redazione il torinese

Le Procope a Parigi, dove la storia si faceva a tavola

Sedersi ad un tavolo del più antico caffè parigino equivale a fare un viaggio nella storia oltre che assaporare i piatti della tradizionale cucina francese
Il Café Le Procope, al numero 13 di rue de l’Ancienne Comédie a Saint-Germain-des-Prés, è uno dei locali storici più noti della capitale francese e nel tempo si trasformato in un ristorante. La sua è una storia tanto affascinante quanto antica. Nel 1680  il locale, luogo di ritrovo per tutti coloro che gravitavano attorno al mondo dello spettacolo, si trovava di fronte al teatro della Comédie-Française. Rilevato nel 1686 dal cuoco e ristoratore siciliano Francesco Procopio Cutò ( o dei Coltelli), noto per essere l’inventore del gelato, conobbe un successo crescente e dovette trasferirsi  nell’attuale sede, più ampia e confortevole. Nelle sue sale si potevano gustare le “acque gelate” (le granite), gelati e sorbetti di frutta, vari dolci e creme come la “frangipane” a base di farina di mandorle.  Il signor Procopio aveva l’esclusiva di quelle prelibatezze grazie ad una patente reale concessagli da Luigi XIV. Così, puntando in modo incruento “alla gola” dei parigini, il locale diventò il più famoso ritrovo di tutta la “ville lumière”. Fa una certa impressione ordinare un café gourmand, pranzare o cenare nel luogo preferito dai più illustri personaggi della cultura e della politica d’oltralpe, uno dei primi se non proprio il primocafé letterario del mondo dove i grandi nomi del sapere discutevano animatamente i loro progetti bevendo una tazza di tè, assaporando un sorbetto o centellinando un cognac o un calvados. Lo frequentarono, tra le tante personalità, “mostri sacri” come Jean de La Fontaine, Voltaire, Napoleone Bonaparte, Honoré de Balzac, Victor Hugo, George Sand, Paul Verlaine e Anatole France, come ricorda una epigrafe sulla porta. La leggenda vuole che le idee illuministe di Diderot e d’Alembert presero forma tra i tavoli del Procope dove vennero scritti interi articoli della celebreEncyclopédie. Benjamin Franklin vi preparò il progetto di alleanza tra Luigi XVI e “la neonata repubblica americana” come si apprende da una targa commemorativa apposta nel locale. E’del tutto verosimile se non certo che durante la rivoluzione francese Robespierre,Danton e Marat vi si riunivano per prendere le decisioni più importanti. Capitando nel 6° arrondissement è difficile rinunciare alla tentazione di mettersi a tavola al Procope e gustare un menu “Philosophe” oppure assaggiare una “douzaine de gros escargots de Bourgogne”, una “onglet” o un “filet de bœuf”, oppure scegliere un “magret de canard”, accompagnando le carni con un rosso verre di Bourgogne o di Bordeaux. Ne vale la pena e chissà che non si venga sfiorati dal fantasma di qualcuno di quegli illustri clienti d’antan.
Marco Travaglini

Alla scoperta del castello del concerto di Ferragosto

A Valcasotto è  tutto pronto per la 40a edizione del Concerto di Ferragosto nel Castello Reale nel territorio di Garessio. Sarà un concerto inedito, come da tradizione con l’Orchestra Bartolomeo Bruni, ma solo con archi, arpa e percussioni. In tutto 31 elementi distanziati sul palco. Per la prima volta nella sua storia, il Concerto si tiene a porte chiuse. Nel cortile del castello ci saranno solo un centinaio di persone invitate.

LA CERTOSA DI CASOTTO – La posizione magnifica che la contraddistingue e lo scenario spettacolare che la avvolge, una bellissima e florida esibizione della natura, rende unico e prezioso questo luogo, monastero all’origine e successivamente trasformato in una romantica residenza appartenente alla dinastia dei Savoia

Abbandonata la vocazione venatoria, attualmente è una felice oasi naturale appartenente alla Valle Monregalese nella provincia di Cuneo, un bellissimo territorio decorato da laghi alpini, ricco di torrenti, fungaie e tartufaie naturali, sentieri panoramici e rifugi montani.Inserita da poco nel circuito turistico delle Residenze Sabaude, ma non ancora visitabile all’interno, la Certosa di Casotto fu fondata dai frati certosini intorno al 1170 ma non si hanno reali informazioni sul progetto iniziale della costruzione. Dedicata in origine alla preghiera e alla meditazione, distrutta e ricostruita più volte anche grazie ai progetti dell’architetto Bernardo A. Vittone, con l’invasione francese di fine ‘700 e con l’abolizione degli ordini religiosi, nel 1802 i frati dovettero infine lasciarla definitivamente. Si sa di certo che fu acquistata e riconvertita in dimora reale da Carlo Alberto di Savoia che ne fece una residenza estiva. Della nuova veste di fine ‘800 se ne occuparono architetti e pittori come Dionigi Faconti e Angelo Moja. La chiesa di certosina semplicità divenne la Cappella Regia più ricca e ricercata. Altre parti furono ricostruite, soprattutto gli ambienti a nord, dove lo stile Sabaudo è decisamente evidente. Attualmente La Certosa è sotto tutela dei Beni Culturali e Ambientali della Regione Piemonte.Forte è l’auspicio di vedere questo capolavoro e vanto piemontese aperto al pubblico, perché tutti possano ammirare il valore e la bellezza di un testimone che ha visto l’avvicendarsi di importanti eventi storici che hanno donato una traccia preziosa in mezzo ad una natura maestosa.

Maria La Barbera

Eduardo Galeano, raccontò il Sud America e gli splendori e le miserie del calcio

Poco più che ventenne, diventò una delle firme principali, e poi il capo redazione, di Marcha, un settimanale politico e culturale legato alla sinistra che diventò un punto di riferimento ben al di là dei confini uruguaiani

Eduardo Galeano, lo scrittore uruguaiano morto a 74 anni il 13 aprile 2015, era uno degli autori più letti e amati della letteratura sudamericana moderna, e con “Le vene aperte dell’America Latina” (1971) disegnò un ritratto incredibilmente efficace della realtà del subcontinente americano. Nato nel 1940 in una famiglia alto borghese e cattolica di Montevideo, Galeano debuttò nel giornalismo a 14 anni, come disegnatore satirico, ma siccome “c’era un abisso fra quello che immaginavo e quello che tracciavo” si orientò verso poi la scrittura. Poco più che ventenne, diventò una delle firme principali, e poi il capo redazione, di Marcha, un settimanale politico e culturale legato alla sinistra che diventò un punto di riferimento ben al di là dei confini uruguaiani. Dopo una serie di libri dedicati a reportage e analisi della situazione in vari paesi, nel 1971 pubblicò il già citato “Le vene aperte dell’America Latina“, in cui ricostruiva il saccheggio delle ricchezze del subcontinente da parte delle potenze coloniali, e il suo proseguimento attraverso le strutture del postcolonialismo capitalista. Tradotto in più di 20 lingue, best seller internazionale, quando apparve fu per molti una vera e pro­pria fol­go­ra­zione, tanto che Hein­rich Böll, scrit­tore tede­sco Pre­mio Nobel per la Let­te­ra­tura 1972, disse: “Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano com­mosso così tanto”. Un reportage che attraversa cinque secoli di storia del continente latinoamericano per raccontare il saccheggio delle sue preziose risorse: l’oro e l’argento, il cacao e il cotone, il petrolio e la gomma, il rame e il ferro. Tesori depredati sistematicamente: fin dai tempi della conquista spagnola, le potenze coloniali hanno prosciugato le ricchezze di questa terra rigogliosa, lasciandola in condizioni di estrema povertà. Un testo illuminante che, intrecciando l’analisi storica ed economica con il racconto, suggestivo e incalzante, delle passioni di un popolo sfruttato e sofferente, è diventato un vero e proprio classico della letteratura latinoamericana. A onor del vero,in tempi più recenti, Galeano prese una certa distanza da quello che è stato  il suo libro più noto. E disse: “Non mi pento di averlo scritto, ma non lo rileggerei: volevo scrivere un saggio di economia politica e non avevo la formazione necessaria“, aggiungendo che considerava “superata” una “certa prosa di sinistra, che ora trovo pesantissima“. Lungo gli anni della sua carriera letteraria – proseguita dalla Spagna, dopo la fuga dalle dittature militari del suo paese natale e dell’Argentina – Galeano creò un stile personale, a metà fra la documentazione storica e la riflessione poetica, che portarono al successo internazionale di “Memoria del Fuoco“, una trilogia pubblicata dal 1982 al 1986. Alla critica internazionale quest’opera piacque molto , al punto che il Times Literary Supplement la paragonò a quelle di Dos Passos e Garcia Marquez.

Militante di sinistra e sostenitore – seppur critico – dei governi progressisti dell’America Latina, Galeano dopo aver denunciato la “decadenza di un modello di potere popolare” e la “rigidità burocratica” della Cuba castrista ( era il 2003) , tornò nell’isola nel 2012, sottolineando che “un vero amico ti critica in faccia e ti elogia dietro le tue spalle“. Ma l’altra grande passione dello scrittore uruguaiano è stata il calcio.Eduardo Galeanotifoso appassionato e calciatore mancato (“Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma  soltanto di notte mentre dormivo;durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso  nei campetti del mio paese”), con il suo “Splendori e miserie del gioco del calcio”  ( pubblicato da Sperling & Kupfer, in Italia. El fútbol a sol y sombra, nella versione originale), ha scritto pagine memorabili sul mondo del football. Il calcio per sognare. Il calcio come arte, religione e bellezza. Il calcio come linguaggio comune, modo per riconoscersi e ritrovarsi. Il calcio, figlio del popolo, che non deve cedere alle lusinghe dei potenti, di chi vuole trasformarlo in strumento per produrre denaro, uccidendo la fantasia e l’innocenza.“Grazie per aver lottato a centrocampo come un mediano e per aver segnato contro i potenti come un attaccante con il numero 10. Grazie anche per avermi compreso. Grazie, Eduardo Galeano: in squadra ne servono tanti come te. Mi mancherai”. Non è un caso che così l’abbia salutato, dal proprio profilo ufficiale su Facebook, Diego Maradona. A comunicare la notizia della scomparsa di Galeano all’ex capitano del Napoli, che si trovava a Bogotà, è stato un reporter suo amico al quale un Maradona commosso ha detto anche che “lui (Galeano) mi ha insegnato a leggere di calcio”, come riporta il giornale argentino “La Nacion”. Galeano aveva citato Maradona in alcune sue opere, come, appunto,  “Splendori e miserie del gioco del calcio”, scrivendo che Maradona “si era trasformato in una specie di Dio sporco, il più umano degli dei, e questo spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di qualsiasi altro giocatore. Un Dio sporco, che ci assomiglia: donnaiolo, bevitore, spericolato, irresponsabile, bugiardo, fanfarone. Però gli dei per quanto siano umani non si ritirano mai”. Per questo e per molto altro, da qualche giorno c’è un vuoto attorno a noi che rimarrà tale.

 

Marco Travaglini

Il cappello, l’accessorio più elegante ed essenziale

L’educazione di una donna consiste in due lezioni: non lasciare mai la casa senza calze e non uscire mai senza cappello, diceva Coco Chanel. Certamente i tempi sono cambiati, le abitudini legate al nostro abbigliamento sono differenti, meno rigide e scarsamente legate a canoni e modelli uniformanti.

Il cappello tuttavia non ha perso il suo fascino e neanche la sua utilità, ci riscalda d’inverno, ci protegge dal sole d’estate e aggiunge un elemento di stile e gusto al nostro look. Dall’ antico Egitto fino agli oltre cinquemila indossati dalla Regina Elisabetta II, passando per i vistosi copricapi rinascimentali, il cappello ha rivestito storicamente un significato culturale, un riferimento alla posizione sociale ed anche alla appartenenza etnica. Il basco, la cloche, il berretto o beanie, il fedora sono deliziosi modelli di cappello molto attuali e di moda che vestono e conferiscono alla nostra mise ricercatezza e buongusto. Nella nostra elegante e raffinata città diverse sono le cappellerie storiche dove trovare svariati e deliziosi modelli, appropriati alle nostre caratteristiche fisiche e al nostro stile e, dove immergersi, perché no, in atmosfere di un fascinoso passato. Alcuni tra quelli che troveremo, infatti, sono poco indossabili quotidianamente, sicuramente più adatti ad eventi particolari o avvenimenti mondani ma sicuramente di grande charme e capaci di suscitare in ognuno di noi ammirazione e incanto.

Ecco alcuni negozi dove trovare il cappello più adatto a noi:

 

Viarani in Corso Vittorio Emanuele II 27 in zona San Salvario, dal 1884 vende cappelli di produzione propria, sia per donna e che per uomo, ma anche i migliori brand sia del made in Italy che internazionali. Tradizione ma anche attenzione all’evoluzione della moda. “Un luogo fuori dal tempo, magico”.

 

Regge in Corso Vittorio Emanuele II 70, verso il quartiere Crocetta, troviamo un’ elegante cappelleria. Bombette, borsalini dal gusto un po’ retrò ma anche prodotti artigianali attuali e originali personalizzabili anche nelle misure.

 

La Moda del Guanto, in Via Santa Teresa 19, dal 1905 tratta modelli di produzione italiana. Piccolo ma molto fornito, offre anche una vasta varietà di accessori, soprattutto di guanti, da abbinare ovviamente ai deliziosi copricapi.

 

La Cappelleria Imberti la troviamo invece a Via XX Settembre 14, di fronte al Cinema Reposi e proprio rimanendo in argomento, durante il Cinema Festival espone e fa sfilare modelli legati a produzioni famose.

 

Maria La Barbera

 

 

 

 

Il dottore dei matti

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”, “matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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9. Il dottore dei matti
A difendere l’ingiusta condizione dei pazienti degli ospedali psichiatrici fu Franco Basaglia, “il dottore dei matti”, brillante psichiatra veneziano che, alla guida di giovani medici, realizzò una radicale riforma del manicomio. La piccola fiamma della speranza era stata accesa nel più improbabile, piccolo e periferico di tutti i manicomi italiani, quello di Gorizia. Nell’ospedale si trovavano 600 pazienti, la metà dei quali non parlava nemmeno italiano; il manicomio era diviso in due, come la stessa città, dalla cortina di ferro. Proprio di lì, tuttavia, partì la battaglia contro l’establishment accademico e politico. Il manicomio di Gorizia rimase uno dei simboli della rivoluzione, insieme al manicomio di Trieste, dove Basagliacompletò la sua opera, per l’intera generazione sessantottina.  Franco Basaglia nacque a Venezia da una ricca famiglia; nel 1949 si laureò in medicina. Fece la staffetta partigiana durante la guerra e finì in carcere. Proprio questa esperienza gli servirà anni dopo, come termine di paragone per descrivere il suo primo impatto con il manicomio. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Psichiatria, soggiornò per alcuni mesi in Inghilterra, per studiare le riforme introdotte nel sistema psichiatrico di quel paese. Al suo ritorno trovò lavoro all’interno del manicomio di Gorizia, dove non indossò mai il camice, e qui iniziò la sua lotta per ottenere un rapporto tra terapeuta e paziente basato sul dialogo e non sulla repressione. A Franco è sempre importato più del malato che della malattia. Persona buona e corretta non si è mai arricchito, non ha avuto encomi ufficiali, eppure il suo pensiero innovativo stravolse a tal punto la psichiatria che non si poté più tornare indietro. Grazie a lui molti ricoverati poterono, poco a poco, e con tanta fatica, sperimentare spiragli di libertà. Egli, inoltre, restituì ai malati un volto, adoperandosi affinché essi si riappropriassero di piccoli oggetti come specchi, pettini, spazzole, persino un comodino su cui appoggiare fotografie, qualche gioiellino, un qualsiasi ricordo della loro vita di prima. Il suo pensiero rivoluzionario venne etichettato come “privo di serietà e rispettabilità scientifica” dall’establishment psichiatrico, ma Franco non si arrese e continuò per la sua strada. Si spostò a Parma e poi a Trieste, dove portò a termine la sua opera. Lo stesso manicomio di Trieste venne chiuso proprio da Basaglia, e Trieste fu la prima città al mondo a compiere quel gesto così eroico e così estremo. Quello che successe nella città friulana dimostrò a tutti gli effetti che una psichiatria “altra” era nella realtà possibile. La rivoluzione di Gorizia arrivò anche a Torino, dove, fin dal 1958, erano stati costituiti i CENTRI DI IGIENE MENTALE (CIM), strutture extra-ospedaliere che non si ponevano in concorrenza con i manicomi ma miravano a integrarne l’attività agendo sulla prevenzione e sulla riabilitazione dei malati dimessi. A Torino l’agguerrito movimento studentesco si era fatto promotore, tra il 1967 e il ’68, di iniziative propagandistiche contro i manicomi con comizi e assemblee di sensibilizzazione e distribuzione di volantini nelle scuole, nei circoli culturali e nelle università. Tra le cosiddette “istituzioni totali” il manicomio, ancora più della scuola, della fabbrica, della famiglia, della chiesa, del carcere o della caserma rappresentava per gli studenti il luogo-simbolo della emarginazione, della repressione che calpestava i diritti delle persone, soprattutto se povere. Andava perciò combattuto. Torino si divise in due fazioni, da una parte il movimento degli studenti,  sicuri delle idee basagliane, capeggiati da Annibale Crosignani, Giorgio Luciano e Enrico Pascal, a cui si aggiungevano alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano, qualche infermiere e gli attivisti dell’ ALMN, (. Tutti radunati attorno alla psicoterapeuta Piera Piatti, tutti uniti contro l’altra fazione composta dai baroni della psichiatria e dalle migliaia di dipendenti ancorati alla difesa del loro statusIl casus belli avvenne nei giorni 13,14,15 dicembre 1968, durante una assemblea pubblica organizzata dagli studenti di Architettura al castello del Valentino, dal titolo: “E’ un crimine progettare un nuovo ospedale psichiatrico.” A tale riunione presenziarono non solo lo stesso Franco Basaglia, ma anche altre personalità di spicco tra cui Pierpaolo Pasolini a fianco dell’ inseparabile Laura Betti. Il 14 dicembre gli studenti si spostarono prima nella clinica neuropsichiatrica dell’ospedale  delle Molinette, poi, sempre dietro la guida di Franco Basaglia, si diressero verso il manicomio di Collegno. Una volta giunti davanti alle mura, i manifestanti alzarono striscioni provocatori con scritte del tipo:”Il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto.” Il fatto colse alla sprovvista l’allora Direttore Generale Diego De Caro, che alla fine cedette alle pressioni e, dopo un drammatico scontro faccia a faccia con lo stesso Basaglia, aprì le porte del manicomio. Tale decisone gli costerà il posto. In seguito alla manifestazione vennero poi approvate due mozioni, nella prima veniva sancita la necessità di far sospendere i lavori di costruzione del nuovo ospedale psichiatrico di Grugliasco, e veniva richiesto di avviare una serie di dibattiti pubblici negli atenei, nelle fabbriche e presso gli enti pubblici comunali e provinciali; nella seconda mozione veniva deciso che gli studenti di Medicina, Psicologia e Sociologia potessero avere libero accesso negli ospedali psichiatrici, in modo da potere apprendere dal vivo il rapporto con il malato e le tecniche di lavoro di gruppo. Eppure c’è sempre chi nega l’evidenza. La Commissione di Vigilanza, il cui intervento era stato invocato dall’Opera Pia in seguito all’uscita di alcuni articoli, dopo diverse indagini concluse che “gli atti inconsulti compiuti sui degenti si erano rivelati infondati o frutto di mere supposizioni” e che in pochissimi casi erano apparsi “ inevitabiliconseguenze”  dello stato “ di squallore, di estrema promiscuità e di sovraffollamento”. La relazione così si concludeva: “Pure le contenzioni a mezzo di fettucce erano risultate rare e soprattutto motivate da imprescindibili necessità di protezione, mentre era stata individuata una sola camicia di forza in un bambino autolesionista e coprofago”. Era la scontata reazione di una istituzione ormai giunta al punto di non ritorno. Passarono ancora diversi anni prima che la storia dei manicomi si chiudesse insieme ai pesanti cancelli di quelle strutture di oppressione e dimenticanza. Ma, infine, il 13 maggio del 1978, la Legge 180, anche conosciuta come Legge Basaglia, venne approvata dal Parlamento. Tale disposizione vietava la costruzione di nuovi manicomi e imponeva lo smantellamento di quelli esistenti. Stabiliva che le persone affette da disturbi mentali sarebbero state assistite nei servizi decentrati con un massimo di quindici letti e che il trattamento era volontario, riprendendo la legge del 1968, salvo casi eccezionali ed stremi, per i quali sarebbe scattato il TSO, (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Sei mesi dopo, la Legge 180 venne assorbita nella “Legge di Riforma sanitaria”. La psichiatria entrava di diritto nel servizio sanitario al pari di ogni altra branca della medicina e per conseguenza il cittadino malato mentale acquisiva gli stessi diritti di ogni altro cittadino malato. C’è l’altro lato della medaglia, subito sottolineato dagli oppositori: chi si occuperà ora dei malati mentali? Come potranno le famiglie impreparate fronteggiare questa nuova situazione limite? Lo stesso Basaglia era conscio dei limiti della 180, ma animato dalla speranza che con il tempo tutto si sarebbe aggiustato; per il momento sottolineava il risultato più importante infine raggiunto: il riconoscimento dei diritti dell’uomo, sano e malato. Nel 1979, anziano ma ancora desideroso di portare aiuto, si trasferì a Roma, per assumere l’incarico di coordinatore dei servizi psichi
atrici della Regione Lazio. 
Franco Basaglia morì nel 1980 a causa di un doloroso tumore al cervello che in pochi mesi lo portò via. Il dottore dei matti” aveva combattuto con coraggio per difendere i diritti, non solo dei malati psichici, ma di tutti coloro che sono soggiogati da una società non sempre giusta, che divora i più deboli e che spesso emargina chi in realtà dovrebbe tutelare. Di lui non si parla tanto, perché fu un uomo scomodo, come scomoda è stata tutta la questione dei manicomi e della follia, e le cose scomode è meglio coprirle con una coperta che ne smussa la forma e che con il tempo ce le fa addirittura dimenticare. Eppure Franco, tra le tante cose giuste, ne ha detta una più giusta delle altre: “Non è vero che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino e una come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo”.  In qualità di uomini, non abbiamo scusanti.

 

Alessia Cagnotto

Valcerrina sconosciuta

 

Quando si parla di Valcerrina, ai più questo termine evoca alla mente la ex strada statale 590, chiamata, appunto “della Valcerrina” che corre, partendo dal territorio di Ozzano Monferrato in direzione di Torino, ed abbraccia i territori sui due versanti di Valle.

Si tratta di una porzione di territorio non piccola che interessa la Provincia di Alessandria, per quanto riguarda una tratto consistente del Monferrato Casalese, ed anche la Provincia di Asti ed una parte del territorio della Città Metropolitana di Torino con comuni quali Brozolo, Cavagnolo, Brusasco, Verrua Savoia, Monteu da Po. I legami non sono soltanto geo – fisici ma anche da natura religiosa (ad esempio gli appena citati comuni della Città Metropolitana torinese appartengono alla Diocesi di Casale Monferrato), storica, socio – economica. Altra comunanza, di dimensioni ancora più vaste, è il governo delle acque. Tutti questi centri sono serviti dalla rete dell’Acquedotto dei Comuni del Monferrato, proprietà di un Consorzio che ha sede a Moncalvo. Sotto l’aspetto turistico la Valcerrina ha una peculiarità: il suo territorio, nell’accezione più ampia, pur ricco di bellezze naturali, artistiche, architettoniche, di pievi e castelli, costituisce uno dei circuiti più suggestivi di turismo minore a livello sia regionale che nazionale, una terra per larga parte ancora tutta da scoprire e da valorizzare pienamente nel suo complesso, con potenzialità ancora inespresse. E sono moltissimi i richiami, con la storia, la cultura, l’arte, le personalità che hanno deciso nel tempo di farne il loro “buon ritiro” senza che questo avesse avuto la risonanza (e di conseguenza il volano per un incremento sensibile della domanda turistica) che altri luoghi d’Italia hanno avuto. Natura incontaminata, borghi, chiese, pievi e castelli, luoghi della memoria, sono altrettante occasioni per conoscerla nel suo insieme andando a superare quelli che sono stati i due grandi limiti della sua crescita: da un lato l’eccessivo campanilismo che spesso non fa vedere “al di là della propria corte” e che, accompagnato da una naturale riservatezza tutta piemontese, non ha certamente giovato alla promozione del territorio, dall’altro l’archetipo che in questo territorio “ si mangia e si bene bene”, quasi che l’aspetto enogastronomico fosse il solo vettore di turismo. Certamente i vini che vengono prodotti sono di ottima qualità, come tante altre specialità locali, ci sono molti locali, ristoranti, agriturismi, trattorie, nei vari comuni ma, va ribadito, l’enogastronomia non è l’unico motivo per venire in Valle. Di qui l’intenzione di fare conoscere, attraverso una serie di articoli che non seguono un ordine determinato (ma che troveranno una sistemazione al termine del progetto) quelli che possono essere gli elementi di interesse storico, ambientale, architettonico, artistico della Valcerrina in modo che chiunque voglia passare una giornata lontano (ma al tempo stesso vicino) dalla città possa trovare dei motivi per incontrare un territorio che si trova incuneato anche tra ben tre siti Unesco (il Sacro Monte di Crea, Langhe-Roero e Monferrato e Collina Po) senza però farne parte. L’auspicio è che attraverso questi scritti, che saranno contraddistinti settimanalmente dalla rubrica “VALCERRINA SCONOSCIUTA”, resi possibili grazie alla sensibilità delle Edizioni Best e de “Il Torinese.it” si possa contribuire ad una crescita della conoscenza di tutta la Valcerrina.

 

Massimo Iaretti

 

 

 

 

 

Lourmarin, l’ultima dimora di Albert Camus

Dicono che quello del parco del Luberon sia uno degli angoli più affascinanti della Provenza, dove l’aria è la più pura e la varietà di paesaggi, colori e sensazioni riempie lo sguardo

Dai pendii scoscesi sui quali sorgono i villages perchés, i villaggi arroccati, fino alle terre dalle tonalità delle foglie d’autunno, ai campi di lavanda  e agli uliveti è tutto un elogio della natura e del lavoro dell’uomo.Roussillon, ameno borgo dalle sfumature rossastre e ocra della terra; Gordes, arroccata con le sue case bianche su uno sperone roccioso; l’abbazia cistercense di Senanque, immersa e circondata dai campi di lavanda, esempio tra i  più affascinanti di architettura monastica. E, più in basso, Loumarin che a differenza dei villaggi della zona non è arroccato su una roccia ma è adagiato ai piedi della Combe de Lourmarin. Con i suoi tre campanili e un fascino discreto e riservato accoglie  i visitatori nelle viuzze e nei locali che propongono la  tipica cucina provenzale.

 

Un posto tranquillo, a patto di non arrivare il venerdì mattina, giorno del frequentatissimo mercato, con centinaia di auto parcheggiate a ridosso delle vie e nei pressi del castello. Ed è proprio quello che capita a noi. Costretti ad aggirare  il centro di questo borgo, considerato tra i più belli di Francia, puntiamo verso la meta che ci siamo ripromessi di raggiungere: il cimitero di Lourmarin dove è sepolto Albert Camus. Il piccolo camposanto del borgo dove visse i suoi ultimi anni è circondato da vecchie mura. Attorno, campi di lavanda. Le lapidi sulle tombe riportano moltissimi cognomi di origine italiana che tradiscono origini piemontesi e liguri.La tomba di Camus è essenziale, come la sua prosa. Una semplice pietra grigia con scritto, in stampatello,“Albert Camus 1913-1960”. Attorno qualche brandello di arbusti sempreverdi, un oleandro lasciato crescere a dismisura, qualche fiore rinsecchito, delle matite e un mazzetto di lavanda.  Al suo fianco riposa la moglie, Francine Faure. Una sua frase famosa,“Io mi ribello, dunque esisto”,può riassumere in sintesi la sua personalità.Romanziere,saggista, drammaturgo,giornalista e resistente, Albert Camus rappresenta  forse più di altri l’immagine dell’intellettuale francese del dopoguerra. Decisamente impegnato nelle lotte e nei dibattiti del suo tempo, con le sue  opere lucide e sincere e la sua prosa asciutta e priva di artifici,  è stato uno dei protagonisti della letteratura del XX secolo. Un umanista più che un esistenzialista, scrisse libri importanti come “Lo straniero”, “Il mito di Sisifo”, “La peste”, “La caduta”. Nel 1957 gli venne assegnato  il premio Nobel per la  letteratura. Aveva quarantatre anni, il più giovane letterato mai insignito a Stoccolma. Oltre che scrittore e giornalista coltivò una grande passione per il teatro che lo vide anche attore e regista.

 

Il 4 gennaio 1960, mentre rientrava in auto a Parigi con Gallimard, il suo editore, fu vittima di un incidente nei pressi di Villeblevin, nell’Yonne. L’automobile andò a sbattere contro un albero e Camus perse la vita nell’incidente. Aveva solo 46 anni e tanto ancora da dire e da scrivere. Nel cimitero, a pochi passi dalla sua ultima dimora è sepolto Henri Bosco, un altro scrittore molto amato in Francia e troppo poco conosciuto in Italia, nonostante le origini piemontesi della sua famiglia paterna, imparentata con il fondatore dei salesiani, l’astigiano don Giovanni Bosco. Per lui una quarantina di opere che gli valsero, nel 1968, il Grand Prix de littérature de l’Académie française. Lasciamo il cimitero dopo aver posato un fiore sulle due tombe. L’aria è limpida e ferma in questo caldo settembre in Provenza. Non soffia il mistral , nei prati non si vedono le  delicate sfumature  viola della lavanda ma si respira un’atmosfera di pace e serenità. Ci viene in mente come oggi, nell’epoca della simultaneità e dei social media, non si legga più molto. Varrebbe forse la pena riflettere su uno dei moniti di Camus e farne tesoro: “…il male che c’è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della cattiveria se mancano di comprensione”.

Marco Travaglini

Era il 2 giugno 1946, l’Italia voltava pagina

Il 2 giugno 1946, ormai più di settant’anni fa, il popolo italiano voltava pagina e, in seguito al referendum istituzionale, poneva fine alla monarchia, scegliendo una forma di governo repubblicano.

La parola chiave fu “referendum, gerundio della parola latina refero che significa riferire, rispondere o registrare. E il popolo italiano, quel giorno, fece registrare la propria volontà consentendo la vittoria dei repubblicani con il 54,3% dei voti contro il 47,7% dei monarchici.

Per la prima volta – se si escludono le amministrative di marzo e aprile del1946, che riguardarono soltanto alcune regioni – in Italia votarono anche le donne. Una conquista arrivata dopo anni di battaglie e molto più tardi rispetto ad altri paesi. Alle urne si recarono tante donne di ogni ceto insieme a  volti noti come Anna Magnani , la famosa “Dama Bianca” – compagna di Fausto Coppi – o le resistenti antifasciste Camilla Ravera e Teresa Noce, due tra le tante donne che fin dai tempi del fascismo si erano battute per la democrazia. Con la fine della monarchia, che aveva guidato l’Italia dal 1861, conducendo la nazione al disastro con il fascismo e la seconda guerra mondiale, si proclamò anche l’esilio dei Savoia. Re Umberto IIlasciò l’Italia dall’aeroporto di Ciampino con un volo diretto in Portogallo. Umberto , ribattezzato il “Re di Maggio” per essersi seduto sul trono per poco più di un mese, dal 9 maggio 1946 fino al 18 giugno, accettò l’esilio e visse il resto della vita  nel distretto di Lisbona, a Cascais, e a Ginevra. Il 2 giugno del 1946 fu un punto di svolta, e al tempo stesso un traguardo storico. Con la Repubblica venne ricomposta l’unità del Paese, che poté intraprendere il lungo cammino verso la rinascita dalle macerie lasciate dalla dittatura e dalle atrocità della guerra. Parallelamente alla nascita della Repubblica venne eletta l’Assemblea Costituente che, a sua volta, elesse Enrico De Nicola capo provvisorio dello stato e – con un fitto calendario di sedute che si svolsero fra il 25 giugno 1946 e il 31 gennaio 1948 -diede vita alla Costituzione della Repubblica Italiana nella sua forma originaria. Oggi, quella del 2 giugno, è forse la più popolare fra le feste nazionali.

Marco Travaglini

Apologario. Adriana Zarri e le favole di Samarcanda

Quelle contenute in Apologario di Adriana Zarri sono le favole “non innocenti” che la teologa raccontò dagli schermi televisivi della terza rete della Rai dove, per alcuni anni, tenne una sua rubrica fissa all’interno di Samarcanda, il talk show condotto da Michele Santoro

Adriana Zarri, è stata una delle voci più originali e anticonformiste del mondo cattolico. Teologa, scrittrice, giornalista, eremita per vocazione nel silenzio della campagna canavesana, non ebbe mai il timore di andare controcorrente. Anche i brevi apologhi contenuti in questo libro che ho trovato su una bancarella dell’usato, pubblicato da Camunia nel 1990, miravano “a disturbare la coscienza quieta affrontando i grandi temi del malessere sociale: razzismo, emarginazioni e discriminazioni, corruzione, tossicodipendenza e violenza ideologica, distorsione di valori e significati della fede religiosa. Ventinove storie brevi dove s’incontrano peccatori onesti e benpensanti dalla dubbia morale, uomini stolti e animali intelligenti che danno vita a vicende immaginarie ma non paradossali. Attraverso queste parabole la Zarri praticò “lo scandalo della verità” e contestò “un cristianesimo omologato al perbenismo”. Essendo passati trent’anni i protagonisti reali che vengono citati – per lo più politici e religiosi dell’epoca – sono ovviamente “datati” ma resta fresca e attuale la narrazione di questa commedia umana grottesca e drammatica, dove l’ironia pungente della Zarri rivalutava il senso più alto della morale. Tra gli altri è molto bello l’apologo garantista intitolato “Pro reo”, dove la teologa indica al contadino Giuseppe i criteri e la filosofia dello sfalcio del prato ( “Va cautodico,perché, nel dubbio è meglio lasciare in piedi un’infestante che non tagliare un’erba buona”) riferendosi simbolicamente all’amministrazione della giustizia. Ne “La suora” fece invece emergere tutta l’ipocrisia ecclesiastica del tempo sul tema dell’aborto,condannato e osteggiato se garantito dalla pubblica legge a tutela della salute delle donne e, viceversa, tollerato se eseguito in clandestinità e a pagamento, magari da chi “fa obiezione in pubblico per poi poter risolvere in privato”. Suor Liberia, disgustata dalla doppia morale, nell’apologo si rifiuta di prestare servizio in quella clinica e quando la superiora l’ammonisce (“L’obbedienza, sorella, l’obbedienza..”), risponde che “la coscienza vale di più”. Il senso più sincero della frequentazione dei luoghi di culto si afferma in “Omelia polacca”, una delicata favola sui pericoli dell’opportunismo e del conformismo sia antireligioso che religioso. Spesso nei racconti si parla dei migranti, dei tanti pregiudizi e luoghi comuni ai quali fanno da contraltare importanti esempi di solidarietà. Temi attuali, del tutto contemporanei dove Adriana Zarri, nel ricordare che “il primo precetto è la carità”, non usa perifrasi nel condannare la falsa idea di fede dei parrocchiani nell’apologo “Cristo tra i mussulmani” perché – come disse San Paolo –“il vostro Dio è la pancia”. I drammi delle famiglie e il ripudio del figlio in “Dio,patria,famiglia”, l’avidità accecante in “Giuseppe e l’oca”, la parabola del buon samaritano in “La civetta in autostrada”, la stupidità ottusa del razzismo in “Lucia ed Elisabeth”, il tema dell’handicap e delle barriere architettoniche ne “L’ingombro”. E, ultima in ordine di presentazione, una straordinaria riflessione sulla commemorazione dei defunti dove si comunica al lettore il senso della fede cristiana nella resurrezione che altro non è “che un credere strenuamente nella vita che travalica il passo della morte”.Sulla copertina del libro compare l’immagine di Adriana Zarri con il suo gatto Malestro in braccio, sullo sfondo della campagna. Una scelta dell’editore che l’autrice accettò “di buon grado, sia per l’affetto che ho per i miei mici che per l’eleganza della bestia che riscatterà l’immagine di una donna ormai vecchia”.Invisa a molti, soprattutto cattolici – fatto a ben vedere meno paradossale di quanto possa apparire – per l’indomita libertà di pensiero, nel corso della sua lunga esistenza che si è conclusa a novantun anni, la notte tra il 18 e il 19 novembre del 2010, Adriana Zarri ha vissuto in anticipo sui tempi. E anche le pagine dell’Apologario lo confermano. Tutti i suoi libri sono frutto di pensieri profondi, di intuizioni e capacità narrative importanti, in grado di rendere comprensibili i grandi misteri della vita, della fede e del loro rapporto con la natura che ci circonda. Da eremita nel canavese tra Albiano, Fiorano e, infine, Strambino ( a Cà Sàssino, nella frazione di Crotte, in una proprietà diocesana abbandonata offertale in comodato da monsignor Luigi Bettazzi, allora vescovo di Ivrea) le sue giornate, d’estate come d’inverno, venivano scandite secondo uno stile di vita monastico che alternava preghiera e meditazione al lavoro manuale. Di notte scriveva, dalle dieci di sera alle tre di mattina, con il gatto sulle ginocchia e il fuoco acceso nel camino. I suoi scritti ci hanno lasciato un’eredità culturale e morale, fatta di indimenticabili pagine e preziose testimonianze da conservare gelosamente.

Marco Travaglini

Tre serbi, due musulmani, un lupo

Riletture / Prijedor, Bosnia Erzegovina, in quella che oggi è la terza città della Repubblica serba di Bosnia (Rs), tra la primavera e l’estate del 1992 accaddero cose spaventose. Sembrava d’essere tornati ai tempi del nazismo. Gli ultranazionalisti serbo-bosniaci vogliono sradicare i “non serbi”, danno la caccia ai musulmani e lo fanno con le deportazioni e  gli omicidi. Vengono creati per quest’ultimo scopo tre campi di concentramento e, spesso, di sterminio. Nomi che, alla memoria, suonano tremendi: Omarska. Keraterm. Trnopolje. In quest’ultimo luogo, composto da una scuola, una casa del popolo e un prato, vengono recluse tra le quattromila e le settemila persone. Ed è lì e nei dintorni che è ambientata la storia narrata nel libro di Luca Leone e Daniele Zanon. “Tre serbi, due musulmani e un lupo” è un racconto di fantasia, ma poggia su solide basi storiche e di testimonianza. Questo libro non è solo un romanzo, ma anche un reportage di quanto accaduto in un tempo troppo vicino a noi per non conoscere o non voler sapere. Vengono evocati un quadro terribile di violenze, sopraffazioni, omicidi, odio nazionalista e un clima allucinante, nel quale l’aria è impregnata dell’odore del sangue, della paura e del terrore. Non a caso Luca Leone e Daniele Zanon scrivono che “il Male era tornato nel cuore dell’Europa e aveva messo radici a Prijedor, mezzo secolo doo la fine dell’Olocausto”. Pagina dopo pagina si viene a contatto con il dramma della famiglia bognacca degli Imanović e di quella serbo-bosniaca dei Mirković, con il ghigno orribile del sergente Goran “la carogna”, con i paramilitari serbi e i mercenari russi del colonnello Karpov, la “parte peggiore dell’umanità”. L’allucinante vicenda che vede protagonisti cinque tredicenni – Zlatan, Jelena e Milo, tre ragazzi serbi, Faris ed Emina, due fratelli musulmani – e il lupo Vuk si svolge in un universo violento, angosciante e claustrofobico in cui i personaggi sono quasi tutti conoscenti, vicini di casa. La tragedia cresce d’intensità quasi sempre preannunciate dal cambiamento dei rapporti, dal manifestarsi di integralismi e sospetti, dall’astio e dalla diffidenza, fino a giungere alla violenza e alla sopraffazione. Il ritmo della narrazione è serrato e si dispiega dando senso alle storie e alla terribile Storia della prima parte della “decade malefica” che insanguinò il cuore europeo dei Balcani al tramonto del ‘900, negli ultimi, lividi anni del secolo “breve” con il riacuirsi dei nazionalismi e il rifiorire dei conflitti armati. Tra le righe sembra di avvertire, quasi fisicamente, la disperata speranza di Faris quando urla alla sorella, mentre viene spinto lontano da lei con crudeltà, da un miliziano armato di kalashnikov, “Non può durare!”,“Il mondo non potrà starsene in silenzio a guardare”. E, invece, il mondo aveva lo sguardo rivolto altrove. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai”, si ascolta in Memorie di una testa tagliata dei CSI di Giovanni Lindo Ferretti. Lì il limite venne vanificato una, dieci, cento, mille e mille volte. E tutto ciò sotto gli sguardi distratti, lontani, indifferenti e bui dell’Occidente e del “mondo”. Cercare di salvare la vita ai due giovani bosgnacchi, rischiando la propria è la “missione” che intraprendono i tre giovanissimi serbi con Vuk, il lupo di Jelena. Una vicenda terribilmente avvincente, disperatamente angosciante, quasi impossibile e senza speranza. Il contesto in cui si svolge è tremendamente reale e rimanda alla memoria di cosa è stata la pulizia etnica in Bosnia in quegli anni disgraziati e violenti, dove la vita di migliaia di persone, dalla sera alla mattina, di punto in bianco non valeva più nulla. Nel vortice dell’ubriacatura ultra nazionalista, dell’indegna impunità dei paramilitari filo serbi, la storia dei cinque ragazzi e del coraggioso Vuk inchioda il lettore al testo dall’inizio alla fine. Il merito di Leone e Zanon è di non far dimenticare ciò che avvenne realmente nel cuore della civilissima Europa, meno di trenta anni fa, un tempo molto vicino, del tutto contemporaneo e spesso rimosso dalla cattiva coscienza e dal desiderio di non fare i conti con quella indifferenza che ancora oggi genera odi, srotola fili spinaci, innalza muri. Nel campo della miniera di ferro a Omarska, almeno tredicimila persone vennero internate e tremila di loro furono torturate, uccise e inumate in fosse comuni, ancora oggi in buona parte da individuare e riaprire per dare, chissà quando, degna sepoltura ai corpi che lì sotto giacciono. L’area di Prijedor, nella Bosnia settentrionale, conobbe le stesse violenze di Višegrad e Srebrenica. Vennero eliminate le persone “non serbe”, mentre la comunità internazionale fingeva di non sapere nulla e lasciava fare, non intervenendo e, per certi versi, rendendosi complice nell’avallare la pulizia etnica, lo stupro di massa, le violenze più atroci. Le pagine finali raccontano quei giorni e quei mesi con fatti, luoghi, date su quanto accadde veramente a Prijedor e dintorni e con la testimonianza di Alma che fece l’esperienza terribile di Trnopolje a sedici anni. Tre serbi, due musulmani e un lupo è un libro da leggere “in nome della memoria e della giustizia”.

Marco Travaglini