Suoni e lampi di immagine dai Balcani

di Marco Travaglini

Un mondo che porta nel  cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero  “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito

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I Balcani sono suoni e lampi di immagine. Sono, come sottolinea Paolo Rumiz “il periplo mediterraneo di una parola araba, sevdah, che significa negra bile, la grande madre dei salti umorali, della nostalgia e dell’innamoramento”, parola che con l’armata islamica raggiunge la penisola iberica e si ibrida col latino trasformandosi in “saudade”; quella “dolce malinconia” (di una terra perduta) che secoli dopo gli ebrei, esiliati dai re cattolici, porteranno con sé nella nuova terra, ancora una volta islamica, l’impero turco, per generare quegli struggenti capolavori di musicalità popolare che sono le “sevdalinke“, le canzoni d’amore della Bosnia. I Balcani sono il luogo dove ci si accorge che tutto inizia tutto finisce e tutto si capisce.  Un mondo che porta nel  cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero  “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Di tutto ciò, ad accomunare controvoglia i paesi nati dalla sua frammentazione, è rimasto in comunione solo il prefisso telefonico internazionale:  “0038”. Lo stesso per tutti e sei gli stati, che precede – si spera solo numericamente – il nostro, lo “0039” italiano.  Come per Rumiz, questi sono – anche per me –  i Balcani. Non solo guerre e secessioni, ma “note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo”. Tristezza della guerra e dignità della vita si mescolano ai profumi e ai sapori balcanici.Le immagini di luoghi, montagne, vento,birra, vino, di rackia, ( l’acquavite)  e di slivovica, che quando è buona ( nel suo distillato di prugne, talvolta albicocche, in certi casi pere e fichi ) è la fine del mondo e può addolcirti le serate. Il segreto, lo “spirito” di città come Sarajevo è racchiuso in tre parole: condivisione, disponibilità, accoglienza. E, se si vuole, se ne può aggiungere una quarta: tolleranza.  Si racconta una storia, un aneddoto, basato sulla realtà: in casa dei cristiani c’era molto spesso un pentolone di coccio che non aveva mai toccato la carne di maiale e che veniva conservato per invitare a cena i musulmani e gli ebrei, nel pieno rispetto delle altrui fedi. Sarajevo è stata bombardata per quattro anni ( con 11451 morti e una pioggia di 470 mila granate)  non perché stava diventando islamica, ma al contrario perché era troppo tollerante e complessa per essere accettata da un mondo che venera il pensiero unico, uguale, monolitico. Così bellezza e vitalità si celano dietro alla “piega obliqua e amara dei Balcani”, come la descrive Paolo Rumiz ne “La cotogna di Istanbul”.balcani22 L’incontro col diverso e l’abitudine al confronto con l’altro da sé hanno reso questa popolazione unica, come lo è la sua  geografia. Con alcuni amici, in una delle tante serate passaste nel caravanserraglio  della Baščaršija,  abbiamo fatto una scommessa. Goran e Edina  ridevano, conoscendone anticipatamente l’esito. Guardavamo le donne, le ragazze cercandone una non bella. Chi ne intravedeva una per primo, aveva diritto ad una frasca e schiumosa birra, appena uscita dalla Sarajevska picara,l’unica birreria europea che è riuscita a produrre con continuità sia ai tempi dell’Impero ottomano che nel periodo dell’impero asburgico. Ognuno pagò la sua parte perché nessuno vinse. Trovare una ragazza non bella era quasi un’impresa impossibile. E poi la musica, il ritmo dei suoni ma anche delle lingue che sono molte e che fanno inevitabilmente bene all’elasticità della mente e dei caratteri. I Balcani sono grandi, anche se il cuore – oltre a Sarajevo – lo si trova scendendo la stretta valle della Neretva, con la strada che costeggia le acque color smeraldo del fiume che le dona il nome.  E’ ancora Rumiz a ricordarci che Balcani sono anche quel villaggio macedone  che  – stando ai racconti dei suoi abitanti – pare sia stato risparmiato dalle armi grazie alla musica: Strumica, quasi al confine con la Bulgaria. Quando scende la sera  i contadini tornano dai campi con i loro attrezzi in spalla e, giunti in paese, mollano la zappa e prendono il clarino, la tromba o il tamburo e tutto il paese si riempie di suoni.Questo è il loro antidoto al disordine. Perché lì non è mai arrivato il kalashnikov? Perché avevano il sassofono e lo preferivano,  perché da generazioni suonano e sono stati allenati alla musica “ già prima di nascere, perché la sentivano dalle pance delle loro madri”.  Una musica che, come dice Goran Bregović, “ è una miscela, nasce da una terra misteriosa dove si incrociano tre culture: ortodossa, cattolica e musulmana“. Splendida e piena di voglia di vivere.

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