Brutta avventura per una ragazza di 25 anni, nata all’estero ma residente a Milano, che ieri sera, verso le 23, in una stazione della metropolitana è stata aggredita da un romeno di 32 anni. L’uomo l’ha palpeggiata e con la forza le ha poi tolto la camicetta. E’ stato bloccato dai carabinieri del nucleo radiomobile e denunciato a piede libero per violenza sessuale. La giovane stava per salire in metropolitana quando è stata avvicinata dallo sconosciuto che ha iniziato a metterle le mani addosso, a palpeggiarla in modo sempre più pesante, fino a sfilarle la camicia che indossava. La ragazza è però riuscita a fuggire e a chiamare i soccorsi.

Liverpool – Torino finisce 3-1
Anfield Road ha ospitato l’amichevole Liverpool – Torino. I granata hanno perso 3-1 contro i vicecampioni d’Europa che hanno dapprima segnato al 21’ con Firmino. Poi il raddoppio al 24’ con Wijnaldum, mentre i ragazzi di Mazzarri accorciano Toro alla mezz’ora con lo stacco di testa di Belotti. Infine, all’86’ rete Sturridge. I Reds mancano un rigore con Fabinho al 17’. Il Toro ha dimostrato grinta, perdendo con onore.

Suoni e lampi di immagine dai Balcani
Un mondo che porta nel cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”
I Balcani sono suoni e lampi di immagine. Sono, come sottolinea Paolo Rumiz “il periplo mediterraneo di una parola araba, sevdah, che significa negra bile, la grande madre dei salti umorali, della nostalgia e dell’innamoramento”, parola che con l’armata islamica raggiunge la penisola iberica e si ibrida col latino trasformandosi in “saudade”; quella “dolce malinconia” (di una terra perduta) che secoli dopo gli ebrei, esiliati dai re cattolici, porteranno con sé nella nuova terra, ancora una volta islamica, l’impero turco, per generare quegli struggenti capolavori di musicalità popolare che sono le “sevdalinke“, le canzoni d’amore della Bosnia. I Balcani sono il luogo dove ci si accorge che tutto inizia tutto finisce e tutto si capisce. Un mondo che porta nel cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Di tutto ciò, ad accomunare controvoglia i paesi nati dalla sua frammentazione, è rimasto in comunione solo il prefisso telefonico internazionale: “0038”. Lo stesso per tutti e sei gli stati, che precede – si spera solo numericamente – il nostro, lo “0039” italiano. Come per Rumiz, questi sono – anche per me – i Balcani. Non solo guerre e secessioni, ma “note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo”. Tristezza della guerra e dignità della vita si mescolano ai profumi e ai sapori balcanici.Le immagini di luoghi, montagne, vento,birra, vino, di rackia, ( l’acquavite) e di slivovica, che quando è buona ( nel suo distillato di prugne, talvolta albicocche, in certi casi pere e fichi ) è la fine del mondo e può addolcirti le serate. Il segreto, lo “spirito” di città come Sarajevo è racchiuso in tre parole: condivisione, disponibilità, accoglienza. E, se si vuole, se ne può aggiungere una quarta: tolleranza. Si racconta una storia, un aneddoto, basato sulla realtà: in casa dei cristiani c’era molto spesso un pentolone di coccio che non aveva mai toccato la carne di maiale e che veniva conservato per invitare a cena i musulmani e gli ebrei, nel pieno rispetto delle altrui fedi. Sarajevo è stata bombardata per quattro anni ( con 11451 morti e una pioggia di 470 mila granate) non perché stava diventando islamica, ma al contrario perché era troppo tollerante e complessa per essere accettata da un mondo che venera il pensiero unico, uguale, monolitico. Così bellezza e vitalità si celano dietro alla “piega obliqua e amara dei Balcani”, come la descrive Paolo Rumiz ne “La cotogna di Istanbul”. L’incontro col diverso e l’abitudine al confronto con l’altro da sé hanno reso questa popolazione unica, come lo è la sua geografia. Con alcuni amici, in una delle tante serate passaste nel caravanserraglio della Baščaršija, abbiamo fatto una scommessa. Goran e Edina ridevano, conoscendone anticipatamente l’esito. Guardavamo le donne, le ragazze cercandone una non bella. Chi ne intravedeva una per primo, aveva diritto ad una frasca e schiumosa birra, appena uscita dalla Sarajevska picara,l’unica birreria europea che è riuscita a produrre con continuità sia ai tempi dell’Impero ottomano che nel periodo dell’impero asburgico. Ognuno pagò la sua parte perché nessuno vinse. Trovare una ragazza non bella era quasi un’impresa impossibile. E poi la musica, il ritmo dei suoni ma anche delle lingue che sono molte e che fanno inevitabilmente bene all’elasticità della mente e dei caratteri. I Balcani sono grandi, anche se il cuore – oltre a Sarajevo – lo si trova scendendo la stretta valle della Neretva, con la strada che costeggia le acque color smeraldo del fiume che le dona il nome. E’ ancora Rumiz a ricordarci che Balcani sono anche quel villaggio macedone che – stando ai racconti dei suoi abitanti – pare sia stato risparmiato dalle armi grazie alla musica: Strumica, quasi al confine con la Bulgaria. Quando scende la sera i contadini tornano dai campi con i loro attrezzi in spalla e, giunti in paese, mollano la zappa e prendono il clarino, la tromba o il tamburo e tutto il paese si riempie di suoni.Questo è il loro antidoto al disordine. Perché lì non è mai arrivato il kalashnikov? Perché avevano il sassofono e lo preferivano, perché da generazioni suonano e sono stati allenati alla musica “ già prima di nascere, perché la sentivano dalle pance delle loro madri”. Una musica che, come dice Goran Bregović, “ è una miscela, nasce da una terra misteriosa dove si incrociano tre culture: ortodossa, cattolica e musulmana“. Splendida e piena di voglia di vivere.
Mangiati dalla crisi
La Nigoglia a Omegna è il simbolo del carattere di chi ci vive attorno. Se è vero, e lo è, che fa scorrere le sue acque verso nord, seguendo una rotta diametralmente opposta a quella che solitamente percorrono i torrenti alpini, gli omegnesi ( e i cusiani, in genere) si sono sempre dati da fare con caparbietà nella direzione del progresso, adattando e modellando il loro futuro
“Gent con tri ball”, sentenzia Carlino, portando entrambe le mani al cavallo dei pantaloni per dare un senso figurato alle sue parole. Se agli inizi dell’800 l’economia era prevalentemente agricola e pastorale, con qualche artigiano che s’arrangiava con il legno, il peltro e i metalli,la svolta industriale prese l’abbrivio attorno alla fine del secolo e s’affermò nei primi anni del ‘900. I piccoli coltivatori, gli allevatori di bestiame, gli artigiani diventarono in gran parte i primi operai delle grandi fabbriche. Già in valle Strona, da tempo, ci si dava da fare con il legno. Mulini ad acqua e piccole botteghe artigiane producevano cucchiai, mestoli, ciotole e piatti di legno diventando in breve tempo la “val di cazzoi”, la valle dei mestoli. Non solo li producevano ma li vendevano, guadagnandosi il pane come ambulanti nelle grandi città al pari degli ombrellai del Vergante. I peltrai , veri artisti, andarono oltre, valicando le alpi fino in Germania, Austria e in tutta la mitteleuropa. I loro prodotti erano resistenti, si potevano riparare o rifondere ed erano più a buon mercato della porcellana e dell’argento. Nelle case borghesi finirono boccali, posate, candelabri, lampade, bicchieri e signorili tabacchiere. Venne persino imposto un marchio di riconoscimento per i vari fabbricanti.
Poi s’affermarono l’industria tessile, cartaria,siderurgica e il casalingo di metallo,erede di quello in peltro e legno.Tra Omegna e Gravellona si misero in moto gli opifici della Guidotti e Pariani, Furter, Ackermann. A Crusinallo la cartiera Maffioretti ( in seguito Binda) nel 1880 dava lavoro a 725 persone. Nel 1857, la ferriera Vittorio Cobianchi cambiò l’economia di Omegna con il fragore dei magli e l’incandescenza delle colate d’acciaio. Nel Cusio nasceva l’industria del casalingo con la Calderoni, la Piazza e la Cane. Il fondatore di quest’ultima, Baldassarre Cane, originario della Valstrona, era tornato in città dopo una lunga permanenza a Parigi. Nella ville Lùmiere inventò il sifone da selz e con i ricavati tornò in riva al lago d’Orta e investì i suoi averi nell’opificio per la lavorazione dei metalli.Con l’affacciarsi del nuovo secolo, nel 1901, vide la luce la Lagostina, seguita poi da tante altre come la Bialetti, con le sue caffettiere dell’omino coi baffi, e l’Alessi. “E adesso? Guarda che roba! Si son riempiti le tasche con il nostro sudore, hanno messo i soldi in Svizzera o in quelle isole dove non si pagano le tasse e a noi ci hanno dato un calcio nel sedere. La crisi ci ha mangiati e digeriti”. Carlino s’arrabbia, rosso in volto. Ha passato una vita davanti agli altiforni dell’acciaieria e poi a ribattere fondi di caffettiere.“So bene
che più a sud e più a est ci sarà sempre qualcuno che produrrà a minor costo,cavolo. Ma la qualità?La nostra professionalità? E la dignità del lavoratore, eh? Dove le mettiamo? Nella tazza del bagno e poi tiriamo lo sciaquone? La verità è che quelli lì non sono industriali, a parte l’Alessi e pochi altri. Hanno il cuore e la testa da commercialisti senza scrupoli. Vengono, mangiano e se ne vanno senza salutare e senza pagare il conto. In più, razziano i marchi, la storia, l’immagine della nostra industria. Vuoi che ti dica cosa sono, quelli lì? Banditi. E non hanno nemmeno bisogno di nascondersi la faccia con una calza di nylon”. Hanno ridimensionato gli organici,
chiuso tante fabbriche. La cassa integrazione non si conta più e chi ha avuto la fortuna di restare nei reparti si è visto aumentare i carichi di lavoro e, grazie alla crisi, alleggerire la busta paga. Non è bel momento, con questa recessione che sembra non finire mai, presentando in conto a quelli che stanno peggio mentre i più fortunati stanno meglio di prima. Lo prendo sottobraccio e ci avviamo verso via Manzoni, dove c’è il circolo “Ferraris” ma pure la sede del sindacato.Andiamo lì per dare una mano, per aiutare i nostri amici operai che sono in difficoltà. Una parola di conforto, la condivisione di un problema, qualche decina di euro fatti avere di nascosto a una famiglia che ha bisogno, senza offenderne la dignità. Al sindacato non è che riescano a fare un granché, ma almeno ci provano. Per di più , maledizione, si sono anche divisi. Uno di qua e gli altri di là, a discutere sulle strategie, se è meglio fare così o è più giusto fare cosà. Intanto, i padroni ci passano sopra come il rullo quando asfaltano le strade.Intendiamoci bene: il sindacato serve, eccome. Guai se non ci fosse e va tenuto in conto come un oracolo ma sono i sindacalisti che avrebbero bisogno di una raddrizzatina. Magari è sufficiente registrargli le valvole e, comunque, hanno un gran bisogno di togliersi la cravatta e vivere di più la realtà di chi lavora. “Te lo ricordi il Poldino? Quello sì che sapeva il fatto suo“. Come dare torto a Carlino. Era un sindacalista di fabbrica che aveva la tenacia e la saggezza degli operai che sapevano fare “i baffi alle mosche”. Diceva sempre che “ l’importante è continuare il rammendo e avere fiducia. Se non si avesse fiducia si starebbe qui a diventar matti tutti i giorni?”.Una grande lezione di vita di cui fare tesoro.
Marco Travaglini
Dalla sommità del Mottarone si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana
Il Mottarone (1491 m. s.l.m.) è sempre stato una montagna speciale, dolce nella fisionomia ( come un grande panettone) e maestosa nel posizionamento. Pur essendo tra le cime meno alte della catena alpina, dalla sua vetta lo sguardo si perde su di un panorama a dir poco unico, da molte parti indicato come pari, se non superiore in fascino, a quello della ben più alta vetta del Righi, la montagna svizzera resa famosa proprio dal suo straordinario scenario panoramico. Dalla sommità del Mottarone si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana e la zona dei “sette laghi” (Orta, Maggiore, Mergozzo, Biandronno, Varese, Monate, Comabbio). Un tempo, in vetta, ci si poteva salire anche in treno. Infatti, la Società Ferrovia Stresa-Mottarone, svolse la sua funzione di pubblico collegamento tra il 12 luglio del 1911 – giorno della sua inaugurazione – e la fine del 1962. Il tracciato della linea, lunga circa 10 km, partiva da Stresa con un doppio capolinea: dal piazzale dell’imbarcadero della navigazione e dall’area antistante la stazione ferroviaria. I due rami si riunivano, appena fuori l’abitato, per continuare la loro salita sui fianchi della montagna, con un dislivello superiore ai mille metri. La ferrovia s’inarcava con un doppio sistema (da qui la denominazione della ferrovia, “ad aderenza mista”), ad aderenza naturale ed a cremagliera del tipo Strub.
L’alimentazione era a corrente continua a 750 Volt. Lungo la linea c’erano tre stazioni (Alpino – Gignese – Levo) e due fermate: cosicché l’intero percorso s’effettuava in 1 ora e 15 minuti. Il materiale rotabile veniva ricoverato a Stresa ed era composto da 5 elettromotrici e 3 rimorchiate “a giardiniera”; 4 carri di servizio completavano la flotta. Nel 1920 venne costruito un carro speciale porta sci che veniva agganciato in coda. Le motrici, in livrea gialla, erano di costruzione svizzera; i loro carrelli erano prodotti dalla SLM di Winthertur, azienda specializzata nella costruzione di materiale ferroviario ad aderenza artificiale. Le elettromotrici accoglievano fino a 110 persone cadauna, tra posti a sedere e posti in piedi. Il servizio si basava su tre coppie di treni in bassa stagione e sei coppie in alta. Era altresì prevista la possibilità di organizzare corse straordinarie su richiesta. La partenza della ferrovia fu un po’ rallentata a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale ma, successivamente a questa, l’esercizio riuscì a mantenersi positiva: quindi,una gestione accorta sia relativamente al traffico locale sia dal punto di vista turistico. Incredibilmente e paradossalmente le cose andarono meglio durante la Seconda Guerra Mondiale: infatti, non avendo subito danni rilevanti dagli eventi bellici, fornì un comodo collegamento per i milanesi sfollati e rifugiati sulle pendici del monte; si pensi che l’anno 1945 fu toccato il record di 100 mila biglietti staccati!Con l’arrivo degli anni ‘50 e ‘60 iniziarono a farsi sentire lamentele, provenienti da più parti, sul fatto che la ferrovia era antiquata, improduttiva e che un servizio automobilistico o funiviario avrebbero potuto sostituirla. Con un po’ di lungimiranza, magari guardando all’esempio della vicina Svizzera, si sarebbe potuto investire sul rilancio e su di una moderna gestione di quella ferrovia turistica. Purtroppo la storia andò diversamente e così, nel giugno 1963, fu posta la parola “fine” alla Ferrovia “Stresa – Mottarone”.
Le vetture furono rottamate o vendute. Fino a qualche mese fa il collegamento tra Stresa e il Mottarone è stato svolto da una funivia, la cui stazione è peraltro piuttosto distante dal centro cittadino, in località Carciano. Fino a qualche mese fa perché ora anche la funivia ha chiuso i battenti. Alle 17,40 del 30 ottobre scorso , dalla vetta del Mottarone è partita l’ultima corsa di ritorno della funivia, che ha poi cessato l’attività per la scadenza del termine dei 40 anni vita, entro il quale è necessario provvedere alla revisione generale dell’impianto. Ad oggi la situazione si presenta tutt’altro che rosea, dopo l’esito negativo della gara d’appalto, andata deserta. Troppi oneri, troppe difficoltà. Dopo la chiusura del trenino ( prima ferrovia col sistema a cremagliera in Italia), straordinaria occasione mancata di cinquant’anni fa, ora anche la funivia rischia di essere un ricordo. Il Mottarone , straordinaria vetta panoramica, è un po’ più solo e più lontano da Stresa, la perla del lago Maggiore che lo guarda da sotto in su intristita.
Marco Travaglini
Saitta condanna campagna contro 112 e 118
L’assessore regionale alla sanità, Antonio Saitta, parla di “campagna di strumentalizzazione in atto nei confronti del 118 e del centralino unico di emergenza 112” che rischia di “squalificare un servizio che in Piemonte svolge ottimamente il proprio compito da molti anni. Il risultato è quello di creare sfiducia nei cittadini e di danneggiare il servizio stesso”. Il commento dell’assessore giunge dopo le polemiche apparse sui giornali (ultima quella di due donne che sostengono di non essere state soccorse dopo aver chiamato per un’aggressione). “Devo rilevare come si preferisca cavalcare la polemica invece di tutelare l’interesse del sistema sanitario e dei piemontesi”, osserva Saitta.
Venerdì 10 agosto alle ore 21,15 presso il Chiostro Ester Siccardi di Albenga nuovo appuntamento con gli eventi di “Un Mare di cultura “ organizzati dal Centro Pannunzio e dal DLF. Il Prof. Pier Franco Quaglieni e il Dott. Nino Boeti, Presidente del Consiglio regionale del Piemonte, presenteranno il libro “Donne e cucina in tempo di guerra. Dal ’39 al ’45: il conflitto raccontato attraverso le ricette “della fame” (ed. Susalibri) di Bruna Bertolo. Il libro, corredato da un ampio apparato fotografico, è una vera e propria immersione nel quotidiano degli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale; accanto alle ricette ritrovate nei giornali o raccolte attraverso preziose testimonianze orali, è presente il racconto dei costumi di quegli anni, la narrazione di storie personali di coraggio e di sacrificio di un’Italia sofferente, devastata dai bombardamenti e obbligata a trasformare radicalmente le proprie abitudinialimentari. Nella prefazione, il Prof. Quaglieni spiega che questo libro «serve ai giovani per conoscere ed a chi ha un’età diversa per ricordare un passato che tanti italiani hanno dovuto affrontare». Sottolinea che le donne nutrivano i famigliari con le ricette del “poco e del senza”; le massaie italiane infatti, con molta fantasia e inventiva, riuscivano a rendere meno intollerabile la cucina “della fame”, fatta di pochissimi ingredienti, di scarti e avanzi. Questo libro dunque non solo propone spunti di riflessione riguardo alla sofferenza patita dai nostri avi e alla capacità tutta femminile di ricavare il meglio possibile da ogni situazione, ma invita anche a fare un confronto tra quelle condizioni di vita e le nostre, di generazione “privilegiata” che vive in pace e in una condizione di benessere. Al termine della presentazione saranno offerti degli assaggi tratti da alcune ricette del libro.
La Juve si allena alla Continassa
Cristiano Ronaldo e i bianconeri hanno ripreso la preparazione estiva alla Continassa. Il profilo Twitter della Juventus scrive: “Buongiorno…di corsa!”, pubblicando le immagini dell’allenamento mattutino, proseguito poi nel pomeriggio. Da domani la ripresa completa con i giocatori di ritorno dagli Stati Uniti con Mario Mandzukic . Al Training Center della Juventus, ad assistere all’allenamento c’era il vicepresidente Pavel Nedved.