO DELLE SUE SCELTE LIBERALI, LA SUA EREDITA’ CULTURALE E CIVILE” a cui parteciperanno Dino Cofrancesco (Università di Genova),Gerardo Nicolosi (Università di Siena), Mirella Serri (Università di Roma). La tavola rotonda, moderata da Anna Ricotti, verrà conclusa dal Direttore del Centro Pier Franco Quaglieni che illustrerà il significato della Mostra “Dal ‘Mondo’ di Pannunzio al Centro ‘Pannunzio'” che viene inaugurata subito dopo alla Biblioteca Nazionale dal Presidente del Consiglio regionale Nino Boeti e dal Presidente del Centro “Pannunzio” Alan Friedman, insieme ai Sindaci presenti. La Mostra, curata dagli architetti Maria Grazia Imarisio e Diego Surace, ripercorre con immagini, documenti e testimonianze il lungo cammino, dal 1968 ad oggi, e la storia del Centro “Pannunzio” e del

Torino 22-05-2017 Foto Daniele Solavaggione CONCERTO DEL PIANISTA SANDRETTO PER I 50 ANNI DEL CENTRO PANNUNZIO NELL’AULA MAGNA DEL RETTORATO

giornalista a cui esso è intitolato. Verrà anche presentata la piastrella del Cinquantenario realizzata dall’artista ligure Anais Tiozzo. Agli intervenuti verrà data in omaggio la spilla del Cinquantenario del Centro. Il “Pannunzio”, in collaborazione con Poste Italiane, ha realizzato uno speciale annullo filatelico per il Cinquantenario che sarà possibile ottenere durante l’evento su una cartolina di Ugo Nespolo con il francobollo di Mario Pannunzio uscito nel 2010 per il centenario della nascita. 

Un persiano olandese al Salone del Libro

La Sala Blu ha ospitato la presentazione del libro dell’autore iraniano di lingua olandese Kader Abdollah 

 

È arduo credere che sotto gli occhialoni e i folti baffoni a spazzola, un viso un po’ da Groucho Marx, il carattere istrionico, il vocione che scandisce un inglese dove si mescolano accenti levantini e olandesi, si celi una storia difficile di esilio, fuga dall’Iran khomeinista, la morte dei fratelli a causa della repressione politica, la lontananza dall’anziana madre cui manda via Whatsapp le foto di tutti i posti in cui va come conferenziere, ma questo è il riassunto dell’esistenza dello scrittore Khader Abdollah, uno degli invitati al Salone del Libro 2018, di sicuro tra i più appropriati ad affrontare i temi e le famose “cinque domande” che hanno fatto da fil rouge all’edizione. Ora, giochiamo subito a carte scoperte: chi scrive non aveva la minima idea di chi costui fosse, tutto ciò che sa lo ha intuito dal candore e l’intensità con cui il personaggio ha parlato di sé alla conferenza e da una rapida scorribanda su Wikipedia, né aveva mai letto alcunché, come persevera a fare pur facendosi la blanda ed accidiosa promessa di colmare quella che all’improvviso gli è sembrata una, se non imperdonabile, certamente fastidiosa lacuna. Quello che si offre ai lettura è quindi semplicemente il resoconto di un’oretta di dialogo tra lo scrittore e i suoi intervistatori, seguito comodamente sprofondato in una delle poltrone della Sala Blu, tra i sonni tentatori del dopopranzo. Tutto è figlio del caso, o quasi: la scelta era tra questo intervento e quello sulla Transiberiana allo stand “Romania” e solo all’ultimo l’orientalismo giovanile di chi scrive ha preferito il più caldo e vicino Medio Oriente alle visioni dell’estremo est d’oltre Urali; ad ogni modo, non può dirsi pentito della decisione.

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L’incontro presenta l’ultima fatica di uno scrittore molto celebre nei Paesi Bassi: esule da una trentina d’anni in Olanda, ha ormai da tempo deciso di scrivere in neerlandese “ Per ringraziare il paese che mi ha ospitato, perché ormai in persiano potrei scrivere un libro di settecento pagine, ma senza metterci l’anima come faccio con l’olandese. A parte il mio diario, che mi ostino a redigere nella mia lingua madre, l’unica cosa che forse i miei parenti potranno mai leggere”. E la sua anima si è così impastata della cultura olandese, anzi, come sottolinea Abdollah, europea, da aver ottenuto nella sua nuova patria diversi premi e il riconoscimento di aver scritto uno dei più bei libri di sempre nella lingua di Rembrandt, nonché il Premio Grinzane Cavour 2009. La sua ultima fatica si intitola “Uno scià alla corte d’Europa” (Iperborea, 488 pp. 19.50 euro) e narra in forma romanzata il viaggio dello scià di Persia alla fine dell’800 in Europa, un’Europa, nelle parole dell’autore, che era in via di formazione e stava cercando di darsi un’identità, quella della Belle Epoque, che ha dominato e influenzato il mondo, ci fa capire Abdollah, praticamente fino ad oggi, un oggi in cui l’Europa si trova nuovamente nella necessità di capire dove andare e che cosa fare. È un libro che nasce dall’invidia, l’invidia dell’autore – i cui antenati hanno incrociato davvero l’esistenza del sovrano – nei confronti di un uomo che non amava essere re, che ha lasciato un pessimo ricordo in patria ma affascinato dalla cultura europea dell’epoca, ribollente di invenzioni, scrittori e pensatori, che poté attraversare il continente in treno in lungo e in largo, incontrando i maggiorenti dell’epoca, la Regina Vittoria, Bismarck, la Russia, dove lo scià, appassionato lettore di Tolstoj, passa a dieci chilometri dalla dacia dell’autore di “Guerra e Pace” senza saperlo e tirando dritto fino a Mosca.

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Una disavventura, osserva l’autore, che dimostra come il sovrano, nonostante la sua buona volontà e il fascino di cui risentiva verso la nostra Europa, spesso guardasse senza vedere, senza capire fino in fondo, lasciandoci sfuggire le occasioni uniche: Abdollah pone rimedio alla vicenda immaginando che Tolstoj venga effettivamente chiamato ad incontrare il Re dei Re e, sfruttando il personaggio della principessa Banu, si infila nelle corti e nelle vicende dell’Europa dell’epoca con più libertà di quelle che l’aderenza alla storia ufficiale gli permettono.Un atto questo, scherza l’autore, che diventa catartico: “ora mi sento più potente del re, ora la mia invidia è sopita, perché lo scrittore può inventare il modo in cui i fatti sono andati”. Ma il romanzo non si inerpica soltanto per i mille sentieri della fantasia letteraria, o sulla libertà di fingere ed ingannare: torna, e altrettanto fanno intervistato ed intervistatori, all’attualità, all’incontro scontro tra oriente e occidente, all’integrazione di culture e di uomini.Il confronto tra la nobile e antica cultura persiana e l’occidente è una vicenda antica, il regno degli scià era già una metafora del relativismo e degli orizzonti diversi di genti lontane nei lavori di Montesquieu e di altri illuministi, e Kader Abdollah lo sfrutta sapientemente per parlare di culture che si mescolano, non solo nella dimensione “alta” dello scambio intellettuale, ma anche in quella quotidiano dei flussi migratori.

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Una delle ragioni principali per cui si è messo a scrivere il romanzo, racconta, è stata la terribile immagine del piccolo Aylan morto sulla battigia, ma a questo si mescola un punto di vista sicuramente originale, e molto intelligente, sulle questioni all’ordine del giorno sui nostri giornali. Tra il serio e il faceto, ricorda come l’anno scorso, durante una sommossa degli abitanti di un paesino olandese che non volevano sentirne di ospitare alcuni rifugiati, lui si sia recato per capire le ragioni di tanto odio, per ispirarsi a scrivere e prendere il polso della realtà: dopo aver sentito i cori, le ingiurie, i lanci di pietre, anche lui, a un certo punto, si è sentito trascinato nella folla, e ha provato il piacere indescrivibile di poter gridare anche lui con gli altri “ Refugees go home”, sentendosi “un vero maschio olandese bianco”; è questo quello che vogliamo, è questo quello che noi stiamo difendendo, il nostro privilegio di essere occidentali? “Siete liberi di amare e odiare gli altri, capisco le vostre paure, anche se non giustificate, ma fatelo a viso aperto, non lasciate che il vostro odio covi in silenzio” conclude “ perché dovete sempre ricordarvi che questo è il vostro tempo, tra venti o trent’anni chissà dove sarete, probabilmente sostituiti da una generazione che avrà idee completamente diverse dalle vostre. Anzi, fate la prova, invitate un immigrato, un rifugiato, un profugo siriano a casa vostra, offritegli pane e formaggio e sussurrategli sette volte nell’orecchio ‘ ti odio, ti odio, ti odio!’. È probabile che il giorno dopo vi sveglierete pensando ‘ehi, questi migranti non sono poi così male!’”.

 

Andrea Rubiola

 

Revellino, la “chimica” dell’arte

Michele Revellino rende meno triste questa città.  Diciamocelo pure: a volte, noi torinesi apparivamo un po’ dimessi. Saranno state le varie ” rapine ” che abbiamo subito dopo aver dato tutto alla causa che ci ha tradito. Unità d’ Italia con Roma capitale (sicuramente nell’ ordine delle cose) poi la Fiat definitivamente ” evaporata” in tutte le parti del mondo (e questo è stato meno nell’ordine delle cose). Michele inizia il suo percorso come chimico, affrontando la manipolazione  della materia plastica con  la ricerca dei colori sgargianti e di sicuro impatto. Inserendosi in tendenze internazionali e locali.
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Biografia di Michele Revellino
Nasce a Torino il 23/06/1962. Formazione in chimica e nel settore gomma plastica, che lo influenzerà anche artisticamente. Inizia negli anni 80’ un percorso artistico in una Torino giovanile in fermento, che guardava alle influenze Punk e alla nascente New Wave Inglese, Si confronta artisticamente con le avanguardie ad esempio gli Young British Artist e si accomuna alle ideologie e alle opere dei graffitisti americani e della transavanguardia Italiana. Nascono i primi lavori, collage e acrilici su cartoncino , riutilizzando oggetti recuperati e decontestualizzandoli in un amalgama di sensazioni con lo scopo di ricercare un arte ancestrale innata e che comunichi su piani sequenziali multipli. Nascono negli anni 90 le tele elaborate al computer con l’utilizzo degli smalti industriali del silicone, ai sugheri per arrivare negli anni 2000 ai poliuretani alla resine e l’utilizzo degli ink jet, miscelati con ricercata tecnica ai materiali tradizionali della pittura, in una continua aspirazione della rappresentazione emozionale anche attraverso quei materiali sintetici, che sono i testimoni del nostro tempo, Gli ultimi lavori dai primi anni 2000 ad oggi, sono forse la sintesi di questa ormai lunga sperimentazione e ricerca, o meglio quella che come la definisce l’artista in unica parola“TRASFORMAZIONE” , che l’hanno portato a coniugare un supporto che non è più la carta o la tela, ma il polistirene espanso, quest’ultimo diventa materiale scultoreo tridimensionale lavorato inciso bruciato colorato ad olio e resine, tale in alcuni passaggi, da trasformarlo in qualche cosa di non immediatamente percepibile che dispone nell’osservatore la necessità di toccarlo per capirne la natura e il segreto. Nascono così questi lavori ridefiniti dall’artista come ”OOPART “ dall’acronimo inglese “Out of Place Artifact “acronimo che raggruppa tutte quelle opere archeologiche misteriose, di cui non si riesce a stabilire con certezza , provenienza , datazione e significato.Opere ironicamente datate dall’artista B.C. Before Crhist. Un richiamo alle antiche civiltà in un ponte immaginario spazio temporale che unisce le differenti culture umane in unico scopo, insito in tutte le opere artistiche, che dai primordiali uomini delle caverne ad oggi ci proiettano senza limiti espressivi al prossimo futuro.
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Al circolo degl Artisti riesce a conquistarsi un intera parete che dove le sue opere sequenziali evidenziano il  suo percorso intellettuale. Visitabile fino al 19 Maggio in via Bogino 9
Patrizio Tosetto

Biscotti per celiaci

L’obiettivo di FiorNatura è quello di diventare un punto di riferimento dello star bene attraverso un’alimentazione naturale e una vita sana nel rispetto dell’ambiente: (come) mangiare cibi sani e saporiti, ricercati con cura e provenienti da agricoltura biologica italiana, preparandoli con ricette semplici, veloci e buone.                                                                              www.fiornatura.it

LA RICETTA: BISCOTTI PER CELIACI

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Difficoltà: Bassa

Preparazione: 20 minuti

Riposo: 60 minuti

Cottura: 10-15 minuti

Dosi: 25 Biscotti

Strumenti:

– Impastatrice

– Frusta K

– Frullatore o Minipimer

– Bilancia pesa alimenti

Ingredienti per 25 biscotti

  • 100 g di farina di miglio
  • 50 g di farina di riso finissima
  • 50 g di nocciole piemontesi precedentemente tostate
  • 40 g di zucchero di canna
  • 40 g di miele
  • 70m g di latte di riso
  • 1 Cucchiaio di olio EVO
  • 1 Cucchiaino di curcuma
  • 4 g di cremor tartaro
  • Sale q.b.

Preparazione

Scaldate il forno a 150° C. rivestite una teglia rettangolare con carta da forno e sistemare le nocciole nella teglia e tostatele in forno per una decina di minuti, mescolandole di tanto in tanto. Togliete la teglia dal forno, fate raffreddare le nocciole e strofinatele con un canovaccio pulito per eliminare le pellicine. Trasferite nel bicchiere del frullatore e tritate finemente. Setacciate accuratamente la farina in modo che non crei fastidiosi grumi nell’impasto. Versate la farina nella ciotola della Planetaria, unite le farine, lo zucchero, le nocciole tostate ed i liquidi a filo per rendere omogeneo l’impasto a velocità 1 per 5 minuti con il gancio a Kappa. Aggiungete al composto il latte di Riso tiepido e impastate fino ad ottenere una palla soda. 

Coprite la ciotola della planetaria con della pellicola trasparente e mettete l’impasto nel frigo per 1 ora. Dopo il tempo di riposo, stendete la pasta in una sfoglia sottile. Usate la sfoglia di pasta sfoglia per tutte le preparazioni di biscotti. Potete anche utilizzare la pistola per realizzare dei favolosi biscotti.

Cottura

Ora foderate una teglia con la carta da forno e appoggiateci sopra la i biscotti. Infornate per 10 – 15 minuti a 170° C con forno statico e poi togliete dal forno.

Conservazione

I biscotti sono pronti per essere consumati, possono essere conservati 9 – 10 giorni in un contenitore ermetico. Non consiglio di congelarli.

 

Ai confini del piccolo: l’ultra-nanoscala

Pubblicato su Nature Communication uno studio dello Houston Methodist Research Institute insieme al Politecnico di Torino e alla Rice University che individua un nuovo fenomeno di trasporto molecolare presente solamente nella ultra-nanoscala

 

 La nanoscala rappresenta tutto ciò che ha dimensione compresa fra 1 e 100 nanometri (dall’atomo fino alle dimensioni di un virus), ma in alcuni casi neppure questo termine è sufficiente per definire alcuni fenomeni. È ciò che emerge dal lavoro che il dottor Alessandro Grattoni, laureato e dottorato al Politecnico di Torino, ed attualmente direttore del dipartimento di Nanomedicina dello Houston Methodist Research Institute (HMRI) di Houston. Grattoni ha pubblicato recentemente suNature Communications (G. Bruno et al., 2018; https://rdcu.be/MJyr ), insieme ai ricercatori delPolitecnico di Torino e della Rice University di Houston (Texas), presentando uno studio su nanocanali sempre più piccoli, fino al raggiungimento dell’ultra-nanoscala. Il team di ricercatori ha scoperto un nuovo fenomeno di trasporto molecolare presente solamente nella ultra-nanoscala definita da dimensioni inferiori ai 5 nm. A questa scala la fisica classica incomincia a fondersi con la fisica quantistica generando interazioni uniche fra molecole e atomi. A queste dimensioni, la diffusione delle molecole si riduce in maniera netta e inaspettata di 10 – 100 volte. A rendere ancora più interessante il fenomeno è il comportamento insolito di molecole neutre, che attraversano nanocanali di silicio con un processo diffusivo come se possedessero una carica elettrica. Per il Politecnico di Torino, hanno contribuito allo studio Giacomo Bruno, che recentemente conseguito dottorato di ricerca congiunto tra il Politecnico di Torino e HMRI, e Nicola Di Trani, neo-laureato in Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino, che ha condotto il suo lavoro di tesi ad HMRI. Inoltre, hanno partecipato il ricercatore Giancarlo Canavese del Dipartimento di Scienze Applicate e Tecnologia ed il professor Danilo Demarchi del Dipartimento di Elettronica e Telecomunicazioni. Per la Rice University ha contribuito il professor Alberto Pimpinelli del Department of Materials Science and NanoEngineering e Rice Quantum Institute. Questo nuovo fenomeno di trasporto, non previsto dagli attuali modelli matematici, può essere sfruttato per tutte le attività che richiedono grande precisione nella separazione di molecole o ioni, come ladesalinizzazione dell’acqua, l’analisi di fluidi organici o le biobatterie. Anche la medicina ne potrà trarre vantaggi: da molti anni, infatti, nel team del dottor Grattoni e del dottor Mauro Ferrari, pioniere delle nanotecnologie applicate alla medicina, ultimamente coadiuvati anche dai ricercatori del Politecnico, si stanno sviluppando diversi dispositivi impiantabili dotati di nanocanali per il rilascio di farmaci. Questi impianti, che permettono un assoluto controllo dei dosaggi erogati, offriranno al paziente una migliore risposta in numerose patologie come il cancro al seno, l’ipertensione o in caso di terapia ormonale sostitutiva.

Mauthausen, all’ombra della “fortezza di pietra”

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Cinquanta studentesse e studenti, accompagnati dalla storica Elisa Malvestito dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea di Biella-Vercelli e da dieci docenti hanno partecipato, dall’11 al 13 maggio al viaggio studio al campo di concentramento di Mauthausen e al Memoriale di Gusen, in alta Austria. Secondo e penultimo degli appuntamenti finali della 37° edizione del progetto di Storia Contemporanea, il viaggio è stato organizzato dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte.

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Il Danubio, le leggi di Keplero e gli anni giovanili di Hitler

Linz è stata la prima meta del viaggio.  Tra le tre città più importanti dell’Austria è anche anche una delle località più conosciute e culturalmente affascinanti dell’Europa centrale. Capitale europea della Cultura nel 2009, annovera tra i suoi cittadini illustri l’astronomo e matematico tedesco Keplero che nel 1618 vi scoprì le leggi che regolano il movimento dei pianeti. Ma la città sul Danubio è nota anche per aver ospitato Adolf Hitler – nato a Braunau, in Alta Austria – quando, negli anni della sua giovinezza, aspirava a diventare un pittore.

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Mauthausen,simbolo dei lager nazisti

A venti chilometri da Linz, Mauthausen rappresenta nell’immaginario collettivo uno dei simboli dei lager nazisti, al pari di Auschwitz. La sua istituzione risale all’8 agosto 1938, alcuni mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista mentre la sua liberazione, per opera delle truppe alleate, data al 5 maggio 1945. Mauthausen era il “campo madre” di un gruppo di una quarantina di strutture concentrazionarie, di diverse dimensioni, sparse in buona parte dell’Austria. Edificata con il granito della sottostante cava, l’incombente fortezza di pietra ricorda nel suo profilo architettonico uno stile orientaleggiante, tanto che i prigionieri ne ribattezzarono la porta d’accesso principale con il nome di “porta mongola”.

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Campo di lavoro e prigionia durante la “grande guerra”

A Mauthausen, già durante la Prima guerra mondiale, l’Impero Austro-ungarico aveva individuato un luogo di internamento e prigionia per quei militari degli eserciti nemici catturati durante i combattimenti sul fronte orientale e meridionale. Anche allora i prigionieri venivano obbligati al lavoro nella cava di granito, utilizzato per la pavimentazione delle strade. Tra il 1914 e il 1918 vi confluirono circa 40mila persone, perlopiù di origine russa, serba e italiana. Di esse almeno novemila vi perirono, tra cui 1.759 nostri connazionali, a causa della fame e degli stenti, anche se il campo di prigionia di allora nulla aveva a che fare con quello che vent’anni dopo venne istituito dai nazisti.

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Gli oppositori rinchiusi nella “fortezza di pietra”

La quasi totalità di quanti vennero  rinchiusi a Mauthausen tra il 1938 e il 1945 lo fu per ragioni politiche o razziali: la parte restante era costituita da delinquenti comuni, i cosiddetti “asociali” e gli appartenenti ai popoli zingari. Complessivamente i prigionieri furono circa 200mila di cui 50mila polacchi, 40mila sovietici, 40mila ebrei (perlopiù ungheresi e polacchi), 6.781 italiani e 127 donne. Tra l’agosto 1938 e il luglio 1945 (calcolando anche chi perse la vita dopo la liberazione a causa degli stenti patiti) le morti furono 100mila, praticamente la metà di quanti furono internati tar quelle mura. Un numero pazzesco, al quale vanno aggiunti quanti furono sterminati con il gas, nel vicino castello di Harteim e nella camera a gas del lager, dove veniva usato il mortale Zyklon B a base di acido cianidrico (o acido prussico). Altri ancora furono uccisi con il ricorso ai Gaswagen, veicoli sigillati dove i malcapitati erano soffocati dai gas provenienti dai tubi di scappamento.

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La cava e i 186 gradini della “scala della morte”

L’orario di lavoro nel lager era di undici ore.La razione di cibo quotidiana non superava le 1.500 calorie (ma spesso era inferiore), corrispondente a meno della metà di quella necessaria. Le conseguenze erano la fame cronica e la malnutrizione, le malattie e, da ultimo, la morte. Nei primi di anni la durata media della vita degli internati raggiungere i quindici mesi poi, con il passare del tempo, diminuì a sei e, nei periodi più duri e drammatici, a tre. La “scala della morte”collegava  con la sottostante cava per l’estrazione del granito. Lungo i centottantasei gradini di questa scala scavata nella roccia della collina,  i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi. Chi cadeva esausto, travolgeva i compagni di sventura con un terribile effetto-domino. Oppure i prigionieri venivano allineati lungo il bordo del precipizio, definito con nero sarcasmo dalle SS come il “muro dei paracadutisti”, costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare nel vuoto il compagno al proprio fianco. “La cava era là, con i suoi 186 gradini irregolari, sassosi, scivolosi. Gli attuali visitatori della cava di Mauthausen non possono rendersi conto, poiché in seguito i gradini sono stati rifatti – veri scalini cementati, piatti e regolari – mentre allora erano semplicemente tagliati col piccone nell’argilla e nella roccia, tenuti da tondelli di legno, ineguali in altezza e larghezza”. La descrizione resa dal giornalista francese Christian Bernadac, figlio di un deportato,  nel suo libro “I 186 gradini o Tra i morti viventi di Mauthausen”, pubblicato nel 1974, rende l’idea di quell’ inferno.

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I tre sottocampi di Gusen

I tre sottocampi intorno al villaggio di Gusen, a poca distanza da Mauthausen, denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III, costituirono una realtà a sé per l’alto numero di deportati e l’estrema durezza delle condizioni di prigionia e di lavoro. Aperti dal 1939 per lo sfruttamento delle vicine cave di granito, dal 1941 – anno d’installazione del crematorio – vennero avviate le eliminazioni sistematiche di malati, inabili, portatori sospetti di malattie contagiose con bagni di acqua gelida, annegamenti di massa, iniezioni al cuore, gassazioni. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavorano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vengono collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre iniziò la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi. A Gusen passarono complessivamente 60mila prigionieri, di cui circa tremila italiani. Almeno la metà vi lasciò la vita. Nel tempo il campo di Gusen I ha subito un’alterazione della sua fisionomia, ospitando ora una complesso di abitazioni residenziali. Non vi è più traccia di recinzioni, baracche o altre strutture. Resta riconoscibile, anche se ora è una villetta abitata, l’edificio dell’ingresso e del comando del campo. Il Memoriale venne realizzato grazie alla decisione dell’ANED e di altre organizzazioni di ex deportati – in primo luogo francesi – di acquistare sul finire degli anni ‘50 il lotto di terreno su cui sorge per non disperdere la memoria di quanto accadde. All’interno della costruzione si trova il forno crematorio originale del campo, oggi di proprietà del governo austriaco.

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Cosa resta del viaggio…

Il  viaggio, la visita al lager, la condivisione della medesima esperienza in luoghi che hanno segnato tragicamente il ‘900 rappresentano oltre che un occasione per fare memoria uno stimolo per diventare a propria volta testimoni di una delle pagine più orribili della storia moderna, ora che i deportati sopravvissuti sono quasi del tutto scomparsi per ragioni anagrafiche. Il dovere civile di testimoniare serve come antidoto democratico nei confronti di tutte le ideologie malate che  tendono a cancellare l’altro, il diverso, negando il pluralismo e qualsiasi forma di rispetto e convivenza. Il principale obiettivo che da oltre quarant’anni  impegna il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte nei confronti delle nuove generazioni è quello di contribuire a far sì che non vengano dimenticate le lezioni della storia.

Marco Travaglini

Il galateo si impara al corso

Oggi più che mai risulta vincente e determinante la capacità di sapersi comportare con correttezza, educazione e stile, è senza dubbio più importante di quanto a prima vista non sembri. I gomiti non si appoggiano sul tavolo, il piattino del pane si trova alla nostra sinistra, conoscere l’arte delle buone maniere non significa soltanto questo ma tutt’altro. Significa avere le conoscenze necessarie per destreggiarsi in ogni situazione e allo stesso tempo avere la possibilità di rovesciare le situazioni scomode a nostro favore. Avere le buone maniere vuol dire trovarsi a proprio agio in qualsiasi ambiente sociale, riuscire ad essere disinvolti e sicuri di sé nei rapporti con gli altri. In una definizione, significa sapere cosa fare, come farlo e quando farlo.  In questo corso, seguendo quelli che saranno semplici e pratici consigli, apprenderete le armi vincenti del moderno saper vivere, imparando a destreggiarvi con eleganza e disinvoltura in ogni situazione, evitando lo stress dell’improvvisazione e le cadute di stile. Il corso si svolgerà il 31 maggio presso la Fondazione Accorsi – Ometto (Via Po 55) dalle 10.00 alle 18.00, la Fondazione omaggerà gli iscritti con una visita al Museo e alla splendida mostra “Da Piffetti a Ladatte”.Il secondo giorno gli iscritti saranno ospiti nel cuore delle buone maniere, lo storico negozio Prochet (Via P. Micca 6) che metterà a disposizione i suoi tesori per aiutarci a capire l’apparecchiatura e la gestione della tavola. 

www.accademiaitalianagalateo.it

Nuova maglia per la Juventus

Nuova maglia, stessi colori, il bianco e il nero, per la Juventus. La squadra sabato contro il Verona presenta la maglia della prossima stagione. Un design “semplice e sfrontato  ispirato dal rispetto verso gli iconici colori bianconeri ma con un look contemporaneo”, scrive il sito della società. La nuova maglia presenta  nella parte anteriore solo due strisce verticali,  una sola su quella posteriore in un mix di tradizione e futuro sul quale spicca il nuovo logo della Juve. Nuovo anche il colletto, a ”v”, in esclusiva da Adidas.

 

(foto www.juventus.com)

 

Nuova richiesta di rinvio a giudizio per Vannoni

La Procura di Torino ha chiesto un nuovo rinvio a giudizio per Davide Vannoni, l’ideatore della cura Stamina. Si tratta di un nuovo filone di indagine la cui udienza preliminare si aprirà a luglio. Gli accertamenti riguardano l’impiego della terapia in Georgia. Oltre Vannoni ci sarebbero altri due indagati. Vannoni era stato arrestato lo scorso dai carabinieri del Nas di Torino, accusato di avere ripreso a Tblisi l’attività, per la quale aveva patteggiato  un anno e dieci mesi con la condizionale.